Un giorno di luglio, su “la Repubblica”

(«il comunista»; N° 155; Settembre 2018)

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Un giorno di luglio, il 26 esattamente, scorriamo una parte degli articoli di uno dei giornali più letti in Italia per vedere come vengono trattati i diversi argomenti e quali sono i “valori” che stanno tanto a cuore alla borghesia e che vengono diffusi a piene mani sui giornali, in televisione, alla radio, al cinema, in internet e sui blog. In questo caso si tratta di “la Repubblica”, voce della borghesia di centro-sinistra che si vanta di essere “illuminata”, “buona”, “comprensiva” e naturalmente molto democratica e osservante della Costituzione prodotta dalla guerra “antifascista”, sempre attenta alla “buona informazione” secondo, naturalmente, i criteri borghesi dell’informazione. Cominciamo dalla prima pagina e proseguiremo nelle pagine interne. Avvertenza: ovviamente ogni argomento trattato dal quotidiano costituisce per noi l’occasione per dire la nostra; e i titoletti sono tutti nostri. Gli argomenti trattati sono parecchi, e questa è la prima parte.

 

 

La morte di un capitalista “lavoratore”

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E’ giovedì, il giorno successivo alla morte di Sergio Marchionne che, in questo caso, diventa personaggio del giorno. Tutti sanno che questo manager è stato, negli ultimi 14 anni, amministratore delegato della Fiat, o meglio, del gruppo FCA come in effetti si chiama l’azienda da quando Marchionne ha concluso la fusione con l’americana Chrysler allo scopo di diventare uno dei pochi grandi gruppi automobilistici in grado di affrontare un mercato che assorbe sempre meno auto rispetto a quelle che vengono prodotte, e per combattere con più forza la concorrenza con gli altri colossi mondiali dell’automobile. La crisi di sovrapproduzione, congenita con lo sviluppo del capitalismo, non perdona: i capitalisti sono obbligati a farsi una guerra senza tregua per poter assicurarsi un tasso medio di profitto accettabile e, per continuare a dominare nella società, sono obbligati a schiacciare sempre più la forza lavoro salariata – da cui estraggono il famoso plusvalore che si trasforma poi nel profitto capitalistico – con le “buone” e con le “cattive”. Da generazioni, gli operai hanno sempre saggiato che cosa vuol dire essere trattati con le buone e con le cattive; quando il capitalista adotta le “buone” – presentandosi come un buon padre di famiglia – non elimina mai la possibilità di adottare anche le “cattive” perché sa che ad un certo punto, per mantenere i livelli di profitto desiderati e per battere la concorrenza degli altri capitalisti, dovrà peggiorare le condizioni di lavoro e di vita degli operai: gli abbattimenti dei salari, l’intensità aumentata dei ritmi di lavoro, più controlli sulle pause e tempi contingentati e meno flessibili per svolgere ogni mansione, la chiusura di reparti o di fabbriche e i conseguenti licenziamenti, sono i fatti concreti che dimostrano che i borghesi “buoni” non smettono di sfruttare al massimo gli operai e di utilizzare il ricatto del posto di lavoro, e servono soltanto a illudere gli operai che sia possibile essere contenti e soddisfatti continuando a  lavorare negli stessi rapporti di produzione capitalistici, da schiavi salariati. Le vicende che hanno visto protagonista il superpagato manager Marchionne lo confermano per l’ennesima volta.  

Il quotidiano “la Repubblica”, alla pari di tutti gli altri media italiani, e di molti media internazionali, apre con la notizia riportata all’inizio, e titola l’articolo principale: “Sergio Marchionne, l’orgoglio della fatica”. Il messaggio in chiaro, e nello stesso tempo subliminale, contenuto nel titolo vuole inneggiare ad un capitalista la cui caratteristica è stata quella di “lavorare duramente”, “con fatica”, per far diventare la principale industria italiana un grande marchio italiano nel mondo. Si vuole diffondere l’esempio di un capitalista che, vista la sua posizione sociale, invece di dedicarsi alla “bella vita” si è profuso in un interminabile dispendio di energie fisiche, nervose e intellettuali a vantaggio di una grande azienda che stava per saltare in aria. Nell’articolo di fondo del quotidiano, nelle prime parole si legge: “La vita di Sergio Marchionne era il lavoro, viveva di quello e per quello, con intensità disumana”.

Eccolo l’inno al “lavoro”, al lavoro inteso come fatica, dalla quale soltanto, in questa società delle merci, del mercato, del profitto, è lecito ricavare un beneficio; il lavoro ha trovato il suo eroe, il suo superman, la sua rappresentazione più completa in quell’intensità disumana che ha caratterizzato la vita di questo manager, di questo lavoratore speciale. Come dire che il lavoro non è sinonimo di operaio (nel vecchio modo di dividere la società in “capitale” da una parte e “lavoro” dall’altra), ma è una qualità condivisa da ogni membro del popolo, imprenditore capitalista, padrone di terreni, di immobili o di attività, commerciante, prete o dedito allo sfruttamento della prostituzione, scienziato, professore, politico, sindacalista, erede nullafacente o disoccupato in cerca di lavoro che sia. In Marchionne i borghesi hanno trovato un esempio che – si potrebbe dedurre dall’enfasi con cui le cronache hanno dedicato pagine e pagine della stampa e servizi radiotelevisivi al personaggio del giorno – dovrebbero seguire molti capitalisti. Se l’Avvocato Gianni Agnelli, ereditando la Fabbrica Italiana Auto Torino, aveva rappresentato il capitalista italiano più aristocratico, più bello, più furbo, più intelligente, più elegante, più sabaudo visti i suoi natali, ma che non si faceva mancare le occasioni per “godersi la vita”,  il manager italo-canadese, figlio di un maresciallo dei carabinieri abruzzese trasferitosi in Istria, proviene da tutt’altra esperienza. “La storia di Sergio Marchionne – scrive la Repubblica – è un film che si ripete decine di volte. La fuga dei genitori dalle foibe e dai rastrellamenti nazisti in Istria, la vita a Toronto, nella comunità degli italo-americani (…) si laurea in filosofia, poi comincia a praticare da avvocato e scala gli uffici dei colossi del rating, consulenze e controllo di gestione (…), torna in Europa e finisce a Ginevra, nel cuore della ricca Svizzera”. Insomma è una storia di emigrati, in questo caso fortunati, “da raccontare”che fa comodo di questi tempi ai sostenitori del talento italiano che, per vicende “non dipendenti da loro”, dopo essersi “fatti le ossa all’estero”, si ripresentano in Italia portandosi appresso le mostrine del successo dovuto, si sottolinea, non ai colpi di fortuna o ad eredità, ma alla “fatica da lavoratori”.

Nel 2004, i proprietari della Fiat, che stava andando in pezzi, chiamano Marchionne, l’esperto di finanza che aveva già fatto parlare di sé grazie alle notevoli performances finanziarie alla SGS di Ginevra, perché trovi una soluzione; invece di vendere la Fiat a pezzi, tenta di rimetterla in piedi. Sa, da freddo capitalista, che dovrà imporre agli operai di tutti gli stabilimenti sacrifici notevoli, tagliare tutti i “rami secchi” dell’azienda e licenziare; ma, per portarseli dalla propria parte, indossa il maglione e comincia col decimare i livelli dirigenziali (“metà dei dipendenti lavorano e l’altra metà li controlla”, scrive la Repubblica, citando Marchionne; una “piramide che va appiattita”: la Fiat va desabaudizzata). In un’assemblea della Confindustria dello stesso anno Marchionne dichiarerà che non era colpa degli operai se la FIAT era ridotta in quello stato, ottenendo così la simpatia dagli operai e il sostegno dei sindacati. L’atteggiamento del manager verso gli operai è del tutto utilitaristico, come ogni capitalista intelligente sa. Fausto Bertinotti, sindacalista di “sinistra” della CGIL e, poi, segretario di Rifondazione Comunista, sosteneva che “Marchionne è un borghese buono (…) dal taglio quasi olivettiano”: rappresentava, infatti, quel tanto di paternalismo padronale col quale i borghesi “buoni”, i borghesi “illuminati”, come Adriano Olivetti, sapevano gestire gli operai con la dose di accondiscendenza rispetto alle loro richieste che permetteva di trasformarli in schiavi salariati contenti, e di sfruttarli al meglio per ottenere i profitti preventivati col minimo di conflitto sindacale. A differenza però del taglio “olivettiano”, il taglio “marchionnese” prevedeva sì il paternalismo nei confronti degli operai, ma non delegato ai sindacati – ritenuti altrettanto “sabaudi” come buona parte della vecchia dirigenza Fiat – bensì gestito direttamente, andando anche contro i sindacati che comunque dimostravano, dalla loro costituzione post-fascista in poi, una collaborazione con il padronato che non aveva nulla da invidiare a quella obbligata del corporativismo fascista. E’ stato il gioco che ha funzionato anche a Detroit, la metropoli automobilistica per antonomasia che, a causa della crisi generale del mercato automobilistico americano e internazionale, era decaduta a livelli fallimentari. La scalata alla Chrysler – visto che alla Gm per l’acquisizione della Opel non funzionò – con l’appoggio del presidente americano Obama, andò di pari passo con l’offerta alle masse operaie disoccupate e in via di licenziamento di tornare al lavoro solo accettando “nuove regole” sui ritmi di lavoro, sulle pause e su qualsiasi altra cosa che la nuova dirigenza ritesse importante attuare, oltre al taglio della metà, se non di più, del salario precedente. Non solo, ma il risultato più importante per l’azienda fu di ottenere da parte dei sindacati dei blue collar (le tute blu italiane) una lunga tregua sindacale; la ottiene, all’inizio, per due anni, che poi diventano cinque: la fabbrica senza sciopero diventa una realtà! “Nel 2008 – scrive la Repubblica – durante le trattative a tre con il presidente Obama e la Uaw (il sindacato dei lavoratori dell’auto) per l’acquisizione della Chrysler, Marchionne si rivolse in maniera brutale al rappresentante della delegazione sindacale Ron Gettelfinger che non voleva cedere sull’assistenza sanitaria ai pensionati Chrysler: “Voi dovete passare dalla cultura dei diritti a quella della povertà”: non era una battuta, era l’espressione di un’impostazione che lo distingueva fin da quando prese in mano la dirigenza della Fiat e, da quel momento in poi, divenne il suo faro nei rapporti con i sindacati e con gli operai.

Nelle fabbriche italiane, a Torino come a Pomigliano d’Arco, a Cassino e a Melfi (ma non Termini Imerese, di cui si prevedeva la chiusura, cosa che poi è effettivamente avvenuta), che Marchionne progettava di trasformare, all’americana, in una Fabbrica Italiana con gli stessi metodi adottati a Detroit, il metodo “americano” non funzionò immediatamente. La crisi delle fabbriche Fiat ripropose l’eventualità della loro chiusura; la Fiom, spinta dalla pressione operaia verso la lotta, si mise di traverso nei confronti della CGIL nazionale che tentava invece un accordo. Alla fine, però, vinse la Fiat di Marchionne: Termini Imerese viene chiusa e gli operai messi in cassa integrazione per anni (che però finirà entro il 2018), e sul piano dell’organico in tutti gli stabilimenti del gruppo industrriale, che ora si chiama FCA, i tagli riguardano più di 50.000 dipendenti solo per l’Italia; infatti, si è passati da 112 mila e duecento, del 2000, a circa 60 mila del 2017 (1).

Si è così passati, non idealmente, non tanto “culturalmente, ma praticamente alla “cultura della povertà” che è l’anticamera dell’emarginazione sociale. In passato la Fiat aveva chiesto e preteso dallo Stato italiano garanzie e sovvenzioni pubbliche dirette, ottenendole sempre; Marchionne cambiò politica, puntando direttamente sugli operai: lo fece alla Chrysler, e lo fece anche in Italia, sotto il pretesto del rilancio dell’industria automobilistica italiana, prima, e della crisi generale mondiale, poi, utilizzando la vecchia ma sempre efficace arma del ricatto del posto di lavoro. Così aumentò il ricorso ai contratti precari e alla cassa integrazione, introdusse sistematicamente dei premi per gli operai “più produttivi” (all’insegna dello stakanovismo del XXI secolo) e salari più bassi rispetto agli altri metalmeccanici, intensificò i turni di lavoro, ridusse all’osso le pause eliminando la pausa per mangiare fino alla fine del proprio turno e, soprattutto, aumentò i controlli affinché queste nuove regole venissero rispettate.

Non poteva mancare la “ciliegina sulla torta”: reintrodusse gli stabilimenti detti “di confino” (2), già operanti nella vecchia Fiat di Valletta, dove vengono spediti gli operai che non eseguono gli ordini, che si ribellano, che protestano, che costituiscono un “cattivo esempio” per gli altri, coloro insomma che si oppongono alle regole del nuovo “team”, della stretta – e soffocante – collaborazione tra azienda e lavoratori, come molti sindacalisti dei Cobas e dei Cub, ma dove finiscono anche i lavoratori di “ridotta capacità lavorativa” o ammalati e che sono quelli più deboli, quelli che non capiscono perché finiscono nei reparti di confino e obbligati a lavori del tutto demansionati o addirittura a non fare nulla per otto ore ogni giorno; situazioni che li portano non solo a riempirsi di psicofarmaci, ma anche al suicidio, come successe, nel 2014, a Maria Baratto, spedita allo stabilimento di “confino” di Nola (3).

Il capitalista “lavoratore”, l’orgoglio del capitalismo italiano, ha certamente fatto un grande servizio agli interessi dell’economia capitalistica, ma – e non poteva essere altrimenti – sempre, comunque, e in ogni occasione, contro gli interessi anche elementari dei proletari. A Detroit – secondo molte indagini di ieri e di oggi – pare che, per velocizzare l’accordo con i sindacati, siano state distribuite dalla Fiat mazzette a destra e a sinistra; in Italia non si hanno notizie di simili fatti, almeno finora, ma è certo che i sindacati collaborazionisti, per quanto abbiano alzato la voce, ogni tanto, per far vedere agli operai che pensano anche a loro, hanno facilitato enormemente il “lavoro” dell’infaticabile grande manager italo-canadese.

Per i proletari il “lavoro a catena” si è trasformato nella catena del lavoro, una catena alla quale sono stati violentemente legati e che va spezzata con altrettanta violenza.

 

Vecchie manovre del nuovo governo

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Ormai è chiaro a tutti che il nuovo presidente del consiglio Conte, conta come il due di picche. Serve per presentare una faccia accettabile nelle sedi europee e negli incontri di rango coi presidenti di altri paesi, e per mettere la firma su decisioni combinate secondo gli accordi tra Lega e M5S. Come è chiaro a tutti che è il leghista Salvini, vice premier ex equo con il pentastellato Di Maio, a dettare l’agenda del governo, prendendosi il primo piano su ogni questione in evidenza, anche se non riguarda direttamente il suo dicastero dell’Interno; mentre il vice premier Di Maio fatica ogni giorno per non essere messo in un angolo e per svolgere il suo ruolo senza farsi schiacciare dal socio leghista.

Mentre Salvini continua a battere su “nessuno attracco nei porti italiani” da parte delle navi che soccorrono i migranti in mare, secondo il motto: sbarcano in territorio italiano soltanto coloro che dimostrano di avere “diritto d’asilo” (ma come fanno a “dimostrarlo” se fuggono da guerre e persecuzioni non certo con viaggi “di piacere”?), Di Maio si sta arrampicando su tutti gli specchi a disposizione per far passare al più presto possibile il tanto decantato, in campagna elettorale, “reddito di cittadinanza”, col quale si dovrebbe combattere la povertà “assoluta” esistente in Italia (secondo l’Istat sono 4,7 milioni gli italiani in queste condizioni, ma nella realtà sono certamente molti di più).

 

Esempio 1. Reddito di cittadinanza

 

Il vero problema del “reddito di cittadinanza” è la copertura finanziaria, problema che emerge a fronte di ogni promessa elettorale. Nei mesi scorsi tutti i media si sono spesi nel cercare di decifrare in che cosa consisteva esattamente la proposta del M5S, facendo una serie di ipotesi che andavano dal rimescolamento dei sussidi di disoccupazione alla trasformazione degli 80 euro di Renzi e del suo “Reddito di inclusione”, ma mettendo sempre in evidenza una sostanziale incertezza o fumosità della proposta, ritenuta a giusta ragione, in verità, più una sparata elettorale che una seria proposta di economia sociale. Giovanni Tria, ministro dell’Economia di questo governo – di cui La Stampa dello scorso 1 giugno ha ricordato la militanza, da studente, in gruppi filo-cinesi, e la convinta partecipazione all’impostazione economica di centro-destra come dimostrato dalla sua “militanza” nel gruppo di assistenti di Renato Brunetta all’epoca del suo ministero della Funzione pubblica nel governo Berlusconi –, viene tirato per la giacca tutti i giorni sia da Di Maio che da Salvini perché sia meno intransigente sul rispetto del tetto del 3% del PIL, voluto dall’Europa, cosa che permetterebbe ad entrambi di realizzare almeno una parte delle promesse elettorali. In ogni caso, la posizione di Di Maio sul suo “reddito di cittadinanza” è semplice: “Non è che vanno trovati i soldi per fare il reddito di cittadinanza. No, noi il reddito lo facciamo e basta, i soldi si trovano intervenendo su tutto il resto”. In effetti, si calcola che questa misura costerebbe tra i 14,5 e i 29 miliardi di euro (quasi il valore di una legge finanziaria), e ciò porterebbe il deficit pubblico italiano a superare il famoso 3% sul PIL, cosa che Tria, almeno al momento, non intende fare e su cui prende tempo. Da economista neokeynesiano, Tria, per trovare le coperture necessarie, spinge per l’aumento dell’Iva, mentre i politici Salvini e Di Maio non la vogliono toccare per ragioni di consenso elettorale e politico. Ma i soldi, come sostiene Di Maio, per avviare il “reddito di cittadinanza vanno trovati “entro gennaio”, riferisce “la Repubblica”, perché “dobbiamo poter dire all’Italia che c’è un reddito di cittadinanza. L’alternativa è che non c’è più un governo”, cioè il “nostro” governo.

In poche parole, il “reddito di cittadinanza” non è che un sussidio (4), per ottenere il quale i richiedenti devono iscriversi ai Centri per l’impiego (che non ce ne sono ancora) e accettare una delle tre proposte di lavoro che gli vengono offerte (sempre che di proposte di lavoro ci siano). Questo sussidio non viene erogato immediatamente, ma “entro il primo anno di governo”, e sarebbe pari alla differenza tra il reddito mensile che il richiedente ha e i 780 euro (per i single) che è la cifra-tetto alla quale può arrivare il sussidio. Se la famiglia è composta da più perone, questo tetto si alza in proporzione; ad esempio per due adulti con due figli il tetto massimo è di € 1.638 al mese. Insomma, il tanto decantato “reddito di cittadinanza”, di fatto, è un’elemosina a soli scopi elettoralistici. Le stesse statistiche ufficiali Istat sostengono che l’indice della povertà assoluta è, per una famiglia di 3 persone, che abita al Nord in area metropolitana, e per l’acquisto di beni e servizi “essenziali”, di 1.117,32 euro/mese, e di 901,58 se abita, sempre al Nord, in un piccolo comune; i valori calcolati, secondo queste statistiche, diminuiscono per la stessa famiglia di 3 persone che abita, ad esempio, al Sud in area metropolitana o in piccoli comuni, del 26% circa nel primo caso e del 24% circa nel secondo caso. Insomma tolti i soldi per l’affitto di casa, luce gas e acqua, telefono, vestiti e trasporti, che resta per mangiare, l’arredamento di casa, la scuola per il figlio, le spese mediche e dei medicinali, ecc.?

 

Nel capitalismo, la “cosa pubblica” risponde alle stesse leggi del profitto delle “cose private”

 

Da sempre i borghesi amministrano la cosa pubblica secondo gli interessi, prima di tutto, delle aziende e dell’economia capitalistica nel suo complesso; poi, secondo gli interessi degli strati privilegiati della società che occupano i posti di dirigenza nelle istituzioni politiche, bancarie, sociali e religiose; non ci siamo mai illusi che amministrino pensando prima di tutto ai proletari e tanto meno ai poveri, assoluti o relativi che siano. Dato che i profitti capitalistici sono prodotti dallo sfruttamento del lavoro salariato delle masse proletarie, e che la concorrenza tra capitalisti e tra gruppi di capitalisti costringe i borghesi a risparmiare il più possibile sui costi di produzione – dunque, in ultima analisi, sulla massa dei salari – è ovvio che da parte loro non ci si possa attendere altro che delle elemosine e che soltanto la lotta dei proletari, la lotta decisa, organizzata, attuata con mezzi e metodi di classe, che soltanto organizzazioni classiste e non certo collaborazioniste possono guidare, può strappare ai borghesi e ai loro governi condizioni di vita e di lavoro più tollerabili. I nuovi governanti parlano di “dignità” e su questa bella parola hanno disegnato un decreto che, a loro dire, andrebbe davvero incontro alle esigenze primarie di tutta quella parte di lavoratori che soffrono condizioni di povertà estrema.

Ma il capitale non ragiona in termini di “ricchezza” e di “povertà”, ma di profitto e di perdite; tutti i discorsi laici e religiosi sulla “dignità dell’uomo” che soltanto il “lavoro” potrebbe assicurare, nascondono in realtà la contraddizione fondamentale di questa società che sta proprio nel rapporto tra capitale e lavoro salariato, che in sintesi vuol dire capitale e salario, dove il salario è l’unico mezzo che in questa società dà la possibilità alla forza lavoro, cioè a coloro che vendono ai capitalisti l’unica cosa che possiedono – la propria forza lavoro – ottenere, in cambio delle ore lavorate, un salario, un corrispettivo in denaro col quale acquistare quel che serve per vivere. Siccome si tratta di una compra-vendita – il capitalista compra la forza lavoro che l’operaio gli vende – è evidente che la forza lavoro è una merce e alla stessa stregua di qualsiasi altra merce segue le regole del mercato nel quale sono i rapporti di forza tra i vari concorrenti che stabiliscono il prezzo di questa particolare merce. Si tratta infatti di una merce particolare per tre ragioni fondamentali: senza l’impiego della forza lavoro salariata la macchina produttiva capitalistica non funzionerebbe, per quanti interventi tecnici e tecnologici possano essere adottati; l’impiego della forza lavoro salariata prevede che il tempo di lavoro giornaliero effettivamente pagato all’operaio sia inferiore al tempo di lavoro giornaliero effettivamente lavorato dall’operaio: la differenza tra i due, chiamata dal marxismo tempo di lavoro non pagato, corrisponde al plusvalore interamente a beneficio del capitalista e che, grosso modo, senza entrare nella disamina dettagliata di tutti gli elementi economici che costituiscono il ciclo di produzione capitalistico, è il suo profitto.

Per riassumere, quel che interessa al capitalista è appunto il profitto, cioè fare in modo che il capitale investito dia come risultato un capitale aumentato, valorizzato. Se per valorizzarlo, nella lotta di concorrenza che non smette mai, deve risparmiare su tutte le componenti dell’investimento (materie prime, mezzi di produzione, salari), non si fa nessuno scrupolo né a impiegare materie prime di scarsa qualità, né a usare attrezzature vecchie e obsolete, né a comprimere i salari. Non ci sarà mai, in nessun governo borghese, un ministro dell’economia – che si occupa di tenere a posto i conti dello Stato, sorvegliare il debito pubblico e mantenere, nei limiti che i rapporti economici e finanziari internazionali determinano, le coperture per ciascuna riforma sociale che vada ad incidere sul debito pubblico – che sarà allo stesso tempo anche ministro del lavoro. Le due funzioni, pur operando nell’ambito di un unico dominio sulla società, quello capitalistico, sono permanentemente in contrasto tra di loro perché quello del lavoro deve cercare di far digerire alle masse lavoratrici, di volta in volta, tutta una serie di attacchi alle loro condizioni facendoli passare per un miglioramento della situazione data, e quello dell’economia deve cercare di difendere gli interessi dei capitalisti, e dei grandi capitalisti soprattutto, facendoli passare per interessi del paese, e perciò comuni a capitalisti e proletari, all’interno però delle regole che i rapporti non solo nazionali, ma internazionali, consentono.

Inutile dire che, in tempi di crisi, i sacrifici maggiori vengono caricati sulle spalle delle masse lavoratrici, e che questi sacrifici non decadono mai anche quando la crisi è superata e l’economia è in ripresa. La classe operaia, la classe dei lavoratori salariati paga costantemente il conto più salato, che l’economia vada male per i capitalisti o che vada bene. Solo la vigorosa lotta di classe è riuscita in passato e, quando riprenderà dopo essersi finalmente liberata del cappio al collo della collaborazione interclassista, riuscirà in futuro, a contenere e a contrastare gli attacchi che la classe capitalistica continua a portare alla classe lavoratrice. Non ci saranno “redditi di cittadinanza” o “decreti dignità” che riusciranno a, non diciamo eliminare, ma almeno a ridurre notevolmente la disoccupazione e la povertà assoluta: anche se il famoso 3% del PIL fosse sforato per l’ennesima volta senza ritorsioni da parte delle istituzioni europee, la situazione sostanzialmente non cambierebbe per milioni di giovani e non più giovani proletari. Alla precarietà del lavoro, e quindi del salario, si accompagna, inesorabile, la precarietà della vita, e contro questa tendenza naturale dello sviluppo capitalistico che da una crisi economica passa ad una crisi ancora più devastante, le masse proletarie non hanno che da lottare, soprattutto contro una delle armi più micidiali che la classe borghese dominante ha in mano e usa con grandissima maestria: la concorrenza tra proletari. Grazie a questa concorrenza, i capitalisti riescono a comprimere sempre più i salari cercando in questo modo di salvare il più possibile i loro profitti, azienda per azienda, settore per settore, nel privato e nel pubblico, nell’industria, nei servizi, nell’agricoltura. Che al governo borghese ci siano partiti di destra, di centro o di sinistra, nessuno si sognerà mai di andare contro gli interessi del profitto capitalistico: un ministro può dissentire da un altro, un governo può dirne di cotte e di crude del governo precedente, un premier può essere più o meno carismatico di altri, ma in sostanza tutti sono interessati a difendere il Capitale contro il Lavoro tutte le volte che il Lavoro si erge nella lotta in difesa delle condizioni di esistenza dei lavoratori.

 

Esempio 2. Le Ferrovie

 

Che poi, ogni volta che si costituisce un nuovo governo, questo decida di cambiare i vertici delle aziende che dipendono dal governo stesso, siano ad esempio la Rai o le Ferrovie, non è che un modo di gestire il servizio pubblico secondo gli interessi dei partiti che hanno vinto le elezioni e che decidono di occupare le famose poltrone nei posti di comando per ottenere, nell’immediato ma anche per il futuro, tutta una serie di vantaggi che derivano dallo scambio di favori tra forze politiche che sono il costume regolare di tutti i cambi di guardia al potere politico. “la Repubblica” che stiamo citando fa il caso delle Ferrovie. Il governo ha licenziato su due piedi l’A.D. delle Ferrovie dello Stato, Mazzoncini (ma siamo sicuri che non precipiterà nell’abisso della povertà assoluta come invece precipitano molti lavoratori salariati licenziati, che arrivano, tragicamente, perfino a suicidarsi!), un manager che, tanto per cambiare, è coinvolto in un’inchiesta per truffa, avviata fin dal 2013, relativa a Umbria Mobilità (5).

“la Repubblica” parla di “7 miliardi di appalti cavalcando i disagi dei pendolari” su cui mettere le mani. E’ ovvio che ci metteranno le mani gli uomini del governo attuale e i loro amici, come è sempre successo, tanto più che “le Ferrovie sono uno dei crocevia più importanti del potere nazionale. Non solo per la possibilità di indirizzare – basti pensare all’idea di Mazzoncini di unificare la gestione di ferrovie e strade [cioè l’Anas] – le politiche delle infrastrutture e dei trasporti, che incidono profondamente sulla vita degli italiani. Ma soprattutto per l’enorme quantità di denaro che le Fs maneggiano, e distribuiscono”. E’ dunque assodato il legame tra gestione delle Fs e guerra per il loro controllo. E si capisce perché, in questa guerra tra fazioni borghesi, vi sia la fazione che preme per aumentare i cantieri delle Grandi Opere (Stretto di Messina, Tav, Tap, Terzo Valico ecc.), la fazione che ne nega l’utilità pubblica denunciando lo spreco di denaro pubblico e l’aumento della corruzione, e la fazione che cerca di mettere d’accordo le ragioni dell’una e dell’altra; ma è una guerra tra capitalisti, tra mestatori, politicanti e briganti che cercano, ognuno per proprio conto, di trarre il massimo vantaggio possibile in termini di profitto economico, profitto politico, profitto elettorale, prestigio personale. L’utilità pubblica è l’ultima cosa che sta loro a cuore, come i continui disastri che avvengono sulle strade, sulle reti ferroviarie, nelle gallerie, a causa di frane, inondazioni, terremoti, incendi, inquinamenti dimostrano da anni. Il capitalismo si dimostra sempre più l’economia della sciagura!

Il M5S si è dichiarato particolarmente sensibile ai pendolari di cui, ormai ogni giornale nazionale e locale, documenta periodicamente la vita difficile per andare al lavoro e per tornare a casa. “la Repubblica” che citiamo, inizia così il suo servizio: “I circa 500 pendolari che martedì sera alla Centrale di Milano sono saliti sul treno delle 18.20 per Mantova sono arrivati a destinazione quando mezzanotte era passata da un pezzo. Due ore di viaggio, quattro di ritardo. Due delle quali trascorse sul treno fermo in mezzo ai campi, pochi chilometri prima di Acquanegra Cremonese, a causa di un guasto elettrico. Liti, tensione altissima, carabinieri e ambulanze (l’aria condizionata si era spenta), poi finalmente il ritorno a casa. Una storia tutt’altro che eccezionale sui treni regionali della Lombardia. E figuriamoci nelle regioni meno efficienti, meno fortunate. Il trasporto dei pendolari verso i luoghi di lavoro è un’emergenza nazionale”.

La cosa da sottolineare è che la situazione ora descritta non è un’eccezione ma la norma ormai da anni. Treni locali che arrivano e partono con forti ritardi, treni locali che vengono soppressi all’improvviso, senza comunicarlo a nessuno; poche carrozze e quindi superaffollate, senza parlare della sporcizia e delle inevitabili tensioni tra i viaggiatori. I pendolari che usano i treni sono, per la maggior parte, quei proletari che abitano a km di distanze dai luoghi di lavoro e che, non solo per risparmiare denaro ma anche forze fisiche e nervose, occupano ore del proprio tempo – che in realtà è un tempo dedicato al lavoro, ma non viene mai pagato! – per andare a farsi sfruttare nei posti di lavoro e per tirare un salario mai sufficiente per una vita dignitosa.

