In continuità con il lavoro generale di partito, si ribadisce l’invariante impostazione teorica e programmatica che il partito si è data fin dalle sue origini (3)

(Resoconto della Riunione Generale di Milano del 13-14 gennaio 2018)

(«il comunista»; N° 154; Luglio 2018)

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Diamo seguito al resoconto del terzo Rapporto tenuto alla Riunione Generale di Milano del 13-14 gennaio scorsi, sulla "Storia" del nostro partito attraverso il suo corso di sviluppo e le sue crisi. Il tema, come i compagni e i lettori sanno, lo stiamo trattando ormai da tempo nelle diverse RG annuali che teniamo; esso non ha uno svolgimento formalmente cronologico, anche se il trascorrere degli anni è un elemento da considerare soprattutto in relazione alle questioni poste dalla situazione internazionale - dal punto di vista economico, politico, sociale e militare - e dallo sviluppo del partito stesso nei diversi paesi. In questa occasione si è voluto riprendere un quadro generale dei problemi che hanno investito il partito negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, in particolare nel campo della sua attività esterna e nei confronti della classe proletaria. A questo scopo abbiamo utilizzato la sintesi che venne fatta in una circolare interna dell'Ufficio centrale italiano, datata 25 marzo 1981, e che ripercorre a grandi linee le questioni su cui si svilupparono nel partito dubbi e dissensi che non potevano essere risolti se non richiamando sistematicamente le posizioni e le tesi che il partito aveva definito già da tempo e dalle quali si trattava di far discendere le argomentazioni esplicative e le decisioni più coerenti.

 

Sulle fasi di sviluppo del partito e sulle crisi interne (1952-1960; 1960-1970; 1970-...)

 

La circolare del 1981, sopra richiamata, suddivide la trattazione in titoli differenziati, partendo dal considerare lo sviluppo del partito in “fasi” distinte (ma non per questo separate in modo netto) nelle quali si sono innestate determinate crisi.

I periodi indicati corrispondono in generale a “fasi” di sviluppo che potremmo definire, al contempo, “di crescita” e “di selezione”: di crescita numerica, di selezione politica, fasi nelle quali sono maturate delle crisi determinate da cause talvolta simili, talvolta differenti. Quanto alla crescita numerica e alla selezione politica, tale distinzione non va intesa secondo lo stile della tattica alla “Lotta comunista”, cioè con un prima e un dopo: prima si accoglie un numero sempre crescente di elementi che solo genericamente condividono il programma del partito e certe posizioni politiche e tattiche che ne discendono, e soltanto dopo, una volta che essi hanno aderito al partito ed hanno cominciato a lavorare come suoi militanti, si passa ad una formazione selettiva impegnandoli ad un lavoro di assimilazione teorica e politica generale. Nel nostro partito la selezione degli elementi che si avvicinano ad esso ed intendono aderirvi è sempre avvenuta secondo il criterio seguente: si partecipa all’attività del partito in qualità di simpatizzanti – attività di carattere teorico, politico, tattico e organizzativo – seguendo i dettami del programma del partito (che è pubblico e a disposizione di tutti) e sotto le direttive e le indicazioni del partito per tutto il periodo che serve perché ogni singolo simpatizzante dimostri nei fatti di condividere effettivamente il programma, le posizioni politiche e tattiche del partito, la sua prassi e di difendere e propagandare le posizioni del partito in ogni ambito, senza pretendere di avere “diritto” di opinione e di elaborazione individuale. Sapendo bene che la formale adesione al partito non è di per sé vincolante per tutto il resto della vita politica di ogni singolo militante, il partito – sulla base dell’esperienza storica della Sinistra Comunista d’Italia, sia prima della fondazione del Partito Comunista d’Italia, sia durante la sua guida nei primi anni Venti del secolo scorso, prima che la centrale dell’I.C. la sostituisse con una direzione più accondiscendente rispetto alle posizioni meno intransigenti che stavano sviluppandosi al suo interno, fino alla sua generale degenerazione – rifiutava, fino a quando la situazione generale non avesse fatto maturare la lotta di classe e rivoluzionaria a tal punto da richiedere oggettivamente un partito strutturato in tutti i suoi aspetti, compresi quindi quello illegale e militare, di organizzarsi con statuti e regolamenti disciplinari alla maniera dei vecchi partiti socialisti e comunisti.

Il principio politico su cui si basava, e si basa, l’attività del partito era, ed è, il principio che riunisce centralismo e organicità, ossia il principio del lavoro comune guidato centralmente come risultato di una selezione naturale di compagni che, condividendo profondamente tutto ciò che distingue il partito [cioè la linea che va da Marx ed Engels a Lenin, alla fondazione dell’Internazionale Comunista e del Partito Comunista d’Italia; alle battaglie di classe della Sinistra Comunista contro la degenerazione dell’I.C. e dei partiti ad essa aderenti; alla lotta contro la teoria del socialismo in un solo paese e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; alla lotta contro il principio democratico e la sua prassi ecc. ecc.], non devono temere di incorrere in sanzioni disciplinari qualora non rispettassero le posizioni e le direttive del partito.La disciplina di partito è innanzitutto programmatica e politica, quindi tattica e organizzativa. Come scritto nella conclusione delle nostre Tesi di Napoli del 1965, la posizione del partito sulla questione del centralismo organico è limpida:

  «Nella concezione del centralismo organico la garanzia della selezione dei suoi componenti [del partito] è quella che sempre proclamammo contro i centristi di Mosca. Il partito persevera nello scolpire i lineamenti della sua dottrina, della sua azione e della sua tattica con una unicità di metodo al di sopra dello spazio e del tempo. Tutti coloro che dinanzi a queste delineazioni si trovano a disagio hanno a loro disposizione la ovvia via di abbandonare le file del partito. Nemmeno dopo avvenuta la conquista del potere possiamo concepire la iscrizione forzata nelle nostre file; è perciò che restano fuori dalla giusta accezione del centralismo organico le compressioni terroristiche nel campo disciplinare, che non possono non copiare il loro stesso vocabolario da abusate forme costituzionali borghesi, come la facoltà del potere esecutivo di sciogliere e di ricomporre le formazioni elettive – tutte forme che da molto tempo si considerano superate non diremo per lo stesso partito proletario, ma perfino per lo Stato rivoluzionario e temporaneo del proletariato vittorioso. Il partito non ha da presentare a chi vuole aderirvi piani costituzionali e giuridici della società futura, in quanto tali forme sono proprie solo delle società di classe. Chi vedendo il partito proseguire per la sua chiara strada, che si è tentato di riassumere in queste tesi da esporre alla riunione generale di Napoli, luglio 1965, non si sente ancora a tale altezza storica, sa benissimo che può prendere qualunque altra direzione che dalla nostra diverga. Non abbiamo da adottare nella materia nessun altro provvedimento» (1).

Naturalmente il partito, non essendo un falansterio di intellettuali che si confrontano sulle “proprie idee”, agisce nella realtà con criteri ben precisi che definiscono e assegnano compiti, funzioni ed attività ben precise impegnando in modo organico le forze del partito; e tutto ciò ha bisogno di una impostazione univoca e, come detto nel brano ora citato, di una unicità di metodo al di sopra dello spazio e del tempo.

«Per la necessità stessa – si ribadisce nelle Tesi di Milano, successive a quelle di Napoli – della sua azione organica, e per riuscire ad avere una funzione collettiva che superi e dimentichi ogni personalismo ed ogni individualismo, il partito deve distribuire i suoi membri fra le varie funzioni ed attività che formano la sua vita. L’avvicendarsi dei compagni in tali mansioni è un fatto naturale che non può essere guidato con regole analoghe a quelle delle carriere delle burocrazie borghesi. Nel partito non vi sono concorsi nei quali si lotti per raggiungere posizioni più o meno brillanti o più in vista, ma si deve tendere a raggiungere organicamente quello che non è uno scimmiottamento della borghese divisione del lavoro, ma è un naturale adeguamento del complesso ed articolato organo-partito alla sua funzione.

«Ben sappiamo che la dialettica storica conduce ogni organismo di lotta a perfezionare i suoi mezzi di offesa impiegando le tecniche in possesso del nemico. Da questo si deduce che nella fase del combattimento armato i comunisti avranno un inquadramento militare con precisi schemi di gerarchie a percorsi unitari che assicureranno il migliore successo dell’azione comune. Questa verità non deve essere inutilmente scimmiottata in ogni attività anche non combattente del partito. Le vie di trasmissione delle operazioni devono essere univoche, ma questa lezione della burocrazia borghese non ci deve far dimenticare per quali vie si corrompe e degenera, anche quando viene adottata nelle file di associazioni operaie. La organicità del partito non esige affatto che ogni compagno veda la personificazione della forza partito in un altro compagno specificamente designato a trasmettere disposizioni che vengono dall’alto. Questa trasmissione tra le molecole che compongono l’organo partito ha sempre contemporaneamente la doppia direzione [centro-sezioni, sezioni-centro]; e la dinamica di ogni unità si integra nella dinamica storica del tutto. Abusare dei formalismi di organizzazione senza una ragione vitale è stato e sarà sempre un difetto ed un pericolo sospetto e stupido» (2). Non è inutile sottolineare quest’ultima frase, con la quale si dichiara il pericolo che il partito corre se abusa dei formalismi, ma che non esclude a priori l’utilizzo di formalismi, utilizzo che si fa discendere solo da ragioni vitali per il partito.

