Nello sforzo comune di difendere la teoria marxista e il patrimonio politico della Sinistra comunista, proseguiamo il lavoro di assimilazione teorica vitale per il partito

La rivoluzione proletaria è internazionale e internazionale sarà la trasformazione  socialista dell’economia (2)

(Resoconto sommario della riunione generale di Milano del  17-18 dicembre 2016)

(«il comunista»; N° 148;  Aprile 2017)

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Nel numero scorso abbiamo pubblicato il resoconto del Rapporto tenuto dai compagni spagnoli e dedicato alla Guerra di Spagna 1936-1939; tema non esaurito in questa riunione, che riprenderemo in riunioni successive, ma per il quale riteniamo utile richiamare alcuni brani dal lavoro che il partito fece sul Fronte Popolare che caratterizzò la politica dei partiti stalinizzati, in particolare in Francia e in Spagna. Su questo tema nel 1964-65 uscì un lavoro nel “prolétaire” e poi, tradotto, nel “programma comunista” (Ce que fut en réalité le Front Populaire, “le proletaire” 1964/65, nn. 13,14,16,18,19,20; Che cosa fu in realtà il Fronte Popolare, “programma comunista” 1965, nn. 10.11.12.13.14). A conferma della complicatezza nell’analisi della “guerra di Spagna” del 1936-39, evidenziata dal Rapporto alla RG – vero primo “semi-semi-lavorato” –, riportiamo, come ulteriore contributo, i brani del capitoletto

 

 IL VERO SIGNIFICATO DELLA GUERRA DI SPAGNA

 

«Nella formulazione di Lenin, guerra fra stati moderni sigifica guerra imperialistica di concorrenza diretta contro tutti i proletariati, mentre guerra civile è guerra di classe del proletariato internazionale contro tutte le borghesie. La complessità della guerra di Spagna deriva del fatto che essa partecipa dei due aspetti. Guerra civile perché il proletariato vi interviene violentemente, sconquassando le istituzioni dello Stato borghese. Ma anche guerra capitalistica, perché questo assalto rivoluzionario fu deviato in una lotta condotta sotto la bandiera ideologica della futura guerra imperialistica e secondo le regole di disciplina sociale atte a stabilire e a rafforzare l’autorità dello Stato borghese. Proprio perché in Spagna la rivoluzione fu immediatamente battuta dalla controrivoluzione, proprio perché due governi egualmente borghesi – il repubblicano e il franchista – aspiravano alla direzione dello stesso Stato di classe, proprio perciò il proletariato spagnolo fu tratto in inganno sulla natura della propria lotta, e, in base a questo precedente, si poterono convincere tutti i proletari del mondo che, all’interno dello stesso modo di produzione, degli Stati sfruttatori e oppressori, potessero battersi per la “Libertà” contro altri che la negavano.

«Alla base di ogni lotta armata v’è un conflitto di interessi materiali. Quelli della reazione fascista di Franco erano fin troppo evidenti; quelli degli operai che gli risposero con l’insurrezione non erano certo più misteriosi. Il conflitto inziale era un conflitto tra capitalismo e proletariato. Solo stornando l’insurrezione operaia dai suoi obiettivi primitivi, si poteva trasformarlo in un conflitto tra “l’ideale democratico” e la “barbarie fascista”.

«La risposta operaia all’offensiva franchista prorompe in un momento in cui la guerra internazionale, sola soluzione capitalistica alla crisi capitalista, è a due passi. Le principali condizioni per il suo scoppio sono ormai riunite, dal momento che la sola classe che poteva ostacolarla, il proletariato, è battuta e il suo partito internazionale, diventato semplice appendice degli interessi nazionali russi, ne accetta l’eventualità. L’insurrezione che scoppia a Barcellona alla notizia dello sbarco di Franco, sembra rovesciare la situazione: la borghesia ha ragione di temere che, seguendo l’esempio degli operai spagnoli, i proletari d’Europa si riprendano, e ricostituiscano, il loro fronte di classe. Quindi è per lei una necessità vitale che, ad ogni costo, la lotta armata contro Franco cessi di essere una rivoluzione.  Nell’ “imbroglio” spagnolo, gli interessi immediati delle grandi potenze si contraddicono, ma l’interesse del capitalismo in generale è ben chiaro: inquadrare gli insorti di Barcellona in un esercito regolare agli ordini di un governo borghese.

«Per raggiungere questo risultato è necessaria un’ideologia che non sia un’ideologia rivoluzionaria; sono necessari dei partiti operai che non combattano, o non combattano più, il capitalismo. Questa ideologia è l’antifascismo, questi partiti sono i partiti delle due Internazionali degeneri; il frente popular ne sarà la ragione sociale. E, poiché il pericolo per il capitalismo è grande, poiché la classe operaia spagnola è risoluta ed eroica, la manovra è spietata, la lotta è terribile su tutti i fronti: sul fronte militare, dove i mercenari di Franco, muniti di un armamento ultra-moderno, sterminano senza quartiere i miliziani armati di vecchi fucili, giungendo fino a massacrare i prigionieri; sul piano politico, in cui le “forze dell’ordine” del campo repubblicano non indietreggiano di fronte all’assassinio per eliminare i dirigenti rivoluzionari.

«La guerra di Spagna ha raggiunto vertici di violenza e di orrore che sono stati memorabili. Questo perché il modo rivoluzionario col quale il proletariato spagnolo rispose al fascismo, era intollerabile per i democratici borghesi e per i loro alleati opportunisti nelle file operaie. Abbiamo già detto che gli antifascisti non hanno mai lottato contro il loro preteso avversario: in una situazione ben precisa, in cui la loro parola d’ordine cessava di essere uno slogan elettorale per divenire una lotta armata condotta dalla frazione più combattiva della classe operaia coi suoi mezzi di classe, gli antifascisti, staliniani in testa, non potevano che sabotare questa azione e questi mezzi. Lo fecero restituendo ai proprietari fondiari e ai capitalisti ciò che l’insurrezione aveva loro confiscato, restaurando lo Stato repubblicano, proclamando la volontà del governo di ristabilire “il rispetto dell’ordine e della proprietà”. Se Franco trionfò, lo si deve per una buona parte all’efficacia di questa opera di scalzamento dell’operato rivoluzionario: essa privò gli operai in lotta della sola forza contro cui i carri armati, gli aeroplani e i mercenari più sanguinari sono impotenti: la convinzione rivoluzionaria, la volontà dittatoriale dei proletari armati». (da “il programma comunista” n. 13/1965).

 

Ora passiamo alla pubblicazione del Rapporto esteso sul tema della Dittatura del proletariato riprendendo anche i molti brani dai testi classici che, nell'esposizione verbale e per ragioni di tempo a disposizione, non sono stati citati.

 

 

Sulla dittatura del proletariato

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Cominciamo basandoci in particolare su Stato e Rivoluzione e sull’esperienza della Comune di Parigi.

Sulla scorta delle rivoluzioni del secolo XIX, della Comune di Parigi e della rivoluzione bolscevica dell’Ottobre 1917 – in un continuum dialettico delle posizioni marxiste – si conferma che soltanto con la dittatura del proletariato, esercitata dal partito comunista rivoluzionario, la classe proletaria può avviare concretamente il processo di trasformazione rivoluzionaria della società attuale.

E’ fondamentale tornare alle basi storiche della prima dittatura proletaria apparsa in Europa, la Comune di Parigi, che Marx ed Engels seguirono con grandissima attenzione e passione, trovandovi la conferma del corso storico della lotta di classe proletaria teoricamente anticipato fin dal Manifesto del 1847. Non per caso Lenin, in Stato e Rivoluzione, nel cap. III sull’esperienza della Comune di Parigi, sottolinea che Marx ed Engels, nella prefazione del 1872 ad una nuova edizione tedesca del Manifesto, sostengono che, grazie all’esperienza concreta della Comune di Parigi, il programma del Manifesto del Partito comunista “è oggi qua e là invecchiato”; ed aggiungono: «La Comune, specialmente, ha fornito la prova che “la classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi propri fini”...».

Queste parole, fra virgolette, ricorda Lenin, provengono dall’opera di Marx: La guerra civile in Francia, e subito dopo sottolinea: «Così, a questo insegnamento principale e fondamentale della Comune di Parigi, venne attribuita da Marx ed Engels un’importanza talmente grande da trarne un emendamento sostanziale al Manifesto del Partito comunista». Continua Lenin: «L’idea di Marx è che la classe operaia deve spezzare, demolire, la “macchina statale già pronta”, e non limitarsi semplicemente ad impossessarsene». Ricorda che, per l’Inghilterra, nel 1871 (modello d’un paese capitalistico puro, ma senza militarismo e in misura notevole senza burocrazia, situazione in cui, per Marx, era allora possibile che la rivoluzione, ed anche la rivoluzione popolare, si presentassero «senza la condizione preliminare della distruzione della “macchina statale già pronta” ») Marx avanzava questa riserva per quanto concerneva la rivoluzione nel Continente europeo rispetto allo Stato; ma nel 1917, entrata belligerante nella guerra imperialistica insieme all’America (le maggiori e le ultime rappresentanti in tutto il mondo della ‘libertà’ anglosassone per quanto riguarda l’assenza di militarismo e di burocrazia), anche l’Inghilterra, oltre all’America, «sono precipitate interamente nel lurido, sanguinoso pantano, comune a tutta Europa, delle istituzioni militari e burocratiche che tutto sottomettono a sé e tutto comprimono. Oggi, in Inghilterra e in America, la “condizione preliminare di ogni reale rivoluzione popolare” è la rottura, la distruzione della “macchina statale già pronta” (portata in questi paesi nel 1914-1917 ad una perfezione “europea”, imperialistica)».

Dunque, insiste Lenin,  «spezzare la macchina burocratica e militare» è il modo incisivo col quale esprimere «l’insegnamento principale del marxismo sui compiti del proletariato nella rivoluzione per ciò che riguarda lo Stato». Da questa dimostrazione storica non era più possibile tornare indietro; da allora la rivoluzione proletaria non aveva più alcuna possibilità di utilizzare, ai fini dei propri obiettivi immediati e storici, “la macchina statale già pronta”.

Resta un problema aperto: una volta spezzato e demolito lo Stato borghese, con che cosa bisogna sostituirlo?

L’esperienza della Comune di Parigi, e soprattutto l’esperienza del potere bolscevico dei primi anni dopo la vittoria della rivoluzione proletaria in Russia, sono fondamentali a questo proposito, nonostante i loro limiti entro i quali la situazione storica in cui quelle rivoluzioni si sono attuate le ha costrette: la Comune di Parigi, nel suo forzato isolamento dal resto della Francia rurale e poco sviluppata; la dittatura bolscevica, condizionata dalla situazione storica di doppia rivoluzione e nel suo drammatico isolamento da un movimento rivoluzionario del proletariato europeo che non ebbe alla propria testa, nei paesi più importanti (come la Germania, la Francia, per non parlare dell’Inghilterra), un partito comunista all’altezza del grande compito, un partito “alla bolscevica”.

Nel Manifesto del 1847, Marx ed Engels non davano a quella domanda, sottolinea Lenin, che «una risposta puramente astratta; per meglio dire indicavano i problemi e non i mezzi per risolverli. Sostituire la macchina dello Stato spezzata con la “organizzazione del proletariato come classe dominante”, con la “conquista della democrazia”». Marx ed Engels attendevano «dall’esperienza di un movimento di massa la risposta alla questione: quali forme concrete avrebbe assunto questa organizzazione del proletariato come classe dominante e in che modo precisamente questa organizzazione avrebbe coinciso con la più completa e conseguente “conquista della democrazia”». Da questo atteggiamento scientifico si comprende bene quanto sostenuto da Marx nel suo scritto Per la critica dell’economia politica, in cui precisa: «Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente».

Ma continuiamo con Lenin. «Dopo la rivoluzione del 1848-1849 il potere dello Stato diviene uno “strumento pubblico di guerra del capitale contro il lavoro” (...). La Comune fu la forma positiva di una repubblica che non avrebbe dovuto eliminare soltanto la forma monarchica del dispotismo di classe, ma lo stesso potere di classe» (da: Marx, La guerra civile in Francia, cap. III). In questa frase di Marx è sintetizzata la lezione storica fondamentale da trarre dalla Comune di Parigi, valida dal 1871 in poi non solo nei paesi capitalisticamente sviluppati – come in Europa e in America – e rispetto alla rivoluzione proletaria “pura”, ma anche nei paesi in cui la storia, pur ponendo all’ordine del giorno la rivoluzione borghese, poneva nello stesso tempo, grazie alla presenza determinante del movimento del proletariato, le condizioni politiche e sociali della rivoluzione proletaria (che, per le condizioni di sviluppo economico e sociale potremmo chiamare “impura”), come avvenne nella Russia del 1917 e in Cina 10 anni dopo, ma con sbocchi del tutto opposti.

A rivoluzione vinta e a macchina statale borghese spezzata, la dittatura proletaria doveva organizzare il potere di classe con le forme che la stessa lotta rivoluzionaria aveva indicato e doveva indicare. Nel secolo decimonono – scrive Marx nella Guerra civile in Francia, citato da Lenin – trasmesso dal medioevo, si sviluppava «il potere statale centralizzato, con i suoi organi dappertutto presenti: esercito permanente, polizia, burocrazia, clero e magistratura». A misura che l’antagonismo di classe tra capitale e lavoro si accentuava, «il potere dello Stato assumenva sempre più il carattere [...] di forza pubblica organizzata per l’asservimento sociale, di uno strumento di dispotismo di classe. Dopo ogni rivoluzione che segnava un passo avanti nella lotta di classe, il carattere puramente repressivo del potere dello Stato risaltava in modo sempre più evidente»; dopo le rivoluzioni del 1848-1849, come ricordato sopra, il potere dello Stato diviene uno “strumento pubblico di guerra del capitale contro il lavoro”.

Poteva esere diverso nei periodi successivi a quelle rivoluzioni?

No, come dimostrato in positivo dalla rivoluzione d’Ottobre 1917 in Russia, e in negativo dai tentativi rivoluzionari avvenuti dopo la fine della prima guerra imperialistica in Germania, in Ungheria, in Polonia; in positivo, nel senso di una lotta rivoluzionaria che giunse vittoriosa all’obiettivo di spezzare la vecchia macchina statale borghese con la quale le classi borghesi russe avevano sostituito le vecchie forme di potere politico zariste, instaurando il nuovo potere dittatoriale della classe proletaria; in negativo, nel senso di una lotta rivoluzionaria che non raggiunse lo stesso obiettivo perché, sebbene i proletariati fossero giunti al potere - come in Baviera e in Ungheria – non spezzarono definitivamente la macchina statale borghese, indugiando troppo nelle forme di una socialdemocrazia che manteneva ancora troppo rispetto per le forme e le categorie della democrazia borghese e che lasciava troppo spazio alla resistenza delle classi borghesi che non svaniscono il giorno dopo la vittoria proletaria.

Per comprendere quali sono i primissimi interventi della dittatura proletaria nell’instaurare il proprio potere, bastano alcune righe di Marx: «Il primo decreto della Comune – citiamo sempre dalla Guerra civile in Francia – fu la soppressione dell’esercito permanente, e la sostituzione ad esso del popolo armato. [...] La Comune fu composta dai consiglieri municipali: eletti a suffragio universale nei diversi mandamenti di Parigi, responsabili e revocabili in qualunque momento. La maggioranza dei suoi membri erano naturalmente operai, o rappresentanti riconosciuti della classe operaia. [...] Invece di continuare ad essere agente del governo centrale, la polizia fu immediatamente spogliata delle sue attribuzioni politiche e trasformata in strumento responsabile della Comune revocabile in qualunque momento. Lo stesso venne fatto per i funzionari di tutte le altre branche dell’amministrazione. Dai membri della Comune in giù, il servizio pubblico doveva essere compiuto per salari da operai. I diritti acquisiti e le indennità di rappresentanza degli alti dignitari dello Stato scomparvero insieme coi dignitari stessi. [...] Sbarazzatisi dell’esercito permanente e della polizia, elementi della forza fisica del vecchio governo, la Comune si preoccupò di spezzare la forza di repressione spirituale, il “potere dei preti”. [...] I funzionari giudiziari furono spogliati di quella sedicente indipendenza... dovevano essere elettivi, responsabili e revocabili...».

Nel periodo limitatissimo in cui la Comune di Parigi restò in piedi, riuscì comunque ad avviare un’opera gigantesca, grazie alla fortissima determinazione della classe operaia la cui capacità di “gestione” del potere si sviluppava “semplicemente” esercitandolo. Lenin, in Stato e rivoluzione, tira da questi esempi una breve conclusione: «da borghese che era, la democrazia, realizzata quanto più pienamente e conseguentemente sia concepibile, è diventata proletaria; lo Stato (forza particolare destinata a opprimere una classe determinata) s’è trasformato in qualche cosa che non è più propriamente uno Stato».

L’uso del termine “democrazia” da parte di Lenin, in questo scritto come in altre occasioni, può essere interpretato alla “socialdemocratica” oppure alla “rivoluzionaria”. L’interpretazione socialdemocratica abbina il termine democrazia al parlamento; in effetti la democrazia borghese si esprime col parlamento, nel parlamento, è in sostanza il parlamentarismo. La democrazia “proletaria”, come allora veniva chiamata dai rivoluzionari bolscevichi, doveva invece discendere dall’esperienza della Comune di Parigi, ossia non essere imbrigliata nel parlamentarismo, ma costituire effettivamente un organo di lavoro. La democrazia borghese, nel parlamento, pretende di riunire una “rappresentanza” di tutte le classi della società, di tutti gli strati sociali; e, in effeti, formalmente, attraverso le elezioni di candidati al parlamento, sembra di procedere in quella direzione. Solo che, quand’anche il proletariato riesca a farsi rappresentare nel parlamento borghese da veri rappresentanti degli interessi di classe proletari – come è avvenuto ad esempio in Russia con i bolscevichi (ma in una situazione di rivoluzione borghese, con un parlamento appena costituito, che doveva essere superata dalla rivoluzione proletaria, come in effetti avvenne nell’Ottobre 1917), o in Germania con Liebchneckt, o in Italia con i deputati del Pcd’I (che, in verità, furono gli unici ad applicare rigorosamente le direttive del parlamentarismo rivoluzionario emanate dall’Internazionale Comunista) – è l’istituzione stessa del parlamento che non può essere trasformata da strumento di governo borghese in strumento di governo proletario. Se “la macchina statale già pronta” che ha eretto la borghesia come sua “forza particolare” per dominare sulla società non può essere considerata utilizzabile da parte del potere proletario che, al contrario, deve spezzarla, tanto più le sue istituzioni – come il parlamento, la magistratura, l’esercito ecc. – non possono essere utilizzate, così come sono organizzate sotto il dominio borghese, a favore del potere proletario.

