Lotta al caporalato?

Borghesia e forze opportuniste lo “combattono” istituzionalizzandolo!

(«il comunista»; N° 151; Dicembre 2017)

 Ritorne indice

 

 

Il 20 luglio 2015 un bracciante sudanese di quarantasette anni, Abdullah Mohamed, moriva mentre lavorava nei campi per raccogliere pomodori a Nardò in provincia di Lecce. Quel giorno, con una temperatura di 40 gradi all’ombra, Abdullah non aveva né cappello, né guanti, né dell’acqua per dissetarsi e né tantomeno un luogo per ripararsi all’ombra, il tutto per un salario da fame. Era praticamente ridotto in uno stato di semi-schiavitù, quello imposto dal cosiddetto caporalato.

Visto il caso eclatante, che quindi non sarebbe passato inosservato e sotto silenzio, la procura di Lecce ha avviato un’inchiesta che ha portato alla luce l’esistenza di una filiera fuori controllo in cui i produttori  locali autocertificavano singolarmente la “regolarità” dell’utilizzo di manodopera. In questo modo grosse ditte italiane potevano acquistare i prodotti in piena legalità e restare del tutto esenti da qualsiasi  indagine.

Ancora, in provincia di Cosenza due fratelli venivano arrestati e accusati di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, con l'aggravante della discriminazione razziale”. Infatti pare che la manodopera utilizzata a basso costo subiva ulteriori trattamenti differenziati in base al colore della pelle. I bianchi guadagnavano 35 euro al giorno, mentre quelli di pelle nera 10 euro in meno. Ai due fratelli veniva  sequestrata l’azienda e diversi beni per un ammontare di circa due milioni di euro.

Ma questi due episodi (più altre decine di esempi che ogni tanto la stampa riporta) sono soltanto la punta dell’iceberg di un fenomeno storico, quello del caporalato, che dilaga in periodi di crisi di sovraproduzione  come quello che stiamo attraversando. Questo sistema era nato, infatti, come metodo informale di reperibilità di mano d’opera a basso costo dove il cosiddetto “caporale” mediava per il proprietario terriero l’ingaggio di braccianti al costo più conveniente, e percependo un compenso dal padrone ed estorcendolo agli stessi sfruttati. Oggi il caporalato è più legato al fenomeno della migrazione d’oltre frontiera che alla mano d’opera autoctona come era un tempo.

Per contrastare, almeno sulla carta, questa forma di sfruttamento, dall’ottobre 2016 è in vigore la nuova legge dal titolo: “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”. In sostanza la legge prevede la pena da uno a sei anni e un’ammenda da cinquecento a mille euro per ogni lavoratore reclutato illegalmente.

Ma oramai il fenomeno è così dilagante e diffuso che lo Stato ha dovuto provvedere ad adottare contro il caporalato delle contromisure tra cui un progetto denominato “Alto impatto freedom”, che prevede l’impegno delle forze dell’ordine su tutto il territorio nazionale, unitamente agli ispettorati del  lavoro.

L’inchiesta ha prodotto decine di arresti, denunce e la chiusura temporanea di diverse aziende con l’accusa di inosservanza delle norme contributivo-previdenziali e di sicurezza sui luoghi di lavoro.

Le esigenze del mercato del lavoro corrono più veloci delle leggi stesse dello Stato. Le necessità di valorizzazione del capitale, e quindi di un mercato del lavoro più flessibile e a basso costo, ha fatto sì che lo stato sociale, nato dalle lotte degli anni Settanta, venisse gradualmente ridimensionato e adattato alla nuova congiuntura. Miriadi di contratti atipici si sono susseguite ininterrottamente dando nuova forma a quello che prima veniva definito lavoro nero.

Il caporalato e il lavoro nero legalizzato, attraverso la riforma del mercato del lavoro, convergono e sono entrambi finalizzati allo sfruttamento della mano d’opera a basso costo. Lo Stato conferisce però a quest’ultimo una larga base di consenso, grazie al collaborazionismo caporalesco dei sindacati tricolore che presentano i contratti atipici come soluzione d’emergenza al problema occupazionale.

Con la sua cosiddetta “lotta al caporalato” lo Stato si costituisce una facciata di legalitarismo e di  rinnovata  democrazia, nascondendo di fatto la propria  politica antiproletaria che attraverso il taglio della spesa (la cosiddetta spending review) e la riforma del mercato del lavoro (il jobs act) ha fatto precipitare le condizioni di vita e di  lavoro della classe operaia ai minimi storici. Un vero e proprio caporalato istituzionalizzato e legalizzato di natura del tutto “autoctona”.

Per combattere in modo efficace contro questo ulteriore peggioramento delle condizioni proletarie di lavoro e di esistenza, i proletari immigrati e il proletariato autoctono dovranno convergere sullo stesso piano della lotta unitaria con le proprie specificità ma con un’unica piattaforma di lotta dove le rivendicazioni devono tener conto solo ed essenzialmente degli interessi comuni di classe, utilizzando metodi e mezzi che la storia della lotta di classe ci ha lasciati. Questa lotta scaturirà dalle condizioni di esistenza e di lavoro intollerabili, contro le quali i proletari non avranno altra via d’uscita che ribellarsi alla brutale schiavitù in cui sono costretti, e lottare contro la micidiale concorrenza che la classe borghese dominante, con il suo numeroso stuolo di opportunisti politici e sindacali, di sfruttarori e aguzzini, alimenta con ogni mezzo per dividere e schiacciare i proletari; lottare perché il lavoro salariato sia pagato di più e l’orario di lavoro giornaliero sia ridotto, e soprattutto perché non sia l’anticamera della fame e della morte. Lo sfruttamento bestiale che subiscono oggi i proletari immigrati è destinato ad essere la norma, domani, anche per i proletari autoctoni; e questo, in parte, già avviene, grazie alle mille leggi e leggine sulla cosiddetta “somministrazione” del lavoro che sta già facendo precipitare nel precariato più spinto masse sempre più numerose di giovani proletari. Motivi materiali e oggettivi per l’unione tra proletari immigrati e autoctoni ce ne sono in abbondanza!

Solo riprendendo a lottare con mezzi e metodi di classe, ed esclusivamente in difesa delle condizioni di vita, di lavoro e di lotta dei proletari, si possono porre le basi oggettive per un processo di ripresa generale della lotta di classe nel quale sono impegnati da sempre i comunisti rivoluzionari.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice