Il capitalismo mondiale di crisi in crisi (3)

(«il comunista»; N° 156; Novembre 2018)

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(le puntate precedenti sono apparse nei nn. 152 e 155 de “il comunista”)

 

 

SUA MAESTÀ L’ACCIAIO

 

I marxisti in generale, e il nostro partito in particolare, hanno sempre attribuito particolare importanza alla produzione di acciaio come indicatore dello sviluppo capitalista. L’acciaio è presente in numerosi prodotti, dalle spille alle automobili, dal cemento armato agli acciai speciali per l’aeronautica ecc .; è un indice sicuro dell’evoluzione dell’economia di un paese e dell’economia mondiale e anche dei rapporti di forza non solo economici ma militari tra le grandi potenze: l’acciaio è anche indispensabile per la produzione di armamenti!

Trump non ha avuto torto quando ha invocato ragioni di “sicurezza nazionale” presso l’OMC (World Trade Organization, un’agenzia creata per regolare e liberalizzare gli scambi commerciali a livello internazionale) quando ha deciso di imporre tariffe doganali sulle importazioni di acciaio; l’OMC prevede che in questo caso gli Stati membri possano violare le norme commerciali in vigore.

Se la decisione di Trump rispondeva principalmente alle esigenze dei produttori di acciaio americani (Big Steel, come si dice laggiù per designare questa potente industria), ha anche innegabilmente avuto obiettivi strategici: la prima potenza mondiale imperialista può difficilmente ammettere che l’acciaio, di cui ha bisogno per costruire i suoi aerei, le sue navi da guerra e altre attrezzature militari che sono i garanti della sua preminenza internazionale, sia fornito da Stati potenzialmente ostili (anche se gli Stati Uniti attualmente acquistano molto più acciaio dai paesi “alleati”, principalmente il Canada e alcuni paesi europei, che non dalla Cina).

 

PRODUZIONE D’ACCIAIO, IL MOTORE DEL CAPITALISMO GLOBALE

 

Il Filo del Tempo intitolato “Sua Maestà l’acciaio”, pubblicato nel 1950 (1), riporta una breve storia della produzione di acciaio nel mondo. Senza voler riprendere l’intero testo, citeremo e svilupperemo alcuni punti in continuità con ciò che è stato scritto allora.

 Nel 1913, alla vigilia della prima guerra mondiale, c’erano 6 principali produttori di acciaio nel mondo. La Gran Bretagna, che era stata il “laboratorio del mondo” nel secolo precedente, e quindi anche il principale produttore di acciaio, non solo aveva lasciato il posto negli Stati Uniti, ma era stata anche superata dalla sua rivale, la Germania.

Ecco i numeri (2):

In trent’anni la produzione mondiale di acciaio si è moltiplicata per venti (mentre la popolazione del pianeta è aumentata solo del 25%): 71 milioni di tonnellate contro i 3,6 milioni del 1880. Nel primo gruppo gli Stati Uniti ne hanno prodotti 31 milioni, la Germania 19 milioni, la Gran Bretagna 10 milioni, la Francia poco più di 5 milioni, la Russia circa 5 milioni, mentre il Giappone ne aveva poco più di 200.000 tonnellate .

 Alla vigilia della seconda guerra mondiale, la produzione mondiale di acciaio superò i 100 milioni di tonnellate, ma era precipitata a 40 milioni dopo la crisi del 1929. In pochi anni di preparazione alla guerra aveva fatto un gigantesco balzo in avanti! Gli Stati Uniti produssero 47 milioni di tonnellate, la Germania 23 milioni, la Russia poco meno di 19 milioni, la Gran Bretagna 14 milioni, la Francia 8,5 milioni, il Giappone 5 milioni. In questi dati della produzione di acciaio si possono leggere in anticipo i risultati degli scontri militari che hanno preparato ...

Dopo la guerra, le necessità della ricostruzione davano un forte impulso alla produzione mondiale di acciaio; ma ora i principali concorrenti erano in realtà solo due, i pilastri del condominio mondiale nell’era della cosiddetta “guerra fredda”: l’URSS e gli Stati Uniti.

Nel 1967 la produzione mondiale d’acciao raggiunse 497 milioni di tonnellate dopo una crescita ininterrotta del 365% in venti anni: nel 1947 erano stati, infatti, prodotti 136 milioni di tonnellate, dopo il vuoto dell’immediato dopoguerra. Gli Stati Uniti sono quindi i primi con 115 milioni, più di tutta la produzione mondiale prebellica; sono seguiti dall’URSS con 102 milioni. Seguono a distanza gli altri concorrenti imperialisti: il Giappone, che ora è il terzo produttore a 62 milioni, la Germania Ovest a 37, l’Inghilterra a 24, la Francia a 19 milioni di tonnellate.

Ma i 6 maggiori produttori “storici” producono solo l’80% dell’acciaio mondiale, i nuovi produttori hanno acquisito un’importanza significativa: l’Italia con 16 milioni di tonnellate, la Cina con una produzione stimata di 14 milioni di tonnellate, Cecoslovacchia e Polonia a 10 milioni ecc.

Nel 1973, quando stava per iniziare la crisi economica internazionale, la produzione mondiale salì a 698 milioni di tonnellate. Gli Stati Uniti raggiungevano la cifra record di 136 milioni, ma l’Unione Sovietica li tallonava con 131 milioni, mentre il Giappone era molto più vicino ai due maggiori con 119 milioni di tonnellate; la Germania Ovest era a 49 milioni, la Gran Bretagna a 26 milioni alla pari con la Cina, la Francia a 25 milioni e l’Italia a 21 milioni.

 

 

LA CRISI 1974-75 E QUELLE SUCCESSIVE

 

La grande crisi economica internazionale del ‘74-‘75, la prima di questa ampiezza dopo la guerra, rimescola le carte.

La produzione mondiale diminuirà solo del 10% e questo declino durerà solo 3 anni, ma queste cifre sono fuorvianti; infatti il  †continuo aumento della produzione di acciaio che ha accompagnato i “trenta gloriosi” (come gli economisti chiamano i tre decenni di espansione che seguirono la guerra mondiale) nei paesi occidentali  e in Giappone, si è fermato. L’URSS, in gran parte risparmiata da questa crisi, ne approfitta per superare nettamente gli Stati Uniti dal 1976 (144 milioni di tonnellate, contro i 116 per quest’anno), che saranno a loro volta sorpassati dal Giappone durante la crisi 1980 -81, mentre la Cina, senza rumore, continua la sua costante ascesa.

Nel 1987 si raggiunge una produzione globale di 737 milioni di tonnellate, un aumento di poco più del 50% in vent’anni: il ritmo di crescita globale della produzione di acciaio è rallentato bruscamente rispetto al periodo precedente, parallelo alla crescita economica in generale, ma le quantità sono diventate molto più grandi e i rapporti tra i paesi si sono modificati.

 L’URSS è decisamente in testa con 162 milioni di tonnellate, superando il Giappone (98 milioni) e gli Stati Uniti (81 milioni). La Cina è al quarto posto con 56 milioni, davanti alla Germania dell’Ovest (37 milioni), all’Italia (22 milioni) che è alla pari con un nuovo arrivato, il Brasile, e grosso modo sono allo stesso livello la Francia ( 17,7 milioni) e la Gran Bretagna (17,4), in procinto di essere superata dalla Corea del Sud (16,5 milioni).

L’enorme produzione di acciaio sovietico è in realtà una gigantesca sovrapproduzione che preannuncia il prossimo crollo dell’URSS; il Giappone, che ha raggiunto il suo massimo di 111,7 milioni di tonnellate nel 1980, superando gli Stati Uniti, ha visto il suo progredire fermarsi a causa di questi ultimi grazie gli accordi detti del “Plaza Hotel” nel 1985 (3); l’emergere delle nuove potenze segna il declino delle vecchie potenze industriali occidentali come la Gran Bretagna, la Francia e gli Stati Uniti (che hanno visto la loro produzione di acciaio crollare del 40% dal loro storico record del 1973).

Facciamo un salto di 10 anni.

Nel 1997, l’Unione Sovietica è scomparsa insieme al cosiddetto “campo socialista” est europeo, e gli Stati Uniti si presentano come l’unica superpotenza, pretendendo di definire un “nuovo ordine mondiale” a loro conveniente, mentre il mondo ha conosciuto una crisi economica internazionale, ma di ampiezza più o meno forte a seconda delle regioni. Dal 1987 la produzione mondiale di acciaio è aumentata di poco più del 2%, raggiungendo i 798 milioni di tonnellate, ma nasconde differenze significative tra i paesi: il panorama dei produttori di acciaio è in pieno stravolgimento. La Cina, nel 1994, è ora il maggior produttore al mondo, superando gli Stati Uniti, che nel frattempo erano tornati al primo posto e che sono stati superati comunque dal Giappone: Cina: 109 milioni di tonnellate; Giappone: 104,5; Stati Uniti: 98.5.

Poi c’è la Russia (48 milioni), la Germania riunificata (45), la Corea del Sud (42,5); il Brasile (26); l’Italia (25,7); l’Ucraina, che ha ereditato parte dell’industria siderurgica dell’URSS (25,5); l’India (24,5); la Francia (19,7) e la Gran Bretagna (18,4).

Se l’Europa, nel suo complesso, produce poco meno di 200 milioni di tonnellate di acciaio e il Nord America circa 130 milioni di tonnellate, l’Asia, da parte sua, supera i 300 milioni di tonnellate: il centro di gravità della produzione di questo materiale strategico che è l’acciaio si è definitivamente spostato in Asia. Le pretese americane di essere gli unici padroni del mondo non poggiano su solide basi economiche: sono quindi condannate a essere smentite dai fatti. Tuttavia, dobbiamo essere consapevoli del fatto che l’area geografica asiatica è composta da paesi che non sono solo concorrenti, ma ostili l’uno con l’altro; ciò consente, almeno per il momento, il mantenimento del dominio occidentale, cioè americano.

Facciamo un altro salto di 10 anni per arrivare alla vigilia della grande recessione del 2008. Nel 2007 la produzione mondiale d’acciao è salita a 1.346 milioni di tonnellate, con un aumento del 68% rispetto al 1997: la recessione del 2001 non si è fatta sentire nella produzione complessiva di acciaio. Ma vi sono differenze importanti per i diversi paesi.

Gli Stati Uniti, che nel 2000 erano tornati a produrre intorno ai cento milioni di tonnellate di acciaio, segno di una vera vitalità industriale, sono scesi a 90 milioni nel 2001 e nel 2007 non hanno ancora trovato il livello del 2000 quando, con 98 milioni, erano dietro il Giappone (120 milioni); particolare crescita è conosciuta dalla Cina: la sua produzione d’acciao è balzata a 489 milioni, un aumento di oltre il 400% in dieci anni!

La Russia segue con 72 milioni (aumento del 160% rispetto al 1997); poi abbiamo l’India, che è decollata con 53 milioni (aumento del 220%); la Corea del Sud continua il suo slancio con 51 milioni (aumento del 20%).

Seguono la Germania, che ha leggermente aumentato la propria produzione a 48 milioni (+ 6,5%); l’Ucraina a 42 (aumento del 64%), il Brasile a 33,7 (aumento del 29%), l’Italia a 31,5 (aumento del 21%), la Turchia a 25 (aumento del 75%), la Francia a 19,2 (quasi stagnazione), la Spagna in forte espansione a 18,9 (aumento del 37%), che ha doppiato la Gran Bretagna che, non superando i 14,3, registra un calo di 22 %.

Oltre all’emergere di nuovi paesi, come l’India e la Turchia, tra i principali produttori mondiali, la continua ripresa della Russia e le prestazioni della Corea, si riscontrano importanti differenze nel dinamismo industriale esistente in Europa: troviamo vecchi paesi produttori che non sono riusciti a riconquistare il loro livello del 2000 (la Francia) o quello del 1997 (la Gran Bretagna) e paesi che continuano a crescere fortemente come l’Italia e ancora più la Spagna, o in modo più misurato, ma comunque significativo, come la Germania.

 

LA GRANDE RECESSIONE E LE SUE CONSEGUENZE

 

La crisi del 2008 ha ridotto la produzione mondiale di quasi il 9%, tra il 2007 e il 2009, prima di ricominciare a salire; ma alcuni paesi hanno sentito la crisi molto più duramente di altri.

Gli Stati Uniti, epicentro della crisi, vedono la loro produzione diminuire drasticamente, di quasi il 40%, e scendere a 58 milioni di tonnellate; ma i paesi europei non stanno meglio, con l’Italia in calo del 37%, la Francia il 36%, la Germania il 33%, l’Ucraina il 30%. La Gran Bretagna con un calo del 28%, il Giappone del 27% e la Spagna del 24%, fanno un po ‘meglio; questo è anche il caso del Brasile con un calo del 20%, della Russia (16%), della Corea del Sud (10%) e della Turchia (6%). Mentre in altri, come Cina e India, la produzione di acciaio continuerà a crescere, dimostrando che la crisi non li ha influenzati particolarmente.

Dieci anni dopo, dove siamo?

Rispetto al 2007, la produzione mondiale è aumentata del 25% fino a raggiungere 1.689 milioni di tonnellate nel 2017. Questa percentuale è inferiore rispetto al decennio precedente, ma la crisi è stata anche molto più violenta. Soprattutto, alcuni stati non l’hanno ancora superata.

Gli Stati Uniti, infatti, con 81,6 milioni di tonnellate di acciaio prodotte nel 2017, hanno registrato un calo di oltre il 16% in dieci anni. Ora sono retrocessi al 4 ° posto a livello mondiale, superati non solo dalla Cina, che è a 831 milioni di tonnellate (aumento del 70%), corrispondente al 49% della produzione globale,  e dal Giappone, che è a 104,7 milioni (nonostante una diminuzione del 13%), ma anche dall’India che, con 101,4 milioni, detiene il nastro azzurro della crescita tra i grandi paesi: la sua produzione aumenta del 91%. Perciò Trump, che ha in programma di lanciare un grande programma per costruzione di navi da guerra per affrontare l’ascesa della flotta da guerra cinese, ha più di una ragione di preoccuparsi ...

Segue la Russia, stagnante per 10 anni, e la Corea del Sud (ma questa con un aumento del 39%): a 71 milioni di tonnellate. Poi abbiamo la Germania a 43,4 (9,5% in meno), la Turchia a 37,5 (rialzo del 50%), il Brasile a 34,4 (+2%), l’Italia a 24,1 (riduzione del 23%). Inoltre, la Francia a 15,5, in calo del 20%, e la Spagna a 14,5, in calo del 23%. Per quanto riguarda la Gran Bretagna, l’ex produttore di acciaio n ° 1, che nel diciannovesimo secolo produsse metà dell’acciaio mondiale, è precipitata negli ultimi posti della classifica, al 22 °, dietro il Belgio e l’Austria, appena poco più sopra della sua ex colonia, l’Egitto: 7,5 milioni di tonnellate, corrispondenti a un calo del 47% in dieci anni.

 

RADICI DI UN FUTURO CONFLITTO CON LA CINA

 

Cosa ci dicono questi numeri?

Innanzitutto, le vecchie regioni industrializzate dell’Europa, del Nord America e del Giappone hanno continuato a perdere la loro importanza nell’industria siderurgica rispetto all’Asia (escluso il Giappone) e in particolare alla Cina: l’Asia, nel 2017, ha prodotto il 62% dell’acciaio mondiale, l’Europa ne ha prodotto solo il 12,5%, il Nord America il 6,8% e il Giappone il 6,2%.

