Di nuovo America e Corea?

(«il comunista»; N° 150; Settembre 2017)

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La penisola coreana è nuovamente al centro di un potenziale focolaio di guerra nel quale gli imperialismi più forti al mondo incrociano i reciproci interessi in uno scontro che tende a caratterizzarsi non solo attraverso un vecchio antagonismo di tipo politico-ideologico, ma un antagonismo politico-militare in una zona che, in 67 anni, ha visto crescere, nei contrasti interimperialisti successivi alla fine della seconda guerra mondiale, l’aggressività economica (e politica, ovviamente e, in prospettiva, militare) di altre potenze imperialiste, come la Cina e il Giappone, che nel 1950, l’una per uno sviluppo capitalistico non ancora prorompente e l’altro per una sudditanza inevitabile dagli USA a causa della sconfitta nella guerra, non potevano incidere nello scacchiere mondiale.

Oggi, la zona che comprende il Mar del Giappone su cui si affacciano la Russia estremo-orientale, il Giappone, la Corea del Nord e la Corea del Sud, e, a sud, il Mar Cinese orientale su cui si affaccia la Cina, collegato con Mar del Giappone dallo stretto di Corea, è una zona che negli ultimi decenni è diventata enormemente importante sia come via commerciale sia per i giacimenti in mare di petrolio e di gas, risorse naturali di cui sono affamati tutti i paesi rivieraschi; una zona, perciò, destinata a ridiventare una turbolenta zona delle tempeste. A causa dei contrasti esistenti da tempo - fra Giappone e Russia per le isole Curili, a nord del Giappone; fra Cina e Taiwan, nel Mar Cinese, per il fatto che Pechino considera Taiwan la 23° provincia cinese; fra Cina, Taiwan e Giappone per le isole Senkaku/Diaoyu, a nord di Taiwan, rivendicate da ognuno dei tre; fra Corea del Sud e Giappone per le isole Dokdo/Takeshima - questa zona è nuovamente in cima alla lista dei pericoli di scontri militari per il contrasto che la Corea del Nord ha creatoandando a toccare gli interessi imperialistici degli Stati Uniti e la loro presenza-influenza nel Pacifico.

La contesa attuale riguarda il programma nucleare che la Corea del Nord, nonostante le promesse fatte una decina d’anni fa rispetto alla “non proliferazione delle armi nucleari”, sta portando avanti con impegno e con un certo successo dal punto di vista tecnologico, come i recenti test sembrano dimostrare. Contro questo programma nucleare, le altre potenze nucleari, ma soprattutto quelle occidentali a partire dagli Stati Uniti, hanno alzato i toni – visto che non erano riuscite a far mantenere alla Corea del Nord quelle promesse – e hanno trovato nel presidente americano Trump uno che grida e minaccia più di tutti, come se l’originale spirito colonialista della borghesia americana che si impossessò tra il Settecento e l’Ottocento dei vasti territori abitati dalle popolazioni indiane (massacrandole, naturalmente), riemergesse prepotentemente attraverso la tendenza, in verità mai sopita, «ad andare a predare colonialisticamente in casa altrui» (1). Ma dietro alla Corea del Nord c’è la Cina; dietro alla Corea del Sud ci sono gli USA: il contrasto è inevitabile.

 Gli Stati Uniti, nella guerra di Corea del 1950, non riuscirono a sottomettere totalmente la penisola coreana, dovendosi accontentare di spartirsi con l’allora seconda potenza nucleare mondiale, la Russia, il controllo della penisola –  il 38° parallelo divide la Corea del Nord sotto tutela russa, tutela poi passata alla Cina, e la Corea del Sud, sotto tutela americana. Per gli interessi imperialistici degli Stati Uniti non bastava tenere sotto controllo il Giappone per assicurarsi la supremazia nel Pacifico; la Russia che, con la Cina, allungava la sua di influenza nella penisola coreana, costituiva una notevole spina nel fianco per Washington. Se in Europa la suddivisione delle “zone di influenza” tra America e Russia, finita la guerra, era stata concordata, nel resto del mondo e, in particolare, in Asia e nell’Estremo Oriente, i “giochi”, di fatto, rimanevano aperti. Gli imperialismi, finito il secondo macello mondiale, non avevano per nulla soddisfatto la loro vorace spinta a sottrarsi reciprocamente, alleati del momento o nemici che fossero, territori economici su un pianeta che diventava sempre più “piccolo” per la fame di profitto dell’imperialismo.

Il conflitto scoppiato in Corea, nel giugno del 1950, scrivevamo nel giornale di partito di allora, «non è un fatto nuovo. In Germania, in Grecia, in Cina, in Indonesia, nel Vietnam, in Malesia, la pace democratica non è stata in realtà che il prolungamento di una guerra in cui mutavano appena, di volta in volta, i protagonisti» (2). Il “prolungamento di una guerra” che ha continuato il suo svolgimento in tutti i decenni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale e che non si ferma, come dimostra la guerra in Siria. «Né poteva essere diversamente. – continua l’articolo – A schiacciante conferma del marxismo, i fatti sono lì a dimostrare che la guerra è legata non all’esistenza di determinati regimi politici o di presunti istinti bellicosi di popoli o razze, ma alle leggi inesorabili di sviluppo del capitalismo».

Che alla presidenza degli Stati Uniti ci sia un Trump piuttosto che un Obama, un Truman, un Clinton o un Bush, sostanzialmente nulla cambia poiché sono le inesorabili leggi di sviluppo del capitalismo che spingono questi signori alla politica delle portaerei e dei missili nucleari. Come per Washington, così per Mosca, Pechino, Tokio, Seul o Pyongyang.  In tutti gli episodi bellici che si sono verificati dalla prima guerra mondiale in poi, mettevamo in evidenza che «l’urto non è tra forze nazionali contrapposte, ma fra i due centri mondiali dell’imperialismo, America e Russia, rispetto ai quali le nazioni minori non sono che miserabili e impotenti pedine». Che cosa è cambiato dal 1950? Sostanzialmente nulla, dato che sono sempre i centri mondiali dell’imperialismo che si contrappongono e che usano le nazioni minori come proprie pedine; il fatto che allora fossero due, America e Russia, mentre oggi si è aggiunto un “terzo incomodo”, la Cina, può complicare i rapporti tra imperialisti perché i territori economici di cui di volta in volta si tratta fanno gola a più potenze imperialistiche contemporaneamente, ma non fa che rafforzare, in generale, l’aggressività imperialistica di ognuno.

Per l’ennesima volta, in Corea, nel Mar Giallo e nel Mar Cinese, la posta in gioco non è la pace contro il pericolo di guerra, non è l’esistenza di una nazione contro la sua  distruzione, ma «la conservazione e il rafforzamento di posizioni imperialistiche» da parte dei blocchi imperialisti coinvolti e, «per conseguenza, del regime internazionale dell’imperialismo». Che, nel caso odierno, sia stata la Corea del Nord a “sfidare” le più grandi potenze imperialistiche col suo programma di sviluppo nucleare per giungere ad avere la bomba atomica e i missili per poterla lanciare a lunghissime distanze, non fa che dimostrare che la politica imperialista di una grande potenza – mettiamo la Cina – nel suo aspetto aggressivo, può essere adottata e portata avanti da una nazione minore, sua protetta – mettiamo la Corea del Nord –, mentre la grande potenza che ha importanti e decisivi rapporti economico-finanziari con le altre potenze imperialistiche – sempre la Cina – continua a mantenere con esse rapporti diplomatici “pacifici” arrivando anche a condividere pesanti sanzioni economiche nei confronti della sua protetta – sempre la Corea del Nord – pur di non superare il livello di tensione internazionale per il quale doversi sentire coinvolta in una guerra per la quale, al momento, non si sente pronta.

E, per l’ennesima volta, nelle terre martoriate d’Oriente, «l’imperialismo non prova soltanto le nuove armi distruttive uscite dagli arsenali della libertà e della pace democratica»; come al tempo della guerra di Spagna, delle guerre di Corea, del Vietnam fino a quelle del Golfo e di Siria, l’imperialismo «vi perfeziona quell’opera di frantumamento, di avvelenamento bellicista e partigianesco, di aggiogamento delle masse lavoratrici al suo carro sanguinoso, che è insieme premessa e obiettivo delle guerre imperialistiche».

Va di pari passo, infatti, la propaganda borghese che alla “minaccia di aggressione” risponde con la necessaria “contro-aggressione”. Degli esempi? Eccoli:

«Il mondo civile condanna l’attentato comunista alla pace... l’aggressione alla Corea del Sud», (Corriere della Sera, 27.6.1950).