Già all’epoca, e ancor oggi, erano in molti a porre la questione del centralismo organico come contrapposto al centralismo democratico, come fosse una questione terminologica. Ma è tutt’altro che una questione terminologica.

«Nella sua contraddittorietà, la seconda formula [centralismo democratico] – scrivevamo nella Premessa alle Tesi del partito dopo il 1945 – riflette bensì nel sostantivo l’aspirazione al partito mondiale unico come noi l’abbiamo sempre auspicato, ma rispecchia nell’aggettivo la realtà di partiti ancora eterogenei per formazione storica e base dottrinaria, fra cui siede come arbitro supremo (anziché come vertice di una piramide, unito alla base da un filo unico ed omogeneo svolgentesi dall’uno all’altro e viceversa senza soluzioni di continuità) un Comitato Esecutivo o un ente omonimo, il quale, non essendo a sua volta vincolato dal quell’unico filo ma libero di prendere decisioni alterne e fluttuanti a seconda delle vicissitudini delle “situazioni” e degli alti e bassi del conflitto sociale, periodicamente ricorre – come nella tradizione per nulla affatto contraddittoria della democrazia – ora alla farsa della “consultazione” della periferia (certo di potersene assicurare l’appoggio plebiscitario o quasi), ora all’arma dell’intimidazione e del “terrore ideologico”, nel caso dell’Internazionale Comunista spalleggiato dalla forza fisica e dal “braccio secolare” dello Stato» (3).

Il problema contenuto nel principio del centralismo organico, piuttosto che centralismo democratico, è quindi di contenuto a livello non solo organizzativo e politico, ma teorico. Si tratta di dimostrare anche nelle sue formulazioni, la lotta senza quartiere del partito contro il principio e la prassi della democrazia e di tutto ciò che dalla democrazia consegue (personalismo, individualismo, carrierismo, opportunismo, eclettismo, contingentismo, frazionismo ecc.). E la Premessa appena citata prosegue:

«Nella nostra visione, per contro, il partito si presenta con caratteri di centralità organica perché non è una “parte”, sia pure la più avanzata, della classe proletaria, ma il suo organo, sintetizzatore di tutte le sue spinte elementari come di tutti i suoi militanti, da qualunque direzione provengano, e tale è in forza del possesso di una teoria, di un insieme di principi, di un programma, che scavalcano i limiti di tempo dell’oggi per esprimere la tendenza storica, l’obiettivo finale e il modo di operare delle generazioni proletarie e comuniste del passato, del presente e del futuro, e che superano i confini di nazionalità e di stato per incarnare gli interessi dei salariati rivoluzionari del mondo intero; tale è, aggiungiamo, anche in forza di una previsione, almeno nelle grandi linee, dello svolgersi delle situazioni storiche, e quindi della capacità di fissare un corpo di direttive e norme tattiche obbligatorie per tutti (ovviamente, non senza considerare i tempi e le aree di “rivoluzione doppia” o, invece, di “rivoluzione proletaria pura”, anch’essi previsti e implicanti un ben preciso, anche se diverso, comportamento tattico). Se il partito è in possesso di tale omogeneità teorica e pratica (possesso che non è un dato di fatto garantito per sempre, ma una realtà da difendere con le unghie e coi denti e, se del caso, riconquistare ogni volta), la sua organizzazione, che è nello stesso tempo la sua disciplina, nasce e si sviluppa organicamente sul ceppo unitario del programma e dell’azione pratica, ed esprime nelle sue diverse forme di esplicazione, nella gerarchia dei suoi organi, la perfetta aderenza del partito al complesso delle sue funzioni, nessuna esclusa» (4).

Ed è proprio la lotta per mantenere la rete organizzativa del partito sulla rotta segnata da questi principi che è nata la necessità di separarsi dal gruppo di compagni che all’epoca erano prigionieri della visione sì centralistica, ma democratica, del principio organizzativo del partito, premendo costantemente, fino al frazionismo e alla scissione, per un congresso in cui mettere a confronto posizioni e visioni diverse da sottoporre al voto, considerato da loro così vitale da organizzarlo al di fuori della disciplina centralistica di partito e inserendo nella propria “lotta” la battaglia legale per mantenere nelle proprie mani l’organo che fino a quel momento era l’organo del partito (“battaglia comunista”) e non di una “frazione”. Quel che quei compagni non avevano superato è l’idea che la disciplina – come del resto l’organizzazione – non è un punto di partenza ma un punto di arrivo. Il partito di classe rivoluzionario non è una scatola vuota da riempire con una dottrina e un programma da sottoporre periodicamente al gradimento degli organizzati attraverso congressi o convegni. Sono la dottrina marxista e il programma rivoluzionario che esprimono il partito coerente con essi, ossia quell’organo sintetizzatore di tutte le spinte elementari della classe proletaria da convogliare nella rotta storica della rivoluzione anticapitalistica e per il comunismo; ed è allo stesso tempo anche l’organo sintetizzatore di tutte le spinte elementari di tutti i suoi militanti che si disciplinano al partito perché «vincolati da un programma, da una dottrina e da una chiara e univoca definizione delle norme tattiche comuni a tutto il partito, note ad ognuno dei suoi membri, pubblicamente affermate e soprattutto tradotte in pratica di fronte alla classe nel suo insieme» (5).

Il nostro partito non prevede antitesi fra “base” e “vertice”, o “centro” come lo abbiamo chiamato noi; non vi è una divisione del lavoro ereditata dal regime capitalista con criteri organizzativi che rispondono esclusivamente a norme di tipo carrieristico, di subalternità e di comando da differenziare in  termini di privilegi economici e di status sociale. Il partito, in quanto organizzazione centralistica e piramidale, ha certamente bisogno di “capi” e di “esperti” in determinati settori ma, sulla scorta degli insegnamenti della Comune di Parigi, i militanti che svolgono determinate funzioni  lo fanno per selezione naturale e sono sempre revocabili in ogni momento e sostituibili. I compagni che dirigono il partito non lo fanno perché hanno ricevuto più voti di altri in assemblee convocate (o autoconvocate) appositamente, ma perché è la stessa attività complessiva del partito e il lavoro comune che li ha selezionati, utilizzando al meglio le loro capacità.

Il partito, in quanto complesso organico, non si fa condizionare nel suo operato e nella sua attività da una gerarchia di funzioni tecniche, e meno che mai dal capriccio di decisioni contingenti e maggioritarie. Non solo Marx ed Engels, ma lo stesso Lenin, l’hanno dimostrato materialmente nel corso della loro attività rivoluzionaria. Se è vero che «la rivoluzione non è una questione di forme di organizzazione», nemmeno per il partito rivoluzionario è questione di forme di organizzazione. L’organizzazione di partito «si costituisce in funzione delle esigenze della rivoluzione prevista non solo nel suo sbocco, ma nel suo cammino» (6); si tratti di un nucleo o di un embrione di partito rivoluzionario, o di un partito che nelle condizioni favorevoli alla lotta rivoluzionaria si è strutturato adeguatamente, resta sempre un organo della rivoluzione proletaria e della dittatura proletaria a vittoria rivoluzionaria raggiunta anche nei lunghi periodi caratterizzati da condizioni sfavorevoli alla rivoluzione. Il partito compatto e potente di domani è il punto d’arrivo, ma ci si arriva non solo grazie alle condizioni favorevoli alla lotta di classe e rivoluzionaria, ma anche grazie alla preparazione di lunga mano del partito stesso che, inevitabilmente, dopo la sconfitta del movimento proletario di classe, attraverso un tenace e sistematico lavoro di riassimilazione della teoria marxista e di bilancio storico-politico delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, deve riconquistare quella omogeneità teorica e pratica che sola ne può fare il partito proletario rivoluzionario unitario e mondiale.

  

SENZA TEORIA RIVOLUZIONARIA NON CI PUÒ ESSERE RIVOLUZIONE COMUNISTA, MA NEMMENO PARTITO COMUNISTA RIVOLUZIONARIO

 

Come si può facilmente rilevare dalla nostra storia, dopo la distruzione completa del movimento comunista internazionale per opera dell’azione combinata dell’opportunismo socialdemocratico e staliniano e della controrivoluzione borghese – sia di carattere fascista che democratico – senza un bilancio storico e politico generale delle controrivoluzioni, non si sarebbe mai potuta ricostituire un’attività a carattere di partito che fosse degna del nome di comunista e rivoluzionaria. E dato che soltanto la corrente della Sinistra comunista d’Italia aveva dato prova, fin dal 1912, dell’intransigenza teorica, programmatica e politica necessaria a garantire la linea marxista rivoluzionaria coerente e salda nello spazio e nel tempo, è solo basandosi su di essa e sul suo patrimonio di battaglie di classe accumulato nel corso dei decenni della nostra corrente che si sarebbe potuto ricollegare il filo del tempo spezzato dalla controrivoluzione staliniana.