Tra le misure principali immediate consegnateci dall’esperienza della Comune di Parigi, e richiamate da Marx nella Guerra civile in Francia, e che qui riassumiamo, vi sono [le sottolineature sono nostre]:

1) «Il primo decreto della Comune fu la soppressione dell’esercito permanente e la sua sostituzione con il popolo in armi (...); l’esercito così veniva sostituito dalla guardia nazionale la cui massa era costituita da operai»;

2) «La Comune fu composta da consiglieri municipali eletti a suffragio universale nei diversi circondari di Parigi. Essi erano responsabili e revocabili in qualunque momento. La maggioranza dei suoi membri erano naturalmente operai o rappresentanti riconosciuti della classe operaia. La Comune non doveva essere un organismo parlamentare, ma un organo di lavoro esecutivo e legislativo nello stesso tempo»;

3) «La polizia fu immediatamente spogliata delle sue attribuzioni politiche e trasformata  in strumento della Comune, risponsabile dinnanzi ad essa e revocabile in qualunque momento. Lo stesso venne fatto per i funzionari di tutte le branche dell’amministrazione»;

4) «Dai membri della Comune fino ai gradi subalterni, le pubbliche funzioni venivano retribuite con salari da operai»;

5) «I diritti acquisiti e le indennità di rappresentanza degli alti funzionari dello Stato scomparvero con i funzionari stessi»;

6) «Le cariche pubbliche cessarono di essere proprietà private delle creature del governo centrale. Non solo l’amministrazione municipale, ma tutte le altre iniziative fino allora esercitate dallo Stato passarono nelle mani della Comune»;

7) «Una volta abolito l’esercito permanente e la polizia, strumenti di potere del vecchio governo, la Comune si preoccupò di spezzare la forza di repressione spirituale, il potere dei preti; decretò la separazione della Chiesa e dello Stato disciogliendo ed espropriando tutte le chiese in quanto ordini possidenti. I sacerdoti furono restituiti al tranquillo riposo della vita privata, per vivere delle elemosine dei fedeli, ad imitazione dei loro predecessori, gli apostoli”;

8) «La totalità degli istituti di istruzione furono aperti gratuitamente al popolo e liberati in pari tempo da ogni ingerenza della Chiesa e dello Stato. Così non solo l’istruzione fu resa accessibile a tutti, ma la scienza stessa fu liberata dalle catene che le erano state imposte dai pregiudizi di classe e dal potere governativo»;

9) «I funzionari della giustizia vennero spogliati di quella finzione di indipendenza che non era servita ad altro che a mascherare la loro vile sottomissione a tutti i vari governi che si erano alternati al potere e ai quali, di volta in volta, avevano prestato giuramento di fedeltà per violare in seguito tale giuramento. Come gli altri funzionari pubblici, i magistrati e i giudici dovevano essere elettivi, responsabili e revocabili»;

10) «La Comune di Parigi doveva servire di modello a tutti i grandi centri industriali della Francia. Una volta stabilito a Parigi e nei centri secondari il potere della Comune, il vecchio governo centralizzato avrebbe dovuto, anche nelle province, cedere il posto all’autogoverno da parte dei produttori. In un abbozzo sommario dell’organizzazione nazionale che la Comune non ebbe il tempo di sviluppare, è detto espressamente che la Comune doveva essere la forma politica anche del più piccolo villaggio e che nelle regioni rurali l’esercito permanente doveva essere sostituito da una milizia popolare, con un periodo di servizio estremamente breve».

In pratica, da questo breve riassunto delle misure e dell’indirizzo che la Comune di Parigi definì e attuò, si capisce bene che “la costituzione del proletariato in classe dominante”, come detto a chiare lette nel Manifesto del 1848, non poteva passare che attraverso la distruzione della macchina statale esistente, «la distruzione del potere dello Stato che pretendeva essere l’incarnazione dell’unità nazionale, ma voleva essere indipendente dalla nazione stessa, e persino superiore ad essa, mentre non costituiva che un’escrescenza parassitaria».

 «La Comune non doveva essere un organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo». E’ noto fin da quel tempo che le grandi decisioni politiche, economiche, sociali e militari, i capitalisti e i loro rappresentanti politici e istituzionali non le prendono in parlamento, ma nelle segrete stanze del potere. «Decidere una volta ogni qualche anno quale membro della classe dominante debba opprimere, schiacciare il popolo nel Parlamento: ecco la vera essenza del parlamentarismo borghese – scrive Lenin nel suo Stato e rivoluzione – non solo nelle monarchie parlamentari costituzionali, ma anche nelle repubbliche le più democratiche».

Dicevamo che le classi borghesi, subito dopo la presa del potere da parte del proletariato rivoluzionario, non spariscono di colpo; continuano ad esistere e a resistere al nuovo potere, nella speranza di restaurare il proprio. Cosa che avvenne nel 1871, con la caduta della Comune, e che avvenne, per ragioni del tutto diverse, e che vedremo, anche rispetto al potere bolscevico instaurato in Russia nell’ottobre 1917.

Ricorda Lenin, sempre in Stato e rivoluzione, «la necessità di reprimere la borghesia e di spezzarne la resistenza permane», e che per la Comune «il non averlo fatto con sufficiente risolutezza è una delle cause della sua sconfitta»; cosa che non avvenne per la dittatura proletaria instaurata dai bolscevichi in Russia con la vittoria rivoluzionaria dell’Ottobre 1917. Di fatto, le misure dispotiche prese dalla Comune, immediatamente dopo la sua vittoria, dimostrano che le «istituzioni di un certo tipo» – tipo borghese – vengono sostituite con «altre istituzioni basate su principi diversi» – istituzioni e principi proletari. Lenin sottolinea che questa sostituzione corrisponde alla «trasformazione della quantità in qualità», ossia «da borghese che era, la democrazia, realizzata quanto più pienamente e conseguentemente sia concepibile, è diventata proletaria; lo Stato (forza particolare destinata a opprimere una classe determinata) s’è trasformato in qualche cosa che non è più propriamente uno Stato», ma che dello Stato conserva determinate funzioni come quella, per l’appunto, di reprimere con la necessaria risolutezza la resistenza (politica, militare, sociale ed economica) della classe borghese, battuta ma non definitivamente scomparsa.

 

LA RIVOLUZIONE SOCIALISTA È INTERNAZIONALE, O NON È SOCIALISTA

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Per i marxisti è evidente che le parole di Lenin che abbiamo ricordato non hanno il significato di una trasformazione completa e immediata, poiché il processo rivoluzionario, avviato con la presa del potere politico e l’instaurazione della dittatura di classe da parte del proletariato, è un processo non limitabile né nella sua durata né nei confini del paese in cui l’insurrezione rivoluzionaria vittoriosa porta il proletariato al potere;  è, al contrario, un processo storico che si svolge in un periodo di tempo anche molto lungo, a seconda delle condizioni oggettive e soggettive della rivoluzione proletaria nel paese e nei paesi in cui la lotta di classe del proletariato ha generato realmente una decisiva maturazione sul piano degli obiettivi, dei metodi e dei mezzi della lotta di classe ed ha potuto far da base all’influenza decisiva del partito di classe sul proletariato stesso; è, inoltre, un processo storico internazionale che può iniziare anche in un solo paese, ma per essere effettivamente vittorioso sul potere borghese e sul capitalismo non ha altra via che quella di irradiarsi a livello internazionale coinvolgendo i proletariati degli altri paesi, in particolare dei paesi capitalistici avanzati.

E' ancora Lenin che sottolinea con tenacia e costanza indiscutibili, il concetto che la rivoluzione proletaria, la rivoluzione socialista, non è una rivoluzione nazionale come è senza dubbio la rivoluzione borghese, ma è una rivoluzione internazionale che, per circostanze storiche, per lo stesso sviluppo ineguale del capitalismo e per la concentrazione di fortissime contraddizioni politiche ed economiche in dati paesi, può iniziare anche in un paese - quindi non necessariamente e simultaneamente in tutti i paesi del mondo o in tutti i paesi avanzati capitalisticamente - e addirittura in un paese arretrato come fu il caso della Russia nel 1917, ma la sua caratteristica storica e politica non potrà mai essere limitata nei confini di un paese solo. In migliaia di interventi e di scritti Lenin ribadisce che la rivoluzione socialista in Russia è stato il primo passo della rivoluzione internazionale, il primo bastione della rivoluzione internazionale; il potere sovietico instaurato con la vittoria  rivoluzionaria con cui è stato abbattuto sia il potere zarista che il potere borghese che gli successe, non avrebbe potuto resistere  molto a lungo senza l'apporto decisivo della rivoluzione socialista in Europa. E ciò non solo a causa dell'arretratezza economica della Russia, ma del fatto che «l'imperialismo internazionale, con tutta la potenza del suo capitale, con la sua tecnica militare altamente organizzata, che costituisce una vera forza, un vero baluardo del capitale internazionale, non poteva in nessun caso e a nessuna condizione rassegnarsi a vivere accanto alla repubblica dei soviet, sia per la sua situazione obiettiva che per gli interessi economici di quella classe capitalistica di cui esso è l'incarnazione; non poteva farlo in virtù dei legami commerciali, dei rapporti finanziari internazionali» (Rapporto sulla guerra e la pace, 7 marzo 1918, VII Congresso del Partito comunista -bolscevico- della Russia). Da questa analisi concreta della situazione Lenin non poteva che trarre questa conclusione: «Qui il conflitto è inevitabile. Qui è la difficoltà più grande della rivoluzione russa, il suo più grande problema storico: la necessità di risolvere i compiti internazionali, la necessità di suscitare la rivoluzione internazionale, di effettuare questo passaggio dalla nostra rivoluzione, strettamente nazionale, alla rivoluzione mondiale», senza nascondersi che la vittoria di Ottobre 1917, con ciò che rappresentava per tutti i proletari d'Europa e del mondo, con le sconfitte subite  nel fermare la guerra attraverso  i trattati di Brest Litovsk e con i gravosi problemi economici ereditati dalle distruzioni della guerra, carestia compresa, poteva presentare un futuro completamente opposto a quello sperato. Afferma infatti Lenin: «Se guardiamo la cosa da un punto di vista storico-universale, non v'è alcun dubbio che la vittoria finale della nostra rivoluzione, se questa restasse isolata, se non vi fosse movimento rivoluzionario negli altri paesi, sarebbe una causa senza speranza» (Ibidem). Lenin aveva visto giusto in entrambe le situazioni: la rivoluzione socialista russa rappresentava il primo bastione della rivoluzione internazionale, ma il suo isolamento, determinato dall'assenza di movimenti rivoluzionari vittoriosi negli altri paesi, non le consentì di raggiungere la vittoria finale, cioè il socialismo che non poteva e non può essere "costruito" in un solo paese, nemmeno nel più avanzato capitalisticamente.

