Nello sforzo comune di difendere la teoria marxista e il patrimonio politico della Sinistra comunista, proseguiamo il lavoro di assimilazione teorica vitale per il partito

La rivoluzione proletaria è internazionale e internazionale sarà la trasformazione  socialista dell’economia (4)

(In collegamento con i rapporti tenuti alla riunione generale di milano del 17-18 dicembre 2016)

(«il comunista»; N° 151; Dicembre 2017)

 Ritorne indice

 

 

Sulla dittatura del proletariato

 

Continuiamo la sequenza di puntate sul tema della “Dittatura del proletariato”, allargandone lo svolgimento, come già abbiamo anticipato alcuni numeri addietro del giornale, rispetto alla trattazione effettuata alla Riunione Generale scorsa, perché l’argomento merita molto più di un riassunto.

 

Lenin, in perfetta linea con Marx ed Engels

 

Riprendiamo perciò da Lenin, Stato e rivoluzione, e dai classici del marxismo cui lo stesso Lenin si riferisce. Avevamo lasciato l’opera di Lenin al capitolo dedicato alla distruzione dello Stato parassita, cap. III, paragrafo 5 (1), dove le citazioni di Marx a proposito della Comune di Parigi si riassumevano, sinteticamente, nello svelare il “segreto” della Comune: essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica del lavoro (K. Marx, La guerra civile in Francia, Ediz. Rinascita, Roma 1950, pp. 76-77). E qui vale la pena di riprendere i brani della polemica di Lenin contro gli utopisti, gli anarchici e gli opportunisti socialdemocratici, che abbiamo già utilizzato nella puntata precedente:

«Gli utopisti si sono sempre sforzati di “scoprire” le forme politiche nelle quali doveva prodursi la trasformazione socialista della società. Gli anarchici si sono disinteressati della questione delle forme politiche in generale. Gli opportunisti dell’odierna socialdemocrazia hanno accettato le forme politiche borghesi dello Stato democratico parlamentare come un limite al di là del quale è impossibile andare; si sono rotta la testa a furia di prosternarsi davanti a questo “modello” e hanno tacciato come anarchico ogni tentativo di demolire queste forme.

«Da tutta la storia del socialismo e della lotta politica Marx trasse la conclusione che lo Stato è condannato a scomparire e che la forma transitoria dello Stato in via di sparizione (transizione dallo Stato al non-Stato) sarà “il proletariato organizzato come classe dominante” [Manifesto del partito comunista, NdR]. In quanto alle forme politiche di questo avvenire, Marx non si preoccupò di scoprirle, si limitò all’osservazione esatta della storia francese, alla sua analisi e alla conclusione che scaturiva dall’anno 1851: le cose marciano verso la distruzione della macchina dello Stato borghese. E quando il movimento rivoluzionario di massa del proletariato scoppiò, Marx, nonostante l’insuccesso del movimento, nonostante la sua breve durata e la sua impressionante debolezza, si mise a studiare le forme ch’esso aveva rivelato». E’ l’osservazione scientifica di Marx che ha portato a inquadrare la Comune come «il primo tentativo della rivoluzione proletaria di spezzare la macchina dello Stato borghese»;  e come «la forma politica “finalmente scoperta” che può e deve sostituire quel che è stato spezzato» (2).

Engels, da par suo, nell’Introduzione del 18 marzo 1891 a «La guerra civile in Francia» di Marx, argomenta in modo semplice gli insegnamenti tratti dalla Comune di Parigi, e Lenin lo evidenzia riprendendone alcuni brani, come ad esempio questo: «Proprio la forza repressiva del precedente governo centralizzato, dell’esercito, della polizia politica, della burocrazia, cui Napoleone aveva dato vita nel 1798, e ripresa da allora in poi da ogni nuovo governo e da esso utilizzata contro i suoi avversari, ebbene è proprio questo potere che, come già era avvenuto a Parigi, doveva essere rovesciato dovunque.» – dovunque, lo sottolineiamo appositamente perché l’insegnamento tratto non è limitato alla Francia, ma si estende a tutti i paesi in cui il proletariato rivoluzionario conquisterà il potere – «La Comune dovette riconoscere fin dall’inizio che la classe operaia, una volta al potere, non può continuare ad amministrare servendosi del vecchio apparato statale; che la classe operaia, per non perdere di nuovo il proprio potere appena conquistato deve, da una parte eliminare tutto il vecchio apparato repressivo fino allora impiegato contro di essa, ma, d’altra parte, deve assicurarsi contro i propri rappresentanti e funzionari, dichiarandoli revocabili senza alcuna eccezione e in ogni momento» [corsivi nostri, NdR]. E perché il potere proletario deve attuare,  fin dal suo insediamento, l’eliminazione di tutto il vecchio apparato repressivo e deve poter revocare senza alcuna eccezione e in ogni momento i propri rappresentanti e funzionari che si dimostrano non affidabili e non capaci di svolgere le funzioni a loro affidate? Perché lo Stato, appena caduto, al vertice degli organi creati dalla società borghese per la difesa dei suoi interessi, si è trasformato, insieme a tutti gli altri organismi politici, amministrativi e militari, «da servitori della società»  – come all’origine del processo storico rivoluzionario borghese – «in padroni della medesima società». E ciò non vale soltanto nel caso della monarchia ereditaria, ma anche nella repubblica democratica (3).

 Gli insegnamenti della Comune valgono per tutti i paesi, e lo dimostra il fatto che Engels porta ad esempio l’America del Nord. Infatti, continua Engels: «In nessun paese i “politici” formano nella nazione un clan così isolato e potente come nell’America del Nord. Quivi ciascuno dei due grandi partiti [il partito repubblicano e il partito democratico, allora ed oggi, NdR] che si scambiano a vicenda il potere, viene esso stesso regolato da gente che fa della politica un affare, che specula sui seggi tanto alle assemblee legislative dell’Unione quanto dei singoli Stati; ossia si nutre dell’agitazione per il proprio partito e dopo la vittoria di questo viene ricompensata con dei posti» (4). I politici borghesi che formano un clan!, ecco la grande novità della democrazia americana, che nel tempo si è estesa a tutti i paesi del mondo, costituendo per gli americani - come afferma Engels - un vero e proprio giogo divenuto insopportabile, ma che fa sprofondare questi “politici” «sempre più nella palude della corruzione». L’America del Nord, dunque, mostra meglio di qualsiasi altro paese lo sviluppo della politica democratica borghese, inevitabile in tutti i regimi che si sono succeduti finora: «E’ proprio in America che possiamo meglio vedere come la potenza dello Stato arriva ad essere indipendente nei confronti della società della quale, all’origine, non doveva essere che il semplice strumento»; e proprio in America, dove non c’è mai stata monarchia e nobiltà, né – all’epoca – esercito permanente e burocrazia con impieghi stabili e diritto alla pensione,  «abbiamo due grandi rackets di speculatori politici, che si alleano per impadronirsi ed avvicendarsi al potere dello Stato, e lo sfruttano con i mezzi più corrotti e per i fini più rivoltanti. E la nazione è impotente contro questi due grandi cartelli di politicanti che pretendono di essere al suo servizio ma, in realtà, la soggiogano e la saccheggiano» (5). Col tempo, dilagando e approfondendosi la corruzione e, contemporaneamente, il potere dei rackets di speculatori politici, anche le altre istituzioni dello Stato, come l’esercito permanente e la burocrazia, hanno raggiunto un peso considerevole grazie all’intreccio sempre più fitto con l’industria e la finanza: il clan dei “politici” si fonde inesorabilmente con i trust industriali e con le lobby finanziarie, formando, per l’appunto, fazioni potenti e isolate dal resto della popolazione di ogni paese. Lo Stato, in regime borghese, diventa sempre più il consiglio d’amministrazione del capitalismo nazionale, e sempre più opprimente nei confronti del proletariato e degli strati più poveri della popolazione nei quali precipita, in periodi di crisi economica, anche gran parte delle classi medie piccoloborghesi.

La Comune di Parigi, proprio per combattere contro quello Stato, quella burocrazia, quell’esercito, per combattere contro il potere dei racket di speculatori politici e contro l’arrivismo e i privilegi dei posti dai quali esercitare il potere della burocrazia sulla popolazione, applicò due mezzi infallibili: «In primo luogo, assegnò tutti gli impieghi dell’amministrazione, della giustizia e dell’insegnamento mediante elezione per suffragio universale da parte degli stessi interessati e, beninteso, con la possibilità di revoca immediata in qualunque momento da parte degli stessi. In secondo luogo, retribuì tutti i servizi, da quelli inferiori ai più elevati, con il solo salario che ricevevano gli altri operai». Questa distruzione violenta del potere dello Stato esistente e la sua sostituzione con un nuovo potere, veramente organico, ricorda Engels, è descritta dettagliatamente nella terza parte della “Guerra civile” di Marx; ma l’insistenza su alcuni aspetti specifici, trattati in questa Introduzione, è dettata dalla necessità di combattere la fede superstiziosa nello Stato, che all’epoca, in particolare, era diffusa in Germania, ma che si è diffusa poi in tutti i paesi democratici e che ancor oggi persiste esprimendo quello che Engels chiama «la superstiziosa venerazione dello Stato e di tutto ciò che ha relazione con esso, venerazione che subentra tanto più facilmente in quanto, fin da bambini, si è abituati a immaginare che gli interessi comuni della società intera non potrebbero essere meglio regolati di come lo sono stati fino al presente, cioè per mezzo dello Stato e delle sue autorità debitamente stabilite. E si crede già di avere fatto un passo estremamente audace, quando ci si è liberati dalla fede nella monarchia ereditaria e si giura nella Repubblica democratica» (6); e, ci permettiamo di aggiungere oggi, una superstizione che non è scemata visto che la popolazione in generale e il proletariato in particolare sono stati abituati per generazioni ad aspettarsi che, attraverso i tornei elettorali, si passi da un governo ad un altro ritenuto più capace di rispondere alle esigenze generali della società o ritenuto capace di lottare ed eliminare la corruzione, se non di passare da un governo autoritario e fascista ad un governo liberale e democratico... o viceversa.

Lo Stato è forse al di sopra delle classi? è mai al di sopra delle classi. Sorto dalle contraddizioni di classe, lo Stato diviene «lo Stato della classe più potente, economicamente dominante che, per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tener sottomessa e per sfruttare la classe oppressa. Come lo Stato antico fu anzitutto lo Stato dei possessori di schiavi al fine di mantener sottomessi gli schiavi, così lo Stato feudale fu l’organo della nobiltà per mantenere sottomessi i contadini, servi o vincolati, e lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale» (7); esso non è «altro che una macchina per l’oppressione di una classe da parte di un’altra, e questo nella Repubblica democratica non meno che nella monarchia» (8). In quanto macchina per l’oppressione di una classe da parte di un’altra, esso non potrebbe sparire dalla sera alla mattina nemmeno se la rivoluzione proletaria avvenisse simultaneamente nei paesi capitalistici più avanzati del mondo (cosa evidentemente fuori della storia); questa macchina per l’oppressione di una classe da parte di un’altra, in tutte le società divise in classi che la storia umana ha conosciuto, è sempre stata al servizio del dominio della classe vincitrice nella lotta fra le classi. Anche il proletariato rivoluzionario, vincitore nella lotta per il dominio di classe, avrà bisogno di una macchina statale che però non potrà essere la stessa che è stata ed è al servizio della classe borghese. La Comune di Parigi, prima, e la dittatura bolscevica poi, hanno dimostrato che il vecchio apparato statale va spezzato, distrutto e sostituito con un apparato amministrativo completamente diverso perché deve rispondere alle esigenze di vita della stragrande maggioranza della popolazione che è costituita dal proletariato e deve indirizzarsi finalmente, ed effettivamente, alla loro piena soddisfazione che non potrà attuarsi se non in una società nella quale non esisteranno più le classi, e perciò non sarà più necessaria la lotta fra di loro per il dominio di una sull’altra, non sarà più necessario lo Stato. Il nuovo potere proletario non potrà che essere rivoluzionario, cioè, rispetto all’apparato statale ereditato dalla vecchia società borghese, non potrà che dedicarsi innanzitutto ad «amputare subito nella più grande misura possibile, come incominciò a fare la Comune, le parti più nocive», finché – e qui Engels non si sottrae a sottolineare la finalità storica della lotta rivoluzionaria del proletariato – «una generazione cresciuta in condizioni sociali nuove, libere, non sia in grado di disfarsi di tutto questo ciarpame dello Stato» (9).