Qualche dato, che rileviamo da “la Repubblica”: “nel 2017 il valore economico distribuito, cioè i soldi spesi dal gruppo Fs per gli stipendi e per l’acquisto di beni e servizi, ammontava a 7,2 miliardi di euro. Miliardi di commesse, frazionati in migliaia di appalti. Sempre lo scorso anno Fs ha investito 5,6 miliardi, praticamente tutti rimasti in Italia (il 99%). Le gare per l’acquisto del materiale rotabile, treni, binari, scambi, pannelli di controllo, valgono centinaia di milioni, qualche volta miliardi. Esempio recente l’acquisto di 450 nuovi treni per il trasporto regionale da Hitachi Rail e Alstom: una commessa da 4,5 miliardi, ma i bandi di gara arrivano fino a 7 e mezzo”. Si capisce, dunque, che “chi maneggia quel denaro, incardina le gare d’appalto (quando ci sono), sceglie tra le offerte delle migliaia di aziende che vivono di commesse pubbliche, ha un potere enorme”. La stragrande maggioranza degli utili delle Fs non viene certo dai biglietti pagati dai pendolari, ma dalla gestione dell’alta velocità, del trasporto merci e da tutti i servizi collegati, oltre che dai centri commerciali nei quali le grandi stazioni sono state trasformate. I pendolari, di fatto, sono l’ultimo pensiero degli amministratori delle Ferrovie, che si tratti di Trenitalia, di Trenord o di qualsiasi altra azienda del trasporto locale. “Pubblico” non significa “servizio migliore”, come d’altra parte non lo è nemmeno il “Privato”: in entrambi i casi è la legge del profitto che guida e che destina le maggiori risorse là dove è più certo, alla faccia degli estremi disagi dei pendolari e dei morti e feriti che si contano nei casi, non così rari, di disastro ferroviario.

 

Lo Stato non è al disopra delle classi

 

Il fatto che lo Stato sia sempre stato presentato dalla propaganda borghese come un ente al di sopra delle classi, come un’istituzione che per sua costituzione è l’unica a rappresentare tutta la nazione, il popolo intero, la patria, e che perciò stesso sia in grado di trovare il punto di equilibrio tra tutti i contrastanti interessi esistenti nella società, corrisponde all’ideologia borghese che ha bisogno di mascherare – come nel caso della merce e del mercato – la reale funzione di uno strumento di dominio di classe che è appunto lo Stato. Che ai vertici delle aziende statali, dunque delle aziende pubbliche, vi sia tizio o caio, vesta di rosso, di giallo, di verde, di bianco o di nero, la funzione dello Stato borghese non cambia: è, sostanzialmente, quello che Marx ha chiamato il Comitato d’affari della classe dominante borghese che in più – cosa non certo indifferente – concentra e dispone della magistratura e della forza militare declinata nelle varie polizie e armi di terra, d’aria e di mare. Il servizio pubblico, di cui è incaricato, risponde soprattutto all’esigenza del capitalismo nazionale di poter contare su uno strumento centralizzato ed efficace di controllo della società nel suo insieme, e di controllo in particolare delle masse proletarie che sono le uniche, nella storia moderna, ad aver dimostrato, con le loro lotte rivoluzionarie, di mettere in serio pericolo, e non solo temporaneamente, il potere politico borghese.

L’ideologia democratica non importa se “presidenziale” o “parlamentare”, ha bisogno di diffondere in ogni occasione l’illusione che attraverso lo Stato, e quindi anche attraverso il parlamento, sia possibile sempre correggere gli squilibri, gli errori, le sperequazioni, le ingiustizie di cui la borghesia non ha difficoltà ad ammettere l’esistenza. Chi va al governo deve sempre sbandierare la necessità di “cambiare” quel che in precedenza era stato fatto male, o non fatto, o fatto con troppa ingiustizia o con troppi interessi di parte. Naturalmente gli slogan sono sempre gli stessi: un’informazione più giusta ed equilibrata, un servizio di trasporto più puntuale e più attento alle fasce più disagiate, una vita carceraria meno punitiva e vendicativa, un serio sviluppo delle infrastrutture per facilitare la ripresa economica e l’occupazione, un aiuto “concreto” alle fasce povere della popolazione e via discorrendo. Quante volte abbiamo sentito il ritornello del “milione di posti di lavoro in più”, del “non vi metteremo le mani in tasca”? La disoccupazione è aumentata e la precarietà del lavoro e della vita pure, e le tasse pesano sempre più in modo soffocante su milioni e milioni di famiglie proletarie. I governi borghesi se devono mettere le mani in tasca ai contribuenti le mettono eccome, talvolta in modo esplicito, spesso in modo molto mascherato; e sempre più spesso le mettono gli intermediari, i caporali, i faccendieri, i trafficanti, i bottegai, aiutati in questo dai grandi e piccoli evasori fiscali e da quell’economia del sommerso, perfettamente conosciuta e tollerata dai poteri economici e politici, nella quale sguazzano gli affaristi senza scrupoli e in cui sono costretti a farsi sfruttare bestialmente centinaia di miglia, se non milioni, di proletari.

Come l’imprenditore capitalista può non essere proprietario dei mezzi di produzione o di distribuzione, dei fabbricati nei quali si produce e si stocca la merce da vendere, può non essere proprietario della terra da coltivare o dei mezzi di trasporto che servono per spostare merci e passeggeri, ma è proprietario del prodotto finale del ciclo produttivo che mette in moto facendosi prestare i capitali dalle banche e che porta sul mercato per la vendita, così il funzionario-manager statale, il politico che amministra soldi pubblici e appalti e che gestisce servizi, non è proprietario di quei soldi e di quei servizi, ma beneficia per sé e per la sua fazione di tutti i vantaggi economici, politici e di prestigio personale che derivano da quella particolare funzione, con una differenza: l’imprenditore capitalista, nella sua attività, rischia personalmente se le cose non vanno, mentre il funzionario statale, il manager, non rischia mai nulla di suo: se sbaglia appalto o se amministra male viene prima o poi semplicemente sostituito, raramente finisce in prigione.

La fonte del privilegio personale è esattamente in questa funzione protetta e costituita di potere rilevante sulla distribuzione di servizi, di prebende, di posti di lavoro, di favori, potere che è a sua volta fonte di corruzione. Infatti è il funzionario pubblico, che ha il potere di dirottare denaro pubblico da una parte piuttosto che dall’altra, ad essere corrotto dall’imprenditore che vuole assicurarsi un vantaggio rispetto agli imprenditori concorrenti. I casi di tangenti pagate per accelerare una pratica economica o assicurarsi un vantaggio economico sono la norma nella società capitalistica, e solo di tanto in tanto emergono alla ribalta grazie ad indagini che, non per nulla, durano anni e anni. Ma più la concorrenza si fa aggressiva e brutale, più la corruzione dilaga ed è per questo che i casi che finiscono in tribunale non sono più un’eccezione ma la norma. Il denaro è di per sé uno strumento di corruzione, e nella società capitalistica che è, per antonomasia, la società del denaro, la corruzione la fa da padrona. Non c’è da stupirsi. Che si sia in regime di monopolio o di “libera concorrenza”, il capitale-denaro è la leva di ogni attività, di ogni sviluppo, di ogni principio regolatore in politica e nel sociale. Per combattere in modo efficace e decisivo contro la corruzione, contro il malaffare, contro lo spreco di risorse sociali, la ricetta riformista, il richiamo all’onestà, lo sventolare la Costituzione, l’appello alla vera democrazia non servono che a illudere il popolo elettore, a confondere l’effetto con la causa, dato che da quando il capitalismo si è radicato nella società umana questi fenomeni non si sono ridotti ma si sono enormemente ampliati e diffusi nel mondo. Il compito di ripulire la società da tutta questa gentaglia approfittatrice, da tutte le stratificazioni di corrotti e corruttori, da tutti gli sfruttatori non può essere demandato ai membri degli stessi clan, delle stesse fazioni, della stessa classe che vive sul capitale e del capitale. La storia ha dimostrato mille volte che sostanzialmente non cambia nulla, e se cambia qualcosa, cambia in peggio per la stragrande maggioranza della popolazione. Solo gli sfruttati, i lavoratori salariati, i proletari che posseggono in pratica solo la loro forza lavoro e che sono obbligati a venderla ai capitalisti per poter vivere e, più spesso, per sopravvivere in qualche modo, nonostante siano la vera fonte della ricchezza sociale, solo i proletari hanno in mano, non come somma di individui ma in quanto classe sociale – ossia l’unica classe sociale rivoluzionaria della società borghese moderna, che trova nel suo partito di classe la sua guida e l’organo per eccellenza della rivoluzione –, la potenziale soluzione di tutte le contraddizioni di questa società: una soluzione che può giungere solo dopo aver riconquistato il terreno immediato della lotta di classe, la sua elevazione a lotta rivoluzionaria, l’insurrezione e la conquista del potere politico, l’instaurazione dell’unica forma di governo che può tener testa alla restaurazione capitalistica – la dittatura del proletariato esercitata dal suo partito – e che può avviare l’intera società al socialismo e, attraverso di esso, al comunismo, ossia alla società di specie in cui saranno spariti gli antagonismi di classe e quindi le stesse classi, e al centro della quale non sarà più il profitto capitalistico, con i suoi orrori di sfruttamento, povertà e guerre, ma la vita sociale dell’essere umano.

 

 

Governo: alcune mosse per ridare alla democrazia una riverniciata

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Proseguiamo lo sfoglio del quotidiano.

Dopo aver dedicato le prime 7 pagine alla morte del superman Marchionne, ed altre due alle vicende delle Ferrovie, si passa alla “lottizzazione” della Rai e alle proposte di tagli agli stipendi degli onorevoli senatori assenteisti. E’ evidente il tentativo del nuovo governo – di fronte ad una situazione di alta disoccupazione giovanile e non, di alta diffusione della povertà assoluta e di manovre economiche intese a rinvigorire la ripresa economica generale che, visti gli effetti negativi della recente e prolungata crisi economica, saranno manovre da “lacrime e sangue” per molti strati proletari (questo lo diciamo noi, non “la Repubblica”) di ridare vitalità al sistema democratico messo in difficoltà (dal punto di vista della fiducia e della credibilità) dalla serie infinita di scandali che hanno visto, e vedono, protagonisti i soliti ceti privilegiati della politica, dell’amministrazione pubblica sia nazionale che locale, e delle stesse aziende che si servono sistematicamente dei caporali per sfruttare bestialmente gli immigrati, per non parlare dei disastri ambientali e delle vittime dovute a crolli, frane, smottamenti, allagamenti, incendi. I partiti che sono andati al governo si sono dati il compito di “mettere ordine” in un’Italia i cui governi precedenti hanno scialacquato il denaro pubblico e non hanno difeso, all’interno e nelle istituzioni europee, i “veri interessi del paese”. Non c’è mai stato un governo che non abbia annunciato cambiamenti “in meglio” rispetto ai governi precedenti…

Come per le Ferrovie, così anche per la Rai, e per tutte le altre aziende e istituzioni che dipendono dallo Stato, i nuovi governanti cambiano le diverse dirigenze in modo che esse rispondano prontamente alle nuove direttive (e ai nuovi interessi rappresentati dai partiti al governo). Qui i giochi sono particolarmente sporchi, perché si tratta di mezzi di influenza strategici: le tv e le radio nazionali di Stato, con il seguito di produzioni cinematografiche. Al tempo della cosiddetta “prima Repubblica”, quando i maggiori partiti DC, PCI, PSI esistevano ancora e dominavano lo scenario politico, la spartizione delle “poltrone” era un fatto noto e dichiarato: la rete ammiraglia andava alla DC, la seconda rete andava al PSI e al PSDI, e la terza rete andava al PCI. Dopo il ribaltone di tangentopoli e l’usura dei grandi partiti che tendenzialmente erano destinati prima o poi a scomparire – almeno come denominazione e come grandi carrozzoni – dando vita ad una sequenza ininterrotta di partiti e partitini senza più un’identificazione ideologica precisa, che veniva sostituita dai capi intorno ai quali i partiti si riorganizzavano (leggi Berlusconi, Bossi, Renzi, e poi Grillo, Salvini, Di Maio ecc.), la spartizione delle “poltrone” come risultato finale rimaneva, e rimane, perfettamente in piedi, ma cambia un po’ il metodo. Le varie tendenze, i vari personaggi, si accapigliano dietro le quinte, ma ognuno intende “portare a casa un risultato” perché elettoralmente quel risultato è decisivo. Non richiamandosi più ad una ideologia dai contorni definiti, i nostri governanti si richiamano a concetti che possono variare di volta in volta, a seconda del vento che tira, e che al momento appaiono più vantaggiosi. Perciò, quando parlano di ripulire la Rai dalle “rendite di posizione” della casta, in realtà vogliono semplicemente cambiare i componenti della casta con “propri” uomini, chiamando il tutto spiritosamente: riforma dell’informazione pubblica.

Quanto ai “parlamentari assenteisti”, visto che il fenomeno dell’assenteismo alla Camera e al Senato non è per nulla marginale, i nuovi governanti vogliono dare un esempio. Un tempo Berlusconi propagandava il fatto che dormiva solo tre o quattro ore per notte, mentre altre 16/17 ore giornaliere le occupava lavorando: una specie di Marchionne ante litteram, salvo che il Berlusca trovava anche il tempo di godersela con un andirivieni di donne che ha fatto il giro del mondo. Ma il “lavoro” a cui si dedicano i Marchionne, i Berlusconi, i Salvini, i Di Maio e compagnia cantante è esattamente quello di far funzionare al meglio la macchina produttrice di profitto capitalistico, con qualsiasi mezzo: con l’inganno democratico, tutti, nessuno escluso; attraverso la collaborazione di classe, tutti, nessuno escluso; con la distribuzione di favori, tutti, nessuno escluso; e poi ci sono le mazzette, le tangenti, i ricatti, le fregature che riguardano magari non tutti, ma molti sì. Essendo questo scenario ormai straconosciuto perché i giornali e i servizi tv ne parlano in continuazione, è ovvio che i nuovi governanti, per mantenere il consenso che hanno avuto alle elezioni e per tornare ad averlo, magari aumentato, devono fare qualcosa che colpisca l’immaginazione del popolo bue. Allora viene fuori l’idea di tagliare i “vitalizi”, ossia le pensioni d’oro della casta parlamentare privilegiatissima, ma che si rivelano subito difficilmente tagliabili se non in parte, e quindi il loro “valore” è del tutto ininfluente; e poi la grande idea di dare «meno soldi ai parlamentari assenteisti». Attenzione: non tagliare drasticamente la remunerazione ai parlamentari che non svolgono il loro lavoro giorno per giorno, ma… togliere loro qualche centinaio di euro… La nuova presidente del Senato tuona dal suo scranno che i senatori devono rispettare il regolamento di palazzo Madama per il quale “è un dovere partecipare” ai lavori dell’aula. In realtà, scrive “la Repubblica”, a proposito di questa “partecipazione”, che «tanto alla Camera quanto al Senato l’indennità dell’eletto sarebbe già soggetta a un taglio in base alle presenze» (salvo il fatto che le “presenze” non siano falsate dall’attività dei famosi “pianisti” alla Camera e al Senato, come dei “furbetti del cartellino” nelle amministrazioni pubbliche). Tuttavia, continua il quotidiano, «in base al motto fatta la legge trovato l’inganno la norma è praticamente accessoria». Perché? «I senatori hanno infatti una sorta di bonus, una franchigia, che gli consente di saltare ogni mese quattro sedute, due in aula e due in commissione, senza pagare pegno. E il conteggio delle presenze è fatto anche in forfettario. Quindi i casi di parlamentari che hanno subito decurtazioni sono più unici che rari».

