L’America di Trump mostra i muscoli

(«il comunista»; N° 148;  Aprile 2017)

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Il disordine mondiale, con il quale le potenze imperialiste si sono trovate a dover fare i conti – dal crollo dell’impero russo nel 1989-91 ad una continua successione di guerre locali e regionali da cui ogni potenza imperialista cercava di trarre il maggior beneficio per i propri interessi – non è che il nuovo stato di salute dell’imperialismo.

Le contraddizioni della società borghese, su ogni piano, economico, politico, sociale, finanziario, culturale e, naturalmente, militare, stanno esplodendo da tempo con frequenza sempre più ravvicinata, nel tempo e nello spazio. L’imperialismo, ossia la politica di rapina e di brigantaggio che ogni paese capitalista avanzato attua per accaparrarsi e controllare, nel mondo, porzioni di mercato e di territori economici, non è mai riuscito, e non riuscirà mai, a “risolvere” le contraddizioni della società capitalistica se non portandole al livello dello scontro mondiale tra le potenze che si dividono il mondo in zone di influenza e di colonizzazione. La prima guerra mondiale del 1914-1918 e la seconda guerra mondiale del 1939-1945 ne sono una dimostrazione, sia nel senso che attraverso di esse le potenze imperialiste hanno ridisegnato l’ordine mondiale, sia nel senso che il nuovo ordine mondiale appena stabilito attraverso la vittoria militare si portava appresso i germi del nuovo disordine mondiale. La borghesia di un paese lotta da sempre, costantemente, contro le borghesie concorrenti e avversarie degli altri paesi; e più si sviluppa l’economia capitalistica, più la borghesia nazionale che ne rappresenta gli interessi e ne gode tutti i benefici e i privilegi economici, politici e sociali, si fa agguerrita, vorace, insaziabile.

La concorrenza economica e finanziaria sul mercato mondiale alza inevitabilmente, ad un certo punto dello sviluppo capitalistico, il livello dello scontro: i concorrenti più forti, più organizzati, più aggressivi tendono a spartirsi il mercato in zone di influenza e di controllo. Ma lo sviluppo capitalistico e lo sviluppo delle sue contraddizioni creano nel tempo altri attori che entrano nel mercato diventando a loro volta dei concorrenti, minori in termini di forza economica e finanziaria, ma importanti dal punto di vista “strategico”, grazie alle loro risorse naturali, alla loro posizione geografica, alla loro attività politico-militare nelle regioni di appartenenza.

Il quadro internazionale che si presentava dalla metà dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento, con il mondo diviso all’ingrosso tra le potenze coloniali europee, padrone del mondo, fra le quali primeggiava l’Inghilterra, dopo la prima, e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, è cambiato del tutto. Alla decadenza delle potenze coloniali di un tempo ha fatto da contraltare l’emergere di nuove potenze imperialiste: Stati Uniti d’America e Russia, grandi vincitori della seconda guerra mondiale, che si sono spartiti il mondo in due grandi zone d’influenza – l’Occidente euroamericano (da cui dipesero l’Europa occidentale, il continente africano, l’America Latina, il Medio Oriente e una parte non piccola dell’Estremo Oriente) e l’Oriente eurorusso (da cui dipesero l’Europa orientale, la Cina e parte dell’Indocina) –al cui interno permaneva il posto per la continuità “coloniale” dei più vecchi paesi colonialisti, Inghilterra e Francia in particolare. Ed è grazie all’esperienza storica di queste due grandi potenze coloniali che in alcune grandi regioni del mondo, come il Vicino e Medio Oriente, i confini sono stati imposti e ridisegnati seguendo gli interessi di rapina e di brigantaggio di Londra, Parigi, Washington.