Dunque lo Stato borghese, forma politica della dittatura della classe borghese, è una macchina da spezzare e da sostitire con una diversa forma politica, quella della dittatura del proletariato, il non-Stato. Dalla dittatura di classe ad un’altra dittatura di classe, certo, ma con obiettivi storici del tutto opposti: la dittatura di classe della borghesia, la cui forma politica è lo Stato borghese (democratico o meno, sempre Stato borghese è), ha per obiettivo il mantenimento della società divisa in classi e la difesa dello sfruttamento del lavoro salariato da parte della classe borghese, il mantenimento e la difesa del modo di produzione capitalistico su cui poggia l’intera sovrastruttura borghese (politica, militare, amministrativa, sociale, giuridica, culturale); la dittatura di classe del proletariato, la cui forma politica è il non-Stato, ha per obiettivo la distruzione di tutti gli ostacoli (politici, militari, amministrativi, sociali, giuridici, culturali) che impediscono lo sviluppo armonioso e razionale delle forze produttive in una società in cui non vi sarà più bisogno di classi dominanti e classi sfruttate, di divisione di classe e di divisione del lavoro a livello internazionale, perciò non vi sarà più bisogno di una macchina oppressiva ed armata (lo Stato) per imporre il dominio di una classe sulle altre classi. Il socialismo – scrive Lenin nel citato opuscolo Karl Marx – conducendo alla scomparsa delle classi, conduce, per ciò stesso, alla scomparsa dello Stato; e, tornando a Engels, ecco un altro passo chiarificatore: «Il primo atto con cui lo Stato si presenta realmente come rappresentante di tutta la società, cioè la presa di possesso di tutti i mezzi di produzione in nome della società, è ad un tempo l’ultimo suo atto indipendente in quanto Stato. L’intervento di una forza statale nei rapporti sociali diventa superflua successivamente in ogni campo e poi viene meno da se stesso. Al posto del governo sulle persone appare l’amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi. Lo Stato non viene “abolito”: esso si estingue» (10).

E’ in questa prospettiva storica che Marx, Engels, Lenin hanno definito non-Stato la macchina organizzativa della dittatura proletaria, proprio perché nello svolgimento della rivoluzione proletaria a livello mondiale, una volta spezzata la macchina statale borghese, al suo posto non viene eretta una macchina organizzativa con le stesse caratteristiche di difesa di un modo di produzione basato sullo sfruttamento della forza lavoro salariata come quello capitalistico, ma un’organizzazione centralizzata che, dopo aver preso possesso di tutti i mezzi di produzione e di distribuzione, in nome della società, da parte della classe proletaria come classe dominante, ha il compito di trasformare – non rifomare, ma trasformare! – il modo di produzione capitalistico in modo di produzione socialista e, infine, comunista. Il lungo, e certamente tormentato e violento, periodo di transizione dal capitalismo al comunismo richiede necessariamente lo svolgimento a livello internazionale della lotta di classe dei proletari di tutto il mondo contro le borghesie di tutto il mondo; dunque, dello svolgimento della rivoluzione proletaria a livello internazionale e dell’instaurazione della dittatura del proletariato nei paesi in cui, via via, la rivoluzione proletaria vince, con i compiti storici che il marxismo ha tratto dalla stessa lunga, tormentata e violenta storia delle lotte fra le classi. E’ marxista – afferma Lenin in “Stato e rivoluzione” – soltanto colui che estende il riconoscimento della lotta delle classi fino al riconoscimento della dittatura del proletariato (11). E sappiamo che la lunga e ferma battaglia contro l’opportunismo dell’epoca, la cui maggiore espressione fu il kautskismo, pur riconoscendo la lotta di classe – ma solo nei limiti dei rapporti borghesi – negava lo sbocco necessario della rivoluzione proletaria nell’instaurazione della sua dittatura di classe, punto essenziale del passaggio dal capitalismo al comunismo, dell’abbattimento della borghesia e del suo annientamento completo (12), dunque negava l’essenza della dottrina dello Stato di Marx; battaglia che Lenin sintetizzò nel suo famoso opuscolo del 1918: La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky. Che la dittatura del proletariato costituisca precisamente il passaggio dal capitalismo al comunismo, e che questo passaggio sia necessario per un intero periodo storico che separa il capitalismo dalla “società senza classi”, cioè dal comunismo, per Lenin era evidentissimo e indiscutibile, come era evidentissimo e indiscutibile che tale passaggio non poteva essere limitato al solo paese, o ai soli paesi, in cui la rivoluzione proletaria avesse vinto, ma riguardava il mondo intero in cui il capitalismo ha ormai costruito storicamente il suo dominio economico e politico al di là delle molteplici forme esistenti degli Stati borghesi e al di là dello sviluppo economico e sociale ineguale da paese a paese che il capitalismo porta inevitabilmente con sé.

D’altra parte, se Marx vide nella Comune di Parigi e nel movimento rivoluzionario delle masse che la produsse, una esperienza storica di enorme importanza, un sicuro passo in avanti della rivoluzione proletaria mondiale, Lenin, e con lui tutti i comunisti rivoluzionari dell’epoca e di oggi, videro e vedono nella Rivoluzione d’Ottobre 1917 e nei primi anni della dittatura proletaria bolscevica, una continuità dialettica con l’esperienza storica della Comune di Parigi, preparata teoricamente e praticamente nella tenace lotta contro ogni deviazione e revisione opportunista del marxismo. Ma anche il kautskismo, l’opportunismo che fece fallire miseramente la Seconda Internazionale di fronte alla prima guerra imperialista mondiale, trovò una sua continuità nella versione più bastarda e insidiosa: lo stalinismo, cioè quella corrente opportunista che non si caratterizzò tanto nel negare lo sbocco storico della lotta di classe, cioè la dittatura proletaria, ma se ne impossessò come fosse la propria bandiera stravolgendone però completamente il contenuto marxista tanto da far passare lo sviluppo del capitalismo nell’arretrata Russia come fosse la “costruzione del comunismo”, naturalmente dopo aver proceduto a demolire passo dopo passo – a partire dal partito bolscevico e dal suo originario programma comunista mondiale – tutto ciò che non solo avrebbe potuto impedire la restaurazione del potere politico borghese in Russia, ma che  soprattutto avrebbe potuto sostenere la lotta di classe e rivoluzionaria del proletariato internazionalmente e, in particolare, del proletariato europeo di cui le borghesie più potenti al mondo temevano – proprio a causa delle conseguenze della prima guerra mondiale e sull’onda del movimento rivoluzionario vincitore in Russia – la formidabile potenzialità rivoluzionaria. L’obiettivo delle borghesie dominanti, negli anni della prima guerra mondiale e della feroce e reciproca lotta di concorrenza, era di spartirsi il mercato mondiale in territori economici sottoposti alle proprie dirette influenze; ma la vittoria della rivoluzione proletaria in Russia e la sua influenza sul proletariato europeo e mondiale – influenza che l’opportunismo kautskiano non riuscì a contenere e vincere, nonostante l’assassinio di Rosa Luxemburg e di Karl Liebknecht  – ponevano alle borghesie più potenti del mondo un obiettivo ulteriore: stroncare la dittatura proletaria in Russia e impedire che la lotta rivoluzionaria del proletariato europeo si indirizzasse sullo stesso solco tracciato dal bolscevismo leniniano. Questo obiettivo borghese fu drammaticamente raggiunto: nella grande occasione storica in cui, per la seconda volta, la classe del proletariato poteva non solo avviare il processo generale della propria rivoluzione, ma ampliarne i confini al mondo intero, fu sconfitta, non per mano diretta del nemico di classe borghese, ma per mano delle forze opportuniste che riuscirono a deviare e strangolare la sua lotta rivoluzionaria; nella lotta generale fra le classi, infatti, il compito storico che le forze opportuniste si assumono è quello non solo di frenare e deviare il movimento rivoluzionario dai suoi obiettivi storici, ma è soprattutto quello di stroncarlo, svuotando, falsificando e demolendo la sua teoria rivoluzionaria, spezzando le sue organizzazioni di difesa economica classiste nelle quali i proletari si allenano praticamente alla guerra di classe e, soprattutto, uccidendo il partito di classe sia sul piano della teoria e degli obiettivi generali e storici sia su quello politico e organizzativo. Ed è esattamente in questo modo che lo stalinismo ha contribuito in modo determinante alla vittoria della controrivoluzione borghese sul movimento rivoluzionario del proletariato, non solo russo, ma mondiale.