La restaurazione della dottrina marxista e la ricostituzione di un nucleo organizzato in partito col compito precipuo di dedicare il proprio lavoro comune alla restaurazione teorica e al necessario bilancio storico e politico delle rivoluzioni e, soprattutto, delle controrivoluzioni, «nello sforzo costante non solo di propagandare le nostre posizioni teoriche e programmatiche, ma di “importarle”, secondo la classica definizione di Lenin, nella classe operaia, partecipando nei limiti delle nostre forze alle sue lotte per obiettivi anche immediati e contingenti, e non facendo mai del partito, per piccolo che fosse numericamente, un’accademia di pensatori, un cenacolo di illuminati, una setta di cospiratori armati di un bagaglio inestimabile, ma ignoto se non agli iniziati» (7),  erano l’obiettivo che i comunisti rivoluzionari provenienti dall’esperienza della Sinistra comunista d’Italia si dovevano dare e si dettero. E’ su questa linea che le forze della sinistra comunista si mossero e si riorganizzarono a difesa del marxismo e contro lo stalinismo, in un primo tempo, dal 1928 al 1938, formando la Frazione del PCd’I all’estero, e poi, mentre perdurava la seconda guerra mondiale, tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943, formando – in un’Italia divisa in due tra le forze d’occupazione tedesche e le forze d’occupazione alleate – gruppi di comunisti internazionalisti che, in seguito alla loro unificazione, si costituirono in Partito comunista internazionalista (troppo precipitosamente, secondo Bordiga e diversi altri compagni dell’epoca, dato che il bilancio generale della rivoluzione e della controrivoluzione non era stato ancora tirato, e che il lavoro di restaurazione della dottrina marxista non era nemmeno stato avviato).

Solo con la fine della guerra, e quindi col completo percorso degenerativo e controrivoluzionario dello stalinismo con cui Mosca, alleatasi con Washington, partecipò alla guerra di rapina imperialista e alla successiva spartizione delle zone di influenza mondiali, sarebbe stato possibile tirare il bilancio completo su tutti gli aspetti fondamentali, storici e politici, programmatici e teorici, della controrivoluzione. Bilancio che non doveva basarsi sulle opinioni e sulle posizioni semplicemente “antistaliniane” e “antifasciste” che si erano già formate dal 1926-27 in poi (come nel caso del trotskismo), o sulla formale ripresa del programma di Livorno ’21 e dell’attività del PCd’I dei primi anni Venti (come nel caso della Frazione all’estero e dei militanti della sinistra rimasti in Italia), ma sulle battaglie di classe effettivamente svolte dalle correnti di sinistra del movimento comunista internazionale e, come dicevamo, in particolare, dalla corrente della Sinistra comunista d’Italia; battaglie di classe che erano state condensate in molti documenti e interventi sia in campo “italiano” che in campo internazionale, come ad esempio le Tesi della Sinistra comunista presentate al 3° congresso del PCd’I a Lione nel 1926 (8). Ci vollero anni, almeno dal 1945 al 1951-52, perché dal lavoro e dall’attività prodotti da un’organizzazione a carattere di partito si enucleasse un ampio corpo di tesi capace di garantire coerenza teorica e politica e in grado di ricostituire effettivamente, al di sopra del tempo e dello spazio, il filo del tempo spezzato. Per questo motivo noi datiamo la nascita del partito comunista internazionalista (e poi, internazionale) al 1952 e non al 1943, ossia dalla scissione del 1952 dopo la quale il gruppo di compagni che aderivano completamente al corpo di tesi sopra richiamato si organizzarono intorno alla testata “il programma comunista”.

 

IL PARTITO DI CLASSE NON NASCE BELL’E FATTO, PRONTO PER LA RIVOLUZIONE

  

Il primo periodo, 1952-1960, parte, dunque, da quella che per noi è stata la costituzione effettiva del partito comunista rivoluzionario perché basata su programma, tesi, linee politiche e tattiche e criteri organizzativi interamente definiti ed accettati dai militanti organizzati, ma che avevano visto, negli anni precedenti, una consistente opposizione da parte del gruppo di militanti – coi quali, in precedenza, si formava l’unico “partito comunista internazionalista” il cui unico organo era “battaglia comunista” e la cui unica rivista era “Prometeo” – che li misero in discussione fino a giungere alla scissione. Dato che quel gruppo di militanti si impossessò, per vie legali, del giornale “battaglia comunista” (e di “Prometeo”), il nuovo organo di partito doveva cambiare nome e nacque “il programma comunista”. 

Va ribadito che l’opera di restaurazione della teoria marxista e di distruzione dell’I.C. nata su basi marxiste corrette al tempo di Lenin – iniziata e svolta soprattutto con l’apporto di Amadeo Bordiga, a partire dal 1945-46 (9), è stata la base necessaria perché i comunisti rivoluzionari, non catturati dallo stalinismo o dall’antistalinismo democratico, potessero riorganizzarsi nel partito rivoluzionario del proletariato.

Coloro che hanno seguito le vicende del nostro partito sanno che le nostre radici si trovano nella storia della corrente della sinistra comunista e nella fondazione del Partito comunista d’Italia e, attraverso di essi, nel marxismo; sanno che il partito comunista internazionalista, dal 1952 al 1964, e il partito comunista internazionale, dal 1965, non sono stati la trasformazione in “partito” della Frazione del PCI all’estero che, dal 1928 fino alla seconda guerra mondiale, con la rivista “Bilan”, rappresentò le posizioni più legate alla tradizione comunista rivoluzionaria del PCd’I e dell’Internazionale di Lenin. La profondità della controrivoluzione borghese che prese il nome di “staliniana” e le vicende legate alla partecipazione dei proletariati di tutte le nazioni alla guerra e alle formazioni partigiane in difesa della democrazia borghese “antifascista”, richiedevano non solo una “ripresa” delle tesi dell’Internazionale Comunista dei primi anni, un’opposizione decisa allo stalinismo e un collegamento costante alla tradizione rivoluzionaria del PCd’I, dei bolscevichi, di Lenin, di Trotsky, di Rosa Luxemburg ecc., ma soprattutto un lavoro di completa restaurazione della teoria marxista visto il massacro sul piano teorico, programmatico, politico, economico, ideologico, che essa aveva subito e vista la profondità della sconfitta mondiale subita dal movimento comunista rivoluzionario e, quindi, dal proletariato internazionale.

Come dicevamo, era chiaro a Bordiga e a molti compagni di allora, che ci sarebbero voluti molti anni di lavoro per fare il bilancio della sconfitta subita e per tirare tutte le lezioni più importanti non solo dalle rivoluzioni, ma soprattutto dalle controrivoluzioni. Era altrettanto chiaro che tale opera non poteva essere fatta da un singolo compagno, sebbene dotato teoricamente e di grande esperienza nelle battaglie di classe sostenute nel tempo; ciò che valeva per un Lenin, non poteva che valere anche per un Bordiga. Solo attraverso un lavoro collettivo, basato sui fondamenti originari del marxismo e su un bilancio di tutto il corso controrivoluzionario innestatosi tra il 1925 e il 1927 all’interno dell’Internazionale Comunista e del partito bolscevico, si sarebbe potuta riscostruire «una linea di sinistra veramente generale e non occasionale, che si collega a sé stessa attraverso fasi e sviluppi di situazioni distanti nel tempo e diverse, fronteggiandole tutte sul buon terreno rivoluzionario, non certo ignorandone i carattere distintivi oggettivi» –  come scriveva Amadeo Bordiga a Karl Korsch nella sua famosa lettera del 28 ottobre 1926 (10) – per la quale linea, già all’epoca, si doveva mettere in primo piano «un lavoro pregiudiziale di elaborazione di ideologia politica di sinistra internazionale, basata sulle esperienze eloquenti traversate dal Comintern».

Il quadro internazionale presentava un movimento proletario europeo  pesantemente sconfitto, ed una centrale dell’Internazionale e del partito bolscevico deviata ormai inesorabilmente su posizioni antimarxiste, e perciò antirivoluzionarie. La centrale staliniana giungeva  a trasformare la dittatura proletaria vittoriosamente instaurata con la rivoluzione d’Ottobre (che la Sinistra comunista d’Italia considerava socialista e non borghese, come sosteneva invece l’opposizione a Stalin di cui faceva parte Korsch), in una dittatura controrivoluzionaria. Quest’ultima, sull’enorme spinta storica della rivoluzione proletaria in un paese arretrato come la Russia, non solo doveva necessariamente sviluppare al suo interno l’economia capitalista – tanto più in una situazione di soffocante isolamento rispetto al movimento rivoluzionario proletario europeo e mondiale – ma, per mantenere un’influenza determinante sul proletariato non solo russo, ma mondiale, giunse a etichettare ogni passo economico e politico indirizzato allo sviluppo del capitalismo in Russia come un passo avanti nella «costruzione del socialismo in Russia», su cui fondò la teoria del socialismo in un paese solo. Contro questa teoria e contro tutte le manovre organizzative e disciplinari applicate per piegare tutte le tendenze che nel partito bolscevico sostenevano la linea rivoluzionaria leninista, si ribellò la vecchia guardia bolscevica russa, a partire da Trotsky, per proseguire con Zinoviev, Kamenev, Pjatakov, Krupskaia e molti altri, organizzando una opposizione che si allargò in Europa, in particolare in Germania. Ciò che la Sinistra comunista d’Italia denunziava apertamente da tempo – e che nelle sue Tesi di Lione del gennaio 1926 doveva denunciare apertamente – era l’indirizzo politico prevalente nel partito comunista russo (quello che poi si chiamerà stalinismo) come parte «del piano antirivoluzionario che conta sui fattori interni dei contadini ricchi e della nuova borghesia e piccola borghesia, e sui fattori esterni delle potenze imperialistiche; sia che questo piano prenda la forma di una aggressione interna ed esterna, sia di un progressivo sabotaggio ed influenzamento della vita sociale e statale russa, per costringerla ad una involuzione progressiva e ad una deproletarizzazione dei suoi caratteri» (11). Tale involuzione progressiva e deproletarizzazione dei caratteri della dittatura proletaria e del suo indirizzo politico, di fronte ad una opposizione divisa, in parte confusa e indebolita dalla condivisione di precedenti cedimenti sul piano politico e tattico, nel giro di qualche anno trionfarono non solo in Russia, ma nella stessa Internazionale che, dal pericolo di degenerazione avvertito fortemente dalla Sinistra comunista d’Italia negli anni dal 1924 in poi (12), fu trasformata in uno strumento di coercizione nei confronti dei partiti aderenti affinché si uniformassero agli indirizzi che di volta in volta venivano emanati in difesa delle ragioni di Stato russe.

Lo stravolgimento delle linee programmatiche e politiche marxiste che avevano caratterizzato il partito bolscevico di Lenin e l’Internazionale Comunista dei primissimi anni fu completato con una lunga, tenace e capillare operazione di falsificazione del comunismo marxista, accompagnata inevitabilmente dall’uso della forza statale di un potere “sovietico” che in Russia si portò decisamente sul terreno capitalistico e borghese, quindi contro la rivoluzione socialista e il suo sviluppo non solo in Russia, ma nel mondo. La curva discendente della controrivoluzione doveva fare il suo corso, un corso che porterà il potere “sovietico” stalinizzato a cercare alleanze imperialiste prima con la Germania di Hitler per spartirsi la Polonia, poi con gli Alleati per partecipare alla seconda carneficina imperialista mondiale e, a guerra antitedesco-giapponese finita e vinta, spartirsi l’Europa e il mondo in un condominio imperialistico che ebbe tra i suoi principali obiettivi quello di dominare, influenzare e controllare le masse proletarie di tutti i paesi in modo che, dopo aver dato il sangue nella guerra di rapina imperialistica continuassero a darlo nella ricostruzione e nella “ripresa economica” postbellica.

Tutto questo terribile corso di sfruttamento e di massacro delle masse proletarie del mondo – tenute per decenni nell’illusione che la democrazia antifascista, da un lato, e il cosiddetto “socialismo reale” di cui si fregiava la Russia staliniana, dall’altro, rappresentassero la via della loro emancipazione sociale – poteva essere letto e interpretato soltanto con gli strumenti forniti dalla dottrina marxista. Ma il marxismo era stato stravolto, stracciato, falsificato proprio da coloro che si facevano passare per i maggiori interpreti e difensori del comunismo rivoluzionario, di Marx, Engels, Lenin; che pubblicavano e diffondevano le loro opere nel mondo in tutte le lingue, che fondavano istituti ed enti di studio e di propaganda del “marxismo”, che assoldavano professori, filosofi, artisti di chiara fama allo scopo di nobilitare non la dottrina marxista, ma la loro vigliacca opera di distruzione della dottrina marxista.

 

IL CONTROLLO OPPORTUNISTA DELPROLETARIATO: DECISIVO NELLA SCONFITTA NEL PRIMO E NEL SECONDO DOPOGUERRA

 

Tutto questo terribile corso di sfruttamento e di massacro delle masse proletarie del mondo - tenute per decenni nell’illusione che la democrazia antifascista, da un lato, e il cosiddetto “socialismo reale” di cui si fregiava la Russia staliniana, dall’altro - rappresentassero la via della loro emancipazione sociale, poteva essere letto e interpretato soltanto con gli strumenti forniti dalla dottrina marxista. Ma il marxismo era stato stravolto, stracciato, falsificato proprio da coloro che si facevano passare per i maggiori interpreti e difensori del comunismo rivoluzionario, di Marx, Engels, Lenin; che pubblicavano e diffondevano le loro opere nel mondo in tutte le lingue, che fondavano istituti ed enti di studio e di propaganda del marxismo, che assoldavano professori, filosofi, artisti di chiara fama allo scopo di nobilitare non la dottrina marxista, ma la loro vigliacca opera di distruzione della dottrina marxista.

La sconfitta del proletariato, negli anni in cui maturarono le condizioni della rivoluzione socialista in tutto il mondo sull’onda della vittoria dell’Ottobre bolscevico, fu dovuta in gran parte al cedimento opportunista dei partiti che furono alla testa del movimento operaio mondiale. Ecco perché l’opera di restaurazione del marxismo autentico non poteva passare cha da una lotta aspra, tenace e di lunga durata contro ogni forma di opportunismo. Data la profondità e l’estensione mondiale della vittoria della controrivoluzione, l’opera di restaurazione della dottrina marxista avrebbe richiesto necessariamente un lavoro collettivo di lunghi anni, con un handicap maggiore rispetto all’opera di restaurazione del marxismo fatta da Lenin, poiché lo sfondo internazionale nel periodo che comprende la seconda guerra imperialistica e il suo dopoguerra non era di sviluppo della lotta di classe e rivoluzionaria, ma di un proletariato che, nei paesi capitalisticamente avanzati, «più che essere schiacciato dalla borghesia, è controllato da partiti che lavorano al servizio di questa e impediscono al proletariato stesso ogni movimento classista rivoluzionario» (13). Certo, vi possono essere situazioni storicamente favorevoli che vedono le masse proletarie lanciate verso la rivoluzione ma con un partito proletario non preparato alla rivoluzione; e situazioni storicamente favorevoli sia dal punto di vista sociale, oggettivo – le masse lanciate verso la rivoluzione e verso il partito che l’ha prevista e descritta in anticipo, come Lenin rivendicò ai bolscevichi di Russia – sia dal punto di vista soggettivo, con un partito proletario ben preparato e influente sul proletariato, finora raro esempio storico di condizioni generali favorevoli alla rivoluzione proletaria internazionale. Ma nel bilancio che il partito trasse dalla controrivoluzione si mise in risalto un altro tema, non secondario, che riguarda proprio la costituzione del partito di classe. Dalla degenerazione opportunista che distrusse i partiti comunisti e la Terza Internazionale si trasse la lezione secondo la quale il partito di classe non si doveva più costituire come un aggregato di partiti e di correnti differenti, con basi teoriche e programmatiche non univoche e con storie diverse, bensì doveva costituirsi come un unico organismo, unitario, teoricamente e programmaticamente omogeneo, un unico partito mondiale. Si cominciò a lavorare infatti in questa direzione e per questo obiettivo e, superando le diverse crisi che il partito ha subito nella sua più che sessantennale storia recente, noi continuiamo a lavorare.

Era indubbio che la situazione presentatasi nel secondo dopoguerra era particolarmente sfavorevole, ma c’erano gruppi di compagni che credevano, invece, che dal 1945 ci fosse una riproposizione delle condizioni “favorevoli” del primo dopoguerra e che si trattasse soltanto di riprendere formalmente, in tutti i suoi aspetti, la stessa attività che svolse il PCd’I nel 1921. Nulla di più sbagliato. Da quella data sono passati settantatre anni e la situazione generale continua ad essere particolarmente sfavorevole. Questo dato storico, che può essere modificato solo dalle condizioni sociali oggettive che maturano nello stesso sviluppo del capitalismo e delle sue crisi, non deve portare a conclusioni che sarebbero solo volontaristiche, contingentistiche o, all’opposto, accademiche. L’antagonismo di classe che oppone il proletariato alla borghesia è un dato sociale storico che “lavora” nel sottosuolo economico e sociale della società capitalistica al di là della “coscienza” che il proletariato può avere di questo fatto, e che continua a “lavorare” nonostante tutte le manovre e tutti i mezzi che la classe dominante borghese, sia a livello locale e nazionale, sia a livello internazionale, mette in opera per attenuarne gli effetti, per mascherarlo, per ridurlo da fatto sociale e di classe a fatto di razza, o di nazionalità, o di sesso, o di età, insomma a fatto individuale. E nella sua opera di pressione sociale sul proletariato, la borghesia, corrompendo gli strati superiori della classe proletaria e proletarizzando gli strati più bassi della media e piccola borghesia, mette in funzione un’attività di corruzione generalizzata delle masse proletarie dal punto di vista ideologico e pratico attraverso le organizzazioni politiche del proletariato, basando la sua influenza su una delle sue armi più micidiali: la collaborazione di classe. Con la collaborazione di classe, è lo stesso schiavo salariato che rafforza le catene che lo legano al carro borghese, nell’illusione di poter migliorare, anche di poco, le sue condizioni di esistenza.

La storia dei rapporti di classe tra borghesia e proletariato ha conosciuto diverse fasi, e il marxismo le ha analizzate e identificate scientificamente tanto da poter distinguere lo sviluppo del capitalismo nel mondo in tre grandi fasi storiche: una prima fase, quella rivoluzionaria (lotta contro i modi di produzione precapitalistici e contro tutti i vincoli politici e sociali ad essi legati, applicazione della violenza e del terrore rivoluzionari), una seconda fase, quella progressiva e riformista (grande sviluppo del capitalismo, in Europa e in America, crescita progressiva delle masse di proletari e crescita del loro tenore medio di vita, sviluppo per vie legalitarie e pacifiche del liberalismo e dei sistemi democratici e parlamentari), e una terza, ed ultima, fase, quella imperialista e reazionaria (concentrazione monopolistica dell’economia, grandi trust capitalistici, lo Stato come organo di controllo e di gestione dell’economia).

Ai cicli del mondo capitalistico corrispondono anche i cicli del movimento proletario. Nella fase rivoluzionaria dei cicli borghesi il nascente proletariato non può non combattere a fianco della borghesia per il rovesciamento degli istituti feudali ed è al suo fianco anche nella lotta contro i rigurgiti reazionari delle classi monarchiche e terriere. Ma, nello stesso tempo, i regimi borghesi vietano, con la forza dello Stato e delle sue leggi, l’organizzazione indipendente del proletariato; un proletariato che, nei paesi capitalistici più avanzati, tende a sviluppare la propria lotta dall’appoggio alla borghesia contro le classi aristocratiche e feudali alla propria rivoluzione di classe per la conquista del potere, confermando in questo modo il cammino storico delineato dal marxismo (e la Comune di Parigi del 1871 ne è l’esempio più alto in questa fase). Nella fase progressista e riformista del capitalismo, la lotta del proletariato, sul terreno immediato e su quello politico, ottiene importanti risultati; attraverso le grandi organizzazioni economiche e politiche della classe operaia, quest’ultima sviluppa la sua attività fino a conquistare le istituzioni con mezzi legali, costituendo in questo modo la base materiale per lo sviluppo delle correnti opportuniste e revisioniste del marxismo; la “conquista del potere” da parte delle classi lavoratrici, secondo queste correnti, viene vista come un obiettivo da raggiungere senza violenza, senza rivoluzione, senza scontri sanguinosi tra nemici giurati, ma mediante le vie legali, parlamentari, democratiche, pacifiche attraverso un percorso di collaborazione tra le classi.

E’ tale politica opportunistica che porterà alla spaventosa crisi del movimento proletario socialista mondiale di fronte allo scoppio della guerra del 1914; gran parte dei capi sindacali e parlamentari socialisti sosterranno la politica della collaborazione nazionale e di adesione alla guerra imperialista. Tra il 1871 e il 1914, vero intermezzo idilliaco del mondo capitalistico, il movimento proletario mondiale, pur sviluppatosi organizzativamente sia sul piano dei sindacati economici che su quello dei partiti politici, e sottoposto alla pressione politica e sociale del riformismo, sia di tipo borghese che di tipo socialista, esprime ancora una forte spinta di classe e rivoluzionaria che viene però colpita a tradimento dalla conversione della gran parte dei partiti socialisti alla collaborazione di guerra con le proprie borghesie nazionali. Soltanto alcune correnti di sinistra del socialismo mondiale, a partire dal partito bolscevico di Lenin, oppongono una fiera lotta contro l’opportunismo che corrose la Seconda Internazionale e quasi tutti i partiti ad essa aderenti. Ma la guerra imperialista mise in crisi il regime zarista, contro il quale la sinistra marxista russa (Lenin, bolscevichi), che da decenni sosteneva la prospettiva strategica della lotta rivoluzionaria del proletariato per la “doppia rivoluzione” – contro tutte le forze dell’assolutismo zarista e feudale e, contemporaneamente, contro le forze della giovane borghesia – e come obiettivo storico principale la dittatura proletaria, riuscì ad approfittare delle straordinarie condizioni favorevoli che la situazione russa e mondiale offriva alla rivoluzione proletaria – nonostante il fallimento della Seconda Internazionale e il voltafaccia della gran parte dei partiti socialisti del mondo – e a realizzare questo grandioso piano (14). La rivoluzione d’Ottobre, i suoi riflessi sul movimento operaio internazionale e la crisi sociale e politica in cui precipitarono le classi dominanti europee, presentarono uno dei quei rari casi storici favorevoli alla rivoluzione proletaria internazionale, di cui riferivamo riprendendo le Considerazioni sull’organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole, del 1965. La sconfitta che il movimento comunista internazionale subì a causa della degenerazione opportunista che colpì la Terza Internazionale e i partiti comunisti ad essa aderenti, è stata talmente profonda e vasta da rimandare l’appuntamento storico con la rivoluzione proletaria di cinquant’anni in cinquant’anni.

Dai primi tentativi rivoluzionari del proletariato europeo (1848) alla Comune di Parigi (1871) passarono 23 anni; il capitalismo si stava sviluppando con grandissime accelerazioni, in Europa e nelle Americhe, e il proletariato trasmetteva direttamente da generazione a generazione le esperienze della lotta rivoluzionaria (sia a fianco delle borghesie antifeudali, che nelle proprie lotte di classe). Dal 1871 alla Rivoluzione d’Ottobre (1917) passarono 46 anni; il capitalismo passava alla sua fase imperialista, i partiti socialisti si imponevano come elementi politici di cui i regimi borghesi non potevano non tener conto, tanto da catturarne i capi nella collaborazione nazionale, ma con un proletariato nelle cui file vivevano ancora in modo determinante le esperienze delle battaglie di classe e che dava ancora forti segnali di tensione rivoluzionaria (in Germania, in Ungheria, in Italia, in Polonia, in Serbia), elementi questi che, insieme ai movimenti nazionalrivoluzionari delle colonie, facevano da base materiale alla costituzione della Terza Internazionale.

Dal 1917 ad oggi 2018 sono passati cent’anni abbondanti, ma se spostiamo la data di riferimento al 1926, considerandola come la data in cui formalmente la linea controrivoluzionaria vinse definitivamente nell’Internazionale Comunista, di anni ne sono passati novantadue. Ai tempi di Marx e di Lenin le crisi cicliche del capitalismo si presentavano all’incirca ogni dieci anni, e queste crisi erano l’occasione reale di cui il movimento proletario approfittava per porre con determinazione le sue rivendicazioni economiche e politiche; successivamente, e in particolare nell’ultimo trentennio, le crisi capitalistiche si sono presentate a distanza più ravvicinata una dall’altra. Passando alle crisi sociali nelle quali si possono presentare condizioni più favorevoli al movimento proletario di classe e rivoluzionario, la distanza tra una e l’altra aumenta notevolmente: dai 23 anni della prima fase storica siamo passati ai 46 anni per la seconda fase storica, ed ora siamo oltre i 92 anni nella terza fase storica; dalla prima alla seconda la distanza in anni è raddoppiata, ed ha coinvolto dalle tre alle quattro generazioni; dalla seconda alla terza l’intervallo sta superando il quadruplo di distanza e le generazioni coinvolte sono certamente più di sei. In tutto questo arco storico, uno degli obiettivi importanti per la classe dominante borghese è stato quello di spezzare il filo della continuità di lotta politica e della tradizione di lotta proletaria che lega una generazione proletaria alla successiva, in modo che le esperienze di lotta classista e rivoluzionaria non si trasmettessero da una generazione all’altra. Questo è un obiettivo che la borghesia non sarebbe riuscita e non riesce a raggiungere senza l’apporto determinante delle forze opportuniste che operano sistematicamente a favore della «collusione del proletariato coi ceti intermedi, i loro partiti e le loro ideologie votate alla disfatta» (15). La nostra spietata lotta contro ogni tendenza opportunista, sia sul piano teorico e politico generale, sia sul piano pratico e organizzativo, è ancora più indispensabile quanto più le forze di conservazione sociale della borghesia e le forze dell’opportunismo e del collaborazionismo operano per distruggere, cancellare dalla memoria e dal cuore dei proletari la loro tradizione di lotta classista. La nostra non è una battaglia accademica, non si limita agli insegnamenti di tesi e alla ricerca di documenti dimenticati, meno che mai a dissertazioni su questa o quella interpretazione dei testi, ma si propone di tener viva l’assimilazione della teoria marxista nella sua monoliticità e nella sua intransigenza, seguendo il metodo organico del lavoro collettivo a carattere di partito che i militanti comunisti rivoluzionari della vecchia guardia hanno consegnato alla generazione successiva di militanti e, nello stesso tempo, di trasmettere – anche se a livello di nucleo o di embrione di partito – una consegna incorrotta e possente ad una giovane guardia che ha il compito di mantenerla incorrotta e di importarla nella classe proletaria in lotta affinché il suo movimento si indirizzi sulla via della rivoluzione sulla scorta di una tradizione classista e rivoluzionaria custodita tenacemente che, in forza delle stesse contraddizioni sociali ed economiche della società capitalistica, i  militanti comunisti rivoluzionari ravviveranno approfittando di ogni spiraglio che oggettivamente si aprirà.      