Ma dalla grande crisi capitalistica mondiale del 1973-75, che non diede luogo a una una terza guerra mondiale per la combinazione di una serie di fattori economici e politico-militari che ne allontanarono nel tempo la maturazione, emerse comunque un quadro internazionale in cui le grandi potenze imperialiste si confrontavano più per i loro punti di debolezza che per i loro punti di forza. La guerra in Vietnam che l’America ha perso, la sequenza interminabile di guerre di liberazione nazionale delle colonie in Africa e in Estremo Oriente, i paesi del Medio Oriente (strategici per il petrolio) costantemente scossi da guerre locali e intestine, una Germania e un Giappone, militarmente debolissimi, ma risaliti nella classifica delle potenze economiche mondiali a tal punto da rappresentare non solo concorrenti agguerriti a livello mondiale, ma anche, nello stesso tempo, mercati vitali per le merci americane; e una Russia, alle prese con uno sviluppo capitalistico interno che aveva ancora estremo bisogno dello sfruttamento quasi monopolistico dei satelliti euro-orientali, e per nulla propensa a scontrarsi militarmente con gli Stati Uniti verso i quali poteva bastare ancora l’equilibrio del terrore determinato dagli armamenti atomici. A dimostrazione che non tutte le crisi internazionali di gravità notevole – come fu la guerra di Corea nel 1950, o la guerra in Iraq nel 1991 – sboccano in una guerra mondiale. Ciò non toglie che ogni crisi, regionale o internazionale, non fa che accumulare fattori di scontro sempre più acuti e “irresolvibili”, se non con lo scontro militare aperto.

Dal periodo detto dell’equilibrio del terrore, lo sviluppo dell’imperialismo è passato ad un periodo in cui il vecchio equilibrio mondiale, dovuto a quella specie di condominio russo-americano che “governò” il mondo per un trentennio dopo la fine della seconda guerra mondiale, non è stato più accettabile da parte di nessuna potenza imperialistica; ma nessuna potenza imperialistica attuale è in grado, oggi, di dettare l’agenda mondiale dei reciproci rapporti. E’ questo uno dei motivi per i quali ogni potenza imperialistica tende a mascherare i propri interessi con gli interessi locali di tale o tal altro paese, non rinunciando però a intervenire – come in Libia – quando questo tipo di intervento non può essere utilizzato dalle potenze imperialistiche come una “dichiarazione di guerra reciproca”.

Ed è quel che succede da più di cinque anni in Siria, paese che avrebbe dovuto vedere la caduta di Bashar al-Asad da tempo, grazie soprattutto alle pressioni diplomatiche, economiche e militari degli Stati Uniti, cosa che non è avvenuta.

La popolazione siriana, in questi cinque anni, ha subito ogni tipo di violenza, di umiliazione di brutalità, da parte di tutte le forze belligeranti: dagli attacchi dell'esercito cosiddetto regolare di Asad, delle diverse milizie ribelli, delle forze militari dell’Isis, ai bombardamenti dei russi, degli americani, dei turchi e di tutti gli alleati degli Stati Uniti. Indiscutibilmente l’esercito di Asad si è macchiato di ogni genere di violenza contro il suo stesso popolo, ma non sono state da meno le altre forze militari presenti sul terreno o comunque agenti in Siria.

La Siria, molto più della Libia, rappresenta un nodo strategico per le potenze imperialiste: per la Russia, grazie alle uniche basi aeree e portuali che ha e che si affacciano sul Mediterraneo, e dalle quali sono possibili azioni di pressione e di azione militare in tutta l’area mediterranea e in tutta l’area mediorientale; per le potenze europee, e in particolare la Francia, che ha una tradizione imperialistica molto radicata in Siria; per gli Stati Uniti, che dal punto di vista del controllo imperialistico del Medio Oriente non possono permettersi di perderlo a favore di una Russia che sta riguadagnando posizioni a discapito dell’Alleanza Atlantica, e quindi in primo luogo a discapito degli Stati Uniti; per l’Iran, novella potenza regionale che ha trovato fortunosamente un nuovo alleato nella Russia di Putin, e che ha tutto l’interesse di impedire a Israele di radicare la propria influenza nella zona,ed anche all’Arabia Saudita, unico paese in cui l’affinità religiosa sciita può essere utilizzata a favore dei propri interessi di potenza regionale.

L’attacco con agenti chimici (sembra gas sarin) del 4 aprile da parte dell’aviazione di Asad nella cittadina siriana di Idlib (villaggio di Khan Sheikhoun), nella zona di Homs, controllata dai ribelli, che ha fatto un’ottantina di morti – così affermano i media locali –, è stato il pretesto che Trump ha utilizzato per far sparare i suoi missili dalle portaerei presenti in zona. I 59 missili Tomahawk lanciati contro la seconda base aerea siriana, Shayrat, di cui solo 23 sono andati a segno, hanno in realtà fatto ben pochi danni: hanno colpito qualche mig e hanno fatto 5 morti e 7 feriti (secondo il governatore di Homs). Di fatto, il giorno dopo, dalla stessa base sono ripartiti gli aerei siriani per altre operazioni militari. Dunque, la “seria risposta” americana (secondo le dichiarazioni ipocrite di Trump: contro “civili inermi”, tra cui “bambini bellissimi uccisi brutalmente. Nessun figlio di Dio dovrebbe soffrire un simile orrore”) (1), ha avuto solo un effetto propagandistico, visto che la base, avvertita dai russi, a loro volta preavvertiti dagli americani, era stata preventivamente evacuata.