Se era vitale per la rivoluzione, e per i marxisti, condurre la battaglia di restaurazione teorica e pratica del marxismo portata avanti dai comunisti rivoluzionari dei primi del Novecento dei quali Lenin fu il più coerente ed efficace rappresentante – e grazie alla quale il proletariato russo e, con lui, il proletariato europeo e mondiale, ebbero una magnifica guida nel partito bolscevico – lo è stato ancor più di fronte all’aggressione ideologica, politica e fisica che lo stalinismo e la sua teoria del “socialismo in un solo paese” portarono al proletariato rivoluzionario, ai comunisti rivoluzionari e alle correnti marxiste che, come la corrente della Sinistra comunista d’Italia, vi si opposero tenacemente. E per tutti coloro che sono spinti ad indirizzarsi, materialisticamente e politicamente, verso la prospettiva della lotta di classe per l’emancipazione del proletariato dallo sfruttamento del lavoro salariato e per il rivolgimento completo della società attuale in una società senza sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dunque senza classi e senza antagonismi di classe – in poche parole, nella società comunista – tutto il lavoro di restaurazione teorica, programmatica, politica, tattica e organizzativa che la Sinistra comunista d’Italia ha fatto, e continua a fare sebbene con forze infinitamente più modeste di quanto non fossero all’epoca di Lenin e poi di Bordiga, diventa indispensabile, vitale, affinché le masse proletarie di oggi e di domani ritrovino il cammino della rivoluzione comunista e utilizzino finalmente la propria forza sociale e storica, a livello nazionale e internazionale, e sotto la guida del partito comunista rivoluzionario che non potrà essere che internazionale, perché le forze produttive da esse rappresentate seguano irresistibilmente il loro corso storico fino alla trasformazione completa del modo di produzione da principale ostacolo al progresso sociale a base per «assicurare, per mezzo della produzione sociale, a tutti i membri della collettività una esistenza che non solo sia completamente sufficiente dal punto di vista materiale e diventi ogni giorno più ricca, ma che garantisca loro lo sviluppo e l’esercizio completamente liberi delle loro facoltà fisiche e spirituali» (13).

I tempi storici non possono essere ridotti alla vita di una, due o tre generazioni, anche se – come avvenne tra il 1789 e il 1848, e tra il 1871 e il 1917 – le condizioni materiali favorevoli ai movimenti rivoluzionari, potenzialmente capaci di far fare alla storia della lotta fra le classi un salto di qualità, erano maturate nel giro di un cinquantennio circa. Non per ricavare dai raffronti statistici delle certezze “storiche”, ma per relativizzare l’accidentato corso storico di sviluppo delle società divise in classi, guardando in particolare l’arco storico in cui appare e si sviluppa la classe borghese, non è indifferente osservare che dal 1492 – dalla scoperta dell’America che, insieme alla circumnavigazione dell’Africa, crearono alla sorgente borghesia un nuovo terreno che, con il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell’America, gli scambi con le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere, diedero al commercio, alla navigazione, all’industria uno slancio fino allora mai conosciuto (14) – al 1640 – data alla quale si fa risalire l’inizio dell’era industriale in Inghilterra, e perciò nel mondo – sono passati 148 anni; dal 1640 al 1789 – alla rivoluzione francese che aprì la grande epoca borghese rivoluzionaria in Europa e nel mondo – di anni ne sono passati 149. Ma dal 1789 al 1871, ossia dalla grande rivoluzione francese, con l’instaurazione della dittatura di classe della borghesia, alla Comune di Parigi, con l’instaurazione della dittatura di classe del proletariato, sono passati solo 82 anni e ce ne sono voluti soltanto altri 46 perché dalla Comune di Parigi – primo bastione della rivoluzione proletaria in Europa – si giungesse alla Rivoluzione d’Ottobre – primo bastione della rivoluzione proletaria nel mondo.

L’accelerazione che lo sviluppo del capitalismo ha portato all’economia europea e mondiale, sviluppo preparato in circa 300 anni dalla scoperta dell’America, ha prodotto nello stesso tempo un accumulo delle contraddizioni economiche e sociali capitalistiche che sono andate via via sempre più acutizzandosi fino allo scoppio della prima guerra mondiale e alla risposta rivoluzionaria che la lotta di classe proletaria diede, rispetto ad essa, in soli 46 anni, anni che dividono la Comune di Parigi dalla Rivoluzione bolscevica d’Ottobre. Lo sviluppo materiale ed economico della società sotto il regime capitalistico aveva posto basi sufficienti per la rivoluzione proletaria in Europa e nel mondo, e per l’avvio della trasformazione del modo di produzione capitalistico in modo di produzione socialista. Ma tutto ciò non poteva avvenire e non può che avvenire sul terreno della lotta fra le classi, nella quale lotta entrano in campo gli elementi oggettivi di dominio economico e di oppressione in possesso delle classi dominanti e l’organizzazione del potere statale e la volontà classista di difendere i rapporti borghesi di produzione e di proprietà; cosa che determina la possibilità e la capacità delle classi dominanti borghesi di resistere contro gli attacchi delle classi proletarie, di contrattaccare e sconfiggerle utilizzando in questa vera e propria guerra di classe permanente ogni mezzo a disposizione: maggiore oppressione e repressione delle organizzazioni immediate e politiche del proletariato; maggiore divisione dei proletari rendendo sempre più acuta la lotta di concorrenza fra di loro; maggiori investimenti nella propaganda e nella lotta ideologica a favore della collaborazione fra le classi e maggior sostegno alle organizzazioni sindacali, sociali e politiche che di questa collaborazione hanno fatto e fanno la ragione della loro esistenza; maggiore attività di alleanza con le borghesie degli altri paesi per contrastare, isolare, disorganizzare, deviare, reprimere ogni possibile attività organizzata indipendente dei proletari dei diversi paesi. La lotta di classe fra borghesi e proletari si svolge sia in ambito “nazionale” che in ambito internazionale, ma con lo sviluppo del capitalismo, entrando quest’ultimo nella fase imperialista, il terreno di scontro diventa sempre più internazionale sia tra le borghesie dei diversi paesi, sia tra la borghesia di un paese, specie se capitalisticamente avanzato, e i proletari del mondo.

Il teatro della lotta di classe inevitabilmente è il mondo, cosa che non elimina però la lotta tra il proletariato di un singolo paese e la propria borghesia nazionale; anzi, l’aspetto internazionale della concorrenza tra borghesie e della concorrenza tra proletari acutizza ancor più gli aspetti specifici della lotta di classe nei confini “nazionali”, in termini di oppressione e di repressione, compito specifico di ogni Stato borghese, dal più democratico al più autoritario e totalitario. E non è un caso che, fin dal Manifesto del partito comunista del 1848, sia ovvio che «il proletariato di ciascun paese debba anzitutto sbrigarsela con la propria borghesia» (15).

 

Il capitalismo garantisce il dominio della classe borghese, ma lo sviluppo del capitalismo rende non più compatibile l’esistenza della classe borghese con la società

 

Il rapido e gigantesco sviluppo della grande industria abbinato al movimento rivoluzionario borghese, dalla rivoluzione francese in avanti, ha investito il mondo intero creando necessariamente un’altrettanto gigantesca massa di proletari, cioè la classe di esseri umani senza riserve, pura forza lavoro salariata potenziale per il capitalismo e sottoposta al dominio finora incontrastato delle classi borghesi, che siano alleate o avversarie fra di loro. Ed è questa gigantesca massa di proletari, di lavoratori salariati, che il capitalismo continua a creare in tutti i paesi anche economicamente arretrati, a costituire il corpo sociale oggettivamente rivoluzionario a livello mondiale che nelle ere storiche passate non si era mai visto. Un corpo sociale oggettivamente rivoluzionario che esprime la contraddizione più forte che la storia delle società abbia mai conosciuto, quella fra lo sviluppo straordinario delle forze produttive, da un lato, e i rapporti borghesi di proprietà e di produzione che tendono a frenarlo, impedendone il corso naturale, riconducendo ciclicamente la società, attraverso le proprie crisi sempre più acute ed estese al mondo, «a uno stato di momentanea barbarie» (16), e mantenendo, con l’oppressione economica e militare da parte dei paesi più sviluppati capitalisticamente, una gran parte dei paesi del mondo in uno stato permanente di arretratezza.  

Infatti, lo sviluppo della grande industria e del mercato mondiale ha portato e porta con sé l’acutizzazione delle contraddizioni che caratterizzano la società capitalistica, che possono essere sintetizzate, dal punto di vista economico, in tre grandi aspetti:

Primo aspetto, l’ineguale sviluppo del capitalismo nel mondo. «Il capitalismo – ricorda Lenin ne “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo” (17) – è la produzione mercantile al suo massimo grado di sviluppo, quando anche la forza-lavoro è diventata una merce. Segno caratteristico del capitalismo è l’aumento dello scambio delle merci, così all’interno del paese come, specialmente, sul mercato internazionale. Nel capitalismo sono inevitabili la diseguaglianza e la discontinuità nello sviluppo di singole imprese, di singoli rami industriali, di singoli paesi». Nel capitalismo «tanto la diseguaglianza di sviluppo che lo stato di semiaffamamento delle masse sono essenziali e inevitabili condizioni e premesse di questo sistema di produzione. Finché il capitalismo resta tale, l’eccedenza dei capitali non sarà impiegata a elevare il tenore di vita delle masse nel rispettivo paese, perché ciò importerebbe diminuzione dei profitti dei capitalisti, ma ad elevare tali profitti mediante l’esportazione all’estero, nei paesi meno progrediti. In questi ultimi il profitto ordinariamente è assai alto, poiché colà vi sono pochi capitali, il terreno è relativamente a buon mercato, i salari bassi e le materie prime a poco prezzo». In poche righe Lenin riassume efficamente le caratteristiche del capitalismo, del suo sviluppo e dell’inevitabile aumento delle diseguaglianze tra rami d’industria, tra industria e agricoltura e tra paese e paese, pur essendo tutti i paesi del mondo, quindi anche quelli più arretrati, attratti nell’orbita del capitalismo mondiale. Diseguaglianze che non si leggono soltanto in termini di tenore di vita, di “diritti”, di “potere” tra le masse proletarie e la borghesia; all’interno della stessa classe dominante borghese si sono create «le associazioni monopolistiche dei capitalisti – cartelli, sindacati, trust – che spartiscono tra di loro il mercato interno e si impadroniscono della produzione del paese», mentre con lo sviluppo delle relazioni estere e coloniali, esse procedevano e procedono «sempre più verso accordi internazionali tra di esse e verso la creazione di cartelli mondiali» (18), andando quindi sempre più verso «la concentrazione mondiale del capitale e della produzione».  Ma questa concentrazione mondiale del capitale non porta verso l’allineamento di tutti i paesi allo stesso livello di sviluppo economico e sociale, perché sempre di capitalismo si tratta e più esso si sviluppa, più aumentano le sue contraddizioni, più agguerrita si fa la concorrenza tra capitali e associazioni di capitalisti, più acuta si fa la lotta per la spartizione territoriale del mondo, la lotta per le colonie, la lotta per il territorio economico, dunque la lotta tra gli Stati.  I capitalisti di tutto il mondo «si spartiscono il mondo non per la loro speciale malvagità, bensì perché il grado raggiunto dalla concentrazione li costringe a battere questa via, se vogliono ottenere dei profitti. E la spartizione si compie “proporzionalmente al capitale”, “in proporzione della forza”, poiché in regime di produzione mercantile e di capitalismo non è possibile alcun altro sistema di spartizione» (19).