Ciò non implica una riduzione equivalente della loro produzione industriale, poiché questi paesi trovano nel mercato mondiale l’acciaio e i prodotti siderurgici che non producono o che non producono più.

Ad esempio, secondo un rapporto governativo (4), la Gran Bretagna ha consumato, nel 2015, 9,4 milioni di tonnellate di acciaio, di cui solo 4,4 milioni di tonnellate sono state fornite dall’industria siderurgica britannica (che ha esportato, nello stesso anno, 3,5 milioni di tonnellate): le importazioni sono quindi ammontate a 5 milioni di tonnellate. Quando l’industria indiana Tata si ritirò dal mercato del Regno Unito, nel 2016, a causa della concorrenza delle importazioni cinesi a basso prezzo e della recessione economica, vendendo per il prezzo simbolico di una sterlina le strutture di British Steel che aveva comprato dieci anni prima, si pose la questione della completa scomparsa dell’industria siderurgica britannica. Probabilmente è stata salvata per ragioni strategiche, perché la dipendenza dal mercato mondiale ha inevitabilmente conseguenze spiacevoli su questo piano (5).

Le cifre che abbiamo citato mostrano anche, e soprattutto, la tremenda sovrapproduzione dell’acciaio in Cina; secondo alcune stime la sua capacità in eccesso è pari all somma delle produzioni di Giappone, India, Stati Uniti e Russia (6)! Questa sovrapproduzione non è limitata all’acciaio, ma riguarda anche carbone, cemento, vetro, alluminio ecc. La Cina è costretta a vendere la sua produzione ad un prezzo basso oltreoceano, minacciando la sopravvivenza di molte industrie in altri paesi. Questa è una situazione che non può durare e finora gli accordi internazionali e le misure adottate dalle autorità cinesi per ridurre la produzione non hanno risolto questo problema; al contrario, la produzione cinese ha continuato a crescere praticamente in ogni settore. Vi sono, quindi, i fattori materiali di un futuro conflitto dei grandi imperialismi contro la Cina e/o una grave crisi economica interna in questo paese, se gli sbocchi esterni si prosciugassero, sia con misure protezionistiche alla Trump, sia con lo scoppio di una nuova recessione globale che si profila all’orizzonte.

Ma questo esuberante sviluppo dell’industria cinese ha portato anche al rapido sviluppo di una classe operaia ancora mal inquadrata dalle istituzioni statali. Le informazioni sui “conflitti sul lavoro” che giungono fino a noi sono un segno ancora timido che i proletari cinesi non tollereranno per sempre l’eccessivo sfruttamento che stanno vivendo. Le misure repressive adottate dal governo a tutti i livelli, segno che è ben consapevole di questo pericolo, non riusciranno ad arginare l’inevitabile risveglio della lotta di classe in Cina!

 

 (Continua)

 


 

(1) Cfr. Battaglia Comunista n. 18/1950

(2) Le cifre variano, a volte in modo significativo, a seconda delle fonti. Usiamo qui la “World Steel Statistics” dell’International Iron and Steel Institute (Bruxelles). Si noti che fino agli anni ’80 del secolo scorso queste statistiche erano “confidenziali” ...

(3) Con questi accordi, il Giappone accettò una rivalutazione della sua valuta rispetto al dollaro, il che rincarò il prezzo delle sue esportazioni. Abbiamo parlato di un “decennio perduto” per la crescita giapponese, seriamente ostacolato dagli Yankees ...

(4) Cfr. “Future Capacities and Capanilities of the UK Steel Industry”, BEIS Research Paper n. 26, 15/12/2017.

(5) Dei politici britannici si erano già offesi dal fatto che il nuovo sottomarino nucleare del paese fosse stato costruito con acciaio importato dalla Francia... Cfr. The Thelegraph, 15/12/2017

(6) Cfr. The Economist, 9/9/2017

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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