Di fronte agli innumerevoli massacri subiti dalla popolazione siriana, a che serve questo atto propagandistico di Trump? Ha voluto far vedere al presidente cinese XiJinping, presente ad un summit con Trump proprio quel giorno, che “l’America non scherza?”, avvertendolo che sarebbe suo interesse togliere la protezione alla Corea del Nord e lasciare che gli Stati Uniti “se la vedano direttamente con Pyongyang”? Ha voluto rintuzzare la Russia, grande protettrice di Bashar al-Asad, ed avvisarla di non bombardare più le posizioni dei ribelli che sono sostenuti dagli Stati Uniti? Ha voluto dare un avviso anche alla Turchia, che si stava avvicinando alla Russia allontanandosi dagli Stati Uniti, sottolineando che essa fa parte della Nato e perciò non può fare il doppio gioco? Ha voluto dare ai propri generali l’idea che le portaerei americane presenti nel Mediterraneo non sono soltanto di “guardia” ma possono “agire”? Ha voluto dare l’impressione ai propri elettori che il nuovo presidente americano non si occupa soltanto di miniere di carbone e di “Obama care” ma anche di politica estera? Probabilmente tutte queste cose insieme, anche se è evidente a tutte le cancellerie del mondo che gli Stati Uniti non riescono ad uscire dall’impasse in cui si trovano in Siria (e non solo, vista la situazione in Iraq o in Libia), e che il presidente Trump non ha alcuna “nuova” politica estera da perseguire, se non quella che già era di Obama e che gli viene dettata, di volta in volta, dalle diverse lobby che lo tengono in pugno.

Ciò detto, è indubbio che ora l’America comincia a mostrare i muscoli, ovviamente in difesa dei suoi interessi nazionali!

D’altra parte, la Siria è diventata il teatro in cui le potenze imperialistiche maggiori e le potenze regionali giocano ognuna la propria partita, ognuna con l’obiettivo di strappare una parte del bottino rappresentato dal suo territorio e, con l’occasione, mettere le mani anche su una parte dell’Iraq, già oggi suddiviso in diverse zone che vedono a nord i curdi (che in Siria sono sostenuti dagli americani), non ostacolati dagli occidentali ma combattuti dalla Turchia che si vuole riprendere Mosul, al centro i sunniti sostenuti dalla coalizione occidentale e al sud gli sciiti sostenuti dall’Iran. Russia, Turchia, Iran sono le potenze che si stanno contendendo pezzi di Siria, e contro le loro iniziative gli Stati Uniti tentano di porre un freno e di partecipare alla divisione della “torta”.

Sta di fatto che la popolazione siriana, come non ha nulla di buono da attendersi da Bashar al-Asad, dalla Russia e dall’Iran, non ha nulla di buono da attendersi nemmeno dalle milizie ribelli o dagli Stati Uniti e dai suoi alleati occidentali, e men che meno dai miliziani dell’Isis. In questa guerra la popolazione siriana è la vittima sacrificale, massacrata in patria e umiliata nell’emigrazione; e purtroppo non può nemmeno contare su un movimento operaio minimamente organizzato e indirizzato a combattere la propria lotta contro tutti i belligeranti, perché è stato prima deviato e intossicato di democrazia per anni dalle forze staliniste e poi distrutto dal nazionalismo e dal confessionalismo.

Quel che potrebbe dare ai proletari siriani una speranza nel domani, è l’incontro nell’emigrazione con proletari classisti e rivoluzionari, allenati a resistere alle illusioni della democrazia borghese e al nazionalismo, e tenacemente aggrappati alle esperienze rivoluzionarie del passato – non quelle resistenziali e antifasciste, che non hanno fatto altro che riaprire le porte alla conservazione borghese – ma a quelle dei proletari russi, tedeschi, italiani, serbi che durante e dopo la prima guerra mondiale marciarono contro tutti i briganti imperialisti in direzione della rivoluzione socialista, che non poteva e non può essere che anticapitalistica e antiborghese.

10 aprile 2017


 

(1) www.askanews.it/esteri/2017/04/07

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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