Il periodo storico favorevole alla rivoluzione proletaria, apertosi e ampliatosi con la rivoluzione d’Ottobre, si esaurì, come abbiamo tante volte dimostrato, a causa soprattutto della degenerazione politica dei partiti proletari che, con il prevalere dello stalinismo su ogni opposizione di sinistra, ha condotto il proletariato di ogni paese al più totale asservimento alla borghesia imperialista “nazionale”. «La fase imperialistica – scrivevamo nel 1946 – matura economicamente in tutti i paesi moderni, nella sua forma politica fascista [che per prima apparve in Italia] che apparve e apparirà con una successione determinata dai contingenti rapporti di forza tra stato e stato e tra classe e classe nei vari paesi del mondo. Tale passaggio poteva essere accolto ancora una volta come un’occasione per assalti rivoluzionari del proletariato; non però nel senso di schierare e dilapidare le forze della sua avanguardia comunista nell’obiettivo illusorio di arrestare la borghesia nel suo movimento di uscita dalle forme legali con l’assurda rivendicazione del ripristino delle garanzie costituzionali e del sistema parlamentare, ma all’opposto accettando la fine storica di questo strumento dell’oppressione borghese e l’invito alla lotta fuori della legalità per tentare di infrangere tutte le altre impalcature, poliziesche, militari, burocratiche, giuridiche del potere capitalista e dello Stato» (16). Ma i partiti comunisti ormai stalinizzati passarono «alla strategia del grande blocco antifascista, esasperato con le parole della collaborazione nazionale nella guerra antitedesca del 1939, dei movimenti partigiani, dei comitati di liberazione nazionale, fino alla vergogna della collaborazione ministeriale», segnando in questo modo «la seconda disastrosa disfatta del movimento rivoluzionario mondiale» (17).

E’ da questa seconda disastrosa disfatta del movimento rivoluzionario mondiale che bisognava e bisogna ripartire. Un lavoro immane di restaurazione della teoria marxista attendeva di essere fatto, insieme ad un bilancio storico e politico delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni; solo le pochissime forze superstiti della Sinistra comunista d’Italia potevano farlo e, dal secondo dopoguerra in avanti, si misero al lavoro. Noi sosteniamo da sempre che soltanto i gruppi che derivano dalla lotta della Sinistra comunista d’Italia contro la degenerazione staliniana avevano ed hanno la possibilità (non il “diritto”) «di intendere meglio di ogni altro per quale strada il partito vero, attivo, e quindi formale, possa rimanere in tutta aderenza ai caratteri del partito storico rivoluzionario, che in linea potenziale esiste per lo meno dal 1847 [quando è stato scritto il Manifesto del partito comunista], mentre in linea di prassi si è affermato a grandi squarci storici attraverso la serie tragica delle sconfitte della rivoluzione» (18). E questa “possibilità” è data dalla storia stessa della corrente della Sinistra comunista che in Italia ha tracciato un lungo solco, a carattere internazionale, delle battaglie di classe contro ogni tendenza e forma dell’opportunismo.

 

LOTTA SENZA QUARTIERE CONTRO LA DEMOCRAZIA, LIBERALE O IMPERIALISTA CHE SIA, SUL PIANO TEORICO E SUL PIANO PRATICO

 

Oggi, che sia il 1965 o il 2018 purtroppo non cambia molto, il lavoro comune a carattere di partito si sta facendo «in una situazione oggettiva torpida e sorda, in mezzo ad un proletariato infetto di democratismo piccoloborghese fino alle midolla». Il nostro lavoro è indirizzato a far sì che il «nascente organismo [di partito] utilizzando tutta la tradizione dottrinale e di prassi ribadita dalla verifica storica di tempestive previsioni, la applica anche alla sua quotidiana azione perseguendo la ripresa di un contatto sempre più ampio con le masse sfruttate, ed elimina dalla propria struttura uno degli errori di partenza dell’Internazionale di Mosca, liquidando la tesi del centralismo democratico e la applicazione di ogni macchina di voto, come ha eliminato dalla ideologia anche dell’ultimo aderente ogni concessione ad indirizzi democratoidi, pacifisti, autonomisti e libertari» (19).

Questo ultimo testo citato è del 1965 e parla ancora molto chiaramente di nascente organismo, dunque non di un partito già bell’e formato, influente sul proletariato e in grado di mobilitarne importanti reparti, ma di un partito-embrione, un partito che si sta formando – o meglio – che le forze collegate alla Sinistra comunista tentavano di riorganizzare dopo la disastrosa sconfitta del movimento comunista, sconfitta che lo ridusse a un paio di centinaia di militanti al mondo che resistettero sul bastione della difesa del partito storico (la dottrina marxista, l’unica teoria rivoluzionaria senza la quale non ci sarà mai un movimento rivoluzionario) e che, finita la seconda guerra imperialista, approfittarono della “libertà di movimento” e della “libertà di organizzazione e propaganda politica”, per riunirsi e cominciare a fare la necessaria opera di restaurazione della teoria marxista, il necessario bilancio delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni e i conti con la storia dei partiti comunisti e della loro degenerazione. Su questo terreno era perfettamente giusto parlare del partito di domani, del partito “compatto e potente” citato da Amadeo Bordiga nella ricordata lettera a Korsch del 1926, come lo sviluppo di un organismo nascente, un organismo embrionale.

Chi ci segue da tempo sa che Amadeo Bordiga ed altri compagni dell’epoca non erano dell’avviso di costituirsi subito formalmente in partito (che si chiamerà comunista internazionalista); d’altra parte non erano d’accordo già a suo tempo con Korsch sulla sua proposta del 1926 di costituire formalmente un’opposizione internazionale allo stalinismo col metodo di radunare le varie correnti che, soprattutto in Russia, in Germania, in Italia, per un motivo o per un altro, gli si opponevano. Nella lettera a Korsch, Amadeo Bordiga dichiarava che “in primo piano, oggi, più che l’organizzazione e la manovra, si deve mettere un lavoro pregiudiziale di elaborazione di ideologia politica di sinistra internazionale, basata sulle esperienze eloquenti traversate dal Comintern”; in questa frase è contenuto in pratica tutto il lavoro che i comunisti rivoluzionari rimasti fedeli al programma della fondazione dell’Internazionale Comunista dovevano fare, definendo il criterio con cui farlo per ricostituire il partito di classe a livello internazionale che lo stalinismo, insieme alle altre tendenze eclettiche e opportunistiche, stava distruggendo. Ma gli avvenimenti che portarono alla crisi del 1926 nell’Internazionale Comunista e nei partiti che la formavano non avevano ancora prodotto tutto l’arco di situazioni e di posizioni di cui erano gravidi. D’altronde, le stesse classi borghesi non avevano ancora completato l’opera di rafforzamento del loro potere nei paesi distrutti dalla guerra. Il fascismo in Italia non aveva ancora svolto completamente la sua funzione di centralizzazione economica e politica capitalistica e di schiacciamento delle forze proletarie e comuniste, mentre in Germania, dopo aver decapitato il partito comunista e aver attirato sul terreno della collaborazione socialdemocratica i capi dei partiti operai, di fronte ad un proletariato che era stato capace di lottare sul terreno oggettivamente rivoluzionario per ben 9 anni, già durante la guerra nel 1915 e, attravero una serie di lotte, di avanzate e di rinculi, fino al 1923, purtroppo senza una guida politica all’altezza del compito e perciò battuto drammaticamente, ma che rappresentava sempre un pericolo per la classe dominante borghese, la risposta di quest'ultima fu trovata successivamente nel nazionalsocialismo – dunque nel nazismo – chiave di volta per rimettere l’economia tedesca, disastrata dalla guerra e dalle sue conseguenze, non solo in moto dopo la crisi del 1929, ma nelle condizioni di accelerare il suo sviluppo tanto da presentarsi all’appuntamento con la guerra imperialista nel 1939 con una forza militare in grado di fronteggiare un formidabile nemico costituito da tutte le potenze europee alleate tra di loro, Russia compresa. In Russia, un nascente ceto sociale costituito da burocrati, nepman e dalla nomenklatura del partito che si stava stalinizzando sempre più ideologicamente e, soprattutto, praticamente, stava rappresentando sempre più gli interesi oggettivi dell’economia capitalistica (e quindi della borghesia) che storicamente e necessariamente si stava sviluppando in quell’immenso continente, sostituendo, di fatto, la classe borghese che la vittoriosa rivoluzione proletaria dall’Ottobre in poi aveva vinto e disperso. E, nello scenario mondiale, si stavano imponendo forze imperialiste di primissimo piano come, in occidente, gli Stati Uniti che prenderanno rapidamente il posto delle vecchie potenze, Inghilterra e Francia, nel controllo imperialistico mondiale e, in oriente, il Giappone che si presenterà già negli anni Trenta come una grande potenza imperialistica affamata di territori economici alla pari delle altre potenze occidentali e che, dopo aver invaso la Manciuria e, in seguito, la Cina, e dopo aver sottoscritto un patto di non aggressione con la Russia di Stalin, entrerà in guerra nel dicembre 1941 con il famoso attacco alla base navale americana di Pearl Harbor.

La situazione mondiale, che abbiamo appena tratteggiato, evidenziava non solo la drammatica sconfitta del movimento proletario internazionale e del movimento comunista mondiale – il primo fu piegato alle esigenze di guerra delle potenze imperialistiche alle quali si affiancò anche la Russia stalinizzata, il secondo, distrutto a partire dalla metà degli anni Venti del secolo scorso e reso del tutto marginale, fu annientato attraverso le famosissime “purghe staliniane” e l’eliminazione fisica di milioni di militanti comunisti della vecchia guardia, preparando così il proletariato russo a versare il suo sangue nella guerra di rapina imperialistica che si stava preparando –, ma un contemporaneo e straordinario rafforzamento dell’imperialismo che, con il condominio imperialistico americano-russo concordato alla fine della seconda guerra mondiale, riavviava nel periodo storico che si apriva una ulteriore fase di dominio imperialistico nel mondo. Il secondo dopoguerra, date queste premesse, per il movimento proletario, e per lo stesso movimento comunista rivoluzionario che doveva rinascere, non sarebbe stato mai simile al primo dopoguerra, come si illudeva, invece, una parte di militanti del partito comunista internazionalista nei primi anni dalla sua costituzione e che, dopo la scissione del 1052, rimasero con il gruppo di  “battaglia comunista”.

I compiti dei comunisti rivoluzionari non potevano certo essere esattamente gli stessi e con lo stesso peso di quelli che li caratterizzarono dopo il 1917 russo e la costituzione dell’Internazionale Comunista. Inevitabilmente le forze sopravvissute all’annientamento staliniano erano costrette a ripartire dalla restaurazione della dottrina marxista, dalla riproposizione del programma comunista originario e dal bilancio delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, sulla base dell’intero arco degenerativo del movimento comunista internazionale. La ripresa organizzata di questo lavoro non poteva che avere le caratteristiche di quel che Lenin chiamò “fase di circolo” del partito di classe, ossia la fase in cui la formale costituzione del partito di classe è appena iniziata – come succede per il neonato essere umano – essendo presenti tutti gli elementi embrionali necessari al suo sviluppo e alla sua maturazione. La base su cui questi elementi possono svilupparsi in modo organico non può che essere la teoria rivoluzionaria, ossia il marxismo originario, che le vicende storiche legate alle rivoluzioni e alle controrivoluzioni hanno confermato come unica e completa teoria rivoluzionaria che «in tutto il suo completo insieme, come economia scientifica, come interpretazione del corso storico umano, come programma di azione rivoluzionaria e definizione della rivendicazione della società comunista, non può pescarsi come dato di una collettiva consapevolezza di gruppi di uomini, e nemmeno di proletari. Essa ha per portatore una collettività ben limitata, anche quando i precisi confini ne divengono non facilmente identificabili, ossia il partito, nel quale, al di sopra di spazio e tempo, frontiere e generazioni, si raccolgono e si collegano i militanti rivoluzionari» (20).

 

IL PARTITO DI CLASSE, DIALETTICAMENTE, È PRODOTTO E FATTORE DELLA STORIA

 

Tra le varie interpretazioni che sono state date del partito da correnti opportuniste, una tra le più insidiose è stata quella che sostiene che il partito è un punto di arrivo, e non un punto di partenza. La realtà dialettica ci dice che il partito di classe è sia punto di partenza che punto di arrivo e che la differenza tra le due “fasi” è determinata dal tipo di sviluppo che l’organo-partito ha nelle diverse fasi storiche, a loro volta determinate dal rapporto di forze tra la classe borghese e la classe proletaria e dallo sviluppo della lotta di classe e rivoluzionaria. E’ in questo senso che intendiamo il partito di classe come prodotto e fattore della storia. Se così non fosse, non avrebbe senso parlare di partito storico e di partito formale e della necessità storica che il partito formale – ossia la compagine fisica, strutturata, dell’organizzazione militante –, nel periodo in cui la lotta di classe si trasforma in rivoluzione, sia l’applicazione dialettica del partito storico, dunque della teoria rivoluzionaria che contiene “il programma di azione rivoluzionaria e di definizione della rivendicazione della società comunista”, in carne e sangue della lotta rivoluzionaria. «Il principio dell’invarianza storica delle dottrine che riflettono il compito delle classi protagoniste», dunque anche del marxismo, «si applica a tutti i grandi corsi storici». (...) «Secondo il marxismo non vi è progresso continuo e graduale nella storia quanto (anzitutto) alla organizzazione delle risorse produttive, ma una serie di distanti, successivi balzi in avanti che sconvolgono tutto l’apparato economico sociale profondamente e fin dalla base. Sono veri cataclismi,  catastrofi, rapide crisi, in cui tutto muta in breve tempo mentre per tempi lunghissimi è rimasto immutato, come quelle del mondo fisico, delle stelle del cosmo, della geologia e della stessa filogenesi degli organismi viventi». (...) «Lo stesso marxismo non può essere una dottrina che si va ogni giorno plasmando e riplasmando di nuovi apporti e con sostituzione di “pezzi” – meglio di rattoppi e “pezze”! – perché è ancora, pure essendo l’ultima,  una delle dottrine che sono arma di una classe dominata e sfruttata che deve capovolgere i rapporti sociali, e nel farlo è oggetto in mille guise delle influenze conservatrici delle forme ed ideologie tradizionali proprie delle classi nemiche». «Anche potendo da oggi, anzi da quando il proletariato è apparso sulla grande scena storica, intravedere la storia della società futura senza più classi e quindi senza più rivoluzioni, deve affermarsi che per lunghissimo periodo che a tanto condurrà, la classe rivoluzionaria in tanto assolverà il suo compito in quanto si muoverà usando una dottrina e un metodo che restino stabili e siano stabilizzati in un programma monolitico, in tutto il volgere della tremenda lotta – variabilissimo restando il numero di seguaci, il successo delle fasi e degli scontri sociali» (21). Quanto sostenuto in queste citazioni dal resoconto della riunione di partito tenuta a Milano il 7 settembre 1952, e dedicata per l’appunto all’invarianza storica del marxismo, non è una scoperta  nostra o di Amadeo Bordiga, ma è il ribadimento di quanto sostenne Lenin in tutta la sua opera di restaurazione della teoria marxista resasi necessaria data la grande influenza sul proletariato e le sue lotte che ebbero le correnti opportuniste alla Bernstein e alla Kautsky.

In quei lunghissimi periodi in cui l’apparato economico e sociale del capitalismo rimane sostanzialmente immutato e in cui la classe borghese domina la società schiacciando il proletariato in uno sfruttamento sempre più pesante, i contrasti e le contraddizioni di classe non spariscono; anzi, sviluppandosi, il capitalismo genera costantemente fattori di crisi su cui le forze rivoluzionarie, anche se ridotte a piccolissimi nuclei (date le sconfitte subite dal movimento proletario e comunista), hanno la possibilità di mantenere viva la continuità teorica, programmatica e, nei limiti della loro reale situazione, anche organizzativa e pratica solo alla condizione di tenersi strettamente legate alla dottrina marxista invariata. Quando questo non avviene, quelle forze, o parte di esse, cedono alle lusinghe dell’ideologia e delle dottrine borghesi e passano di fatto dalla parte del nemico.

Dunque, la fase di “circolo” che il partito attraversa nel suo sviluppo formale, è importante perché è la fase necessaria che il partito di classe necessariamente e storicamente non può non attraversare, tanto più trattandosi di un partito che non è confinato o confinabile nei limiti di un paese, ma è, non solo programmaticamente, ma anche organizzativamente, internazionalista.

Parlando degli anni intorno al 1950, e quindi della “fase di circolo” del partito, non abbiamo mai inteso sostenere che fossero l’espressione di attività puramente letteraria, ma la fase in cui l’opera di restaurazione della teoria marxista, iniziata dopo lo sfacelo della degenerazione dell’I.C. e dei partiti comunisti che ne facevano parte, non aveva ancora raggiunto il risultato di quell’omogeneità teorico-programmatica e politico-pratica che è la base indispensabile del partito di classe e della centralizzazione del lavoro di partito, anch’essa incompleta e con militanti particolarmente “assorbiti dal lavoro locale” che, in un certo senso, permetteva una attività relativamente autonoma. Rispetto alla situazione in cui viveva Lenin nella sua opera di restaurazione teorica, noi siamo partiti col vantaggio oggettivo di un bilancio ulteriore che la storia ci ha concesso di tirare e con un giornale centrale tendenzialmente “organizzatore-collettivo”, ma con un terribile handicap costituito dalla situazione reale che dava allo stesso giornale più un ruolo direttivo che organizzativo. Le crisi che ha subito il partito hanno in effetti riproposto questo problema ogni volta, ed ogni volta emergevano posizioni che richiamavano la visione di un partito solo come un punto d’arrivo, riducendo la concezione del partito al dato formale, numerico, di estensione organizzata nello spazio e innalzando in questo modo a poco a poco, non ha importanza se involontariamente, una barriera tra teoria e prassi: si declama il principio del centralismo organico, ma si applica il centralismo democratico; si giura sul centralismo, ma si riduce il centro del partito alla funzione di buca delle lettere e di registratore delle attività locali delle sezioni.

All’inizio abbiamo parlato di fasi di crescita e di selezione del partito. In realtà, se la crescita numerica delle forze del partito è un dato importante e positivo – alla condizione naturalmente che avvenga secondo criteri e metodi di selezione politica costanti e intransigenti –, è evidente che l’aspetto più importante è dato dalla selezione dei militanti, appunto dai criteri e dai metodi della selezione. Se era, ed è, un’idea del tutto sbagliata quella secondo cui l’adesione formale al partito debba avvenire semplicemente accettando letterariamente il programma e lo statuto del partito – come facevano i militanti che seguirono poi, nella scissione, il gruppo che si impossessò di “battaglia comunista” – e la “selezione” debba sottostare alle decisioni di una maggioranza decretata da ogni congresso del partito in cui si confrontano tesi e posizioni diverse se non contrastanti, è altrettanto sbagliata l’idea secondo la quale – dato che non abbiamo uno statuto e non definiamo le posizioni e le direttive del partito attraverso tesi maggioritarie uscite dal voto nei congressi – l’adesione al partito e la militanza nel partito debbano avvenire sì attraverso l’accettazione del programma, dei principi e delle posizioni generali del partito ma non necessariamente delle posizioni tattiche definite centralmente, essendo queste considerate come del tutto mobili e dipendenti dalle situazioni che di volta in volta, e di luogo in luogo, possono variare o presentarsi improvvisamente. La Sinistra comunista d’Italia, per le condizioni di ammissione all’Internazionale Comunista nel 1920, insistette – e fece accettare – che anche per la tattica che i partiti comunisti dovevano adottare omogeneamente in ogni parte del mondo, la rosa delle eventualità tattiche fosse fissata in norme ben precise alle quali ogni partito membro doveva attenersi e che doveva applicare. Lasciare libero il campo della tattica, anche solo parzialmente, avrebbe significato, e significa, aprire le porte ad ogni influenza democratica e borghese attraverso la quale verrebbero attaccati non solo i criteri organizzativi, ma la stessa teoria e gli stessi principi da cui discende il programma del partito. Negli anni dal 1922-23 in avanti, a livello internazionale, è successo esattamente questo, avviando in questo modo il processo di degenerazione dell’I.C. e di tutti i partiti ad essa aderenti. E’ una lezione che la Sinistra comunista d’Italia ha tirato fino in fondo e che ci ha trasmesso attraverso l’attività del partito comunista internazionalista, e poi internazionale, nonostante le sue crisi e la sua esplosione formale nel 1982-84.

E’ per noi assodato che il partito, anche se la sua consistenza numerica è del tutto minima, sia pure nella sua fase di “circolo” o di “embrione”, è organizzato centralisticamente e che tale organizzazione deve corrispondere all’organicità contenuta non solo nella teoria, nei principi, nel programma del partito, ma anche nei suoi criteri di organizzazione e di azione tattica, poiché tutti questi aspetti formano la base monolitica del partito che non ammette la loro netta separazione uno dall’altro. Le garanzie che il partito si formi e si sviluppi coerentemente su quella base monolitica non sono date da particolari forme di organizzazione e da norme disciplinari che prevedano sanzioni per coloro che non si attengono ai regolamenti stabiliti in uno statuto; sono date da un continuo lavoro di ribadimento della teoria marxista e di tutto ciò che ne discende, fino alla centralizzazione organizzativa del partito, ma strettamente legato alle battaglie di classe che i partiti comunisti di ieri (e in particolare il partito di Lenin e la Sinistra comunista d’Italia) hanno condotto su tutti i piani, compresi quelli tattici e organizzativi. Solo un organismo-partito che si forma e si sviluppa su quelle basi può aspirare a diventare il partito compatto e potente che dirigerà un domani la rivoluzione e la dittatura del proletariato.

 (1-continua)

 

 


 

(1) Vedi le Tesi sul compito storico, l’azione e la struttura del partito comunista mondiale, secondo le posizioni che da oltre mezzo secolo formano il patrimonio storico della Sinistra comunista – luglio 1965, dette Tesi di Napoli perché presentate alla Riunione Generale del Partito tenuta in quella città il 17-18 luglio 1965; nel n. 2 dei testi del partito comunista internazionale intitolato In difesa della continuità del programma comunista, Firenze giugno 1970, punto 13, p. 182.

(2)  Vedi le Tesi supplementari sul compito storico, l’azione e la struttura del partito comunista mondiale – aprile 1966, nel già citato In difesa della continuità del programma comunista, punto 8, p. 186.

(3) Cfr. Premessa alle Tesi dopo il 1945, in In difesa della continuità.., cit. p. 130.

(4) Ibidem, p. 130.

(5) Ibidem, p. 131.

(6) Cfr. Progetto di tesi per il 3° congresso del Partito Comunista presentato dalla Sinistra, note come Tesi di Lione, gennaio 1926, di cui le “Questioni generali” (parte I) apparvero nei nr. 12, 14, 23 e 26 gennaio 1926 de “L’Unità”, mentre il testo completo fu pubblicato come estratto col titolo “Tesi per il III Congresso”, Roma 1926. Rintracciabile nel già citato In difesa della continuità del programma comunista, pp.73-123.

(7) Cfr. Premessa alle Tesi dopo il 1945, cit., p. 128.

(8) Cfr. Progetto di tesi per il 3° congresso del PC presentato dalla Sinistra, note come Tesi di Lione, gennaio 1926, cit.

(9) Vedi, e solo per citarne alcuni, pubblicati fino all’ottobre 1952 su “battaglia comunista” e su “Prometeo”, e poi su “il programma comunista”,  la Piattaforma Politica del Partito, 1945; il Tracciato d’impostazione, 1946; Le prospettive del dopoguerra in relazione alla Piattaforma del Partito, 1946; le Tesi della Sinistra, 1946-47; Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe, 1946-47; Elementi dell’economia marxista, 1947-50; Proprietà e capitale, 1948-1952; gli articoli della lunghissima serie “Sul filo del tempo”, 1949-1955; per poi proseguire col Dialogato con Stalin, 1952; i Fattori di razza e nazione nella teoria marxista, 1953; il Dialogato coi Morti, 1956; la Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, 1955-57, ecc.

(10) Cfr. Lettera di Amadeo Bodiga a Karl Korsch, Napoli, 28 ottobre 1926, pubblicata per la prima volta nel 1928 in Prometeo, organo della Frazione del PCdI all’estero; ripubblicata nel n. 4 dei “Quaderni del programma Comunista”, aprile 1980, dedicato al tema della Crisi del 1926 nel partito e nell’Internazionale Comunista.

(11) Al III congresso del PCd’I di Lione (1926) la Sinistra comunista presentò il suo Progetto di tesi per il III congresso del PC. Lo si legge nel testo intitolato In difesa della continuità del programma comunista, Milano 1970, parte I, par. 11, “Questioni russe”, p. 112.

(12) Vedi l’articolo di Amadeo Bordiga Il pericolo opportunista e l’Internazionale, pubblicato in “Stato operaio”, 15 luglio 1925. Vale la pena riportare un commento di Amadeo Bordiga sull’Internazionale contenuto nella citata Lettera a Korsch del 1926:  “Credo che uno dei difetti dell’Internazionale attuale sia stato di essere un blocco di opposizioni locali e nazionali. Bisogna riflettere su questo, si capisce senza arrivare a esagerazioni, ma per far tesoro di questi insegnamenti. Lenin arrestò molto lavoro di elaborazione ‘spontaneo’ contando di raggruppare materialmente, e poi, dopo soltanto fondere omogeneamente, i vari gruppi al calore della rivoluzione russa. In gran parte non è riuscito”.

(13) Cfr. Considerazioni sull’organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole, pubblicato ne “il programma comunista” n. 2 del 1965, e ripreso nel n. 2 dei testi del partito comunista internazionale, In difesa della continuità..., cit., punto 6, p. 166.

(14) Vedi il testo di partito Tracciato di impostazione, del 1946, pubblicato nel n. 1, luglio 1946, dell’allora rivista di partito “Prometeo”; anche nel n. 1 dei testi del partito comunista internazionale, Tracciato d’impostazione – I fondamenti del comunismo rivoluzionario, Milano 1974.

(15) Cfr. Considerazioni sull’organica attività del partito..., cit. p. 169.

(16) Cfr. Tracciato di impostazione, su “Prometeo”, cit., p. 15.

(17) Ibidem.

(18) Cfr. Considerazioni sull’organica attività del partito..., cit. p. 169.

(19) Ibidem.

(20) Cfr. Vulcano della produzione o palude del mercato?,(4) Vedi l’articolo di Amadeo Bordiga Il pericolo opportunista e l’Internazionale, pubblicato in Stato operaio, 15 luglio 1925. Vale la pena riportare un commento di Amadeo Bordiga sull’Internazionale contenuto nella citata Lettera a Korsch del 1926: “Credo che uno dei difetti dell’Internazionale attuale sia stato di essere un blocco di opposizioni locali e nazionali. Bisogna riflettere su questo, si caapisce senza arrivare a esagerazioni, ma per far tesoro di questi insegmnamenti. Lenin arrestò molto lavoro di elaborazione ‘spontaneo’ contando di raggruppare materialmente, e poi dopo soltanto dondere omogeneamente, i vari gruppi al calore della rivoluzione russa. In gran parte non è riuscito”. Cfr. Lettera di Amadeo Bodiga a Karl Korsch, Napoli, 28 ottobre 1926, pubblicata per la prima volta nel 1928 in “Prometeo”, organo della Frazione del PCdI all’estero; ripubblicata nel n. 4 dei “Quaderni del programma Comunista”, aprile 1980, dedicato al tema della Crisi del 1926 nel partito e nell’Internazionale Comunista. “il programma comunista”, nn. 13, 14, 15, 16, 17, 18 e 19 del 1954. Testo raccolto poi nel volume intitolato Economia marxista ed economia controrivoluzionaria, Iskra, Milano 1976, capitolo 2, paragrafo 15 “Partito e teoria”, p. 103.

(21) Cfr. La “invarianza” storica del marxismo, 1952, poi ripresa nel n. 6 dei testi del partito comunista internazionale, Per l’organica sistemazione dei principi comunisti, Ivrea, settembre 1973, pp. 19-23.

 

 

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