Lo sviluppo del capitalismo porta inevitabilmente allo sviluppo della grande industria e, in particolare alla fusione del capitale bancario col capitale industriale, dunque al formarsi e allo svilupparsi del capitale finanziario, che costituisce l’anima della fase suprema dello sviluppo del capitalismo, cioè l’imperialismo. E l’imperialismo – afferma Lenin nel 1916, un anno prima di aver scritto Stato e rivoluzione – «è il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici» (20). L’ineguale sviluppo del capitalismo nel mondo, nella fase dell’imperialismo, non scompare, non si attenua, ma si approfondisce ad un livello di concorrenza e di scontro molto più alto che in precedenza poiché i territori economici, di cui il capitale finanziario è avido, non sono più soltanto i paesi arretrati e i paesi gonfi di materie prime utili alla produzione capitalistica, ma diventano anche i paesi capitalistici sviluppati ma con forza economica, politica e militare più debole rispetto agli altri paesi capitalistici sviluppati: le grandi associazioni di capitalisti, i grandi trust, si impossessano degli Stati trasformandoli in grandi potenze imperialistiche al loro servizio, utilizzandoli come forza armata in funzione della spartizione e di una nuova spartizione del mondo, passando «dalla ripartizione pacifica alla non pacifica, e viceversa» (21) [corsivi nostri, NdR].

Si può pensare ad una spartizione del mondo, in epoca imperialista, semplicemente concordata tra le più grandi potenze senza che questa spartizione concordata generi, prima o poi, lo scontro tra le stesse potenze imperialiste? Assolutamente no. «In regime capitalista non si può pensare a nessun’altra base per la ripartizione delle sfere d’interessi e d’influenza, delle colonie ecc., che non sia la valutazione della potenza dei partecipanti alla spartizione, della loro generale potenza economica, finanziaria, militare ecc. Ma i rapporti di potenza si modificano, nei partecipanti alla spartizione, difformemente, giacché in regime capitalista non può darsi sviluppo uniforme di tutte le singole imprese, trust, rami d’industria, paesi ecc.» (22). Oggi è ormai evidente quel che Lenin metteva in risalto all’epoca, nella critica delle posizioni di Kautsky, circa una prospettiva di pretesa pace raggiungibile grazie ad una immaginata evoluzione dalla fase storica di scontro tra le potenze imperialiste esistenti in un fase storica di alleanze inter- o ultra-imperialistiche, come se i rapporti di forza tra le potenze imperialistiche rimanessero immutati per decine d’anni. Lenin afferma, e noi con lui, che quelle alleanze «non sono altro che un “momento di respiro” tra una guerra e l’altra, qualsiasi forma assumano dette alleanze, sia quella di una coalizione imperialista contro un’altra coalizione imperialista, sia quella di una lega generale tra tutte le potenze imperialiste. Le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste; le une e le altre forme si determinano reciprocamente e producono, su di un unico e identico terreno, dei nessi imperialistici e dei rapporti dell’economia mondiale e della politica mondiale, l’alternarsi della forma pacifica e non pacifica della lotta» (23).

Secondo aspetto, le crisi economiche – «la storia dell’industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio» (24) – che sempre più sono crisi di sovraproduzione –; le forze produttive a disposizione della società borghese «non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l’esistenza della proprietà borghese (...) Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse» (25). Che questa valutazione contenuta nel Manifesto del 1848 non sia limitata allo specifico periodo storico, ma riguardi l’intero ciclo si sviluppo del capitalismo, è dimostrato da Lenin che, nell’epoca del conclamato imperialismo capitalistico, afferma: «Che i cartelli eliminino le crisi è una leggenda degli economisti borghesi, desiderosi di giustificare ad ogni costo il capitalismo. Al contrario, il monopolio, sorto in alcuni rami d’industria, accresce e intensifica il caos, che è proprio dell’intera produzione capitalitica nella sua quasi totalità. Si accresce ancora più la sproporzione tra lo sviluppo dell’agricoltura e quello dell’industria, che è una caratteristica generale del capitalismo» (26). Lenin, come sempre, cita gli studi e le opere degli economisti borghesi a conferma delle tesi marxiste; infatti, subito dopo scrive: «La situazione privilegiata in cui viene a trovarsi quell’industria che è ampiamente cartellata, cioè la cosiddetta industria pesante, specialmente quella del carbone e del ferro, determina negli altri rami industriali “una mancanza di piano ancor più acutamente sentita”, come scrive Jeidels, autore di uno dei migliori lavori sui “rapporti fra le grandi banche tedesche e l’industria”», e citandone un altro, Liefmann, difensore accanito del capitalismo, riporta una considerazione di quest’ultimo: «”Quanto più è sviluppata l’economia di un paese, tanto più essa si volge a imprese rischiose o estere, che abbiano bisogno di un lungo periodo di sviluppo, o finalmente che siano di importanza soltanto locale”. L’aumento del rischio, in ultima analisi, si è collegato a un enorme incremento del capitale che, per così dire, trabocca, emigra all’estero ecc. E, nello stesso tempo, l’accresciuta rapidità dei progressi tecnici crea sempre più numerosi elementi di sporporzione tra le diverse parti dell’economia di un paese, elementi di caos e di crisi» (27).