In questo caso non c’è inganno: è proprio la legge e il regolamento del Senato che prevede stipendio pieno contro lavoro saltuario!

Ben altro prevede il regolamento di fabbrica o di una qualsiasi azienda: ad esempio, se entri al lavoro con 5 minuti di ritardo ti tolgono dal salario il corrispettivo di un quarto d’ora, se entri con 10 minuti di ritardo ti tolgono dal salario il corrispettivo di mezz’ora; se poi, rispetto ai ritmi di lavoro imposti vieni accusato di “ridotta produttività”, non solo vieni emarginato e demansionato, quindi con salario diminuito, ma puoi finire negli stabilimenti o nei reparti “di confino” come alla Fiat, all’Ilva e chissà in quante altre fabbriche.

Ben altro è previsto dalle misure che prenderà la dittatura proletaria rispetto ai suoi rappresentanti. E non sono misure promesse che non si sa se verranno mantenute: sono già state prese, sono quelle della Comune di Parigi del 1871, riprese dal potere bolscevico nell’Ottobre 1917. Non solo i rappresentanti del proletariato sono eleggibili e “revocabili in ogni momento”, ma il loro stipendio non supera mai il salario di un operaio specializzato. La loro dedizione alla causa rivoluzionaria deve essere non solo totale, ma non deve essere un privilegio, bensì un comune lavoro proletario; la dedizione alla causa del capitalismo, al suo sviluppo e al suo mantenimento in vita, è sicuramente totale per capitalisti come Marchionne e per politici come De Gasperi, Togliatti, Nenni, Berlinguer, ma è una dedizione ripagata con molti privilegi e con posizioni sociali da cui si decide della vita di milioni di proletari, in pace come, tanto più, in guerra.

Alla degenerazione sociale che caratterizza il capitalismo maturo, si accompagna la degenerazione politica, da cui si rileva che tutta la componente dirigenziale-burocratica non serve assolutamente al funzionamento tecnico della macchina statale: le grandi decisioni economiche, politiche, sociali e militari vengono prese al di fuori del parlamento, in camera caritatis, in segreto, e non necessariamente nelle stanze di una P2, riducendo il parlamento ad un “mulino di parole”, come dicevano i nostri Lenin e Trotsky, tenuto in piedi esclusivamente per continuare ad ingannare le grandi masse e il proletariato in particolare.

Non a caso, una delle prime misure che verranno prese dal potere proletario, come fecero la Comune di Parigi e l’Ottobre bolscevico, sarà spazzar via il parlamento borghese con tutti i suoi membri.

 

 

La “sicurezza italiana” corrisponde al blocco dei migranti. Salvini dixit

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Il governo italiano sta per varare il cosiddetto “decreto sicurezza”. Che la Lega, in particolare, abbia fatto del blocco dell’immigrazione la sua principale bandiera e su questo si giochi il suo intero consenso elettorale, è fatto ormai risaputo. Dalle parole ai fatti. I casi del divieto alla nave Aquarius, col suo carico di 629 naufraghi, di attraccare nei porti italiani, accompagnato, dopo soli sette giorni al governo, dall’altro rifiuto alla nave Sea Watch 3, che però poi è riuscita a sbarcare a Reggio Calabria i 232 migranti salvati dal naufragio, stanno a dimostrare che lo “sceriffo di ferro” fa sul serio. Sempre lo stesso numero de “la Repubblica” scrive: «Meno rifugiati, meno richiedenti asilo, meno migranti sottoposti a regime di protezione internazionale. Il piano di Matteo Salvini è chiaro e sarà il punto centrale del decreto sicurezza a cui il ministro dell’Interno sta lavorando in queste settimane. Con un obiettivo primario: «Bloccare la domanda d’asilo a chi commette reati». Intanto, agli 880 posti presso i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr), il ministero dell’Interno ha deciso di aggiungerne altri 400, perché l’obiettivo è quello di “rimpatriare” i richiedenti asilo che “commettono reati” (la cui lista, naturalmente, sarà certamente molto lunga). In pratica, l’attacco ai migranti non si limita a quelli cosiddetti “economici”, ma si allarga anche a coloro che fuggono dai propri paesi perché perseguitati per ragioni di razza, di religione, di nazionalità, di appartenenza ad un gruppo sociale o per ragioni politiche, per i quali basterà una semplice accusa, anche di un reato minore, per rischiare di tornare nelle grinfie degli aguzzini da cui sono fuggiti. Lo sceriffo Salvini esagera? Per “Famiglia Cristiana” sì. Il giornale cattolico, citato nell’articolo di “la Repubblica”, dopo aver affermato che il ministro dell’Interno non ricorda mai i  migranti morti in mare durante il tentativo di traversata del Mediterraneo (dal primo gennaio al 18 luglio i morti ritrovati sono 1.490) mette in copertina la foto di Salvini sottotitolandola con queste parole: «Vade retro Salvini», accostandolo in questo modo a Satana, e ammonendo che l’impegno della Chiesa è anche quello di opporsi a «certi toni sprezzanti e non evangelici»; è ovvio che questo accostamento non sia piaciuto per niente al nostro sceriffo… Ma come dimenticare i toni sprezzanti usati più volte da Salvini contro i Rom e i Sinti, quando faceva balenare la necessità di un loro preciso censimento e del riferimento in una conferenza stampa tenuta a Roma insieme alla sindaca grillina Raggi, nella quale aveva parlato di 30.000 rom «che si ostinano a vivere nei campi» come di una «sacca minoritaria e parassitaria»?

Va dato atto al ministro Salvini di parlare chiaro, di esprimere senza mezzi termini l’odio che la piccola e media borghesia riserva agli ultimi della società, agli emarginati, ai disperati. Questi rappresentano, in realtà, l’alternativa più frequente che si presenta ai piccoloborghesi caduti in rovina a causa delle crisi economiche capitalistiche. E’ un odio che trova le sue basi nel viscerale attaccamento alla proprietà privata, al proprio fazzoletto di terra, al gruzzolo depositato in banca, al privilegio di poter contare su risorse di vita anche nei casi di crisi, ed è ovvio che per difendere questi beni risulta più facile calpestare la vita di coloro che la stessa società capitalistica ha ridotto in difficilissime condizioni di sopravvivenza e che tratta normalmente come spazzatura. L’ambizione del piccolo borghese è di salire la scala sociale e di diventare medio e grande borghese, ma la struttura economica e sociale della società capitalistica, nel suo sviluppo, è fatta in modo tale che il grande capitale ammazza il piccolo e medio capitale mettendo costantemente a rischio la posizione sociale dei loro possessori i quali, per mentalità, per abitudine e per collocazione sociale (sono infatti gli strati sociali che stanno in mezzo tra la borghesia e il proletariato), oscillano continuamente tra gli interessi generali delle due principali classi della società contrapposte, ma pendono sempre, costantemente, dalla parte della proprietà privata, dello sfruttamento del lavoro salariato, dell’appropriazione privata della ricchezza sociale, sebbene gli interessi della grande borghesia, dei grandi gruppi industriali, commerciali, finanziari li schiaccino sistematicamente. L’odio per gli ultimi della società, che i piccoloborghesi sentono ed esprimono in ogni loro attività, è destinato a riversarsi anche nei confronti del proletariato tutte le volte che i proletari si presentano sulla scena sociale con la loro lotta di classe, con la lotta in difesa degli interessi della vera classe produttrice di questa società e che, proprio per questo, è l’unica classe che rappresenta, nel suo movimento e nella sua lotta, l’alternativa storica al capitalismo, alla società che ha trasformato ogni attività umana in un atto mercantile, condizionando la vita di tutti al possesso o meno di denaro.

Va detto però, che l’accelerazione che il nuovo governo grillino-leghista ha dato all’intervento repressivo nei confronti dei migranti non è che il prolungamento di quanto i governi precedenti, sia di centrosinistra che di centrodestra, hanno varato in anni precedenti. E’ un crescendo di norme che hanno l’obiettivo di limitare l’immigrazione in Italia (con il pretesto dell’immigrazione clandestina) e di risparmiare il più possibile sull’accoglienza e l’integrazione, giocando molto sulle parole per quanto riguardo l’accoglienza, l’integrazione e il diritto d’asilo, e molto sui fatti riguardo la detenzione e il respingimento [vedi le leggi Martelli (1990), la Turco-Napolitano (1998), la Bossi-Fini (2002) e l’ultimo Decreto Minniti-Orlando(2017)]. Le contraddizioni tra una legge e l’altra, e rispetto anche alle norme europee e le risoluzioni dell’Onu, non toccano in effetti il contenuto reale dell’obiettivo della borghesia italiana: era di manica larga nel momento in cui le faceva comodo “accogliere” qualche decina di migliaia di immigrati perché la loro manodopera costava molto meno dei salariati italiani e grazie ad essa poteva abbattere i salari e intensificare i ritmi di lavoro della forza lavoro autoctona, ma, in seguito, è diventata molto più sprezzante e cinica nel momento in cui l’aumentata massa di immigrati la coglieva impreparata a regolamentarne i flussi. Questa massa di immigrati, pur costituendo un enorme, imprevisto e caotico bacino di braccia da lavoro che le ha consentito – visto anche l’impotenza delle organizzazioni sindacali collaborazioniste – di attaccare in modo sistematico le condizioni di lavoro soprattutto dei giovani, ha costituito, nello stesso tempo, il pretesto per alzare una mastodontica cortina fumogena rispetto ai problemi reali di povertà, disagio ed emarginazione che toccano non solo i migranti, clandestini o meno, ma gli stessi italiani colpiti dai licenziamenti, dalle misere casse integrazioni, dalla disoccupazione, dalla mancanza di prospettive a breve e a lungo termine. Dagli all’immigrato!, questa è l’indicazione che parte dai pulpiti del potere. E, visto che Salvini si è preso la briga di essere il portavoce ufficiale della nuova politica repressiva dei governanti, quel che viene diffuso è appunto un odio che assomiglia molto all’odio razziale vecchio stampo, nel senso che la nuova “razza” da incolpare di tutti i mali è la razza degli immigrati, non importa se clandestini o no. «E’ finita la pacchia» per i migranti, sono parole del nuovo sceriffo di ferro appena insediatosi, mentre accusava le organizzazioni non governative che soccorrono in mare i migranti di essere in combutta con gli scafisti e i trafficanti di uomini (6). 

 

 

«Decreto terremoto», sul terremoto dell’agosto 2016 ad Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto e altre città

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Ricordiamo brevemente la vicenda. Due anni fa, tra il 24 e il 26 agosto, una serie di scosse sismiche colpì duramente la parte dell’appennino compresa tra il Reatino, il Perugino, il Maceratese e l’Ascolano. Le cittadine più colpite: Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto, Norcia, Visso e molti altri comuni e frazioni. I morti furono 299, i feriti 388; i soccorsi riuscirono a tirar fuori dalle macerie, vive, più di 200 persone. Ingenti i danni agli edifici residenziali, agli edifici pubblici, alle aziende, alle vie di comunicazione e ai beni culturali della zona. I fatti di allora sono ben conosciuti perché se ne parlò per settimane e perché, essendo luoghi che d’estate sono molto frequentati anche da turisti stranieri (le vittime, infatti, furono anche di altre nazioni), se ne parlò anche in molti altri paesi (7). Non mancarono le visite “guidate” delle solite autorità con la solita valigia piena di decisioni immediate per venire in aiuto ai terremoti (come posticipare il pagamento delle tasse, ma non eliminarle) e di promesse, come, ad esempio, la rapida fornitura delle famose “casette” per le cinquemila e passa persone sfollate e rimaste senza casa. «A dieci mesi dalla prima scossa erano state consegnate solo 400 casette sulle 3800 richieste, mentre il 90% delle macerie attendeva ancora di essere rimosso» (8). All’inizio di quest’anno, secondo la Protezione civile, le “casette” consegnate sono state 1.871, mentre la promessa ereditata dal precedente governo Gentiloni di non costruire una new town per i terremotati senza casa, ma di ricostruire le case dove erano crollate, resta ancora in bilico, dato che il nuovo governo non ha ancora preso una decisione definitiva (9). Al momento, il “decreto terremoto” redatto alla fine di giugno di quest’anno e sottoposto alla firma del capo dello Stato, ha subìto un serio ammonimento. “la Repubblica” che stiamo leggendo, scrive che mister Conte, presidente del consiglio sotto sorveglianza dei due mastini Salvini e Di Maio, dovrà “riscriverlo” perché il testo del decreto contiene indicazioni troppo vaghe relativamente al rischio di abusivismo. Il capo dello Stato ha firmato il decreto con la riserva che una parte del testo venga riscritto per evitare, appunto, almeno in termini di legge scritta, la speculazione e l’abusivismo. Il nuovo governo formato da due partiti che si dichiarano contrari all’abusivismo e, in generale, contrari alla selva di condoni edilizi che ha caratterizzato molti governi precedenti (tra i quali primeggiava il governo Berlusconi, socio politico della Lega di Bossi e di Salvini), aldilà delle montagne di parole sul “cambiamento”, non ha fatto altro che uniformarsi alle vecchie abitudini, ossia quelle secondo cui, di fronte alle calamità, alle catastrofi, alle distruzioni da terremoto piuttosto che da incendi o inondazioni, l’intervento di sua Maestà lo Stato si esplica con leggi che lasciano aperte le porte ad una serie di “interpretazioni”, guarda caso, tutte indirizzate a facilitare il condono, l’abuso, la speculazione, magari con la trovata di quello che il M5S ha chiamato “abuso di necessità”. D’altra parte l’Italia repubblicana e democratica è nota per un congenito pressapochismo. Questo decreto legge, partito con un unico articolo relativo al congelamento delle tasse nell’area del sisma, si è gonfiato in ben “21 articoli con dentro di tutto”. L’abuso e la speculazione riguarderebbero in particolare le famose “casette”, che possono diventare “seconde case”. Come potrebbe avvenire questo? “la Repubblica” riassume così: «Dovrebbero essere abbattute (in quanto costruite fuori da ogni norma, per far presto) una volta restituiti ai terremotati i vecchi alloggi ricostruiti. Ma c’è un buco nel provvedimento approvato. I prefabbricati potrebbero restare sempre in piedi se al cittadino arriva invece l’assegnazione di un alloggio del tutto nuovo». Ciò significherebbe che la demolizione di queste casette potrebbe non verificarsi mai, il che vorrebbe dire che l’utilizzo dell’”immobile abusivo” (costruito in effetti nell’emergenza) diverrebbe perpetuo e, quindi, lo trasformerebbe in una “seconda casa”. E questo sarebbe solo uno degli effetti della sanatoria a tappeto prevista da questo decreto, «messa in campo dall’esecutivo per mettere in regola centinaia di casette di legno tirate su dai privati, ma anche per chiudere un occhio su magazzini, garage, scantinati trasformati in alloggi di fortuna. Ampliando, aggiungendo una stanza, aprendo una finestra. Una sorta di zona franca, cresciuta sull’onda dell’emergenza. Fuori da ogni vincolo edilizio e paesaggistico». Cose in realtà già viste e riviste in occasione di tutte le precedenti catastrofi cosiddette “naturali”, dove i “vincoli” edilizi e paesaggistici sono stati sistematicamente aggirati senza grandi difficoltà.