Ma torniamo alle misure dispotiche che la dittatura proletaria instaurata deve prendere. Sicuramente, già le primissime misure dispotiche che la dittatura proletaria attua costituiscono una tale trasformazione dell’organizzazione politica e sociale che caratterizza la società attuale, da dare alle istituzioni politiche, necessarie alla nuova organizzazione sociale, caratteristiche del tutto opposte a quelle fino ad allora conosciute: il nuovo Stato della dittatura proletaria, da organo di repressione della minoranza della popolazione (come è stato ed è nel regime della schiavitù, del servaggio e della schiavitù salariata), si trasforma in organo di repressione della maggioranza della popolazione che reprime i suoi oppressori; da “forza particolare di repressione”, come è ancora in regime borghese, si trasforma in forza generale di repressione della maggioranza della popolazione contro la minoranza borghese (e/o le minoranze sopravvissute delle vecchie classi): «invece delle istituzioni speciali di una minoranza privilegiata (funzionari privilegiati, capi dell’esercito permanente), la maggioranza stessa può compiere direttamente le loro funzioni, e quanto più il popolo stesso assume le funzioni del potere statale, tanto meno si farà sentire la necessità di questo potere». «In questo senso lo Stato comincia ad estinguersi». Parole che non fanno che ribadire quanto già sostenuto da Marx ed Engels sul non-Stato rappresentato dalla dittatura proletaria rispetto alla dittatura borghese, nella prospettiva, per l’appunto, di una rivoluzione che attraverso la dittatura internazionale della classe proletaria si avvia verso un’organizzazione sociale superiore, senza classi, una società di specie. La classe proletaria è l’unica classe rivoluzionaria della società capitalistica che è portatrice dialettica della negazione della negazione: distruggendo il potere di classe borghese per mezzo dell’instaurazione del potere della propria classe, il proletariato nega anche se stesso come classe sociale, dunque nega qualsiasi organizzazione politica, sociale ed economica basata sulla divisione in classi della società.

 

LENIN E IL DEMOCRATISMO "PRIMITIVO"

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Lenin, svolgendo in sintesi, sulla questione dello Stato, il pensiero marxista nel suo volumetto Stato e rivoluzione, mette in evidenza un’altro aspetto del nuovo Stato proletario; facendo un riferimento preciso non all’arretrata Russia, ma all’avanzata Europa e ai maggiori rappresentanti dell’opportunismo socialdemocratico, Bernstein e Kautsky [i rinnegati contemporanei del socialismo, come li definisce Lenin, NdR], afferma che: «Come tutti gli opportunisti, come i kautskiani dei nostri giorni, Bernstein non ha assolutamente compreso che, in primo luogo, il passaggio dal capitalismo al socialismo è impossibile [sottolineato da Lenin] senza un certo “ritorno” al democratismo “primitivo” (come si potrebbe altrimenti far compiere alla maggioranza della popolazione, e poi all’intera popolazione, le funzioni dello Stato?)». Vale la pena soffermarsi su questa questione del democratismo primitivo.

Eleggibilità e revocabilità, salario da operaio a qualsiasi funzionario pubblico, che cosa sono se non misure “primitive”, utili ad allenare una popolazione intera non solo di un paese, ma di tutto il mondo, a funzioni sociali mai svolte in precedenza perché monopolio di funzionari particolari, specializzati, al soldo del potere della minoranza borghese? Continua Lenin: «in secondo luogo, il ‘democratismo primitivo’ sulla base del capitalismo e della civiltà capitalistica non è il democratismo primitivo delle epoche patriarcali e precapitalistiche. La civiltà capitalistica ha creato la grande produzione, le officine, le ferrovie, la posta, il telefono ecc.; e su questa base l’immensa maggioranza delle funzioni del vecchio ‘potere statale’ si sono a tal punto semplificate e possono essere ridotte a così semplici operazioni di registrazione, d’iscrizione, di controllo, da poter essere benissimo compiute da tutti i cittadini con un minimo di istruzione e per un normale “salario da operai”; si può (e si deve) quindi togliere a queste funzioni ogni minima ombra che dia loro qualsiasi carattere di privilegio e di “gerarchia”». Dunque, ripetiamolo con Lenin: «Eleggibilità assoluta, revocabilità in qualsiasi momento di tutti i funzionari senza alcuna eccezione, riduzione dei loro stipendi al livello abituale del “salario da operaio”: questi semplici e “naturali” provvedimenti democratici [nel senso della democrazia primitiva di cui parlava Lenin poco sopra, NdR], mentre stringono pienamente in una comunità di interessi gli operai e la maggioranza dei contadini, servono in pari tempo da passerella tra il capitalismo e il socialismo. Questi provvedimenti concernono la riorganizzazione statale, puramente politica, della società; ma essi, naturalmente, assumono tutto il loro significato e tutta la loro importanza solo in legame [sottolineato da noi, NdR] con la “espropriazione degli espropriatori” realizzata o preparata; in legame cioè con la trasformazione della proprietà privata capitalistica dei mezzi di produzione in proprietà sociale».

Ma torniamo sulla questione della democrazia borghese e della democrazia proletaria, per come la tratta Lenin. In Stato e Rivoluzione, dal capitolo dedicato all’esperienza della Comune di Parigi e all’analisi fatta su di essa da Marx, si possono ricavare utilissime precisazioni dal capitoletto 3 dedicato alla soppressione del parlamentarismo. Attenzione: Lenin scrive soppressione del parlamentarismo, e non “soppressione del parlamento” (che risponderebbe alla critica del parlamentarismo da parte degli anarchici e dei reazionari), poiché non si tratta di sopprimere formalmente un involucro del metodo parlamentarista, ma di sopprimere del tutto, per l’appunto, il metodo parlamentarista, ossia un metodo che separa le funzioni esecutive da quelle legislative per poter meglio opprimere il popolo, facendo finta di “rappresentarlo”. Il problema reale per i rivoluzionari marxisti, infatti, non è mai stato quello di distruggere “le istituzioni rappresentative” e “il principio di eleggibilità”, semmai «di trasformare queste istituzioni rappresentative da mulini di parole in organismi che “lavorino” realmente. “La Comune non doveva essere un organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo”»!

Nella democrazia borghese «il vero lavoro “di Stato” si compie fra le quinte, e sono i ministeri, le cancellerie, gli stati maggiori che lo compiono». Ma come deve essere compiuto, invece, questo lavoro per rispondere effettivamente ad un principio, non falso, di eleggibilità e di rappresentanza? La Comune sostituisce il parlamentarismo  «venale e corrotto della società borghese con istituzioni in cui la libertà di opinione e di discussione non degenera in inganno; poiché i parlamentari debbono essi stessi lavorare, applicare essi stessi le loro leggi, verificarne essi stessi i risultati, risponderne essi stessi direttamente davanti ai loro elettori. Le istituzioni rappresentative rimangono, ma il parlamentarismo, come sistema sociale, come divisione del lavoro legislativo ed esecutivo [sottolineato da noi, NdR], come situazione privilegiata per i deputati, non esiste più. Noi non possiamo concepire una democrazia, sia pure una democrazia proletaria, senza istituzioni rappresentative, ma possiamo e dobbiamo concepirla senza parlamentarismo, se la critica della società borghese non è per noi una parola vuota di senso, se il nostro sforzo per abbattere il dominio della borghesia è uno sforzo serio e sincero e non una frase “elettorale” destinata a scroccare i voti degli operai, come lo è per i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari, per gli Scheidemann e i Legien, i Sembat e i Vandervelde».

Potrà sembrare strano a qualcuno che, da parte di antidemocratici per principio come noi  che proveniamo dalla Sinistra comunista d’Italia, si metta in forte evidenza queste parole di Lenin sulla democrazia “proletaria”, parole che potrebbero essere messe in diretta relazione con la tattica del “parlamentarismo rivoluzionario” che Lenin stesso sostenne con grande forza al 3° congresso dell’Internazionale Comunista, “contro” la posizione decisamente anti-parlamentare di Bordiga e di tutto il PCd’I. Ma basta non fermarsi alla parola in sé, ma comprenderne il significato in legame con la situazione storica apertasi con la prima guerra imperialista, la prima rivoluzione socialista vittoriosa – seppur in un paese economicamente e socialmente arretrato –, il potenziale sviluppo del movimento proletario rivoluzionario in Europa, e soprattutto in Germania, e la fortissima critica all’opportunismo socialsciovinista e socialdemocratico che della democrazia borghese e del parlamentarismo borghese avevano fatto la loro principale bandiera, per cogliere la formidabile forza dialettica degli argomenti che Lenin ha svolto in Stato e Rivoluzione. Lenin parla della democrazia e del parlamentarismo non da utopista, non da moralista e, tantomeno, da “rivoluzionario della frase”, ma da marxista, da materialista dialettico e storico. Come Marx, anche Lenin «si mette alla scuola della Comune»; come Marx, egli «studia, come un processo di storia naturale, la genesi della nuova società che sorge dall’antica, le forme di transizione tra l’una e l’altra», e non solo riguardo l’arretrata Russia, ma riguardo le forme politiche, economiche, sociali del capitalismo più sviluppato. E’ in forza di questo atteggiamento scientifico che Lenin riconoscerà nei soviet la potenziale forma di transizione dalla democrazia e dal parlamentarismo borghesi alla democrazia primitiva dell’epoca moderna, la democrazia “proletaria” che, in Russia – grazie alla vittoria della rivoluzione socialista sia sullo zarismo che sulla borghesia –, poteva saltare la fase storica della democrazia e del parlamentarismo borghesi da cui, invece, negli altri paesi europei, che democrazia e parlamentarismo li avevano conosciuti e praticati da decenni, il movimento proletario e comunista europeo non riusciva – e non riuscì – a staccarsi definitivamente. La necessità di questo stacco, anzi di un loro netto rifiuto, anche sul piano formale, era stata, in verità, individuata in modo preciso dalla nostra corrente, la Sinistra comunista, forza comunista che – come abbiamo avuto modo di scrivere più volte – in Italia nacque adulta: l’antidemocratismo, l’antiparlamentarismo, l’antielezionismo che tatticamente distinguevano la sinistra comunista in Italia non derivavano da attitudini settarie, moraliste, utopiste o anarchicheggianti, ma da una critica storica poggiante esclusivamente sulla teoria marxista e da un’analisi scientifica del processo di sviluppo delle forme politiche della democrazia borghese nei paesi a capitalismo avanzato. La tossicità politica e sociale della democrazia borghese, di cui soffriva (e soffre ancora!) in modo grave il movimento operaio non solo europeo o americano, ma mondiale, non poteva e non può essere curata e superata utilizzando le stesse istituzioni e gli stessi metodi politici della classe dominante borghese.

Il parlamentarismo borghese, nei paesi capitalistici europei, rivestiva, e riveste, mimetizzandola, la macchina statale nelle sue funzioni primarie di repressione e di controllo sociale: esso funziona soltanto nella separazione delle funzioni esecutive e legislative e, grazie a questa separazione, è terreno fertile per i privilegi della burocrazia, per «la politica clientelare, corrotta, quando non direttamente malavitosa o mafiosa» (1), ma rappresenta ancora, nello stesso tempo, la più raffinata macchina dell’inganno delle grandi masse proletarie, chiamate per l’appunto, come sottolineava Marx a proposito delle lezioni da trarre dall’esperienza della Comune di Parigi, «una volta ogni tre o sei anni quale membro della classe dominante dovesse mal rappresentare e opprimere il popolo nel Parlamento».

Indiscutibilmente la democrazia borghese, sviluppandosi in parallelo allo sviluppo stesso del modo di produzione capitalistico e alla sua diffusione nel mondo,  e pur nel suo sviluppo ineguale da paese a paese, non poteva che andare incontro ad una degenerazione sempre più putrescente: i fenomeni clientelari, di corruzione e malavitosi si sono fatti sempre più ampi e frequenti, i privilegi “di casta” si sono sempre più estesi dai vertici dello Stato fino al più semplice funzionario pubblico della periferia, la “distrazione” di fondi pubblici verso interessi privati è diventata una norma. Di fatto, la democrazia borghese, e tutte le sue istituzioni e i suoi metodi, non sono che la copertura politica della dittatura della borghesia utile al controllo sociale e, in particolare, alla sottomissione delle grandi masse proletarie e contadine allo Stato borghese che non è altro se non il più strenuo difensore degli interessi di classe della borghesia in quanto classe dominante, dunque del capitalismo come modo di produzione e come organizzazione generale della società. Non è la democrazia che muove i fili del potere borghese, ma è la dittatura economica e sociale del capitalismo a muoverli. Quando si presentano, nel paese tale o tal altro, situazioni storiche in cui le istituzioni e i metodi della democrazia si rivelano insufficienti, o del tutto impotenti rispetto alla difesa degli interessi di classe della borghesia capitalista, quelle istituzioni e quei metodi vengono sostituiti, in parte o in toto, da istituzioni e metodi molto più coerenti alla vera natura dittatoriale del potere borghese: il totalitarismo, la dittatura militare, l’autoritarismo accentratore, chiamati di volta in volta fascismo, nazismo, o semplicemente “dittatura”, militare o meno. Dunque la democrazia (che sia parlamentare, presidenziale, o altro), dal punto di vista politico e sociale, non è che una sovrastruttura che gestisce il potere borghese in funzione degli interessi di classe borghesi, e quindi, degli interessi del capitalismo e di conservazione sociale.

E’ innegabile che i suoi metodi abbiano attratto e coinvolto, e attraggano e coinvolgano ancora, le grandi masse proletarie in una sorta di “partecipazione” politica allla “scelta” del governo della cosa pubblica e alla difesa di leggi che regolano il vivere civile e i diritti dei cittadini; ed è innegabile che in un primo periodo storico, nel passaggio dalla società feudale a quella capitalista, il coinvolgimento di masse sempre più grandi alla vita politica del paese è stato un reale progresso politico e sociale. Ma, come ogni società divisa in classi, anche la società borghese, sviluppandosi, sviluppa e acutizza le sue contraddizioni e gli antagonismi di classe su cui è fondata, a tal punto che i metodi e le istituzioni della democrazia borghese diventano sempre più d’intralcio per lo stesso potere borghese che, nei fatti, trova la sua massima espressione non nel parlamento, ma nelle segrete stanze dei vertici dell’economia, della finanza, della magistratura e degli stati maggiori (e non si tratta soltanto delle logge massoniche). La dittatura del capitale cerca di non farsi intralciare nel suo frenetico svolgimento dalle lungaggini dei metodi democratici: quando ha bisogno di accelerare determinate decisioni, piega la democrazia (partiti, sindacati, parlamento, governo) alle sue urgenze, “salvando” artificialmente, e per quanto possibile, la facciata perché le grandi masse continuino a illudersi che le sue istituzioni e i suoi metodi possano essere utilizzate anche a loro beneficio.

Dunque, il mastodontico impianto burocratico attraverso il quale lo Stato borghese applica le sue leggi e la sua missione di oppressore delle classi subalterne, non è utilizzabile dal potere proletario; va distrutto e sostituito, al pari di tutto ciò che attiene alla macchina statale borghese.

 

DISTRUTTO LO STATO BORGHESE, SI COMINCIA AD ORGANIZZARE LO STATO PROLETARIO PER AVVIARE LA TRASFORMAZIONE ECONOMICA E SOCIALE DELL'INTERA SOCIETÀ

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E’ possibile, una volta vinta la rivoluzione e conquistato il potere da parte del proletariato, «distruggere di punto in bianco, dappertutto, completamente, la burocrazia»? Lenin risponde: NO, «sarebbe utopia», ed aggiunge subito dopo: «Ma spezzare subito la vecchia macchina amministrativa per cominciare immediatamente [sottolineatura nostra, NdR] a costruirne una nuova, che permetta la graduale soppressione di ogni burocrazia, non è utopia, è l’esperienza della Comune, è il compito primordiale e immediato del proletariato rivoluzionario». Abbiamo sottolineato il brano “per cominciare immediatamente”, perché tale concetto ci riporta ad un altro brano tratto dalla Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (2), che, se male interpretato, poteva e può dare adito ad una visione utopistica, ed anarchica, delle indispensabili misure che il potere proletario deve prendere subito dopo la conquista del potere politico per avviare il processo storico di trasformazione della società capitalistica in società socialista.

Ogni borghese ed ogni opportunista partono dalla convinzione che, per amministrare lo Stato, siano necessari i funzionari, la gerarchia, i consulenti, gli specialisti... e che i semplici operai non saranno mai in grado di poterlo fare direttamente. Ma, nella realtà, è lo stesso capitalismo che «semplifica i metodi d’amministrazione “dello Stato”» e ciò «permette – come sostiene Lenin – di eliminare la “gerarchia” e di ridurre tutto a un’organizzazione dei proletari (in quanto classe dominante) che assume, in nome di tutta la società, “operai, sorveglianti e contabili”». E come mai parla di sorveglianti e di contabili? Ri prende da Marx che, parlando delle funzioni del personale amministrativo – necessario all’amministrazione dello Stato borghese, ma necessario anche alla Comune di Parigi – sceglie «come termine di paragone il personale di “ogni altro imprenditore”, cioè di un’ordinaria impresa capitalistica con “operai, sorveglianti e contabili”», a dimostrazione che in Marx non vi è un briciolo di utopismo, non vi è nessuna invenzione di una “società nuova”, ma lo studio attento e puntuale della genesi della nuova società che sorge dall’antica.

Potremmo, dunque, «fare a meno, dall’oggi al domani, di ogni amministrazione, di ogni subordinazione»? NO!, ribadiamo, i comunisti rivoluzionari non sono degli utopisti, non rincorrono sogni anarchici, «fondati sull’incomprensione dei compiti della dittatura del proletariato, sogni che nulla hanno di comune con il marxismo e che di fatto servono unicamente a rinviare la rivoluzione socialista fino al giorno in cui gli uomini saranno cambiati». Gli uomini cambieranno con la rivoluzione socialista, attraverso di essa e dopo che la rivoluzione socialista avrà avviato la trasformazione da cima a fondo della società sul piano politico come su quello economico e sociale. Nel periodo di transizione tra il potere borghese e il potere proletario, cioè nel periodo della dittatura del proletariato esercitata dal partito di classe (vedi Marx, Critica al programma di Gotha), saranno gli uomini di oggi che avranno il compito di avviare quella trasformazione. E’ inevitabile che tale trasformazione sarà portata a termine, passando dal socialismo al comunismo – ossia dalla dittatura della classe proletaria, della classe che rappresenta la stragrande maggioranza degli uomini nella società capitalistica, alla società senza classi – dagli uomini di domani, da uomini che si saranno abituati a non comportarsi più da membri di classi differenti e antagoniste, dunque non da membri di una società divisa in classi, costretti a sopravvivere in regime di schiavitù salariale, costretti ad essere sfruttati da una minoranza di capitalisti che non sono solo padroni di tutti i mezzi di produzione, ma si appropriano, protetti e difesi dal loro Stato di classe, l’intera ricchezza prodotta, costretti a far dipendere la propria vita e la vita dei propri familiari dalle oscillazioni dei mercati e dalle crisi di sovraproduzione che periodicamente gettano le grandi masse di proletari del mondo nella miseria, nella fame e nella guerra. Tale trasformazione sarà portata a termine da membri di una società che ha perso via via le caratteristiche della divisione in classi e che ha guadagnato le caratteristiche della società di specie: gli uomini di domani non saranno più borghesi, picoloborghesi, proletari, contadini, in lotta permanente tra di loro per interessi contrastanti, ma esseri sociali la cui vita, basata sull’armonico sviluppo delle forze produttive, ha finalmente e definitivamente superato il regno della necessità per raggiungere il regno della libertà, ossia del libero sviluppo di ciascun essere sociale.

La rivoluzione è un fenomeno sociale in cui tutte le classi della società materialmente e oggettivamente si muovono secondo un percorso determinato dai più profondi interessi economici e sociali di classe; essendo questi interessi del tutto contrastanti e opposti fra di loro, il movimento delle classi non può che essere antagonista, violento ed estremamente contraddittorio, opponendo forza a forza. La coscienza di questi movimenti in opposizione tra di loro, la coscienza della direzione in cui si muovono, e dei metodi e dei mezzi utilizzati e da utilizzare per sopraffare gli avversari. non alberga nelle teste di ogni singolo membro delle classi che si scontrano, ma in organismi collettivi che rappresentano gli interessi comuni di classe e che condensano l’esperienza reale e storica della lotta che le classi sociali si sono fatte, si fanno e si faranno fino alla loro completa scomparsa. La borghesia, in quanto classe dominante e possidente di tutti i mezzi di produzione e di tutta la produzione, basa la sua “coscienza di classe” sulla proprietà privata e sull’appropriazione privata della produzione sociale e la esprime attraverso i suoi partiti, le sue organizzazioni politiche, economiche, sociali che concentrano le rispettive forze nelle associazioni economiche e finanziarie padronali e nello Stato centrale che è quella forza particolare di repressione e di controllo sociale di cui hanno parlato Marx, Engels, Lenin. Il proletariato, in quanto classe salariata, non possidente di nulla in questa società, ma, in quanto rappresentante della massima contraddizione di questa società (classe produttrice separata completamente dalla produzione, ma sfruttata dal capitale proprio in quanto classe produttrice, e forza produttiva costantemente frenata e compressa rispetto al suo naturale sviluppo) ha la sua “coscienza di classe” nel solo partito politico di classe (che oltre a condensare l’esperienza delle lotte di classe del passato e del presente, rappresenta nell’oggi l’avvenire del movimento di classe proletario e i suoi obiettivi storici) e concentra la sua forza soltanto nel movimento unificante della propria classe e antagonista alla borghesia.

La rivoluzione rappresenta materialmente lo scoppio di tutte le contraddizioni sociali, e grazie a questa esplosione si produce il fenomeno della ionizzazione delle forze sociali, ossia lo spostamento materiale delle forze sociali intorno ai centri di attrazione oggettivamente più forti e netti; ma, per incanalare le forze sociali verso obiettivi storicamente coerenti con gli interessi generali delle classi contrapposte, per dotarle di una adeguata strategia di lotta e guidarle le une a difendere e conservare il potere che viene attaccato, le altre a conquistarlo per abbatterlo e sostituirlo con il proprio potere di classe, sono necessari i partiti politici che ne assumono gli interessi generali. Da parte borghese, la lotta di conservazione sociale viene fatta con gli uomini di oggi e di ieri, interessati a sfruttare il regime di schiavitù salariale e a godere dei privilegi sociali legati al sostegno della classe dominante; anche da parte proletaria la lotta viene portata avanti con gli uomini di oggi, i quali però si vogliono scrollare di dosso definitivamente il regime di schiavitù salariale, finendola con tutti i privilegi sociali basati sulla sottomissione delle grandi masse proletarie, al fine di riorganizzare la società in cui non vi sia più lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dunque per “diventare uomini di domani” o, meglio, perché le generazioni successive nascano e vivano in una società senza oppressioni e senza sfruttamento. La rivoluzione non la possono fare gli uomini che non esistono ancora, ma soltanto gli uomini di oggi.

Attendersi la rivoluzione socialista da uomini “già cambiati” nella propria coscienza individuale, prima ancora di qualsiasi lotta e di qualsiasi sconvolgimento materiale, significa semplicemente negare la necessità storica della rivoluzione socialista, e accodarsi alla conservazione della società capitalistica. «Noi – afferma Lenin – vogliamo la rivoluzione socialista con gli uomini quali sono oggi, e che non potranno fare a meno né di subordinazione, né di controllo, né di sorveglianti, né di contabili».

Perché Lenin si preoccupa di precisare che gli uomini di oggi sono abituati materialmente, socialmente, economicamente, spiritualmente all’ordine sociale capitalistico, dunque alla subordinazione, al controllo, alla sorveglianza, alla contabilità? Proprio perché, come è già avvenuto nelle fasi storiche precedenti, sono gli uomini della società che sta morendo che faranno la rivoluzione, pur non conoscendo tutti i suoi aspetti, le sue necessità, le sue conseguenze. E per fare in modo che questi uomini, questi proletari, grazie allo sconvolgimento rivoluzionario della vita sociale nella prospettiva del nuovo impianto dell’organizzazione statale, dedichino le proprie forze e le proprie energie alla distruzione fino alla radice dell’ordine sociale capitalistico e borghese e, nello stesso tempo, alla difesa del nuovo potere proletario da tutti gli attacchi che arrivano e arriveranno sia dall’interno del paese in cui la rivoluzione ha vinto che dall’esterno, ma anche dalle sue stesse file, è materialmente necessario passare attraverso fasi di transizione, fare dei passi concreti verso il socialismo su tutti i piani, economico, politico, sociale, militare, culturale, scolastico, familiare, religioso ecc., ossia su tutti i piani sui quali è necessario combattere non solo contro i pilastri dichiarati della conservazione borghese, ma anche contro le abitudini e i riflessi materiali, mentali e psicologici che oggettivamente perdurano nelle generazioni che hanno vissuto nel pieno capitalismo e che non si possono cancellare con un colpo di spugna.

Lenin sottolinea per l’ennesima volta che, per avviare la trasformazione della società, «bisogna subordinarsi all’avanguardia armata di tutti gli sfruttati e di tutti i lavoratori: al proletariato. Si può e si deve subito, dall’oggi al domani, cominciare a sostituire la specifica “gerarchia” dei funzionari statali con le semplici funzioni “di sorveglianti e di contabili”, funzioni che sono sin da ora perfettamente accessibili al livello generale di sviluppo degli abitanti delle città e possono facilmente essere compiute per “salari da operai”». E va più a fondo, lanciando un preciso indirizzo degli interventi della dittatura proletaria: «Organizziamo la grande industria partendo da ciò che il capitalismo ha già creato; organizziamola noi stessi, noi operai, forti della nostra esperienza operaia, imponendo una rigorosa disciplina, una disciplina di ferro, mantenuta per mezzo del potere statale dei lavoratori armati [sottolineato da noi, NdR]; riduciamo i funzionari dello Stato [visto che non è possibile eliminare la burocrazia dall’oggi al domani, NdR] alla funzione di semplici esecutori dei nostri incarichi, alla funzione di “sorveglianti e di contabili”, modestamente retribuiti, responsabili e revocabili (conservando naturalmente i tecnici di ogni specie e di ogni grado): è questo il nostro compito proletario; è da questo che si può e si deve cominciare facendo la rivoluzione proletaria. Questo inizio, fondato sulla grande produzione, porta da sé alla graduale “estinzione” di ogni burocrazia, alla graduale instaurazione di un ordine – ordine senza virgolette, ordine diverso dalla schiavitù salariata – in cui le funzioni, sempre più semplificate, di sorveglianza e di contabilità saranno adempiute a turno, da tutti, diverranno poi un’abitudine e finalmente scompariranno in quanto funzioni speciali di una speciale categoria di persone». E continua: «Una volta abbattuti i capitalisti, spezzata con la mano di ferro degli operai armati la resistenza di questi sfruttatori, demolita la macchina burocratica dello Stato attuale (sottolineature nostre, NdR), avremo davanti a noi un meccanismo mirabilmente attrezzato dal punto di vista tecnico, sbarazzato dal “parassita”, e che i lavoratori uniti possono essi stessi benissimo far funzionare assumendo tecnici, sorveglianti, contabili e pagando il lavoro di tutti costoro, come quelli di tutti i funzionari “dello Stato” in generale, con un salario da operaio. E’ questo il compito concreto, pratico, immediatamente realizzabile nei confronti di tutti i trust e che libererà dallo sfruttamento i lavoratori, tenendo conto dell’esperienza praticamente iniziata (soprattutto nel campo dell’organizzazione dello Stato) dalla Comune».

Non sfugge certo a nessuno il fatto che Lenin si riferisce alla prima fase della dittatura del proletariato, alla prima fase del potere proletario instaurato e difeso con la forza armata dei proletari, e che in questa prima fase di transizione le classi sociali della società capitalistica non sono certo sparite, non solo nel paese in cui la rivoluzione proletaria ha vinto, ma anche nel resto del mondo; ciò significa che le misure dispotiche che il potere proletario prende fin da subito, anche sul piano economico, pur considerando i diversi gradi di sviluppo capitalistico, non potranno mai essere in grado di eliminare automaticamente il rapporto salariale esistente nel capitalismo, ma lo porteranno gradualmente ad “estinguersi” nella misura in cui la struttura economica si trasformerà dal modo di produzione capitalistico al modo di produzione socialista e, successivamente, in modo di produzione comunista. Che questa trasformazione non possa avvenire nei confini di un solo paese, per quanto sviluppato capitalisticamente esso sia, è, per il marxismo, un dato assodato; ed è un motivo per il quale la dittatura del proletariato, come nuova forma di potere statale (uno Stato non-Stato, per dirla con Lenin), può durare per molti anni prima di estendersi ad altri paesi in cui la rivoluzione proletaria ne esca vincitrice. In questo lungo periodo, ossia nella fase storica della dittatura proletaria, la guerra di classe del proletariato contro la classe borghese e le mezze classi piccoloborghesi continuerà e dovrà continuare sia nel paese in cui è stata instaurata, sia contro gli attacchi esterni, cogliendo tutte le occasioni che si presenteranno per sostenere ed aiutare concretamente (anche militarmente) la lotta rivoluzionaria del proletariato degli altri paesi. E’ d’altra parte indiscutibile, per noi, che quando parliamo di dittatura del proletariato esercitata dal partito comunista rivoluzionario, intendiamo dire che il partito che la esercita non è un partito nazionale, ma un partito internazionale – il famoso Partito Comunista Internazionale di cui parlava Zinoviev nel suo articolo che apparve nel bollettino del IV congresso dell’IC, 1922, nel quale , richiamando le difficoltà ancora da superare da parte dell’IC fondata da pochi anni, sottolinea il fatto che, nella pratica, l’IC ha corretto di anno in anno “la centralizzazione semplificata e ipertrofica” dovuta alle “tradizioni federaliste” più forti del previsto che la II Internazionale lasciò in eredità ai partiti proletari, e dichiara, sempre Zinoviev, che l’Esecutivo dell’IC “si avvia decisamente a divenire il Comitato Direttivo di un Partito Comunista Internazionale le cui ramificazioni si estendono su tutta la terra...” (3) – quindi un partito che non solo opera con una visione mondiale attraverso tutte le sue ramificazioni presenti nei diversi paesi, ma un partito che, proprio in virtù della sua visione mondiale della lotta di classe del proletariato, usa la forza del potere proletario conquistato nel dato paese per sostenere e sviluppare la lotta di classe rivoluzionaria in tutti gli altri paesi del mondo. Lenin, a proposito della situazione internazionale di fronte alla quale si trovava la dittatura proletaria in Russia dal 1917 in avanti – considerando non solo l’arretratezza economica della Russia e la necessità vitale di avere con le masse contadine “dei buoni rapporti” per poter resistere più a lungo nel tempo in attesa della rivoluzione comunista in Europa, ma anche il ritardo storico in cui si trovava il proletariato europeo, in particolare in Germania e in Francia, e soprattutto i suoi partiti di classe – nel suo Schema dell’opuscolo “Sull’imposta in natura”, del 1921 (4),  ponendosi l’alternativa per la quale la rivoluzione in Europa fosse finalmente giunta a compimento nell’arco temporale di 10-20, nel quale il potere bolscevico avrebbe avuto il compito rivoluzionario si resistere sebbene in una Russia economicamente arretrata, scrive: «10-20 anni di giusti rapporti coi contadini e la vittoria è assicurata su scala mondiale (anche con un ritardo delle rivoluzioni proletarie che maturano), altrimenti 20-40 anni di sofferenze col terrore delle guardie bianche»; e Trotsky, riprendendo la stessa linea di difesa del potere proletario, ribadisce il concetto allungando il periodo di necessaria resistenza, nel suo discorso alla XV Conferenza del partito borlscevico del 1926, in contrapposizione a Stalin, riteneva che il partito comunista rivoluzionario non dovesse abdicare visto il ritardo della rivoluzione comunista in Europa: «Lenin riteneva che in vent’anni noi non avremmo in nessun modo potuto costruire il socialismo; data l’artretratezza del nostro paese, non lo costruiremo neppure in trent’anni. Mettiamo 30-50 anni come minimo» (5).

Ma tornando alla questione delle “fasi” di transizione dalla società capitalista alla società socialista, vale la pena soffermarsi sui alcuni passaggi dalla nostra “Struttura”.

Da Lenin viene citato questo passo: «L’espressione Repubblica Socialista Sovietica significa la decisione del potere sovietico di realizzare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto il riconoscimento che siano socialisti gli attuali ordinamenti economici» (6). I corsivi sono nostri. Il testo della “Struttura” commenta così (7): «In questo testo vi è la parola abusatissima passaggio. (...) Ma vi è anche la risposta alla domanda sul significato della parola “passaggio”. Esso non è che la Repubblica Sovietica nei suoi confini potrà darci la società socialista integrale (...) Esso è ben altro: “che in quel dato regime vi sono elementi, particelle, frammenti e di capitalismo e di socialismo”». E nel testo si mette immediatamente in chiaro che non si sta parlando soltanto dell’arretrata Russia: «Si tratta, come dall’espressione “in quel dato regime”, di un teorema generale e non russo. Non abbiamo mancato di notare come una volta ancora, in questo classico scritto sull’Imposta in natura (1921), Lenin premetta che affronta il problema “non dal punto di vista della sua ‘attualità’, ma come una questione generale di principio”. Le virgolette alla abusata parola “attualità” sono sue, e sanno di sprezzo».

Sappiamo bene che l’aggettivo socialista, o comunista, è stato utilizzato nel modo più osceno dall’opportunismo staliniano e socialdemocratico per stravolgere i veri concetti del marxismo, nella sua teoria, nel suo programma, nei suoi concetti e nelle sue proposizioni. Ma per quanto si siano dati da fare gli opportunisti, il marxismo prima o poi riemerge sempre nella sua autenticità. Alla scuola dei grandi rivoluzionari, come Lenin, vero sterminatore dell’opportunismo, o Bordiga, che continuò l’opera di Lenin dopo la sua morte, rimettiamo in chiaro l’uso di questi aggettivi:  Il partito e lo Stato, «si aggettivano con lo stesso criterio, ossia col criterio della decisione a lottare per il passaggio della società economica al socialismo. La “Repubblica Sovietica” [precisiamo, quella in Russia del 1917-1926, NdR] ed in generale lo Stato della dittatura di classe si chiamano socialisti appunto in quanto agiscono temporaneamente (al passo storico) in una società economicamente non socialista, in una società mista di diverse “fasi” storiche. Nella società economicamente tutta socialista, e quindi comunista [potremmo dire, per riprendere Marx ed Engels, comunista inferiore, NdR], non vi sono classi, non vi è lo Stato di classe, e quindi non vi è Repubblica di sorta.  Meritevole di riflessione è la questione del Partito. Spentosi lo Stato, non lo potremo chiamare più partito di classe; e dal momento che lo stadio della dittatura ha abolito per sempre tutti gli altri partiti, nemmeno è esatto chiamarlo partito, perché tale vocabolo viene da parte, e una parte suppone che ve ne sia almeno un’altra. Questo nostro abbicì teoretico, cui occorre ad ogni tratto rifarsi, diventa una palinodia imbecille se lo si impianta sulla base assurda delle “vie nazionali” al socialismo. Lo Stato e il Partito di un paese, socialisti per decisione e non per strombazzata conquista di “realizzati ordinamenti”, saranno forze di classe fino a che, entro altre frontiere del mondo capitalista sviluppato, vi saranno Stati e partiti nemici» (8).

Dunque, fino a quando la rivoluzione proletaria non ha vinto a livello internazionale e fino a quando il potere proletario, quindi la dittatura del proletariato esercitata dal partito di classe, non avrà sterminato la resistenza degli Stati di classe e dei partiti di classe nemici, e terminato il suo compito di trasformazione della società economica da società capitalista in società socialista, non potremo parlare di società tutta socialista, quindi di società comunista. La transizione dal capitalismo al socialismo procederà necessariamente per fasi, per avanzate e rinculi, dato che le classi borghesi non cederanno mai pacificamente il potere, ma tenteranno sempre, basandosi sui punti di forza ancora non abbattuti dalla rivoluzione proletaria, di riprendere il controllo del potere perduto.

«Lo Stato di classe – continuando dalla “Struttura” – è per “attualità” e non per “decisione”, nazionale. Il Partito di classe è internazionale [sottolineature nostre, NdR] o non è. Il Partito si chiama comunista, e lo Stato anche (in questo campo, socialista vale comunista) perché entrambi lo sono in funzione di principi come di finalità, ed oltre e fuori l’“attualità” dello stadio della mondiale lotta di classe» (9).

Lo Stato, questa forza particolare della classe dominante, una volta che la trasformazione economica e sociale della società è completata, come affermato da Marx ed Engels e ribadito da tutti i marxisti autentici, si estingue: non ci sarà più bisogno che il proletariato in quanto classe dominante combatta contro le altre classi nemiche, poiché eliminati gli elementi costituenti la società capitalistica: la proprietà privata, l’appropriazione privata della produzione e della distribuzione, il regime salariale, il mercato, il denaro, saranno scomparsi gli interessi antagonistici che caratterizzavano le società divise in classi; la società sarà diventata socialista, quindi comunista, ossia una società di specie. Gli uomini si saranno abituati ad una vita sociale sintetizzata nel famosissimo motto: da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni. Ma la società comunista è una società organizzata razionalmente, che sa utilizzare nel modo più proficuo per l’intera comunità umana le forze produttive e le risorse naturali, e sa armonizzare la vita sociale della comunità umana con la natura. Ma tale nuova organizzazione sociale non sarà un prodotto che nasce spontaneamente e che va semplicemente raccolto, ma sarà coordinata da un “cervello” sociale, da una “coscienza sociale”, che saprà amministrare la produzione e la distribuzione mondiale secondo i bisogni presenti e futuri della comunità umana liberati completamente dal peso degli interessi di classe e, perciò, da ogni antagonismo sociale.

«Quando la guerra internazionale di classe sarà vinta – aggiungiamo questo illuminante passo della “Struttura” nella lunga parentesi che abbiamo aperto sulla questione dello Stato e del Partito – e gli Stati si estingueranno, non si estinguerà il Partito, che nacque con la classe proletaria e con la sua dottrina. Forse in quel lontano tempo non si chiamerà più partito, ma vivrà come l’organo unico, il “cervello” di una società libera da forze di classe. In questo solo senso la nostra dottrina usa, fin da Marx e da Engels la parola libertà; senso collettivo e sociale, non mai individuale, morale, personale, mistico e, secondo la formula ultima di sapore clerico-scettico-ateo: dignitario. Dignità suppone indegnità, e indica una società di classe, di forza e di forca» (10).

Ma vogliamo tornare ancora a Lenin, e alla trattazione della differenza tra Stato borghese e Stato proletario, chiarendo un altro importante aspetto del passaggio dal capitalismo al socialismo.

«Bisogna ben comprendere il significato della differenza economica fra Stato sovietico e Stato borghese», così Lenin sempre nel suo scritto sull’Imposta in natura. «Lo Stato borghese e quello sovietico sono entrambi organi politici. – così si precisa nella “Struttura” – Ma qui Lenin non si chiede quale sia la loro natura, se politica od economica, ma quale sia la loro differenza. La differenza politica è abissale, perché le loro “decisioni” sono diametralmente opposte: lo Stato borghese esprime la decisione di conservare il capitalismo più a lungo possibile nella storia, lo Stato proletario quella opposta di accelerarne la distruzione. Questa differenza è totale, non frazionabile, non raggiungibile per parti, non tagliabile a fettine. Perciò siamo, e non è per noi termine di offesa, totalitari. Nella questione del potere gioca il tutto o nulla, l’aut aut più inesorabile, sempre, ovunque. Qui è il tutto Marx, rivendicato dal tutto Lenin», e rivendicato dal tutto Bordiga. «Ma la differenza economica? Lenin stabilisce questo: grossa coglioneria rispondere: La differenza è che nello Stato borghese tutto è economia capitalista, nello Stato proletario tutto è economia socialista! (...) La risposta marxista (...) è questa: La differenza è variabile, può essere grande, piccola o perfino nulla. La differenza economica, perché, specie all’inizio storico del periodo dittatoriale, per lungo tempo (...) si è in un ambiente spartito in “fasi” evolventi, eterogee» (11).

E ancora una volta, nello scritto sull’Imposta in natura, Lenin sottolinea gli aspetti del problema con valore non solo per la Russia nell’epoca della rivoluzione proletaria, ma di principio e universale. Il “nodo della questione”?, «analizzare qual è esattamente la natura del passaggio dal capitalismo al socialismo» e che cosa «ci dà il diritto e il motivo di chiamarci Repubblica Socialista Sovietica». La questione è dialettica, ossia quali sono i diversi titpi di forme economico-sociali presenti all’epoca in Russia. Tutti ricordiamo la scala indicata da Lenin: 1) l’economia patriarcale, cioè in larga misura economia naturale e contadina; 2) la piccola produzione mercantile (comprendente la maggioranza dei contadini, che vendono il grano); 3) il capitalismo privato; 4) il capitalismo di Stato; 5) il socialismo. Sappiamo che il marxismo contempla tutti i tipi delle “forme di produzione” esistiti nelle diverse società che si sono susseguite nella storia umana; ma Lenin non li cita tutti quanti, e infatti non cita il comunismo primitivo, lo schiavismo, il feudalesimo, perché sono tipi di forme produttive non più presenti in Russia. Nella nostra “Struttura” si ricorda che Marx (nella Prefazione del 1859 alla Critica dell’Economia politica) ricorda quattro forme: il modo di produzione asiatico, quello antico, il feudale, ed il moderno o borghese; e si precisa che «tale è l’elenco delle “epoche che marcano il progresso della formazione economica della società”, ed è quello che esaurisce “le forme antagonistiche del processo di produzione sociale” di cui la forma borghese è l’ultima e con essa “si chiude la preistoria della società umana”» (12).

La serie quaternaria di Marx esclude in effetti due forme, la forma di partenza, il comunismo primitivo e barbaro, in cui l’assenza di antagonismi era dovuta alla debolezza dell’individuo isolato (non vi è ancora antagonismo di classe, non vi è minoranza economicamente sfruttatrice di altrui lavoro e non vi è Stato), e la forma che esce dalla preistoria della società umana, il socialismo che, invece, strappa sia la socializzazione dei mezzi di produzione che la produzione stessa dalle mani della proprietà privata e dell’appropriazione privata, caratteristiche dell’epoca borghese. Di fatto, quindi, i grandi tipi di “forme della produzione” possono essere considerati sei, ma ciò non esclude la presenza in molte situazioni storiche e geografiche di tipi misti, ma minori, che possono essere durati anche molto tempo, e durare ancora all’ombra dei grandi tipi di forme produttive, ma impotenti ad imprimere alla società una caratteristica determinata. Ebbene, nella nostra “Struttura” si insiste su questi punti perché si intende leggere Lenin non tanto per la sua analisi della Russia dell’epoca, dunque non da un punto di vista “nazionale”, ma per i punti di teoria che in quell’analisi sono messi in evidenza e servivano, e serviranno, per la rivoluzione proletaria nei paesi a capitalismo sviluppato. «La classica scala a cinque gradini delle forme russe – riprende più avanti la “Struttura” – patriarcalismo; piccola economia contadina mercantile; capitalismo privato; capitalismo di Stato; socialismo; non è una scala storica, perché le forme fondamentali quali il feudalismo, lo schiavismo e il comunismo primitivo non vi figurano, ma una scala di forme conviventi all’epoca della conquista del potere da parte dei bolscevichi» (13). E già questo ci dice che all’epoca, ma anche successivamente, da marxisti era necessario puntare l’attenzione sulle forme di produzione effettivamente conviventi e non fermarsi ad un elenco formale dei grandi tipi di forme di produzione in una loro successione storica separata: dialettica contro logica formale! E sappiamo che la piccola economia contadina era, in Russia, ma anche in Cina e in tutti i paesi dell’Asia, ed anche in Africa, la forma di produzione preponderante all’epoca, e che il compito sul terreno economico che spettava al potere socialista era quello di facilitare in più possibile il passaggio dall’economia minuta al capitalismo privato e al capitalismo di Stato, perché è lo sviluppo economico del capitalismo (con la sua grande industria) che pone le basi per il socialismo; perciò questa prospettiva funzionava nell’interesse della rivoluzione e del futuro abbattimento dello stesso capitalismo.

Non è difficile per noi, in quanto continuatori della corrente della Sinistra comunista d’Italia, «notare che la sinistra comunista italiana, ed in quegli anni tutto il giovane partito comunista d’Italia, dette prova che allora – ed oggi – non giurava nelle parole di Lenin per il similare errore di adorazione di un uomo ma contestò tutte le sue tesi centrali quando si trattò di governare non l’evoluzione economica russa ma la preparazione politica rivoluzionaria del proletariato mondiale, sconfessando tutta la manovra di accostamento ai partiti operai opportunisti, e sostenendo che non sarebbe valsa a disperderli. La dialettica non è a sua volta semplicismo coltivatore di formali paradossi: indietreggiare nelle misure statali in campo economico dopo la conquista del potere [come avvenne in Russia passando dalla fase del “comunismo di guerra” alla NEP, NdR] significò evitare il disastro e salvare la rivoluzione: indietreggiare prima della conquista del potere ma con alto grado delle forze produttive e di quella speciale che è l’esperienza raggiunta dalla classe proletaria, per agganciare masse controllate dalla politica opportunista, condusse al disastro della rivoluzione europea. Ma tutta la dimostrazione di Lenin sul corso economico-sociale in Russia, che sollevò dubbi non solo tra i compagni russi, ma – guarda un poco – proprio tra gli elementi deteriori accolti con troppa larghezza nelle nostre file, fu subito non solo accettata dalla sinistra italiana, ma, in quanto anche questa derivata da antiche tradizioni marxiste, trovata evidente e per nulla nuova» (14).

(2 - continua)

 


 

(1) Queste parole sono state scritte non da un rivoluzionario, ma da un intellettuale borghese costretto dai fatti a denunciare “l’eterno cinismo italiano” rispetto alle costanti tragedie che segnano la storia dell’Italia borghese; vedi articolo di M. Serra, “il Venerdì”, 3 febbraio 2017 (Sui nostri poveri Appennini l’ombra dell’eterno cinismo italiano).

(2) Vedi, in particolare, il resoconto della RG di Milano del gennaio 2015 – La rivoluzione proletaria è internazionale e internazionale sarà la trasformazione socialista dell’economia – iniziato nel nr. 139 de “il comunista”.

(3) Vedi su “il programma comunista”, n.1/1965, in occasione del cambio del nome del partito da “partito comunista internazionalista” a “partito comunista internazionale”: Primi risultati dei contributi giunti da tutto il Partito per l’elaborazione delle tesi definitive sulla sua organizzazione.

(4) Cfr. Lenin, Schema dell’opuscolo “Sull’imposta in natura”, fine marzo/inizio aprile 1921, in Opere, vol. 32, p. 303. Vedi anche La Russia nella grande rivoluzione, in “Struttura economica e sociale della Russia d’oggi”, p. 698.

(5) Cfr. La Russia nella grande rivoluzione, in “Struttura economica e sociale della Russia d’oggi”, p. 697. Il discorso di Trotsky fu ripreso dalla citazione che ne fece Stalin, nella sua critica nel 1926,a proposito della prospettiva della rivoluzione proletaria. Vedi Stalin, Opere complete, IX, pp 53-54.

(6) Vedi Lenin, Sull’imposta in natura, Opere, vol. 32, p. 310.

(7) Cfr. Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, capitolo 82, La società di “fasi”, pp. 422-423.

(8) Ibidem, pp. 423-424.

(9) Ibidem, p. 424.

(10) Ibidem, p. 424.

(11) Ibidem, p. 424-425.

(12) Ibidem, p. 426-427.

(13) Ibidem, p. 442-443.

(14) Ibidem, p. 443. Va ricordato che toccò ad Amadeo Bordiga spiegare il senso della NEP ai comunisti francesi riuniti nel Congresso di Marsiglia, 24-30 dicembre 1921, come delegato della Terza Internazionale. Cfr. il testo del discorso nei nr. 24 e 25 (anno II) di “Rassegna Comunista”. Quanto al pieno riconoscimento della NEP da parte del PCd’I, cfr. La rivoluzione russa ne “Il Soviet” del 24 dicembre 1921.

 

 

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