Terzo aspetto, il parassitismo, che è proprio dell’imperialismo. La fase imperialista dello sviluppo del capitalismo porta con sé anche un’altra caratteristica assai importante, come sottolinea Lenin, quella del parassitismo. E questa è la spiegazione. «La base economica più profonda dell’imperialismo è il monopolio, originato dal capitalismo e trovantesi, nell’ambiente generale del capitalismo, della produzione mercantile, della concorrenza, in perpetuo e insolubile antagonismo con l’ambiente medesimo. Nondimeno questo monopolio, come ogni altro, genera la tendenza alla stasi e alla putrefazione [questi corsivi sono nostri, NdR]. Nella misura in cui s’introducono, sia pur transitoriamente, i prezzi di monopolio, vengono paralizzati, fino ad un certo punto, i moventi del progresso tecnico e quindi di ogni altro progresso, di ogni altro movimento in avanti, e sorge immediatamente la possibilità economica di fermare artificiosamente il progresso tecnico» (28). E qui Lenin porta uno dei tanti esempi a disposizione: l’invenzione, in America, di una macchina che avrebbe rivoluzionato l’industria delle bottiglie il cui brevetto è stato comprato dal cartello tedesco dei fabbricanti di bottiglie e messo in un cassetto, impedendone così l’applicazione. In cent’anni e passa vi sono stati certamente milioni di esempi simili, in tutti i settori produttivi, soprattutto industriali ma anche agricoli, brevetti che avrebbero potuto far fare al progresso tecnico dei passi da gigante e che avrebbero sviluppato quindi le forze produttive, passi che sono stati bloccati e forze produttive il cui sviluppo è stato interrotto. E Lenin continua: «Certamente, in regime capitalistico, nessun monopolio potrà completamente e per lungo tempo escludere la concorrenza del mercato mondiale (questo costituisce tra l’altro una delle ragioni della stupidità della teoria dell’ultraimperialismo). Certo la possibilità di abbassare, mediante nuovi miglioramenti tecnici, i costi di produzione ed elevare i profitti, milita a favore delle innovazioni. Ma la tendenza alla stagnazione e alla putrefazione, che è propria del monopolio, continua dal canto suo ad agire, e in singoli rami industriali e in singoli paesi s’impone per determinati periodi di tempo. Il possesso monopolistico di colonie particolarmente ricche, vaste ed opportunamente situate, agisce nello stesso senso» (29).

E’ particolarmente significativo il fatto che Lenin metta in rilievo non solo il lato storicamente positivo del progresso tecnico dello sviluppo industriale, ma soprattutto la contemporanea tendenza del capitalismo monopolistico a bloccarlo per poterne trarre i massimi vantaggi in termini di profitto e di dominio sui territori economici. Questa ennesima contraddizione dialettica del capitalismo e del suo sviluppo dimostra oggettivamente che il capitalismo più si sviluppa, più sviluppa antagonismi e arretratezze, ricchezza e parassitismo da un lato e affamamento e crescente miseria dall’altro: «Il mondo si divide in un piccolo gruppo di Stati usurai e in una immensa massa di Stati debitori» (30). Questo era vero nel 1916; a cent’anni di distanza, la forbice tra Stati usurai e Stati debitori si è decisamente allargata, visto che più della metà della popolazione mondiale è alla fame.

Questa tendenza alla stagnazione e alla putrefazione del capitalismo potrebbe essere invertita? Per quante conferenze mondiali e incontri internazionali dedicati all’esame dei problemi che lo sviluppo del capitalismo provoca in tutto il mondo, e per quanti accordi si facciano e si sottoscrivano da parte delle maggiori potenze per “combattere la fame e la povertà nel mondo”, la tendenza profonda del capitalismo nella sua fase imperialista al parassitismo e alla putrefazione non potrà mai essere invertita dalle stesse forze del capitalismo.

 «L’imperialismo è l’immensa accumulazione in pochi paesi di capitale liquido (...)

 «L’esportazione di capitale, uno degli essenziali fondamenti economici dell’imperialismo, intensifica il completo distacco del ceto dei rentiers dalla produzione e dà un’impronta di parassitismo a tutto il paese, che vive dello sfruttamento del lavoro di pochi paesi e colonie d’oltre oceano». Il ceto dei rentiers, scrive Lenin, è il ceto di persone che vivono del “taglio di cedole”, non partecipano ad alcuna impresa ed hanno per professione l’ozio; sono, appunto, dei parassiti della società. Dunque, nei paesi imperialisti, l’esportazione di capitale, e il profitto da questo ricavato, tendono sempre più a sorpassare l’esportazione di merci. Lenin porta, da questo punto di vista, come massimo esempio la Gran Bretagna (alla quale, da allora, si sono affiancati Francia, Stati Uniti, Germania, Belgio, Svizzera e ora anche Cina), paese industriale ma tra i primi paesi creditori al mondo perché prestava capitali ai paesi politicamente dipendenti o strettamente alleati, come l’Egitto, il Giappone, la Cina, l’America del Sud; ma riporta anche l’esempio dell’Olanda come tipo di “Stato rentier” perché poco industriale, ma sviluppato dal punto di vista finanziario e, perciò, parassitario, indicando, nei fatti, ciò che anche gli altri paesi imperialisti sarebbero prima o poi diventati.

E a questo proposito, Lenin si rifà ad un apprezzamento economico, con cui si trova perfettamente d’accordo, manifestato all’epoca dall’economista inglese John Hobson (31), quando parla della prospettiva della spartizione della Cina. Questi i brani che Lenin ha riportato da Hobson:

«La più grande parte dell’Europa occidentale potrebbe allora assumere l’aspetto e il carattere ora posseduti soltanto da alcuni luoghi, cioè l’Inghilterra meridionale, la Riviera e le località dell’Italia e della Svizzera visitate dai turisti e abitate da gente ricca. Si avrebbe un piccolo gruppo di ricchi aristocratici, traenti le loro rendite e i loro dividendi dal lontano Oriente; accanto, un gruppo alquanto più numeroso di impiegati e di commercianti e un gruppo ancora maggiore di domestici, lavoratori dei trasporti e operai occupati nel processo finale della lavorazione dei prodotti più avariabili. Allora scomparirebbero i più importanti rami d’industria, e gli alimenti e i prodotti base affluirebbero come tributo dall’Asia o dall’Africa... Ecco quale possibilità sarebbe offerta da una più vasta lega delle potenze occidentali, da una federazione europea delle grandi potenze. Essa non solo non spingerebbe innanzi l’opera della civiltà mondiale, ma potrebbe presentare il gravissimo pericolo di un parassitismo occidentale, quello di permettere l’esistenza di un gruppo di nazioni industriali più progredite, le cui classi elevate riceverebbero dall’Asia e dall’Africa enormi tributi e, mediante questi, si procurerebbero grandi masse di impiegati e di servitori addomesticati che non sarebbero occupati nella produzione in grande di derrate agricole o di articoli industriali, ma nel servizio personale o in lavori industriali di second’ordine sotto il controllo della nuova aristocrazia finanziaria. (...) [Bisognerebbe] immaginarsi quale immensa estensione acquisterebbe tale sistema, quando la Cina fosse assoggettata al controllo economico di consimili gruppi di finanzieri, di “investitori di capitale” e dei loro impiegati politici, industriali e commerciali, intenti a pompare profitti dal più grande serbatoio potenziale che mai il mondo abbia conosciuto, per consumarli in Europa. Certo la situazione è troppo complessa e il giuoco delle forze mondiali è così difficile da calcolarsi, da rendere impossibile questa o qualunque altra interpretazione del futuro che sia fatta in un solo senso. Ma le tendenze che dominano attualmente l’imperialismo dell’Europa occidentale agiscono nel senso anzidetto, e se incontrano una forza opposta che le avvii verso altra direzione, esse lavorano appunto perché il processo abbia lo sbocco suaccennato» (32).