Dopo aver constatato che le abitazioni, gli edifici pubblici e il generale patrimonio immobiliare esistente, nel corso dei decenni, non sono mai stati davvero “messi in sicurezza” e, quindi, ristrutturati con tutte le misure antisismiche ormai classificate con esattezza sulla base dell’esperienza non solo italiana, ma mondiale, relativamente agli effetti dei terremoti, di fronte ad ogni evento di questa portata, gli amministratori locali e nazionali preposti ad assicurare l’applicazione delle leggi che schiere di parlamentari e governi promulgano continuamente si ritrovano sempre a dover constatare che niente o ben poco di “quanto previsto dalla legge” è stato fatto e che bisogna... ricominciare daccapo. A parte il fatto che anche là dove le misure antisismiche avrebbero dovuto essere “applicate”, gli edifici “anti-sismici” sono crollati egualmente, come ad Accumoli e ad Amatrice. Ma il perché noi lo sappiamo da lunga data: strutturalmente il capitalismo poggia sull’economia della sciagura, deve distruggere per poter ricostruire; se non distrugge l’evento “naturale” ci pensa l’evento capitalistico attraverso le costruzioni mal fatte ma economicamente redditizie, gli abusi, la cementificazione sfrenata, la deforestazione ecc. e, non ultime, le guerre.

Nel nostro “filo del tempo” del 1951, intitolato “Omicidio dei morti”, scritto dopo che il Po ruppe gli argini e allagò il vasto territorio del Polesine, riprendendo quanto definito dal Capitale di Marx su capitale costante (lavoro cristallizzato passato, perciò detto “morto”) e capitale variabile (lavoro vivente, lavoro attuale degli operai), si può leggere: «Base dell’analisi economica marxista è la distinzione tra lavoro morto e lavoro vivente. Noi definiamo il capitalismo non come titolarità sui cumuli di lavoro passato cristallizzato, ma come diritto di sottrazione dal lavoro vivo ed attivo. Ecco perché l’economia presente non può condurre ad una buona soluzione che realizzi, col minimo di sforzo di lavoro attuale, la razionale conservazione di quanto ci ha trasmesso il lavoro passato, e le basi migliori per l’effetto del lavoro futuro. Alla economia borghese interessa la frenesia del ritmo di lavoro contemporaneo, ed essa favorisce la distruzione di masse tuttora utili di lavoro passato, fregandosene dei posteri. (…) La distinzione tra lavoro morto e vivo sta nella basilare distinzione di capitale costante e capitale variabile. Tutti gli oggetti prodotti dal lavoro, che non vanno al diretto consumo ma sono impiegati in altra lavorazione (oggi dicono beni strumentali) formano il capitale costante. (…)  Ciò vale per le materie prime principali ed accessorie, le macchine ed ogni altro impianto che progressivamente si logora: la perdita del logorio che va compensata chiede al capitalista di investire altra quota, sempre di capitale costante, che l’economia corrente chiama di ammortamento. Ammortizzare velocemente, è l’ideale supremo di questa economia necroforica. (…) Il capitale è lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo e più vive quanto più ne succhia. (…) Il capitale moderno, avendo bisogno di consumatori perché ha bisogno di produrre sempre di più, ha tutto l’interesse ad inutilizzare al più presto possibile i prodotti del lavoro morto per imporne la rinnovazione con lavoro vivo, il solo dal quale “succhia” profitti. Ecco perché va a nozze quando la guerra viene, ed ecco perché si è così bene allenato alla prassi della catastrofe» (10).

Da bravo guardiano delle formali ammonizioni democratiche, il capo dello Stato invita il governo a riscrivere gli articoli del “decreto terremoto” in modo che i “buchi” nel provvedimento non siano così evidenti da poter essere facilmente utilizzati per ogni genere di speculazione. Ma per quante toppe vengano messe oggi a questo decreto – come d’altra parte ieri e ieri l’altro ad altrettanti decreti che dovevano stabilire delle regole che superassero le diverse “emergenze” riportando una cosiddetta normalità nella gestione del dopo-catastrofe – le caratteristiche fondamentali del capitalismo non si lasciano modificare dalle leggi borghesi: il capitalismo deve distruggere continuamente per poter ricostruire continuamente, in una spirale senza fine; il capitale costante, il lavoro morto, deve essere annientato per poter continuare a sfruttare lavoro vivo. Il capitale, per continuare a “vivere” e svilupparsi deve uccidere i cadaveri, siano essi mezzi di produzione, prodotti, macchine, strutture, impianti (il lavoro morto), o produttori, lavoratori salariati, uomini (il lavoro vivo) da cui succhiare sangue in permanenza.

 

 

«Complici o ribelli»?

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Nella “Repubblica” che stiamo leggendo c’è un pagina dedicata agli interventi di «scrittori, giornalisti, cantanti, blogger, intellettuali, filosofi, drammaturghi, attori, sceneggiatori, produttori, ballerini, medici, cuochi, stilisti, youtuber» ai quali si è appellato Roberto Saviano (lo scrittore noto per le sue prese di posizione pubbliche contro le mafie) perché prendessero una posizione, perché decidessero «da che parte stare», se dalla parte della democrazia, dello Stato di diritto, del «rispetto dei valori che sono alla base della nostra Costituzione», o dalla parte di chi, pur non dichiarandolo apertamente, si muove contro tutto questo, cosa di cui viene accusato l’attuale governo Lega-M5S.

 L’appello di Saviano è stato pubblicato su “la Repubblica” del 21 luglio 2018. Dal giorno dopo vi sono riportati gli interventi dei destinatari di questo appello. La molla che ha spinto Saviano a rivolgersi da intellettuale ad intellettuali in questo modo è stata la serie di prese di posizione del nuovo governo Lega-M5S, e soprattutto di Salvini, rispetto ai migranti e alle ong che li salvano dai naufragi in mare. Ma accenniamo un momento al succo di quanto ha scritto Saviano. Già il titolo inquadra il senso del suo appello: «Rompiamo il silenzio contro la menzogna» (11). Il “silenzio” riguarda appunto l’insieme degli intellettuali chiamati ora a «prendere posizione» contro i «colpi mortali che questo governo sta infliggendo allo Stato di Diritto», contro gli atteggiamenti e gli atti che attualmente tenderebbero a demolire la democrazia, lo Stato di diritto, la Costituzione, insomma la vita politica e sociale dell’Italia democratica e repubblicana; la “menzogna” riguarda il fatto che, «in nome di un presunto benessere, in nome di una maggiore sicurezza»,  «Questo governo, in maniera maldestra ma evidentemente efficace, speculando sulle difficoltà di molti, utilizza come arma di distrazione di massa l’attacco ai migranti e alle Ong. Sta accadendo un orrore davanti al quale non si può tacere: mentre il M5S e la Lega litigano sui punti fondamentali del loro accordo, ci fanno credere che il nostro problema siano i migranti». Questa chiamata a raccolta degli intellettuali fa leva sulla “conoscenza” e, quindi, sulla “libertà di espressione”: conoscenza, di cui gli intellettuali sono convinti di avere il monopolio, e libertà di espressione, naturalmente assicurata e protetta dalle leggi dello Stato di diritto, senza la quale ogni intellettuale, a qualsiasi “arte” si dedichi, non potrebbe diffondere il proprio sapere, la propria conoscenza. Libertà di espressione significa esprimere le proprie opinioni, naturalmente a fronte di tutto ciò che esiste ed avviene in quel momento e nei momenti successivi, come a fronte di tutto ciò che è esistito ed avvenuto nei momenti precedenti, appoggiando o criticando, proponendo o suggerendo, invitando o ammonendo e via di questo passo. Insomma, si tratta di un esercizio che ogni intellettuale, per sentirsi “vivo”, per sentirsi “realizzato”, per sentirsi partecipe di questa particolare “comunità”, ha bisogno di praticare e dal quale, soprattutto, mira a trarre un sostentamento economico, un vantaggio personale, un prestigio, un privilegio sociale. Certo, l’arte alla quale l’intellettuale si dedica può essere classificata in mille modi, ma sostanzialmente è una forma dell’attività degli uomini in cui si applicano le loro capacità manuali, cerebrali ed espressive, in qualsiasi campo, e in particolare nel campo estetico: può rappresentare uno scorcio di quel che esiste, può fantasticare su mondi inesplorati o inesistenti, può applicarsi alla costruzione di oggetti e prodotti di ogni genere o alla loro distruzione, può sollecitare emozioni e sentimenti, ingannare, svelare, nascondere; ma, di fatto, l’arte, come la scienza, è del tutto condizionata dalle basi economiche e sociali della società che la esprime, dall’esperienza reale accumulata nello sviluppo della produzione sociale e, naturalmente, dalla lotta delle classi in cui è divisa la società. Questo aspetto, ovviamente, è assolutamente oscuro a Saviano. L’arte non è mai neutra, né possesso individuale: è espressione sociale e, in quanto tale, è impersonale poiché in essa si raccolgono le esperienze di sviluppo economico e sociale dei gruppi umani: è rivoluzionaria se è espressione della classe rivoluzionaria che, nel periodo storico dato, si muove in condizioni economiche, politiche e sociali atte a superare e distruggere le condizioni economiche, politiche e sociali precedenti; è riformista se è espressione della classe dominante nel periodo storico in cui stabilizza il suo potere estendendo le condizioni economiche, politiche e sociali a territori più vasti rispetto a quelli in cui essa domina direttamente; è controrivoluzionaria se è espressione della classe dominante nel periodo storico in cui le condizioni economiche, politiche e sociali esistenti sono in netta contrapposizione, impedendolo, allo sviluppo reale delle forze di produzione che, a loro volta, esprimono la necessità storica di un trapasso rivoluzionario ad una organizzazione sociale superiore. Così è stato nel passaggio dallo schiavismo al feudalesimo, così è stato nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo, così sarà nel passaggio dal capitalismo al comunismo.

Dunque, l’appello di Saviano agli intellettuali perché “rompano” il silenzio che avvolge le misure e gli atti del nuovo governo di Roma, è un appello rivolto a quella schiera di individui che hanno tutto l’interesse a difendere la società borghese da cui traggono i propri vantaggi. D’altra parte, potrebbero non difendere una società di cui essi si sentono l’élite, la comunità privilegiata degli artisti, degli scienziati, appunto dell’intelligencija? Certo, essi possono denunciare le malefatte dei governanti, dei politici, degli amministratori, degli imprenditori, dei malfattori e dei mafiosi, e possono anche rischiare la vita, come l’hanno rischiata e la rischiano giornalisti, magistrati, politici, scrittori; ma questo rischio “personale” rientra in quella lotta tra fazioni borghesi che non si ferma mai e che caratterizza sempre più una società basata sul profitto capitalistico e sullo sfruttamento del lavoro salariato, nella quale anche la concorrenza tra fazioni borghesi, in particolare in periodi di massiccia sovrapproduzione e di crisi come quello che stiamo attraversando da qualche decennio, si fa sempre più acuta. L’intellettuale borghese, come d’altra parte il prete, non metterà mai in discussione le basi economiche e sociali del capitalismo: lo vorrebbe riformare, vorrebbe smussarne gli spigoli più acuti, vorrebbe ingentilirlo con l’arte e con le “libere espressioni” delle emozioni, dei sentimenti e della fede, senza andare a sconvolgere la causa fondamentale di tutte le contraddizioni e di tutti gli avvenimenti che orrendamente caratterizzano questa società. Schiavo del capitale, l’intellettuale non libererà mai il proprio “pensiero”, che lui chiama propria “coscienza”, dal condizionamento inevitabile nel quale la classe dominante borghese lo imprigiona. L’ideologia dominante nella società capitalistica è l’ideologia borghese, ma non perché questo sia stato deciso da una legge dello Stato o da un atto proditorio della classe dominante, ma perché la classe dominante borghese ha in mano tutte le leve dell’istruzione, della propaganda, delle arti in quanto monopolista dei mezzi di produzione e appropriatrice della produzione sociale, avendo trasformato la produzione di valori d’uso in merci, in valori di scambio; il capitalismo ha in questo modo esteso la sua potenza impersonale sull’intera vita sociale, e quindi anche sulla vita degli uomini, condizionandone fin dalla nascita i bisogni fisici ed economici di vita e, quindi, lo spirito, il pensiero, la visione generale della vita e della società. E il gran daffare degli intellettuali per far digerire alla classe produttrice per eccellenza, la classe dei lavoratori salariati, il suo sfruttamento sistematico e sempre più schiacciante – al quale i migranti che provengono dall’Africa, dal Medio Oriente e dall’Asia centrale tentano con tutti i mezzi di sottrarsi, a rischio costante della propria vita – come una condizione permanente sulla quale sarebbe possibile intervenire per attenuarne il peso e le sofferenze, non è che una delle tante armi, tra le più insidiose, utilizzate dalla classe dominante borghese per indebolire l’unica classe sociale che storicamente la può combattere e vincere, deviandola su terreni che ne facilitano l’impotenza, la confusione, la divisione, la paralisi.

Tra gli interventi degli intellettuali che hanno risposto all’appello di Saviano, e pubblicati ne “la Repubblica” che stiamo sfogliando, c’è chi, insegnando all’Università, denuncia la demotivazione che c’è «nei ragazzi, ma anche nei docenti e nelle organizzazioni, non gliene frega niente a nessuno. Se ne fottono tutti, quasi»; chi, da “non-violento” invita tutti coloro che risponderanno all’appello che «potranno trovarsi fisicamente assieme: la Marcia da Perugia ad Assisi del 7 ottobre, la “Marcia per la pace e la fratellanza tra i popoli”» come «prima risposta forte, corale, nazionale, al governo che calpesta i diritti e sdogana la xenofobia»; chi ricorda che l’invito contenuto nell’appello a prendere posizione è già un dato di fatto da parte di molti intellettuali che si occupano di insegnare l’italiano ai migranti, che fanno visite nelle carceri, che cercano di collegare associazioni e ong impegnate sul tema delle migrazioni, e che ci sono calciatori di grido che si fanno fotografare con cartelli su cui sta scritto With refugees, e migliaia di persone che si danno da fare anonimamente nelle scuole, negli ospedali nei sindacati, sottolineando però che «quel che manca oggi è una rappresentanza politica e, in parte, istituzionale all’altezza»; chi si appella ai politici, come quelli del PD, perché costituiscano un nuovo partito, naturalmente «di centro che guardi decisamente a sinistra», che riesca a trovare al più presto «un guizzo» affinché si eviti che «l’Europa stessa scompaia e resti una mera espressione geografica»; e chi, come educatore, cerca di togliere i ragazzini dalla dipendenza dei social network sollecitandoli ad «usare il computer più potente che si portano appresso: il loro cervello», e di indirizzarli a riconoscere le tre I (non da sostenere come quelle di Berlusconi: inglese, impresa, informatica), ma da abbattere: «l’ignoranza che porta all’indifferenza che si tramuta alla fine in intolleranza». Sono solo alcuni concetti riassunti, ma sono tutti perfettamente in linea con l’illusione che, la cultura, l’educazione e l’impegno nei limiti delle leggi e delle istituzioni attuali siano più che sufficienti per dare una svolta significativa alla deriva xenofoba e fascista imboccata dai partiti attualmente al governo.

Nelle contraddizioni di questa società, pur se per lunghi periodi nascosta e confusa nel pantano della collaborazione interclassista esaltata sia dal fascismo che dalla democrazia, lavora la contraddizione più potente tra capitale e lavoro che produce l’antagonismo di classe il quale, a condizioni sociali e politiche mature, farà esplodere inevitabilmente la lotta di classe proletaria contro lo stato di cose presente. E’ contro l’esplosione inevitabile della lotta di classe proletaria che gli intellettuali si mobilitano; e succede, come in questo caso, che si agitino contro le politiche e le azioni adottate dai governi che rischiano di accendere la miccia delle tensioni sociali, e che oggi tentano di alzare la voce e di mettere in guardia la classe dominante dal non eccedere nel prendersela con i migranti, ritenedoli causa di ogni malanno, di ogni violenza, di ogni attacco al benessere e alla pace sociale. Una parte di loro li vede come intrusi, come un pericolo, altri li vedono come una risorsa; una gran parte di loro sta in silenzio, non si oppone nemmeno a parole, e continua a godere del privilegio che li caratterizza; un’altra parte alza la voce, si “dà da fare” insegnando loro l’italiano, militando nelle ong, manifestando contro il razzismo e il rinascente estremismo fascista, scrivendo, filmando, teatrando, firmando petizioni... In genere gli intellettuali, di fronte alle “brutture” della società, di fronte ai movimenti estremisti, che evidentemente sono ritenuti poveri se non assenti di “cultura” e di “educazione”, si richiamano alla convivenza pacifica, alla necessità di diffondere “cultura”, rivolgendosi alle “coscienze” individuali come se queste fossere del tutto separate e separabili dalla vita reale e sociale degli uomini,  e come se attraverso una loro illuminazione fosse possibile raggiungere – sempre sulla base dello sfruttamento capitalistico del lavoro salariato, della legge del valore e del profitto – una situazione di generale legalitarismo, di pace sociale, di benessere spirituale e materiale.

Per i marxisti non è cosa nuova: il movimento proletario rivoluzionario non è mai stato un movimento di cultura e di educazione; una cultura ed un’educazione del tutto diverse verranno dopo la rivoluzione, dopo l’abbattimento del potere borghese e l’instaurazione del potere proletario che non potrà essere che dittatoriale perché la borghesia difenderà il suo potere non per via “democratica” , “pacifica”, “educata”, “civile”, ma col massimo di cinismo e di spietatezza di cui ha già dimostrato di essere capace (basterebbero gli esempi della prima e della seconda guerra mondiale, delle guerre coloniali e, nel quotidiano, della violenza sistematica contro le donne, sui posti di lavoro, nelle fabbriche e nei campi, nelle carceri e nelle quattro mura di casa), nella consapevolezza che la perdita del potere politico significa e significherà la perdita di tutta la struttura economica della società eretta sulla base delle leggi del capitale, perciò la sua stessa scomparsa come classe dominante privilegiata. Inoltre, la classe borghese, come ha insegnato la rivoluzione d’Ottobre in Russia, dopo aver perso il potere tenterà sempre, con tutte le sue forze, di riconquistarlo, contando principalmente su questi elementi materiali oggettivi: la persistenza dell’economia capitalistica nel mondo e nello stesso paese dove la rivoluzione ha vinto; l’esistenza per un tempo non breve dei borghesi e dei piccoloborghesi nella struttura economica e sociale e nella sovrastruttura amministrativa, burocratica, tecnica necessaria per la gestione corrente di un’organizzazione sociale che non può essere trasformata dalla sera alla mattina; le azioni e gli attacchi della controrivoluzione, all’interno e dall’esterno del paese in cui la rivoluzione ha vinto; la persistente influenza dell’ideologia borghese sullo stesso proletariato dovuta a più di due secoli di dominio borghese e capitalistico, influenza ideologica che penetra nelle file proletarie attraverso l’opera costante delle mezze classi piccoloborghesi, dei cosiddetti ceti medi di cui gli intellettuali sono l’espressione più genuina. Solo una forte, disciplinata, decisa e organizzata dittatura di classe può averla vinta, non solo in un paese, ma nel mondo, contro una classe nemica così attrezzata, spietata e dura a morire.

Senza andare a disturbare Marx, Engels, Lenin, Trotsky che al tema dell’ideologia borghese e degli intellettuali hanno dedicato pagine potenti, vogliamo qui ribadire quanto si può leggere in un “filo del tempo” pubblicato nel 1949: «Il movimento comunista rivoluzionario annovera tra i suoi nemici peggiori con i borghesi, i capitalisti, i padroni, e con i funzionari e giannizzeri delle varie gerarchie, i “pensatori” e gli “intellettuali” indiscriminati, esponenti della “scienza” e della “cultura”, della “letteratura” o dell’”arte” accampate come movimenti e processi generali al di fuori e al di sopra delle determinazioni sociali e della lotta storica delle classi» (12).

Non è grazie alla cultura borghese che l’umanità si salverà dal razzismo, dalla violenza dei poteri forti, dal cinismo di una classe dominante che, mentre difende il capitale e il suo sistema economico e sociale, calpesta e disprezza la vita di miliardi di esseri umani. Essere complici o ribelli, come ammonisce Saviano, rispetto a questo governo che metterebbe in pericolo lo “Stato di diritto” e la “libertà di espressione” di ogni intellettuale, di ogni “voce libera”, è in realtà un falso dilemma perché anche l’intellettuale “ribelle” è in realtà complice, non importa se consapevole o meno, della dittatura della borghesia, della dittatura dell’imperialismo, della dittatura del capitale sull’intera società che il capitalismo, di cui il tal governo e il tal partito non sono che i mezzi della sua dittatura, ha disumanizzato. Per combattere questa disumanizzazione, l’appello di Saviano tenta di scuotere gli intellettuali dalla loro passività, sollecitandoli ad utilizzare il fatto di essere «il piccolo seme dell’umanità», che solo loro rappresenterebbero, alzando la voce, manifestando le proprie opinioni, denunciando gli aspetti più retrivi e più settari delle fazioni borghesi che vorrebbero ridurli al silenzio. Poteva mancare, infine, un’esternazione drammatica del più logoro patriottismo? «Senza di voi l’Italia è perduta», Saviano dixit.

 

 

Fuoco e fiamme in Grecia

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Sulla strage di Mati, la cittadina dell’Attica alle porte di Atene e la più colpita dal devastante incendio scoppiato il 23 luglio, “la Repubblica” del 26 luglio ha pubblicato una serie di interviste ad alcuni sopravvissuti che naturalmente raccontano di essere stati “miracolati” riuscendo in qualche modo a non morire bruciati vivi. «Fioccano le accuse – scrive “la Repubblica” – per il ritardo e l’inadeguatezza dei soccorsi, perché non erano stati potati gli alberi sulla strada che divide dalle case di Mati il bosco dov’è nato l’incendio, e perché troppi condoni edilizi l’avevano resa impraticabile ai pompieri. Ma secondo gli esperti, il dolo maggiore è l’assenza di un piano di emergenza e la scarsa preparazione delle forze preposte».

Naturalmente, a strage avvenuta, saltano fuori gli “esperti” che trovano rapidamente tutte le magagne che hanno facilitato il compiersi della strage; gli abusi edilizi e i relativi condoni sono una prassi ormai di ogni paese, e anche ad occhi chiusi e senza sapere l’entità della strage, tutte le volte che succede un disastro, anche l’ultimo inesperto del posto può dire, senza timore di sbagliare, che una delle principali cause di queste tragedie va cercata negli abusi e nei condoni e, nella mancanza di piani di emergenza preventivi. La società del capitale, come abbiamo detto milioni di volte, è basata sull’economia della sciagura: coltiva le catastrofi perché in economia capitalistica si costruisce per distruggere, e si distrugge per ricostruire, in una spirale senza fine, mentre le vite umane sono soltanto un accessorio... Sull’argomento invitiamo i lettori a leggere la presa di posizione che abbiamo pubblicato nel sito di partito il 29 luglio, inserendola anche in questo numero del giornale.

 

 

Fusi orari

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Questo è il titolo che “la Repubblica” ha dato ad una pagina nella quale riunisce una serie di notiziole ricavate dalle corrispondenze e dai tweet dei suoi giornalisti nel mondo. Sono in genere curiosità non accompagnate da commenti. Tra di esse, talvolta, emergono degli aspetti caratteristici della società borghese, spessissimo legati a questioni di denaro. Come nel caso del presidente americano Trump e del “tradimento” del suo avvocato personale Michael Cohen. Il caso è la consegna da parte di Cohen alla Cnn (la rete più odiata da Trump) di una cassetta che contiene una registrazione segreta del settembre 2016, dalla quale emerge una discussione tra il presidente e il suo legale circa una relazione che Trump ebbe con l’ex modella di Palyboy, Karen McDougal, “consumata nel 2006, poco dopo la nascita del figlio di Melania, Barron”. In pratica discutevano di un pagamento da versare all’ex modella per mettere a tacere la vicenda e per non dare al procuratore speciale Robert Mueller ulteriore materiale nelle indagini che stava svolgendo sul Russiagate. Niente di nuovo sotto il sole: non c’è presidente o uomo politico di alto livello che non abbia avuto relazioni extraconiugali e che non abbia cercato di nasconderle per “salvare” il suo “buon nome” e apparire ai propri elettori integerrimo... E’ un fatto talmente diffuso e abituale che non merita nemmeno di essere trattato a pagina intera... ma solo come notiziola di gossip.

Le leggi borghesi che riguardano il matrimonio e la gestione del patrimonio degli sposi, e la loro separazione e divorzio, si sa, sono molto complesse perché c’è sempre di mezzo una questione di denaro, di proprietà privata e di figli, e perché, soprattutto, lo Stato interviene direttamente anche sui rapporti personali tra i coniugi e la loro famiglia. La Corte Suprema britannica, riporta “la Repubblica”, ha negato ad una donna di 68 anni di divorziare dal marito, 80 anni, dal quale è separata dal 2015, perché il motivo addotto: «un matrimonio infelice», non è stato ritenuto sufficiente. Per lo Stato l’infelicità non è un motivo misurabile; ci vuole la colpa di uno due coniugi, e la colpa comporta sempre un pagamento: «il tradimento, un comportamento violento o un altro grave motivo», naturalmente tutti corredati da prove indiscutibili. L’infelicità denunciata da uno dei due coniugi, che tra l’altro può portare a disturbi nervosi e del carattere, alla depressione o addirittura al suicidio, per la legge borghese non è un motivo “valido” per il divorzio. Per ottenere il divorzio questa donna dovrà attendere 5 anni, dopodiché potrà chiedere il divorzio «senza motivo». In sostanza, la giustizia borghese prolunga l’infelicità delle persone almeno per 5 anni, cosa che nel socialismo non succederà mai perché lo Stato non si intrometterà nei rapporti interpersonali.

Ne La donna e il socialismo, di A. Bebel, si legge: nella società socialista «la donna è, così socialmente come economicamente, del tutto indipendente, non è soggetta più ad alcuna apparenza di tirannia né allo sfruttamento, trovandosi ormai di fronte all’uomo libera ed eguale, padrona di sé e del suo destino. (...) In amore essa è libera di scegliere, precisamente come l’uomo; chiede in matrimonio, ovvero si fa chiedere, e stringe il vincolo senza alcun altro riguardo che alla sua inclinazione. Questo vincolo è un contratto privato senza l’intervento di alcun funzionario, come fu contratto privato il matrimonio fino agli ultimi anni del periodo medioevale. Perciò il socialismo non viene a creare in questa materia nulla di nuovo, ma non fa che ristabilire in un grado più alto di civiltà e sotto forme sociali nuove, ciò che vigeva generalmente nei primi stadi della civiltà e prima che la proprietà privata dominasse la società. (...) Se gli sposi non vanno d’accordo o per incompatibilità di carattere o per antipatia di uno verso l’altro, allora la morale prescrive di sciogliere un vincolo che è diventato contrario alla natura ed alla morale stessa» (13). Il riferimento è alla morale umana, potremmo dire naturale, non alla morale borghese che è condizionata dal dominio sulla società e sugli esseri umani della proprietà privata e dell’appropriazione della produzione sociale. Finché sussisterà la società borghese e capitalistica, l’infelicità delle donne, e degli uomini, sarà un dato costante, ad ogni livello della scala sociale; sarà una condanna non emanata dalla magistratura, ma prodotta dalla società stessa.

 

 

Fate scendere quel passeggero!

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La notizia riguarda una stundentessa svedese, di Göteborg, che ha impedito il decollo di un aereo destinato in Turchia nel quale era stato imbarcato un profugo afghano colpito da un ordine di espulsione e rimpatrio. Come c’è riuscita? Ha comprato un biglietto per lo stesso volo, è salita in aereo e si è rifiutata di sedersi e di allacciarsi la cintura quando l’aereo doveva decollare. «Non lo farò – sono le parole della studentessa riportate da “la Repubblica” – finché non farete scendere quel passeggero che, espellendo, inviate incontro a morte sicura». Tra le proteste degli altri passeggeri ma anche gesti di solidarietà, la studentessa resiste ad ogni pressione perché si sieda e permetta il decollo dell’aereo; alla fine il passeggero afghano è stato fatto scendere. Vittoria? No, su migliaia di espulsioni, un migrante trattenuto, per dirla con le parole della stessa studentessa, non pone «fine a tale sistema disumano»; per fermare le espulsioni dei migranti profughi ci vuole ben altro che atti di contestazione, per quanto coraggiosi e rischiosi, come questo. E’ certo che lo stesso profugo afghano sarà colpito da un nuovo procedimento di espulsione, come d’altra parte sono stati colpiti ben 12.500 profughi lo scorso anno e altre decine di migliaia saranno colpiti questo stesso anno. «La Svezia – ricorda “la Repubblica” – è il paese europeo che dal 2015 ospita il massimo numero di migranti e profughi per abitanti e dove il 9 settembre si svolgeranno elezioni, che nei sondaggi vedono i sovranisti xenofobi (Sverige Demokraterna) in volo, a circa 5 punti appena dalla Socialdemocrazia, storico partito di maggioranza ideatore del modello nordico». Il prossimo futuro di migliaia di migranti e di profughi, quindi, non è per nulla roseo e per quanti esempi possano essere messi in atto come quello di questa studentessa, il sistema disumano contro cui molti, come lei, tentano di lottare continuerà a mietere vittime.

L’ipocrisia di fondo della democrazia borghese si manifesta in ogni occasione, non solo nelle dichiarazioni di principio – ad esempio sul tanto decantato “Stato di diritto” – ma anche nei provvedimenti che i governi prendono: da un lato, dato che possono sempre servire come forza lavoro a basso e bassissimo costo, accolgono migranti e profughi, danno asilo a rifugiati, li assistono, li forniscono di permessi di soggiorno e di lavoro e, ai più fortunati, dopo anni ed anni, concedono anche la loro preziosa “nazionalità”; dall’altro lato, li rinchiudono nei centri di identificazione e di espulsione, li trattano come pericolosi delinquenti, li espellono nei paesi di “primo approdo” o, nei rari casi in cui esistono degli accordi tra il paese ricco e il paese di provenienza dei migranti, li rispediscono nel paese da dove sono fuggiti.

«La gente coinvolta dalle espulsioni – racconta sempre la studentessa – non viene informata, viene solo presa e caricata su un aereo, non viene data loro nemmeno la possibilità di contattare i loro legali. E questa è una violazione grave delle nostre leggi e dello Stato di diritto. Io voglio porre fine a tale sistema disumano». Ma il tanto celebrato “modello nordico” non si differenzia se non per aspetti del tutto marginali dal “modello” che caratterizza ogni paese democratico, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, dalla Germania alla Spagna, dalla Francia all’Italia: i migranti, non importa se scappano da guerre, da persecuzioni o dalla fame, sono sempre degli intrusi, dei clandestini, dunque la diffidenza nei loro confronti è più che giustificata e ogni “Stato di diritto” si difende prima ancora di sapere se i migranti costituiscono davvero un pericolo per la sua stabilità. Ma alla democrazia e alle sue leggi, alle sue libertà, ai suoi diritti, il popolo è stato abituato a crederci; dopo tanti anni di prosperità economica in cui i popoli dei paesi ricchi hanno goduto di una certa pace sociale, di un certo benessere, di una certa “libertà”, si sono presentati anni in cui, con una drammatica frequenza, le crisi economiche hanno chiuso il periodo della prosperità e dell’espansione economica, crisi che hanno colpito non solo la classe operaia che, in genere è la prima a subirne le conseguenze, ma anche i ceti medi, la piccola borghesia.

Ed è da questi ceti, da queste mezze classi, terrorizzate al pensiero di precipitare nelle condizioni dei proletari, dei senza riserve, dei senza patria, che si alza forte la rivendicazione dello “Stato di diritto” promesso dalla grande borghesia democratica, la rivendicazione dell’applicazione delle leggi che difendono i più deboli perché, consapevolmente o inconsapevolmente non importa, sentono di poter finire anch’essi nell’abisso della disoccupazione, dell’emarginazione, dell’obbligo ad emigrare, ad abbandonare i luoghi dove sono nati e cresciuti e dove avevano raggiunto una posizione sociale privilegiata. La loro lotta contro un sistema che appare ora “disumano” la indirizzano affinché lo stesso sistema diventi “umano” e consenta loro di riguadagnare il benessere precedente, la certezza dei loro privilegi, la sicurezza che la loro vita agiata non sia più messa in discussione; e vedono, oggi, nei partiti xenofobi, quando sembra che vi siano ancora delle possibilità perché la democrazia “torni” a garantire loro la vita di prima, un ulteriore pericolo per il loro futuro, salvo un domani – come è già successo più volte nel passato – farsi inquadrare proprio da quei partiti xenofobi quando i partiti della democrazia dimostreranno di non essere in grado di gestire la situazione sociale in cui la classe proletaria, spinta dalle sempre più acute contraddizioni sociali e dai contrasti di classe, scenderà sul terreno dell’aperta lotta di classe, lotta nella quale non ci sarà spazio per i compromessi democratici, per le mezze misure, per i privilegi sociali ai quali si sono abituati non solo i grandi borghesi ma tutta la grande massa dei ceti medi.

L’illusione di una studentessa di poter dare un esempio, del tutto pacifico, mettendo i bastoni tra le ruote, almeno una volta e magari solo per qualche ora, al “sistema disumano”, fa molto comodo alla classe dominante, e i media giustamente lo evidenziano, perché sa che anche mille esempi di questo tipo non fermeranno mai la macchina capitalista che sfrutta sistematicamente ogni energia sociale a vantaggio del capitale, della sua difesa e delle sue leggi. Sceso da un aereo, il profugo afghano sarà sicuramente stato caricato su un altro aereo per portarlo all’inferno in Afghanistan, ma le “coscienze” piccoloborghesi non verranno scosse più di tanto dalla sorte che attende quel profugo od altri come lui: ne muoiono a migliaia in tutte le guerre che si stanno combattendo nel mondo, come in Siria e in Iraq di cui i media parlano spesso, o in Eritrea e in Somalia di cui non si parla affatto, tanto da non farci più caso e continuare a condurre la vita quotidiana di sempre, anche se queste guerre non sono poi così lontane dai confini dell’opulenta Europa.

La propaganda borghese ha sempre un obiettivo utilitaristico: in questi casi è quello di abituare le masse agli orrori della guerra, alla povertà, alla fame, alle torture, ai lavori forzati e da schiavi. Oggi questi orrori si svolgono in altri paesi del globo, e comunque riguardano altri popoli; ma domani potranno svolgersi nei nostri democraticissimi paesi europei, e le classi dominanti borghesi puntano ad avere a disposizione delle loro guerre di concorrenza, oggi, e delle loro guerre imperialiste di rapina, domani, una popolazione già in parte terrorizzata dagli orrori raccontati nei giornali e documentati nei filmati delle televisioni.

 

 

Un presidente, il suo cerchio magico e i suoi “personaggi oscuri”

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Durante le manifestazioni del primo Maggio a Parigi, ci furono degli scontri con la polizia. “la Repubblica” racconta che da qualche filmato di quella giornata è emerso che un certo Alexandre Benalla, detto il “cowboy”, che fa parte della guardia del corpo personale del presidente francese Macron, è stato ripreso mentre picchiava duramente un manifestante. Il fatto, ovviamente, è salito alle cronache tanto da portare alla luce l’esistenza di «una piccola corte di sgherri che circondano Emanuel Macron». Lo strano, secondo i media, non è tanto che Benalla sia intervenuto insieme alla polizia per picchiare i manifestanti, quanto il fatto che, pur giovanissimo (ha 26 anni), esercita un potere da comandante sotto la protezione diretta del presidente della repubblica. In pratica, oltre a contare sull’istituzionale «Groupe de sécurité de la Présidence de la République», che è l’organismo costituito da agenti di gendarmeria e di polizia appositamente istituito per la protezione del capo dello Stato, Macron si è organizzato un gruppo di sgherri che dipendono direttamente da lui. Non solo Benalla, ma anche altri, come Ludovic Chaker – detto il “ninja” – e Vincent Crase, addetto alla sicurezza nel movimento di Macron, En Marche, «indagato pure lui per i pestaggi a margine del corteo del Primo Maggio», ed un certo “Makao” che faceva parte del servizio d’ordine di En Marche durante la campagna elettorale. Insomma, si è scoperto che Macron, una volta diventato presidente, si è organizzato una sua banda di energumeni, dal passato non proprio rassicurante [Benalla era iscritto alla massoneria, oltre ad aver fatto parte del servizio d’ordine del partito socialista; Chaker, che non appare nell’organigramma ufficiale, è incaricato di servizi segreti e di terrorismo; Makao «è stato ripreso in un video su Snapchat mentre gioca alla PlayStation con Jawad Bendaoud, più noto per essere stato rinviato a giudizio dopo aver ospitato alcuni terroristi degli attentati del 13 novembre 2015» (il più tremendo dei quali fu durante il concerto al Bataclan)]. Insomma, per Macron è tutto regolare ed ha accusato la stampa perché «non dice la verità».

La democrazia borghese dovrebbe garantire la trasparenza soprattutto da parte dei politici che amministrano il paese. Evidentemente la trasparenza è qualcosa di casuale, perché se non ci fossero stati i video e le inchieste giornalistiche che frugano nelle ombre dei grandi personaggi, sapendo che troveranno qualche scandalo che farà alzare la tiratura dei loro giornali e l’audience delle loro reti tv, questo “scandalo” non sarebbe venuto alla luce. Ma poi è davvero uno “scandalo”? Se fosse un episodio raro, sì, sarebbe uno scandalo; ma è talmente normale che i politici borghesi nascondano i loro traffici e le loro manovre, che scandalo non è; nel regime borghese è semplicemente la normalità. Una “normalità” che soltanto il potere proletario rivoluzionario spazzerà via una volta per tutte.

 

 

Salvagnini, “azienda sociale” a misura di lavoratore?

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Nelle pagine di cronaca, “la Repubblica” mette in evidenza un accordo integrativo appena siglato tra la Salvagnini Italia spa, di Sarego (VI), e i sindacati Fiom e Fim.  La Salvagnini è da molti anni fra i leader assoluti nella produzione di macchine per la lavorazione di fogli d’acciaio, ha stabilimenti in diversi paesi d’Europa, in Giappone e in Corea. Secondo questo accordo, l’azienda, «d’ora in poi (si parte a scaglioni per arrivare a pieno regime a gennaio) tutti i 750 dipendenti (...) lavoreranno 38 ore la settimana invece di 40». In realtà da diversi anni, nello stabilimento della Salvagnini in Austria è già applicata la settimana di 38,5 ore, ma pagate come tali. Perciò, applicarla anche agli stabilimenti italiani non è una novità assoluta, se non il fatto di avviarla con qualche piccolo beneficio in più al fine di ottenere la piena partecipazione dei lavoratori all’andamento economico dell’azienda.

Come ogni azienda capitalistica, anche la Salvagnini produce per vendere, per allargare le sue quote di mercato a livello internazionale e per incassare profitti. Qual è, dunque, in realtà l’interesse dell’azienda per un accordo di questo genere? Primo: la produttività; è previsto che questa rimarrà pari a quella delle 40 ore settimanali, il che significa che nel processo produttivo verranno inseriti degli accorgimenti, naturalmente “innovativi”, che stimoleranno, ed obbligheranno, i lavoratori ad una maggiore produttività in ogni ora lavorata. Secondo: i lavoratori se ne andranno a casa venerdì alle 14, il che vuol dire che la giornata lavorativa normale resta di 8 ore salvo il venerdì che sarà ridotta a 6. In questo modo, i lavoratori avranno a disposizione più ore per se stessi e per la propria famiglia. Ma le due ore non lavorate non saranno un regalo: verrano pagate in parte dall’azienda (75 minuti) e in parte dai lavoratori (45 minuti, usando i permessi retribuiti), ma ciò che più importa è che la produttività (il vero obiettivo dell’azienda) verrà mantenuta come se fossero lavorate le 40 ore. Secondo “la Repubblica”, ed anche i sindacati ed altri giornali, l’azienda non ha rilasciato dichiarazioni in merito; ha lasciato che fossero i sindacati che hanno firmato l’accordo a parlare e ad osannare la generosità dell’azienda e la sua comprensione nei confronti dei lavoratori dato che l’intesa contiene altri punti ritenuti importanti: dal premio di risultato, 3.400 euro lordi che i dipendenti potranno scegliere se ottenere integralmente in welfare, fino all’introduzione dei «delegati “sociali”: due Rsu incaricate a cui il dipendente può rivolgersi in caso avvengano discriminazioni. Ma le innovazioni sono tante – rileva Battipaglia (della Fim) – c’è l’entrata flessibile dalle 8 alle 8.30 per tutti, l’introduzione della possibilità di lavorare due giorni da casa con lo “smart working”, tre giorni per il lutto famigliare estesi anche ai parenti di primo grado». Ma l’accordo prevede anche altro, ad esempio maggiori controlli sugli appalti e una collaborazione con le università per la formazione dei lavoratori. «Sono importantissimi – aggiunge Battipaglia – anche i due giorni in più di permesso per i neo-papà: qui si dimostra di avere attenzione per il tema della natalità». Di fronte a tanta comprensione da parte aziendale, dopo mesi di trattative, non poteva che scattare l’inno ad una «contrattazione innovativa», cosa che merita un riconoscimento particolare alla Salvagnini Italia spa da parte del rappresentante della Fiom, Prebianca: un’azienda sociale a misura di lavoratore! (14).

Ecco l’esempio della collaborazione di classe tra padroni e lavoratori, tra capitalisti e forza lavoro salariata. L’azienda non è più un’azienda capitalistica, ma un’azienda “sociale”, chiamata così perché non si limita a sfruttare la forza lavorativa dei suoi dipendenti, ma la sfrutta in modo “umano”, tenendo conto sia della produttività e del profitto capitalistico, sia delle necessità dei lavoratori in caso di emergenze, funerali, nascite, gravi malattie... Siamo di fronte ad un capitalista buono, comprensivo, ma non inetto perché non smette di pensare agli utili, e a lavoratori salariati che ottengono qualche miglioramento nella loro condizione di sfruttati grazie al fatto di diventare dei dipendenti collaborativi, di lavorare sì meno ma più intensamente perché la produttività aziendale non deve venir meno, e a sindacati che riescono a far digerire ai lavoratori la completa dipendenza della loro vita e del loro futuro dagli interessi dell’azienda, dall’andamento positivo dell’azienda, dalle performances aziendali nei diversi mercati in cui si è inserita e in quelli in cui intende inserirsi. Come se l’azienda non dovesse più tornare a fare quel che ha già fatto negli anni passati. Un esempio? Eccolo.

Novembre 2014. La Salvagnini comunica ai sindacati, il 7 novembre 2014, la messa in mobilità di 54 addetti. Il periodo, in generale, è di crisi economica prolungata, ma non per questa azienda. «L’azienda è a pieno carico e con un andamento positivo, ma c’è un po’ di erosione nel risultato operativo – è la dichiarazione del capo delle Risorse Umane della Salvagnini, Taraschi (15) – Dobbiamo migliorare i processi indiretti», ossia la parte impiegatizia, come i sistemi informativi, le risorse umane, la verniciatura, l’organizzazione di viaggi. «Non verrano toccate – aggiunge il Taraschi – progettazione e produzione, il punto è raggiungere un efficientamento attraverso l’outsourcing di attività che non sono il core business. Inoltre dei lavoratori che usciranno una ventina sono prossimi alla pensione. Non intendiamo aprire la cassa integrazione straordinaria come vorrebbero i sindacati, perché non ci sono nemmeno gli elementi: non siamo in crisi». Dunque, non c’era la grande scusa della crisi economica e della contrazione delle vendite, ma il motivo sostanzialmente era l’erosione del risultato operativo che, in parole povere, è la differenza tra il valore della produzione ottenuta e venduta in un dato periodo di tempo (in genere un anno) e il costo della produzione stessa (materie prime e di consumo, costi del personale, manutenzione ecc.): insomma il guadagno dell’azienda prima degli oneri finanziari e delle tasse. Erodendosi questa voce dell’economia aziendale, il capitalista si vede assottigliare inesorabilmente il profitto. Ciò vale sia in tempi di crisi che in tempi di crescita economica e di espansione. Ecco perché le aziende licenziano anche in tempi di espansione economica; ed ecco perché i sindacati collaborazionisti, puntando sulla crescita economica delle aziende e garantendo ai padroni il raggiungimento della produttività del lavoro salariato richiesta, non difendono gli interessi dei lavoratori, bensì quelli dei capitalisti.

 

 

Bambini in mano ai preti

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Il gravissimo problema della pedofilia tocca da sempre la Chiesa cattolica. Un prete che si apparta con un bambino o con una bambina per fare sesso non è più, da molto tempo, un episodio raro e dovuto solo ad un disturbo del tutto personale di un prete “caduto in tentazione”. In diverse occasioni, anche recentemente, visto che il fenomeno degli abusi sessuali nei confronti di minori ha assunto dimensioni internazionali, lo stesso papa si è dovuto piegare, e più d’una volta, a “chiedere perdono” alle vittime e ai loro familiari.

I preti sono i vettori dell’influenza che la Chiesa ha su popoli interi, usano parole di conforto come medicina dello spirito e, nel segreto della confessione, raccolgono le più intime confidenze dei “fedeli” inducendoli a spogliarsi delle istintive barriere difensive per sottoporsi ad un giudizio che appare provenire da un’entità superiore, divina. I preti, nella loro “missione”, assumono la funzione di educatori, di confidenti, di attenti e severi vigili della morale, della bontà, della generosità, e della comprensione delle sofferenze umane e della compassione, e si servono di ciò come chiave per entrare nel cuore delle persone, per “disarmarle” delle diffidenze e della vergogna dei peccati di cui si ritengono responsabili. E’ la particolare intimità, avvolta in un’atmosfera di spiritualità e di estraneità dal mondo reale in cui si pecca e in cui si attuano violenze di ogni genere, che abitua i fedeli, fin dalla tenera età, ad avere un rapporto “speciale” con i preti. Un rapporto che spesso va molto oltre le parole di conforto.

In questa società il disagio sociale generale penetra in ogni famiglia, anche se ha fatto della famiglia un’entità economicamente e giuridicamente separata dalla vita sociale mettendola costantemente nella condizione di vivere come fosse un nucleo del tutto indipendente, ma in realtà impossibilitata a vivere se non relazionandosi con tutta la società: In questa società ogni relazione umana, all’interno e all’esterno di ogni famiglia, dipende materialmente dalla condizione economica di ognuno e dal rapporto che ogni singola persona ha, ed è costretta ad avere, con l’ambito economico da cui trae i mezzi per la sopravvivenza; in questa società i rapporti sociali e i rapporti interpersonali sono dettati dalla concorrenza, dalla sopraffazione, dallo sfruttamento da parte dei più forti (i capitalisti, i possessori di tutto quel che serve per vivere) sui più deboli (i lavoratori, coloro che posseggono soltanto la propria forza lavoro da vendere ai capitalisti), dal dominio economico, sociale, politico, solo di gruppi umani ben precisi e cioè la classe dei possidenti, la classe dei borghesi capitalisti, ma anche, e soprattutto, di una forza sociale estranea alle singole persone, impersonale, che permea l’intera società, l’intero genere umano con le sue leggi: la forza del capitale, quindi la forza di rapporti di produzione e sociali da cui dipende la vita di tutti, e di fronte alla quale nasce naturalmente il bisogno di contrapporle una forza altrettanto potente. E’ la religione, nella sua costruzione ideologica, che fornisce agli uomini, da qualche millennio, e in particolare, agli umili, agli schiavi, al popolo sottomesso al dominio di minoranze che posseggono i mezzi di produzione da cui dipende la vita, un’alternativa a quella forza, un’alternativa potente che contrappone lo spirito alla materia, il sopranaturale al naturale, il divino al terreno, il mondo dell’aldilà, della pace eterna e dell’infinito al mondo delle sofferenze terrene, delle violenze e della morte materiale, al mondo reale. E come i politici, gli economisti, i professori, gli scienziati, gli amministratori, i magistrati, i poliziotti appaiono, e sono, al servizio della forza del capitale, del dominio quindi della classe capitalistica e svolgono la loro funzione nel mondo reale della società borghese, così i preti e l’intera struttura della Chiesa, appaiono al servizio di una forza soprannaturale e divina ma svolgono, anch’essi, la loro funzione nel mondo reale della società borghese, allo scopo di preparare gli uomini alla vita dell’aldilà, dopo la morte terrena, in un etereo mondo di pace e di serenità impossibile da ottenere in questo mondo reale.

I preti, dunque, si presentano come indispensabili strumenti di una felicità futura, visto che questa società non la può mai garantire, e come unici mediatori tra la potenza di Dio e la potenza dell’uomo e del capitale. Anch’essi però sono uomini, fatti di carne ed ossa e sentono alla stessa maniera le pulsioni sessuali, le emozioni, i sentimenti; ma la loro particolare sofferenza che si riassume nel voto di castità e nella separazione dei sessi, dà loro quell’aura che li fa credere più capaci di qualsiasi altro di comprendere le sofferenze umane, proprio perché non è loro permesso esercitare una delle funzioni vitali più importanti del genere umano, appunto quella sessuale.

Ma la funzione sociale della Chiesa, e dunque dei suoi componenti, non si limita a predicare il Vangelo e a confortare i derelitti; fa molto di più. Essa è una potenza economica e finanziaria, da cui discende in realtà la sua influenza; è sempre più partner politico e diplomatico del potere borghese che non consolatore di anime. Anche se la sua sede principale è a Città del Vaticano, non possiede solo chiese e canoniche, possiede terreni, immobili, capitali, azioni di borsa, compagnie di servizi e di viaggi, ospedali, opere d’arte; è una multinazionale perfettamente inserita nella rete capitalistica internazionale e si muove esattamente come una qualsiasi holding americana, europea, giapponese o cinese. I suoi dipendenti sono stipendiati come qualsiasi dipendente di una società per azioni, e funziona con una struttura dirigenziale complicata quanto la struttura dirigenziale di una grande multinazionale. L’oggetto della sua attività è multiforme; non può certamente mettere in secondo piano l’attività religiosa in senso stretto, dato che è il business ideologico più importante attraverso il quale mantiene e rafforza costantemente la sua influenza sulla società, che è facilitata dalla estesa capillarità delle sue chiese, delle sue parrocchie. In molte aziende il titolare, il direttore, il capo approfitta della sua posizione e del suo potere per molestare, abusare, ricattare, le dipendenti donne; nelle parrocchie e nelle chiese, succede qualcosa di simile: è il parroco, il prete, o il vescovo ad approfittare della sua posizione di potere per molestare, abusare, ricattare i minori. Il sistema è lo stesso: sfruttare la posizione di privilegio per approfittare dei più deboli e, ovviamente, di nascosto e contando sull’omertà da parte dei più deboli che, della situazione, sono quelli che soffrono e si vergognano di più. Si dimostra ancora una volta, se ce ne fosse stato bisogno, che non c’è ambito in cui la degenerazione sociale non penetri.      

La degenerazione dei rapporti umani che le società divise in classi generano attraverso le violenze economica, sociale, politica, militare, ideologica, utilizzate dalle classi dominanti per mantenere sotto il proprio dominio le classi inferiori, permea l’intera società e, perciò, i gruppi umani che la costituiscono. La violenza sessuale che colpisce in particolare le donne è l’esternazione di una società che si basa sul dominio sessuale maschile: lo è stato nella società schiavista, lo è stato nella società feudale, lo è nella società capitalistica. La debolezza sociale della donna, nella società divisa in classi, si trasferisce inevitabilmente sui figli che partorisce che, ovviamente, hanno molte meno difese materiali e psicologiche per proteggersi dalla pressione e dalla violenza esercitate su di loro sia nella vita sociale che in famiglia. L’oratorio, la canonica, il seminario, sono luoghi in cui il rapporto che il minore instaura con il prete appare difeso dalle pressioni esterne, dalla brutalità della vita sociale quotidiana; è un rapporto che induce ad aprirsi, ad abbandonarsi nelle mani di colui che appare un amico, un confidente, un difensore. Ed è di questo rapporto che il prete pedofilo ha bisogno per perpetrare i suoi abusi, alimentandolo in ogni occasione, trasferendo il segreto della confessione al segreto del rapporto intimo col minore. Tali sono i disagi, le insicurezze, le insoddifazioni, le paure generati dalla vita sociale, in famiglia e al suo esterno, da fare di ogni minore un soggetto non solo debole e bisognoso di protezione e di affetto, ma potenzialmente disponibile ad offrire in cambio della protezione e dell’affetto ricevuti quel che materialmente possiede davvero, il proprio corpo. Gli abusi sui minori avvengono sia in famiglia che al suo esterno, e la causa di queste violenze non sta tanto nella cattiveria degli adulti che abusano dei minori – in genere, gli adulti pedofili non si presentano mai col volto della cattiveria ma col volto della bontà e dell’amicizia – quanto nella società che è permeata dalla violenza e dagli abusi nei confronti dei più deboli. L’uomo è un essere sociale, nasce e cresce in una società che esiste già, in un ambiente economico, sociale e politico già strutturato, nel quale la classe dominante borghese educa e istruisce gli uomini fin dalla nascita alla sistematica violenza economica (se non hai un lavoro e, quindi, un salario muori di fame, e il lavoro te lo dà solo il capitalista) e alla violenza sociale (la lotta di concorrenza tra borghesi per una fetta di mercato viene prolungata nella lotta di concorrenza tra proletari per un posto di lavoro). Il dominio del capitale, del denaro, del valore di scambio, del profitto capitalistico, condiziona ogni atto, ogni gesto, ogni pensiero degli uomini di questa società, e a quel dominio nessuno individualmente riesce mai a sottrarsi. Nel regime della proprietà privata, dove questa è l’ago della bilancia di ogni vita, si sprigiona naturalmente una tensione a non accontentarsi di quel che si ha, perché quel che si ha appare sempre troppo poco rispetto a quel che si potrebbe avere; chi ha molto, moltissimo, e chi ha poco o nulla, così appare il mondo umano in questa società in cui ognuno ha un “valore”, ognuno è “stimato” se possiede denaro, terreni, fabbricati, mezzi di produzione o di trasporto, merci. Se non possiedi nulla, non sei nulla, non esisti, sei ai margini della vita civile. Ma se sei inserito in una struttura (politica, militare, burocratica, religiosa, scolastica) che nella società ha un peso importante perché ne è una emanazione e perché contribuisce a tenerla in piedi, allora hai un “potere” che eserciti sugli altri. Così i politici che fanno e disfano leggi a seconda delle convenienze delle diverse fazioni borghesi; così i militari che si allenano e si preparano alla guerra anche in tempo di pace; così i burocrati che nelle diverse istituzioni amministrano i servizi per l’intera comunità; così i maestri e i professori che istruiscono ed educano bambini e adolescenti a rispettare le regole e le leggi di questa società consegnando loro gli strumenti di conoscenza che potranno servire per il loro inserimento nel mercato del lavoro; e così i religiosi che dicono di prendersi cura delle anime e dello spirito degli esseri umani piegandoli alla sudditanza di un presunto “volere di dio”, mentre li tengono asserviti agli interessi della classe dominante capitalistica. Ma l’unica cosa che non si può toccare con mano è, per l’appunto, il “volere di dio”, cosa che avvicina i preti ad una forza soprannaturale: uomini che mediano con Dio, uomini ispirati da Dio, uomini al di sopra delle cose terrene, uomini che non condividono i piaceri e i dispiaceri degli esseri mortali e perciò in grado di elevare i poveri peccatori dal livello della brutalità materiale di questo mondo alla serenità e alla pace dell’altro mondo. Uomini che, se cadono nel piacere dei peccatori, sono giustificati in anticipo perché ciò che ha ceduto è la loro parte “umana” ma non quella “spiritualmente divina” che è la sola che li può “assolvere”.

Allora si capisce perché il prete di 70 anni di cui parla “la Repubblica”, che a Calenzano, tra Prato e Firenze, colto in flagrante reato (chiuso in macchina, a tarda sera, con una bambina di 10 anni, che, scoperto da gente del posto, rischiava il linciaggio) e arrestato dai carabinieri, ha risposto così al magistrato che lo interrogava: «Era una relazione affettiva, ha preso lei l’iniziativa». In questa società putrescente la vittima diventa il colpevole!

 

 

Continua al prossimo numero con argomenti che riguardano la mafia e l’antimafia, i ciarlatani e la medicina borghese, la legionella, il demagogico “potere delle donne” ecc. ecc. 

 


 

(1) Cfr. https:// pagellapolitica.it/ blog/ show/ 189/quanto-%C3%A8- cambiato- il-numero- dei-dipendenti- fiat-sotto-marchionne, del 27 luglio 2018.

(2)  https://www.internazionale.it/reportage/maila-iacovelli/2014/10/27/reparti-confino-in-italia-9 

(3) Vedi l’articolo citato nella nota (2); ma anche La morte di Maria Baratto non è stato suicidio, ma omicidio di Stato, “il comunista”, n. 136, Ottobre 2014.

(4) Cfr. https:// www. ilfattoquotidiano.it/ 2018/ 03 /08/ reddito- di-cittadinanza- che-cosa- prevede- la-proposta- dellm5s- requisiti- cifre- costi-e- coperture/ 4210368/,

(5) http:// www. umbria24.it/ attualita/ inchiesta- umbria- mobilita- ipotesi- truffa-e-falso- ci- sono- indagati- acquisiti- nuovi- documenti; vedi anche https:// www. ilfattoquotidiano.it/ 2018/06/ 11/ferrovie-dello-stato-lad-mazzoncini-rinviato-a-giudizio-per-truffa-nellinchiesta-su-umbria-mobilita/4419932/

(6) https:// www. internazionale.it/ reportage/ annalisa- camilli / 2018/06/04/ salvini- immigrazione- pozzallo? utm_ referrer= https%3A %2F% 2Fzen. yandex.com%2F%3F from%3 Dsearchapp

(7) Vedi in www.pcint.org, la nostra presa di posizione del 27 agosto 2016: Un altro devastante terremoto sconvolge il centro-Italia: per l’ennesima volta, prevenzione inesistente ma terreno fertile per le speculazioni dell’emergenza e della ricostruzione!, poi pubblicata ne “il comunista” n. 145, settembre 2016. Nello stesso nr. de “il comunista” vedi anche: Con i morti ancora caldi e i vivi agonizzanti sotto le macerie, il giorno dopo il terremoto nel centro Italia già si parla di “ricostruzione”. I borghesi si stringono intorno ai superstiti pensando prima di tutto all’affare della ricostruzione! 

(8) Terremoto: consegnate 400 casette, in ANSA, 28 luglio 2017; Terremoto, la ricostruzione nel caos: in strada il 92 per cento delle macerie, in la Repubblica, 20 giugno 2017.

(9) Centro Italia, secondo Natale da terremotati: tra ritardi, disservizi e piccole vittorie, in Repubblica.it, 7 gennaio 2018.

(10) Vedi Omicidio dei morti, della serie “Sul filo del tempo”, pubblicato originariamente nell’allora giornale di partito “battaglia comunista”, n. 24 del 19-31 dicembre 1951; ripubblicato, insieme ad altri “fili del tempo” ed articoli relativi allo stesso tema, nel volume intitolato Drammi gialli e sinistra della moderna decadenza sociale, Iskra, Milano 1978, pp. 33-46. Lo si trova anche ne “il comunista”, n. 93-94, febbraio 2005.

(11) Cfr. “Rompiamo il silenzio”, http:// www.repubblica .it/ cronaca/ 2018/ 07/ 21/ news/ rompiamo_ il_silenzio_ contro_la_ menzogna- 202372216/?refresh_ce

(12) Vedi l’articolo della serie “Sul filo del tempo” intitolato Gli intellettuali e il marxismo, pubblicato dal partito nell’allora suo organo “battaglia comunista”, n. 18 del 4-11 maggio 1949. 

(13) Cfr. La donna e il socialismo, di August Bebel, Reprint Savelli 1973, capitolo La donna nell’avvenire, pp. 421-422. Disponibile in formato digitale anche nel sito www.pcint.org, alla sezione “Biblioteca del marxismo rivoluzionario”.

(14) Cfr. Corriere del Veneto, del 24 luglio 2018.

(15) Cfr. Corriere del Veneto, del 19 novembre 2014.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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