«L’infame aggressione americana respinta eroicamente dal popolo di Corea», (l’Unità, 27.6.1950)

In ambedue i casi, la classe dominante borghese adotta, nei confronti del proprio proletariato, una politica che deriva da una lunga esperienza di potere: coinvolgere ideologicamente e praticamente il proprio proletariato affinché la successiva mobilitazione di guerra poggi non solo sull’obbligo costituzionale di “difendere la patria”, ma anche, perché sia più efficace, sulla collaborazione di classe. Nel 1950, quando la guerra di Corea veniva spiegata da Washington come la risposta all’aggressione militare della Corea del Nord, occupata dai russi, verso la Corea del Sud, occupata dagli americani, le organizzazioni politiche e sindacali dei diversi paesi, influenti sul proletariato, non fecero che riproporre il solito ritornello partigianesco della lotta contro “l’aggressore”, o “l’invasore”, ritornello che avevano usato per portare il proletari di ogni paese a difendere la “propria patria” nella seconda guerra mondiale. Il danno più grave fu fatto dallo stalinismo che, con la sua teoria massimamente opportunista del socialismo in un solo paese, aggiogò i proletari di tutto il mondo alle rispettive borghesie nazionali, mobilitandoli costantemente, di fronte ad ogni conflitto imperialista, a difesa della propria borghesia nazionale e a versare il proprio sangue per gli interessi borghesi e, in definitiva, per la conservazione e il rafforzamento dell’imperialismo nel mondo. Il partigianismo aveva funzionato nel secondo macello mondiale, piegando i proletari a sacrificare la vita e gli obiettivi di classe a favore del suo nemico principale, la borghesia dominante, e poteva funzionare anche in occasione della guerra di Corea e, soprattutto, se quella guerra avesse dato la stura ad un terzo conflitto mondiale, che però non venne. In ogni caso, la collaborazione di classe tra proletariato e borghesia è stata ed è l’arma vincente della borghesia dominante in ogni situazione, di pace o di guerra: lo sfruttamento massacrante delle masse proletarie viene così assicurato, per il bene dell’economia nazionale e delle economie aziendali, senza dover confrontarsi con la lotta di classe, e fa da base perché i proletari, in situazione di crisi capitalistica, o solo economica o di guerra, siano piegati a sacrifici ancor più pesanti, fino alla morte.

«La guerra si combatte materialmente in Corea; ma suo teatro è tutto il mondo. – continuava l’articolo citato – Se laggiù i proletari sono mobilitati in schieramenti militari di guerra, in tutti gli altri Paesi le forze dello Stato, i partiti della democrazia, le organizzazioni cosiddette di massa, agiscono come uffici di reclutamento e di mobilitazione politica e morale dei proletari in funzione dell’imperialismo e della guerra» (3).

Questo tipo di mobilitazione dei proletari è continuata di fronte ad ogni guerra che ha punteggiato il corso mondiale di sviluppo dell’imperialismo negli oltre settant’anni che ci dividono dalla fine della seconda guerra mondiale, ossia dall’epoca in cui i caporioni di tutti i paesi “vincitori” avevano promesso che si sarebbe aperto un periodo di pace e di prosperità per tutti i popoli... E ha riguardato, come è scritto nell’articolo riportato, sia paesi in guerra, sia tutti gli altri paesi. Come abbiamo sostenuto da sempre, ogni vittoria dell’imperialismo è una sconfitta della rivoluzione proletaria, ed è a questa sistematica sconfitta che lavorano da sempre gli opportunisti di tutte le risme, che collaborino apertamente o di nascosto con i poteri borghesi e imperialisti.

In questo lungo periodo non ci sono state soltanto guerre di rapina, guerre imperialiste nel senso proprio della parola, ma anche lotte armate anticoloniali, moti rivoluzionari borghesi che lottavano contro strutture economiche e politiche arcaiche e contro l’oppressione nazionale esercitata dalle potenze coloniali e imperialiste. Queste guerre civili, attraverso le quali molte colonie si sono liberate dagli oppressori stranieri – a partire dalla stessa Cina per toccare poi l’Indonesia, l’Algeria, il Congo, Cuba, il Vietnam, la Cambogia, l’Angola, il Mozambico ecc. – sono sempre state considerate da noi guerre progressiste, storicamente necessarie, verso le quali avere  una considerazione assolutamente  positiva per quel che riguardava i compiti nazional-borghesi rivoluzionari, ma per le quali avanzavamo una spietata critica allo stalinismo in quanto la sua politica borghese, conservatrice e imperialista, non solo non aiutò i proletari di quei paesi nella loro lotta di classe e negli obiettivi di classe e rivoluzionari, nettamente distinti da quelli borghesi e che avrebbero potuto sovrapporsi a questi ultimi (l’esempio russo del 1917 insegna), ma, in quanto espressione di una potenza imperialistica, portò a quei popoli un’ulteriore forma di oppressione economica e politica sia nei casi in cui vi esercitava un’influenza diretta sia negli altri casi in cui l’influenza veniva esercitata dagli altri paesi imperialisti ex colonialisti.

Assistiamo da più di settant’anni, e, se consideriamo la vittoria dello stalinismo sul movimento comunista internazionale, da più di novant’anni, ad un declino drammatico del movimento operaio mondiale sul terreno della sua stessa lotta di difesa immediata. Non solo gli è stata distrutta la sua guida teorica e politica (in ogni paese il partito comunista rivoluzionario e, a livello mondiale, l’Internazionale Comunista), ma gli è stata fatta terra bruciata anche sul piano delle organizzazioni sindacali, corrotte e comprate dai poteri borghesi. Le classi dominanti borghesi hanno così eliminato per molto tempo la possibilità che il proletariato, facendo forza su una sua organizzazione di classe, indipendente dalla classe borghese e dai suoi luogotenenti in seno al proletariato – come Lenin chiamava i capi operai venduti ai capitalisti – potesse riprendere il suo cammino storico e la sua lotta anticapitalistica. Inglobando le organizzazioni economiche proletarie nelle istituzioni statali e corrompendo fino al midollo, con il parlamentarismo e con il democratismo, i partiti politici che un tempo rappresentavano effettivamente gli interessi generali della classe proletaria e si organizzavano per guidare la lotta di classe e la sua rivoluzione, la borghesia dominante di ogni paese ha rimandato nel tempo ciò che lo sviluppo storico della sua stessa società ha stabilito come sbocco necessario e inevitabile: lo scontro finale tra gli interessi della classe proletaria e quelli della classe borghese, lo scoppio inevitabile degli antagonismi di classe generati non per “volontà” dell’una o dell’altra classe, ma dallo stesso modo di produzione capitalistico su cui si è eretta la società della proprietà privata e dell’appropriazione privata della ricchezza prodotta socialmente. La borghesia, sia la più forte del mondo - come quella degli Stati Uniti d’America - o quella concorrente sul mercato mondiale - come quella della Cina o della Russia -, sia quella dei vecchi capitalismi d’Europa o quella dei più giovani e rampanti paesi capitalistici che tentano di farsi largo nel mercato mondiale, non ha alternative storiche: dovrà, prima o poi, in conseguenza delle sue crisi economico-finanziarie e delle sue crisi di sovraproduzione che tendono ad ogni ciclo a piegarne la resistenza, vedersela con la classe che sfrutta selvaggiamente da sempre, con la classe dei senza riserve, con la classe dei moderni schiavi salariati, in una parola con la classe proletaria che, a sua volta spinta dallo stesso antagonismo sociale che la contrappone frontalmente alla borghesia, sarà obbligata ad accettare lo scontro totale con la classe dominante e con tutti i suoi sostenitori. Al proletariato la borghesia dominante, in periodi di forti crisi, tanto più se crisi di guerra, offre sempre una “scelta”: o stare dalla sua parte e collaborare con lei in difesa degli interessi del capitalismo nazionale, oppure opporsi e subire nell’immediato le conseguenze della repressione statale. D’altro canto, se il proletariato sta dalla parte della borghesia nazionale e versa il sangue in difesa della patria e del capitalismo nazionale, non può ricevere alcuna assicurazione di stare meglio dopo la crisi o dopo il conflittto, non può pensare di ottenere dei miglioramenti rispetto alle condizioni di esistenza e di lavoro precedenti, non solo perché la borghesia, anche se li promette non riesce a mantenerli se non per una loro piccolissima minoranza - che trasforma nella superconosciuta, fin dai tempi di Marx ed Engels, aristocrazia operaia -, ma anche perché lo stesso sistema economico che ha dato alla borghesia il dominio sulla società non è riformabile, non è adattabile alle esigenze della vita umana, in quanto sta in piedi solo ed esclusivamente rispettando le leggi del mercato, le leggi del profitto capitalistico, le leggi economiche capitalistiche che al cuore della società attuale mettono le esigenze del capitale e della sua valorizzazione e non i bisogni della specie umana e del suo vivere sociale. L’imperialismo ha la strada segnata: anche se i conflitti militari rimangono temporaneamente localizzati, come ieri in Corea e oggi in Siria o altrove (e domani forse di nuovo in Corea?), o si estendono in altri paesi, deve necessariamente seguire la legge della supremazia del più forte, ossia la legge determinata dai rapporti di forza tra le varie potenze imperialistiche in una lotta senza quartiere nella concorrenza internazionale, lotta nella quale nessun paese imperialista può fare a meno di cercare di coinvolgere il proprio proletariato soprattutto quando la parola passa dalla diplomazia di pace alla rottura diplomatica e alla guerra. Non va mai dimenticato che la guerra è, per ciascun paese, la continuazione della politica estera con altri mezzi, e specificamente con i mezzi di guerra!

«Fra guerra ed emancipazione della classe operaia – scrivevamo nell’articolo del 1950 – non solo non ci sono punti di contatto, ma c’è antitesi radicale; le vittorie militari di qualunque imperialismo [sottolineato da noi, NdR] sono per essa altrettante sconfitte» (4).

La classe operaia, di qualsiasi paese, sebbene la borghesia dominante le offra un futuro di incertezza, di disagio sociale, di miseria, di fame, di disoccupazione, di tormenti e di guerra, ha una via d’uscita ed è quella della lotta di classe rivoluzionaria per abbattere il potere borghese, per instaurare la sua dittatura di classe e per avviare la trasformazione della società, sotto ogni cielo, da società capitalista a società socialista e, infine, a società comunista, a società di specie. Questo cammino storico poteva essere il sogno della classe operaia dei primi dell’Ottocento, è diventato una possibilità concreta in Europa a metà Ottocento, si è concretizzato nella presa del potere e nel suo esercizio secondo la linea storica tracciata dal marxismo nel 1871 con la Comune di Parigi, è diventato una realtà nell’Ottobre 1917 con la rivoluzione comunista andando molto più in là della Comune parigina sulla strada del socialismo, ma, in assenza della vittoria rivoluzionaria del proletariato in Europa occidentale e, quindi, nei paesi a capitalismo stramaturo, non ebbe la possibilità di avanzare anche economicamente verso il socialismo. Il sogno si interruppe a causa delle forze dell’opportunismo che, unite alle forze imperialiste, riuscirono a strangolare la rivoluzione comunista in Russia e in Europa, quindi nel mondo, rimandando un appuntamento storico che le classi borghesi imperialiste non riusciranno mai a cancellare.

Certo, la classe proletaria deve sottrarsi all’influenza velenosa dell’opportunismo, deve rompere con la collaborazione di classe con la propria borghesia, deve rompere con i partiti che in suo nome “trattano” con i poteri borghesi, ma in realtà trattano la pelle degli operai a tutto vantaggio dei borghesi. I proletari devono e dovranno riconquistare il terreno della lotta di classe in esclusiva difesa dei loro interessi di classe perché su quel terreno, e solo su quel terreno, possono costituire la propria forza, possono trasformare la maggioranza numerica che costituiscono statisticamente all’interno della popolazione in una forza di classe, politica e rivoluzionaria. E’ esattamente di questo che gli imperialisti hanno paura, del fatto cioè che, a causa delle contraddizioni sempre più acute della loro società, i proletari riescano finalmente a ricollegarsi con la loro storica tradizione di lotta e a riannodare un legame di classe che permetterà loro di superare ogni divisione di categoria e di settore, ogni confine, ogni differenza di nazionalità e di razza. Ogni borghese sa che potrà continuare a dominare sulla società e ad aggiogare la classe operaia ai suoi interessi se i proletari continueranno ad essere divisi dalla concorrenza tra di loro, se invece di creare e rafforzare la solidarietà di classe fra proletari si crea e si rafforza la solidarietà nazionale, la solidarietà interclassista grazie alla quale la classe borghese ottiene contemporaneamente due vantaggi: sfrutta e opprime secondo le sue esigenze la classe proletaria, in ogni situazione – sia di prosperità che di crisi economica o di guerra – ottenendo i profitti capitalistici cercati, e impedisce al proletari di unirsi sul loro terreno di classe per combattere il nemico di classe, la borghesia appunto.

La classe operaia non aveva, non ha e non avrà mai nulla da difendere nell’attuale società, non ha mercati da conquistare né vittorie militari da augurare o da favorire; mettere il suo futuro, il suo destino nelle mani della borghesia significa rinunciare a priori non solo all’emancipazione dallo sfruttamento capitalistico e dalle sue conseguenze estreme fino ai massacri di guerra, ma anche alla semplice ed elementare lotta di difesa immediata, come mille e mille esempi in ogni paese stanno a dimostrare ogni giorno. La classe operaia deve trasformare ciò che appare il suo principale punto di debolezza in punto di forza: vive, magari male, ma vive solo se la sua forza-lavoro viene comprata da un capitalista che, contro lo sfruttamento della sua forza-lavoro, le dà un salario per comprare da mangiare, da vestire e un posto in cui abitare. Ma è proprio dal suo lavoro salariato che il capitalista trae un guadagno, un profitto, dunque un capitale che gli serve per continuare a mantenere in piedi il sistema capitalistico in generale, organizzazione statale e forze militari a sua difesa comprese. Senza lavoro salariato non esiste capitale, senza sfruttamento del lavoro salariato non vi è valorizzazione del capitale: il capitalismo ha bisogno della forza lavoro salariata come dell’aria per respirare. Ma la forza lavoro salariata, la classe operaia, non solo produce la ricchezza sociale di cui si appropria interamente la classe capitalistica, ma rappresenta l’enorme maggioranza della popolazione. In più, nel suo movimento storico, la classe operaia ha dimostrato di essere l’unica classe veramente rivoluzionaria in questa società e che lo sbocco storico verso il quale tutta la società sta andando è uno sbocco che dovrà farla finita con ogni divisione di classe, con ogni antagonismo di classe, mentre la società borghese, la società capitalistica, tanto più nella sua fase imperialista, si regge in piedi esclusivamente grazie all’antagonismo di classe, grazie alla divisione in classi della società, cioé continuando ad appropriarsi privatamente di tutta la ricchezza sociale prodotta e a sfruttare a questo scopo la stragrande maggioranza della popolazione mondiale.

Dalla Siria alla Corea i tamburi di guerra hanno ricominciato a suonare; che in Corea si arrivi davvero allo scontro militare, nonostante i muscoli mostrati da Pyongyang, da Washington e da Seul, non è così probabile. Ma tutto ciò serve per allenare le rispettive forze armate, per saggiare le risposte diplomatiche, economiche e militari di ciascuno dei contendenti, e in particolare per legare i rispettivi proletariati agli interessi nazionali in modo che, se guerra deve esserci, sia fatta dai proletari per conto della propria borghesia e sia fatta col minimo di opposizione interna ed esterna possibile.

L’interesse proletario, non solo dei proletari coreani del nord e del sud, ma anche di quelli americani, giapponesi, cinesi, russi e, in pratica, di tutti i paesi del mondo, non è mai stato e non è quello di finire come carne da cannone, ma quello di opporsi con tutte le forze alla mobilitazione di guerra, di rompere con le forze politiche che utilizzano gli argomenti della patria, dell’orgoglio nazionale, della lotta contro “l’aggressore”, per irreggimentare le masse proletarie a difesa degli interessi capitalistici; quello di mettere le proprie energie e le proprie forze al servizio della difesa esclusiva degli interessi proletari di classe, di lottare contro tutti i sostenitori di una patria che in realtà, in ogni paese, è la foglia di fico degli interessi della classe dominante borghese. Soltanto la ripresa della lotta di classe proletaria e il cammino verso la rivoluzione anticapitalistica e, perciò, comunista, rappresenta la effettiva via d’uscita per il proletariato di ogni paese, e per l’umanità intera. Ed è per questo obiettivo che, da comunisti rivoluzionari, lavoriamo per la ricostituzione a livello mondiale del partito comunista rivoluzionario.

21 settembre 2017  

 


 

(1)   Cfr. Schifo e menzogna del mondo libero, articolo della serie “Sul filo del tempo”, pubblicato nell’allora giornale di partito “battaglia comunista”, n. 15 del 1950.

(2)   Cfr. Né con Truman né con Stalin, “battaglia comunista”, n.14 del 1950; le ulteriori citazioni sono ricavate sempre da questo scritto, fino a indicazione diversa.

(3)   Ibidem.

(4)   Ibidem.

 

 

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