Lenin, da questa considerazione, trae una conclusione decisiva: «Se le potenze dell’imperialismo non incontrassero resistenza, esse giungerebbero direttamente a quel risultato. Qui è posto nel suo vero valore il significato degli “Stati uniti d’Europa” nella odierna congiuntura imperialista» (33). Quel se, all’inzio della frase, è straordinariamente importante, perché presuppone che questa congenita tendenza dell’imperialismo al parassitismo e alla putrefazione del capitalismo porti inevitabilmente a quel risultato, ma, nello stesso tempo, presuppone la possibilità che possa essere bloccata, e vinta, da forze storiche altrettanto potenti e determinate (forze storiche che, in questa trattazione sottoposta alla serrata censura zarista, non poteva esplicitamente nominare) rappresentate dalla classe del proletariato e dalla rivoluzione socialista di cui – scrive Lenin nella sua Prefazione al volumetto dell’aprile 1917 – l’imperialismo è la vigilia storica.

Per farla finita con un regime politico e un modo di produzione basati sul capitale e sul lavoro salariato, sul loro antagonismo di classe e su un futuro per l’umanità intera fatto di privazioni, miseria, fame, guerre, non serve cambiar governi o riformare questa o quella legge, questa o quella costituzione, smussare qualche spigolo particolarmente acuto, ma mantenendo intatta la base economica capitalistica, dunque la divisione della società in classi. Che il capitalismo si sviluppi è un dato di fatto, ma come?: «Il capitalismo, che prese le mosse dal capitale usurario minuto, termina la sua evoluzione mettendo capo a un capitale usurario gigantesco» (34). Ciò vuole anche dire che il capitalismo «ha la proprietà di staccare il possesso del capitale dall’impiego del medesimo nella produzione, di staccare il capitale liquido dal capitale industriale e produttivo, di separare il rentier, che vive soltanto del profitto tratto dal capitale liquido, dall’imprenditore e da tutti coloro che partecipano direttamente all’impiego del capitale. L’imperialismo, vale a dire l’egemonia del capitale finanziario, è quello stadio supremo del capitalismo, in cui tale separazione raggiunge dimensioni enormi. La prevalenza del capitale finanziario su tutte le rimanenti forme del capitale importa una posizione predominante del rentier e dell’oligarchia finanziaria e la selezione di pochi Stati finanziariamente più “forti” degli altri» (35).

( continua)

 

Il prossimo capitoletto ha per titolo. Senza lotta permanente del comunismo rivoluzionario contro l’opportunismo non è possibile che la rivoluzione proletaria giunga alla dittatura di classe e alla trasformazione della società.

 


 

(1) Lenin, Stato e rivoluzione, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 94.

(2) Lenin, Ibidem, p. 121.

(3) F. Engels, Introduzione a “La guerra civile in Francia”, di Karl Marx, in 1871 La Comune di Parigi. La guerra civile in Francia, Edizioni International, Savona – Edizioni La Vecchia Talpa, Napoli, 1971, pp. 91-92.

(4) Ibidem, p. 92.

(5) Ibidem, p. 92.

(6) Ibidem, p. 92-93.

(7) F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 202. Citato da Lenin in Karl Marx (Breve saggio biografico ed esposizione del marxismo), 1914, in Opere, Editori Riuniti, Roma 1966, vol. 21, p. 64.

(8) F. Engels, Introduzione a “La guerra civile in Francia”, cit., p. 93.

(9) Ibidem, p. 93.

(10) F. Engels, Antidühring, Ed. Rinascita, Roma 1956,  p. 305.

(11) Lenin, Stato e rivoluzione, cit. p. 94.

(12) Lenin, Stato e rivoluzione, cit., p. 95.

(13) F. Engels, Antidühring, Ed. Rinascita, Roma 1956,  p. 307.

(14) Marx-Engels, Manifesto del Partito comunista, Giulio Einuadi Editore, Torino 1962, p. 101.

(15) Ibidem, p. 115.

(16) Ibidem, p. 107.

(17) Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, in Opere, Editori Riuniti, Roma 1966, vol. 22, cap. IV “L’esportazione del capitale”, p. 241.

(18) Ibidem, cap. V “La spartizione del mondo tra i complessi capitalistici”, p. 246.

(19) Ibidem, cap. V, pp. 253-254.

(20) Ibidem, cap. VII “L’imperialismo, particolare stadio del capitalismo, p. 266.

(21) Ibidem, cap. VII, p. 273.

(22) Ibidem, cap. IX “Critica dell’imperialismo”, p. 294.

(23) Ibidem, cap. IX, p. 295.

(24) Marx-Engels, Manifesto del Partito comunista, Giulio Einuadi Editore, Torino 1962, p. 107.

(25) Ibidem, p. 108.

(26) Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, cit., cap. I, “La concentrazione della produzione e i monopoli”, p. 210.

(27) Ibidem, p. 210.

(28) Ibidem, cap. VIII, “Parassitismo e putrefazione del capitalismo”, p. 276.

(29) Ibidem, p. 276.

(30) Ibidem, p. 277.

(31) Si tratta di John Atkinson Hobson (1858-1940), economista inglese (“pacifista e riformista aperto e dichiarato”, come afferma Lenin), e del suo libro del 1902 intitolato Imperialism, (probabilmente il primo studio borghese critico dell’imperialismo) da cui Lenin ha ricavato diversi dati e considerazioni.

(32) Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, cap. VIII, cit., pp. 279-280.

(33) Ibidem, p. 280.

(34) Ibidem, cap. III “Capitale finanziario e oligarchia finanziaria, p. 234.

(35) Ibidem, cap. III, p. 239.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice