Un giorno di luglio, su “la Repubblica” (2)

(«il comunista»; N° 156; Novembre 2018)

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Nel numero scorso del giornale abbiamo pubblicato la prima parte di questo articolo, il cui obiettivo era di mettere in evidenza, scorrendo uno dei quotidiani italiani più importanti (appunto “la Repubblica” del 26 luglio scorso), come vengono trattati i diversi argomenti e quali sono i “valori” che stanno tanto a cuore alla borghesia e che vengono diffusi a piene mani sui giornali, in televisione, alla radio, al cinema, in internet e sui blog.

Ora publichiamo la seconda parte che non aveva trovato spazio nel numero precedente, naturalmente con lo stesso metodo: ogni argomento trattato dal quotidiano costituisce per noi l’occasione per dire la nostra; i  titoletti sono tutti nostri.

 

 

Mafia e antimafia

 

Non passa giorno che non accada qualcosa che riguardi la mafia. Il sistema mafioso è talmente penetrato nel tessuto economico, politico, amministrativo italiano che non c’è settore, non c’è ambito, non c’è luogo da cui, gratta gratta, non escano fatti di mafia (o di camorra, o di ‘ndrangheta). “la Repubblica” dà oggi, 26 luglio, un aggiornamento su quello che è stato chiamato il “sistema Montante”. Era un “sistema” per nascondere i contatti e gli affari tra politici siciliani, imprenditori, giornalisti, sindacalisti e funzionari della Procura e della polizia. E’ stato chiamato “sistema Montante”, perché a capo di questo sistema c’era Antonello Montante, ex numero uno della Confindustria siciliana e vicepresidente di Confindustria nazionale. Le indagini che andavano avanti da tre anni abbondanti, e che sono alla base di un processo che si apre in questo periodo, mettono in luce «il doppio gioco dell’ex vicepresidente di Confindustria, con delega alla legalità, ma con il vizietto dello spionaggio. Lui, Antonello Montante, al centro di una “tentacolare rete” dove c’erano personaggi “inseriti ai più alti livelli della Polizia, dei servizi di sicurezza e dell’ambiente politico italiano”. Tutti complici suoi mentre sbandierava il vessillo dell’Antimafia diventando uno degli uomini più potenti del Paese, tutti legati in una cordata che – procurando danno a terzi – si scambiava favori e informazioni sensibili».  

Cosa c’è di meglio che farsi passare pubblicamente ed ufficialmente come “nemico”della mafia, mentre, sotto sotto, nei fatti, si conducono operazioni mafiose tessendo intricate reti al fine di consolidare ed ampliare un grande potere economico e politico; cosa c’è di più funzionale, ai fini degli interessi di parte, di un «sistema che ha visto, per più di dieci anni, l’occupazione dei posti di vertice in associazioni di categoria e in enti pubblici, con il contestuale “isolamento” e azioni messe in atto per danneggiare soggetti rivali che non condividevano la gestione clientelare» (1)? Un sistema che vede coinvolti, come scrive “la Repubblica”, personaggi di primo piano come l’ex governatore siciliano Crocetta, il padrone delle discariche siciliane ed ex presidente di Sicindustria, Catanzaro, l’ex senatore Lumia, l’ex presidente di Unioncamere Lo Bello, l’ex ministro Alfano.

Ma, mentre da un lato la magistratura smonta, dopo anni ed anni di indagini, una rete di malavitosi, dall’altro lato se ne creano cento e sempre più organizzate, sempre più potenti. Ormai questo è un classico. La base su cui germinano le mafie di ogni tipo è sempre la stessa: il sistema economico e sociale capitalistico, che spinge fazioni borghesi a lottare contro altre fazioni borghesi, con l’intervento di tutti i soggetti utili a garantire l’appropriazione di denaro pubblico a fini privati e a garantire, il più a lungo possibile, i benefici del sistema corruttivo con la  partecipazione di tutti coloro che, per professione e per posizione sociale, possono a loro volta “facilitare” gli affari contro favori personali. Dalla famosa “stagione di mani pulite”, iniziata nel 1994, in cui si scoperchiarono  intrighi ad ogni livello economico e politico e in cui crollarono i vecchi partiti che tenevano le redini del paese, e con la quale si diffuse l’illusione che finalmente la corruzione generalizzata sarebbe stata debellata, sono passati più di venticinque anni; ma, invece di scomparire, i sistemi corruttivi si sono moltiplicati, resi più efficaci, oltretutto, dalle nuove tecnologie di comunicazione e di salvataggio e trasferimento dati.

Il sistema politico borghese ha, però, interesse a dimostrare al popolo, da cui pretende periodicamente di ricevere fiducia e voti, continuando ad illuderlo sulla democrazia parlamentare ed elettorale come il sistema migliore possibile, che chi va contro la legge ne paga le conseguenze. Perciò, talvolta, anche qualche grosso imprenditore come a suo tempo Gardini o Berlusconi, qualche capo di partito come Andreotti, Craxi, Bossi, Berlusconi, qualche ministro come De Lorenzo, finiscono nel registro degli indagati e dei condannati. Ma se qualche “testa” cade, il sistema resta e continua a produrre corruzione, malaffare, violenza.

La magistratura, d’altra parte, deve anche dimostrare di colpire i rappresentanti della mafia, le organizzazioni che del crimine hanno fatto la loro attività esclusiva. Anche perché i metodi mafiosi, pur essendosi aggiornati negli ultimi decenni passando dal controllo dei territori di campagna al controllo delle città, dall’economia di sussistenza e di tipo agrario alla grande economia industriale e alla grande finanza, non hanno smesso di applicare le vecchie formule: intimidazione, ricatto, sequestro, assassinio. Il sistema mafioso, che si è potenziato travalicando i confini nazionali da moltissimo tempo, si è talmente radicato e ramificato da costituire una specie di “secondo Stato”, e lo Stato borghese, per affermare costantemente la sua autorità “esclusiva” nel paese, non può sopportare docilmente che si eriga, nel suo stesso territorio, un altro “Stato”. Le organizzazioni criminali hanno l’obiettivo di approfittare dello spazio che lo Stato centrale non riesce a controllare per insediarvisi, radicarvisi, utilizzandolo come ponte per estendersi. Il “vuoto” di potere, in realtà, non esiste: se il potere non è in mano ad una fazione borghese, o ad una coalizione di fazioni borghesi, è in mano alle fazioni avversarie, in una lotta di concorrenza che è permanente, che non si ferma mai perché è generata dalla stessa circolazione del capitale, e più denaro circola più si fa acuta la concorrenza, più sorgono i motivi di scontro. Come in ogni guerra, a seconda dei rapporti di forza dei contendenti, gli scontri provocano il potenziamento di una parte e l’indebolimento dell’altra, e nella parte indebolita si creano fessure, disillusioni, paure che sono la base per la corruzione, e per il tradimento. E’ su questi tasti che la criminalità organizzata preme per penetrare nei meandri dell’amministrazione pubblica, fonte di appalti e di notevoli quantità di denaro, e per accalappiare (o intimidire, ricattare, sottomettere, a seconda della situazione e dell’urgenza di ottenere il risultato voluto) i personaggi che per la loro posizione possono dirottare decisioni e soldi da una parte piuttosto che dall’altra. Ma la stessa cosa è fatta dalle istituzioni statali che a disposizione hanno polizia, carabinieri, magistratura, ingenti capitali e una presenza molto capillare sul territorio nazionale, e che approfittano, nelle occasioni dell’indebolimento di qualche struttura mafiosa, per penetrarla, ricavandone informazioni utili ad assestare qualche colpo. Inevitabile, in questa lotta, che al tradimento del loro mandato di funzionari pubblici corrisponda un tradimento di uomini della mafia, ed è grazie ad una serie di tradimenti che l’una, o l’altra parte, riesce a vincere qualche battaglia, ma non la guerra perché entrambi sono figli dello stesso sistema economico: il sistema capitalistico dove il possesso di denaro è lo spartiacque tra chi ha e chi non ha, chi ha in mano le leve del comando e chi deve sottostare a chi domina, tra chi vive bene e chi fatica a vivere. 

Come si legge spesso nei giornali e si sente alla televisione, episodi di corruzione, di malversazione, di criminalità si aggiungono a quelli di cui già molte volte si è data notizia, facendo da cassa di risonanza tutte le volte che qualche caporione della mafia viene arrestato e poi condannato. Come è successo nel caso di Provenzano, di Riina e tanti altri. Ma i media non possono nascondere che i successi della magistratura sono determinati, in gran parte, dalle informazioni che essa riesce a strappare ai cosidetti “pentiti”, denominati “collaboratori di giustizia”, in sostanza, coloro che hanno tradito l’appartenenza alla “famiglia criminale” dopo averne goduto la protezione o esserne stati anche a capo. Senza di loro, ogni indagine si arenerebbe nei cavilli previsti dalle stesse leggi borghesi; senza di loro nessuna “battaglia” della magistratura sarebbe vinta. Come nell’ultimo caso, di cui parla “la Repubblica” che stiamo sfogliando, e che riguarda Nicola Schiavone «primogenito del padrino del clan dei Casalesi, Francesco, detto “Sandokan”». Costui guidava l’organizzazione che faceva capo a Casal di Principe «fra il 2005 e il 2010, negli anni del grande intreccio con la politica e nel periodo segnato dalle stragi del 2008», ed è stato catturato otto anni fa. Ora, dopo 8 anni, ha deciso di “collaborare”, di svelare i “segreti di Gomorra”, così almeno dicono i magistrati. Schiavone junior, continua “la Repubblica” citando un magistrato, «è stato il capo dell’ala imprenditoriale del clan. Si è occupato di affari, del controllo degli appalti, del sistema del riciclaggio nelle scommesse e nel gioco on line. Aveva contatti in Emilia Romagna, in Romania e a Malta. Ci sono molte pagine ancora da scrivere: a cominciare dalle vicende dell’omicidio di Michele Orsi [l’imprenditore dei rifiuti ucciso in un agguato nel giugno 2008, n.d.r.] sulle quali non è ancora stata fatta piena luce».

Ma l’arresto di capi e sottocapi non è mai riuscito a smantellare definitivamente le reti e le organizzazioni criminali; queste vengono colpite, ma non sradicate e così si riproducono continuamente, su tronconi precedenti o su nuove strutture che a loro volta mettono a frutto le esperienze passate, adeguandosi alle nuove condizioni politiche e sociali, ramificandosi con metodi diversi e, soprattutto, insinuandosi con successo nel sistema finanziario generale e accompagnando le storiche attività nel campo della prostituzione, della droga, del pizzo, del gioco d’azzardo, dell’usura, ad attività inerenti l’economia reale, ad esempio nei servizi, nella ristorazione, nell’industria del divertimento, in agricoltura, nell’edilizia. Dove circola costantemente denaro si apre un’opportunità per l’attività criminale; chi ha il denaro ha il potere, chi possiede e controlla più denaro aumenta il proprio potere, aumentando nello stesso tempo il controllo diretto e indiretto delle diverse attività capitalistiche, assoggettandole e, ovviamente, assoggettando in parte o in toto strutture politiche, economiche e sociali legali attraverso le quali ottenere un triplo vantaggio: 1) controllo del denaro alla fonte, attraverso gli appalti pubblici piegati agli interessi privati, 2) controllo della totale o parziale filiera attraverso la quale quel denaro viene effettivamente investito, 3) facciata perfettamente legale a copertura dell’attività criminale. Tutto ciò non può svolgersi se non attraverso il coinvolgimento di imprenditori, avvocati, funzionari pubblici, magistrati, amministratori, dirigenti di banca, poliziotti, sgherri e manovalanza criminale. La classe dominante borghese sa perfettamente che le cose stanno così, ma il suo interesse di fondo è di oliare con qualsiasi mezzo il sistema capitalistico perché è da questo che essa dipende, è da questo sistema che essa trae il suo vero potere.

La contraddizione sta nel fatto che il controllo sociale generale, e delle masse lavoratrici in particolare (visto che è dal loro lavoro che essa estrae i profitti), attraverso lo Stato, le sue leggi, la sua forza militare, la sua magistratura, richiede la legalità e il rispetto della legalità, mentre il sottostrato economico che si esprime attraverso i rapporti di produzione e di proprietà, e procede attraverso il sistema mercantile, chiede sempre più velocità di circolazione del denaro e di appropriazione delle fonti di produzione del denaro, quindi, tende ad infrangere costantemente i limiti che le leggi impongono al fine di essere recepite come regole generali della vita civile e come misure di equilibrio tra la classe che possiede tutto e le classi che possiedono poco o nulla.

Ma il sistema capitalistico è più forte di qualsiasi “coraggioso” magistrato, di qualsiasi imprenditore “onesto”, di qualsiasi funzionario pubblico “integerrimo”: è un sistema che incita costantemente ad infrangere le leggi che esso stesso si è dato, e non c’è alcuna forza morale che glielo possa impedire, per quante riforme i suoi rappresentanti politici ed economici possano escogitare. E’ un sistema che va abbattuto e sostituito con un sistema politico ed economico completamente opposto, dove al centro non ci sono la produzione e la vendita di merci, il denaro, il profitto capitalistico, lo sfruttamento del lavoro salariato, ma un’organizzazione sociale ed economica che mira a soddisfare le esigenze della società umana e non del capitale. La lotta perciò non sarà contro una o più organizzazioni criminali ma contro il sistema generale che le produce, che le alimenta, che le sostiene, il sistema capitalistico con tutto il suo apparato statale. Ma questo è argomento della rivoluzione del proletariato e della sua lotta per l’emancipazione non solo di se stesso come classe di questa società, ma di tutte le classi, perciò dell’intero genere umano; argomento da noi trattato molte volte e da riprendere in altra sede. Resta il fatto che le organizzazioni malavitose funzionano come aziende, e sempre di più come delle multinazionali: sono perfettamente integrate nel sistema capitalistico generale e, a seconda del business, nella produzione, nel commercio, nei servizi, nella finanza. La loro facciata “legale” copre la loro essenza illegale e criminale, allungando i tentacoli in ogni paese, in ogni ambito in cui sia possibile, e conveniente, trarre velocemente alti profitti. E’ anche per questo che i loro tradizionali affari nel campo della prostituzione, del traffico di esseri umani, del contrabbando, della droga, del pizzo, dello strozzinaggio, ossia nei campi in cui la circolazione del denaro contante – la cui fonte è difficilmente rintracciabile – raggiunge volumi enormi e quotidiani, sono affari sempre attivi e sempre “rinnovabili”. E’ indiscutibile che tutti coloro che lottano contro la prostituzione, come contro la diffusione della droga e, in genere, contro ogni tipo di violenza e di intossicazione, siano animati da un profondo spirito di fraternità e di umanità e spesso rischiano la propria vita. Ma la soluzione non sta nell’appello alle coscienze, alla pietà o alla legge; sta nella lotta contro le cause materiali profonde di tutti questi fenomeni, sta nella lotta contro il sistema capitalistico che si nutre di sfruttamento, di violenza, di imbarbarimento della vita sociale e, quindi, contro la classe dominante borghese che è aggrappata a questo sistema per la vita e per la morte. L’unica forza sociale che può contrapporsi in modo efficace al dominio della classe borghese è rappresentata dalla classe del proletariato, una classe che materialmente, economicamente, politicamente, quindi storicamente, non ha alcun interesse da difendere nella società del capitale. Non è un caso che la borghesia faccia di tutto per deviare la lotta del proletariato dal suo terreno classista, apertamente antagonista, sul terreno della collaborazione interclassista per rafforzare la quale, di tanto in tanto, deve dimostrare di “lottare” contro la cosiddetta criminalità organizzata – che non è altro che una aggregazione di fazioni borghesi concorrenti –, arrivando ad arrestare qualche membro delle diverse cupole e sacrificando anche qualche poliziotto o magistrato. Il “sistema” però non cade, si rinnova con altro personale; possono anche cambiare i capi, dall’una e dall’altra parte della “legalità”, ma il sistema capitalistico, che è un sistema criminale basato sullo sfruttamento bestiale dei lavoratori salariati, sulla violenza economica e politica e sulla concorrenza capitalistica che porta, inesorabilmente, a scontri di guerre sempre più devastanti, è un sistema che può essere colpito a morte soltanto dalla rivoluzione proletaria.

 


 

(1) Vedi https://www.siciliareporter.com/caltanissetta-sistema-montante-la-procura-indaga-su-altri-soggetti-e-affari/

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Ciarlatani e medicina borghese

 

 

Un piccolo articolo per un grande e complicato tema. “la Repubblica” riassume il contentuo di un’intervista di Michele Serra a Elio, il leader della band “Elio e le Storie Tese” riguardo il tema dell’autismo. Il figlio di Elio, infatti, soffre di autismo, e nell’intervista emerge che su questo problema esistono numerosissimi ciarlatani, e che molti genitori disperati «si affidano a chi gli dice che tutto dipende dalla dieta e che si convincono ad acquistare beveroni da 800 euro, altri che accusano l’assunzione dei metalli pesanti e propinano cure con altri metalli pesanti. C’è perfino chi ancora tira fuori la vecchia storia che l’autismo sia frutto del disamore, la famosa teoria delle “mamme frigorifero”. Fake news vecchie e nuove che si intrecciano». I ciarlatani, soprattutto in tema di salute, sono sempre esistiti, ma potrebbe sembrare strano che, in una società moderna, sviluppata economicamente e dove la scienza è essa stessa molto sviluppata, dove esistono un servizio sanitario nazionale, ospedali, cliniche, istituti di ricerca che fanno sperimentazioni di ogni tipo, una quantità notevole di ciarlatani abbia ancora la possibilità di diffondere la propria ciarlataneria con successo. In effetti basta dare un’occhiata a certe trasmissioni televisive per vedere all’opera guaritori, maghi, chiromanti. Ma il mondo della ciarlataneria non è fatto soltanto da questi personaggi, ma anche da personaggi ritenuti più nobili e più affidabili: è il caso degli astrologhi. Ormai non c’è canale televisivo, non c’è giornale o rivista che non pubblichi l’oroscopo del giorno. Ma questi si fanno passare per “scienziati” dell’interpretazione delle stelle, e vengono pagati per sciorinare le loro congetture sul futuro, prossimo o lontano, degli uomini secondo gli influssi degli astri sul mondo terreno. Si sa che l’astrologia era professata fin dall’antichità, dai babilonesi agli egizi, dagli incas ai maya, che, dallo studio dell’astronomia, ossia dei corpi celesti e dei fenomeni relativi ad essi e al loro movimento, traevano degli auspici sulla vita degli uomini in termini religiosi.

Non è un caso che il “cielo” e “dio”, fin dall’antichità, sono stati accomunati dal mistero: dai fenomeni legati al “cielo” dipendono la luce e il buio, la pioggia e il sole, i venti o la calma, la fioritura e la maturazione o meno dei frutti, la carestia o l’abbondanza, il diluvio o la desertificazione. Solo attraverso lo sviluppo economico e sociale della società umana, le vecchie credenze sono state via via  superate e molti “misteri” sono stati svelati; le scienze naturali sono progredite enormemente e la conoscenza ha fatto passi da gigante. I veri progressi storici della scienza, però, sono avvenuti sull’onda delle rivoluzioni, degli stravolgimenti della società umana che passava da un tipo di organizzazione della produzione ad uno superiore, ottenendo strumenti intellettuali e materiali adeguati a sempre nuove ricerche, a nuove scoperte, tanto da giungere, con la rivoluzione francese del 1789, ad abbattere non solo la monarchia ed i vincoli economici e sociali del feudalesimo, ma anche il grande potere economico, politico, sociale e ideologico della chiesa cattolica. Ma, come è avvenuto in ogni società divisa in classi nei periodi storici precedenti, così anche la classe borghese da rivoluzionaria è diventata riformista e poi reazionaria; e in questo rapido processo involutivo, i grandi slanci contro le superstizioni, i fanatismi, le credenze religiose si sono esauriti. La classe borghese trovò molto più conveniente – una volta utilizzata la forza dirompente delle masse popolari dei campi e delle città per abbattere il sistema sociale precedente, basato sul potere della nobiltà e del clero, e per conquistare il potere politico – difendere i propri interessi di classe, più efficacemente nel tempo, riconciliandosi con il clero e riconsegnando alla chiesa la sua antica funzione di intontimento generale delle masse lavoratrici che, se da un lato venivano sempre più sfruttate dalla borghesia capitalistica, soffrendo la miseria, la fame, la malattia e, sempre più spesso, la morte in guerra, dall’altro potevano trovare nell’opera religiosa della chiesa il conforto, il lenimento delle proprie pene, la speranza di una vita migliore nell’aldilà. In un clima sociale del genere, in cui la superstizione si presenta come l’alternativa alla brutalità della vita quotidiana, non può che nascere e diffondersi ogni sorta di credenza con il suo codazzo di ciarlatani. Se a questo si aggiunge l’evidente disparità di comportamento delle strutture pubbliche, quelle che dovrebbero essere al servizio di tutti i cittadini senza distinzione di censo e di classe, nei confronti dei membri della classe dominante e dei membri delle classi lavoratrici, allora si capisce bene come al bisogno di rivolgersi ad esse si accompagnano la diffidenza e la sfiducia nei loro confronti. I ciarlatani hanno gioco facile nell’inserirsi in queste crepe.

Ma, come nel caso dell’attività illegale, così anche nell’attività dei ciarlatani, dei “guaritori”, è lo stesso sistema economico e sociale a facilitarla. Più il cervello delle masse lavoratrici viene riempito di confusione, di superstizioni, di false speranze, e più la classe dominante borghese esercita con successo il suo dominio, la sua influenza, non solo in campo economico ma anche in campo ideologico e politico. Che cos’è la democrazia borghese se non un sistema ideologico e politico che produce false speranze? La democrazia borghese col suo elettoralismo e il suo parlamentarismo si presenta come “sovranità del popolo”, come regno della libertà, della fratellanza, dell’uguaglianza: non c’è nulla di più falso di questo. Il dominio sociale è in mano alla classe borghese, perché i rapporti di produzione e di proprietà che definiscono la società capitalistica sono appunto borghesi, e da essi dipende la vita e la morte dell’intera comunità umana. Il cosiddetto “popolo”, in nome del quale la borghesia rivoluzionaria (il vecchio “terzo stato”) ha guidato la rivoluzione borghese, corrispondeva agli strati popolari che non facevano parte dell’aristocrazia nobiliare e del clero, corrispondeva quindi all’intera classe borghese e agli strati popolari subalterni (il vecchio “quarto stato”, che comprendeva i contadini e il proletariato). Ma le leve economiche della società da cui dipende la vita di tutte le classi, come sappiamo, sono monopolio della classe borghese, perciò la “sovranità popolare” non è altro che la “sovranità della classe borghese”. I primi ciarlatani sono in realtà i borghesi; essi hanno raccolto le spinte materiali delle forze produttive che si sviluppavano sempre più, utilizzandole per abbattere i vincoli e le forme giuridiche e politiche della vecchia società feudale al fine di uno sviluppo industriale che ha fatto fare indubbiamente un enorme salto di qualità alla società umana, solo che, per controllare e sottomettere la classe dei lavoratori salariati non potevano bastare la pressione e la violenza economiche, ma ci voleva anche una pesante influenza ideologica alla quale ha portato il suo contributo essenziale non solo la teoria dell’uguaglianza, della fraternità e della libertà di fronte allo “stato”, ma anche la religione cristiana, e cattolica in particolare, che si basa sull’uguaglianza e sulla fraternità di tutti gli uomini di fronte “a dio”. Stato borghese e Chiesa, ecco le due entità “sovrane”, le due entità che si presentano al di sopra delle classi e degli uomini, investite in questo modo di una giustizia ideale che starebbe al di sopra degli interessi individuali e di gruppo, e quindi degli interessi di classe.

Nella società borghese ogni attività inerente l’economia, la politica, la scienza, l’arte, l’istruzione, l’educazione, la medicina, viene fatta dipendere da un interesse cosiddetto “superiore”, che viene proposto come interesse del popolo, del paese, quando in realtà non è che l’interesse del capitale, e quindi, della classe dominante. E’ questo interesse molto materiale, molto concreto, della classe dominante borghese, che indirizza, non solo ideologicamente, ma anche politicamente attraverso lo Stato e tutte le diverse istituzioni laiche e religiose, ogni attività, anche quella della scienza.  E’ inevitabile che l’indirizzo impresso anche all’attività scientifica sia orientato al 99% verso gli interessi economici, e finanziari, del capitale in generale e dei più potenti trust capitalistici in particolare; interessi di profitto che utilizzano ogni ricerca, ogni minimo risultato nel campo della medicina e della sanità allo scopo, da un lato, di continuare a sfruttare intensamente il lavoro salariato e, dall’altro, di assicurare e aumentare i profitti delle grandi case farmaceutiche, come con la produzione degli antidolorifici, dei vaccini, dei medicinali contro malattie che colpiscono ampi strati della popolazione, anche se spesso non guariscono la malattia, ma che possono causare “effetti collaterali anche gravi”, come è scritto in tutti i foglietti illustrativi che accompagnano i medicinali (non per niente chiamati “bugiardini”). Allora non può sorprendere, per quel che riguarda l’autismo, ciò che sostiene un padre, come Elio, che si dedica interamente al “disturbo dello sviluppo cognitivo” di cui soffre il figlio: «su questo tema siamo all’età della pietra, specialmente sotto il profilo della percezione», ossia nella possibilità di formulare una diagnosi precoce per poter poi passare alla terapia giusta, sempre che esista una “terapia giusta”. La prevenzione: ecco il grande assente nella società del capitale.

Si conferma così, per l’ennesima volta, che la scienza borghese risponde a quanto abbiamo sostenuto da sempre come partito: «La scienza umana non è semplicemente “umana”: determinata dai bisogni sociali essa è inseparabile dalla storia sociale; di più, nelle società divise in classi antagonistiche una delle quali detiene il monopolio delle forze sociali di produzione, gli oggetti e gli obiettivi della scienza sono imposti dalla classe dominante, dalle esigenze del modo di produzione che essa rappresenta. In una società in cui l’attività produttiva è determinata non dai bisogni umani ma dalle leggi della riproduzione allargata del capitale, la scienza fa la stessa fine: cioè, gli oggetti di cui si occupa e gli scopi ch’essa persegue sono determinati dai rapporti capitalistici di produzione e dai rapporti sociali che ne derivano. Non solo ma lo stesso metodo scientifico non sfugge alla determinazione sociale, nella misura in cui l’ideologia della classe dominante interviene nel lavoro teorico o impone alla scienza di considerare come oggetti “naturali” irriducibili dei prodotti dell’attività sociale» (2). «La tecnica e la scienza – affermava Trotsky  in un suo discorso del 1926 (3) – hanno la loro logica, la logica della conoscenza della natura e del suo asservimento agli interessi dell’uomo. Ma la scienza e la tecnica non si sviluppano nel vuoto, perché fanno parte di una società umana divisa in classi. La classe dirigente, la classe possidente, domina la tecnica e, attraverso essa, la natura. (...) E’ incontestabile che la tecnica e la scienza corrodono poco a poco la superstizione. Tuttavia, anche su questo punto, il carattere di classe della società impone delle riserve sostanziali. Prendete l’America: i sermoni vengono ritrasmessi alla radio, il che significa che la radio serve come mezzo di diffusione dei pregiudizi». Oggi, alla radio si sono aggiunti la televisione e il web, dunque mezzi di diffusione dei pregiudizi e delle superstizioni ancor più potenti finché restano in mano alla classe borghese dominante.

Prendendo il caso della medicina, nello studio di partito citato sopra, si ribadisce che «sia l’uomo che le sue malattie sono in larga misura determinati da tutto il complesso delle sue condizioni di vita», e che «all’interno di una società divisa in classi, ogni classe ha le sue malattie caratteristiche: e non parliamo qui delle malattie direttamente “professionali” (...) bensì di quelle che dipendono dall’insieme delle condizioni di vita sia materiali in senso proprio (...) che “psicologiche”, cioè dipendenti dai rapporti reciproci fra gli uomini in un dato modo di produzione». Nella misura in cui il capitalismo si è sviluppato, il capitale stesso ha sostituito lo sfruttamento estensivo con quello intensivo, il plusvalore assoluto con quello relativo: «oggi il “logorio” dei proletari [ma, per estensione, di tutti i lavoratori anche delle classi medie, ndr] assume quindi aspetti meno direttamente fisici, la durata della vita ritorna ad aumentare, la statura media altrettanto, ma parallelamente si moltiplicano i disturbi circolatori, digestivi ecc. e soprattutto gli squilibri nervosi con tutti i loro strascichi, che sono un effetto della tensione nervosa del lavoro non meno che della crescente ansietà sociale». Di fronte a tutto ciò, il capitalismo condanna la medicina all’impotenza, o meglio «le impone un orientamento ed un obiettivo che rendono vane le sue più grandi conquiste. Una medicina che si rispetti dovrebbe prefiggersi di mantenere l’uomo in buona salute, di conservargli o di fargli ritrovare un equilibrio soddisfacente. Era questo lo scopo, per esempio, dell’antica medicina cinese; diversamente da quanto accade oggi, il mandarino pagava il medico quando stava bene e gli tagliava gli onorari quando si ammalava. Questo capovolgimento, il fatto che nella nostra società è interesse del medico che noi ci ammaliamo, mostra il ruolo dettato alla medicina dal capitalismo: rabberciare l’uomo scassato dalla vita che è costretto a condurre» (4).

Come uscire dalla gigantesca contraddizione di una società che, non solo non padroneggia le “forze naturali”, ma nemmeno le proprie forze umane? Per quanti “successi” possano essere raggiunti dalla ricerca “scientifica” nei diversi campi dell’attività umana, essi non saranno mai disgiunti dal capitalismo e dalle sue leggi. I rapporti di produzione nella società borghese sono fondati sull’appropriazione privata, sul mercato, sul lavoro salariato ed hanno trasformato le forze produttive sociali in capitale, «cioè in un meccanismo sociale di produzione che può solo funzionare secondo le leggi dell’economia capitalistica», meccanismo sociale che tenderebbe a sviluppare ogni campo della scienza fino al suo specifico compimento completo, tentando di giungere, alla fine di un processo lunghissimo e graduale, ad una “scienza sociale”, ma che, costretto dalle sue stesse contraddizioni, non ha alcuna possibilità di progresso storico. Il capitalismo non ha alcuna possibilità di giungere ad una scienza sociale perché il binario su cui esso si sviluppa è certamente quello dell’aumento quantitativo delle forze produttive, fra cui la scienza, ma tale aumento «non fa che rendere più violenta la contraddizione tra le forze produttive e i rapporti di produzione, provocando convulsioni sociali che la superstizione borghese interpreta in chiave “scientificamente” fantastica». La storia dello sviluppo delle forze produttive impone una soluzione del tutto diversa, rivoluzionaria, e l’unica classe che è chiamata a realizzare questa rivoluzione non è certo la classe dominante borghese, bensì la classe dei lavoratori salariati, la classe dei proletari, non solo perché i suoi interessi di classe sono completamente opposti a quelli della classe borghese, ma perché la sua rivoluzione – imposta dalla storia – parte dalla scienza della società umana, dal marxismo, l’unica teoria scientifica che interpreta il corso storico di tutte le società divise in classi fino alla loro ultima espressione possibile, il capitalismo appunto, che costituisce la base per il salto storico di qualità dalle società divise in classi alla società senza classi, al comunismo. «Solo dopo di aver liquidato le contraddizioni sociali gli uomini, divenuti padroni della propria forza, potranno riprendere efficacemente lo studio della natura. Liberata dalle contraddizioni del modo di produzione capitalistico, la scienza integrata nell’insieme delle attività sociali progredirà allora a passi da gigante» (5). L’urgenza della rivoluzione proletaria è scritta nello stesso sviluppo del capitalismo e della sua scienza borghese, allo scopo di avviare in questo modo una trasformazione generale della società nella quale scompariranno proprietà privata, capitale, salario, mercato e con loro ogni specie di ciarlatani, laici o religiosi che siano.

 


 

(2) Cfr. Marxismo e scienza borghese, Rapporto alla riunione generale di Marsiglia, dicembre 1967, in “il programma comunista” nn. 21 e 22 del 1968; vedi anche Reprint “il comunista” del 1986, con lo stesso titolo.

(3) Cfr. L.Trotskij, Radio, scienza, tecnica e società, in L. Trotskij, Marxismo e scienza, Samonà e Savelli, Roma 1969, p. 38. Si tratta del discorso tenuto da Trotskij il 1° marzo 1926 al “I congresso degli amici della radio”.

(4) Cfr. Marxismo e scienza borghese, Rapporto alla riunione generale di Marsiglia, dicembre 1967, cit.

(5) Ibidem.

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La legionella si rifà viva

 

 

A Bresso, vicino a Milano, torna l’incubo legionella. Tre morti in tre giorni e ventiquattro contagiati. Così “la Repubblica” annuncia il ritorno del batterio Legionella pneumophila, la cui denominazione proviene da un’epidemia scatenata tra i partecipanti al raduno dei veterani dell’esercito americano – la Legione Americana – a Philadelphia nell’estate del 1976. Allora, furono colpite da questa particolare e sconosciuta forma di polmonite 221 persone di cui 34 morirono. La contaminazione batterica era stata provocata da un grave difetto nella manutenzione del sistema di aria condizionata dell’albergo che ospitava quei legionari. La ricerca medica riuscì, già nel 1977, ad individuare in questo batterio la causa di quella forma di polmonite, e scoprì che di questo batterio ne esistono almeno 50 specie, dalle più virulente e mortali alle meno gravi, ed almeno 70 ceppi diversi. Alla fine degli anni ’70, in America, questa malattia colpiva circa 70.000 persone all’anno; ma non era una malattia tipica “americana”. Da allora, periodicamente sono stati riscontrati diversi casi di legionella in molti altri paesi, ad economia sviluppata; ultimamente vi sono stati casi in Portogallo nell’autunno del 2014, a Dubai nell’ottobre del 2016, in Spagna, a Maiorca, nell’autunno 2017, e ora in Italia, dove però già nel 2014 vi erano stati dei casi.

Ormai è risaputo che il batterio Legionella vive in acqua tra i 25 e i 55 gradi e che il contagio avviene attraverso l’inalazione di vapore acqueo. «Le legionelle – si legge nel sito dell’ISS (6) – sono presenti negli ambienti acquatici naturali e artificiali: acque sorgive, comprese quelle termali, fiumi, laghi, fanghi, ecc. Da questi ambienti raggiungono quelli artificiali, come condotte cittadine e impianti idrici degli edifici, quali serbatoi, tubature, fontane e piscine, che possono agire come amplificatori e disseminatori del microrganismo, creando una potenziale situazione di rischio per la salute umana».

La prevenzione nei confronti di questa malattia comincia da una perfetta progettazione e manutenzione degli impianti idrici e, dato che ogni abitazione, ogni edificio commerciale e industriale, ogni ufficio, ogni ospedale e albergo, ogni centro sportivo, ogni centro termale, ogni scuola o asilo, sono dotati di impianti idrici che prevedono l’uso dell’acqua calda, e molti di essi sono dotati anche di aria condizionata, o questi impianti sono stati fatti a regola d’arte e vengono sottoposti ad attenta e frequente manutenzione, oppure il rischio di contagio è permanente. Da quando si sono diffusi gli impianti di condizionamento d’aria, o di pompe di calore, sia nei grandi luoghi pubblici come aeroporti, negozi e centri commerciali, che nelle abitazioni, e i vani doccia, le lavatrici e le lavastoviglie nelle abitazioni, il rischio di contagio attraverso l’inalazione del vapore acqueo ovviamente è aumentato. Il progresso tecnico, di per sé, migliorerebbe le condizioni di vita quotidiana se non fossimo immersi nel capitalismo e nella sua legge del massimo profitto al minor costo: e, come dimostrano i feriti e i morti sul lavoro, sulle strade, nei trasporti, nei luoghi in cui si radunano molte persone, nelle case d’abitazione, una delle cause principali che emerge sempre è la scarsa o scarsissima manutenzione unita alla quasi inesistente prevenzione. Il capitale non impone soltanto la legge del profitto attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato, impone anche di risparmiare il più possibile e per il tempo più lungo possibile nella progettazione, nell’attuazione e nella manutenzione. Il capitale costruisce per distruggere, per poi ricostruire e ridistruggere, in una spirale senza fine. Che ci vadano di mezzo vite umane, per il capitale è semplicemente... un “danno collaterale”.

A Bresso i morti a causa della Legionella sono tutti anziani, due donne di 94 e 84 anni e un uomo di 94 anni, e tra gli ammalati alcuni sono gravi. Come sempre, in tutti i casi di questo genere, le “indagini” non possono essere fatte che a posteriori, ma in assenza di una reale prevenzione e di un effettivo progresso anche in campo medico, saranno sempre indagini che non serviranno se non a registrare semplicemente quello che è già accaduto, in attesa che accada di nuovo nella “speranza” che chi verrà contagiato dalla legionella lo sia dai ceppi meno gravi.

 


 

(6) Vedi: Cnesps-Iss (Istituto Superiore di Sanità)] - http://www. epicentro.iss.it/ problemi/ legionellosi/ legionellosi.asp

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Prove di guerra commerciale tra Usa e il resto del mondo

 

 

Gli Stati Uniti presieduti da Trump hanno innescato una serie di notizie-bomba con cui intendono rimettere in discussione, prima o poi, tutte le relazioni con i paesi più importanti del mondo, oltre-Atlantico e oltre-Pacifico, cioè con la UE, l’area giapponese-coreana e, naturalmente, la Russia; ma il vero obiettivo è, in realtà, la Cina (vedi l’articolo Il capitalismo mondiale di crisi in crisi, 2, in “il comunista” n. 155). La minaccia di alzare i dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio, apriva una serie di contrasti su moltissimi prodotti: materie prime, prodotti industriali, prodotti agricoli, la proprietà intellettuale inerente in particolare la ricerca avanzata su nuovi materiali e sull’innovazione tecnologica, e quelli più temuti dagli europei, sulle auto. “la Repubblica” del 26 luglio che stiamo consultando, cerca di fare il punto sull’incontro fra Trump e Junker (presidente della Commissione europea); lasciati da parte gli insulti (Junker aveva dato dello stupido a Trump per aver imposto l’aumento delle tariffe su acciaio e alluminio), pare che i due, dopo essersi scambiati i soliti ipocriti convenevoli, siano arrivati a concordare un nuovo accordo commerciale secondo il quale la tassazione del 25% sull’importazione delle auto da parte degli Stati Uniti (che colpiva in particolare l’industria tedesca) sembra cancellata in cambio del fatto che l’Europa (si dovrà poi vedere quali paesi dell’Europa...) comprerà più gas naturale e soia dagli Stati Uniti. Insieme alla “guerra dei dazi” si è innestata un’altra guerra, quella che vede i rapporti commerciali con l’Iran messi in serio pericolo dopo che l’Amministrazione Trump ha deciso di applicare pesanti sanzioni ai paesi che commerciano con gli Stati Uniti ma che continueranno a commerciare con Teheran. 

A fronte di tutte queste prove di guerra commerciale, “la Repubblica” riporta una notizia che riguarda il colosso americano General Motors; quest’ultimo suona l’allarme perché sembra che stia diventando «la grande vittima della guerra commerciale di Trump». Prosegue “la Repubbica”: «Ieri [il 25 luglio] il colosso dell’auto ha quantificato in un taglio del 10% su magini e utili 2018 gli effetti dell’aumento del costo delle materie prime, specie l’acciaio, e della tempesta sui cambi innescata dalle minacce e dalle tariffe imposte (o solo minacciate) dall’Amministrazione americana. Wall Street ha reagito infliggendo la più grande perdita dal 2011 al titolo (-4,65% in una seduta) nonostante i conti pubblicati ieri rimangano largamente positivi: l’utile trimestrale a giugno 2018 è 2,4 miliardi di dollari in aumento del 44% rispetto all’anno scorso, anche se il confronto è influenzato dalla perdita denunciata nel giugno 2017 per effetto dell’uscita da Opel [che è stata acquistata dalla PSA Peugeot-Citroën, ndr]. In assoluto, General Motors ha quantificato “l’effetto dazi” in un miliardo di maggiori costi, di cui 300  milioni di dollari derivanti dal sovrapprezzo su acciaio e alluminio. Un’altra minaccia per i conti del colosso di Detroit sono proprio eventuali nuovi dazi sulle auto importate in America. GM ha dichiarato al Dipartimento del Commercio che un milione delle auto del gruppo vendute l’anno scorso sono state prodotte all’estero. Quindi circa il 30% delle vendite di uno dei marchi americani per eccellenza sarebbe passibile di tariffe doganali con effetti negativi sulle vendite o sulla redditività». E’ logico che minacce e misure di questo tipo abbiano ritorsioni anche sull’industria americana; l’economia capitalistica è sempre più globalizzata ed ogni grande industria è inevitabilmente una multinazionale perché va a produrre e a far profitto negli altri paesi dai quali trae altri vantaggi sia in termini di “redditività” dei capitali investiti, sia in termini di quote di mercato. Sempre più la concorrenza, e le crisi commerciali, interferiscono sulla politica economica di qualsiasi paese, e sempre più una misura presa a Washington provoca effetti sia immediati che a breve, o a lunga scandenza, a Londra, Berlino, Parigi, Roma, Tokio, Seul, Mosca e con effetti-domino sulle capitali di tutto il mondo. Le “guerre commerciali”, che le crisi di sovraproduzione non fanno che intensificare, sono il segnale indiscutibile della malattia generale dell’economia capitalistica per la quale la borghesia non trova alcuna soluzione se non quella di intervenire con mezzi che, se da un lato tamponano in qualche modo la gravità della febbre e dell’infezione che l’ha colpita, dall’altro preparano crisi ancor più devastanti e violente, accumulando in questo modo i fattori che portano inesorabilmente alla guerra generale.

Non c’è bisogno di essere marxisti per rendersi conto che la società capitalistica non è in grado di garantire alcun futuro di pace, di benessere, di serenità al genere umano, mentre nella realtà di tutti i giorni una piccola minoranza di borghesi ha in mano le sorti della vita della stragrande maggioranza degli esseri umani e che non c’è luogo, non c’è paese, non c’è isola in cui gli artigli del capitalismo non arrivino. Esiste una sola grande forza, oggi purtroppo ancora solo potenziale, in grado di contrastare il corso di sviluppo devastante del capitalismo: è una forza sociale, contenuta nel corpo del proletariato salariato del mondo, che, mentre è prigioniera di una specie di fideismo nella pietà dei potenti, è lacerata e debilitata da un morbo particolare: la concorrenza tra proletari, che fa sì che i proletari si facciano la guerra per un tozzo di pane invece di unirsi per fare la guerra ai borghesi che sono i padroni di quel tozzo di pane e che lo usano per sfruttare fino alla morte i proletari di ogni parte del mondo. Il benessere dei capitalisti deriva dalla redditività dei capitali che investono, dalla percentuale dei titoli di borsa e dalle quote di mercato delle loro merci, ed è un benessere che viene difeso da ogni Stato nella propria nazione con le sue leggi e con la sua forza armata per imporre alla forza lavoro proletaria le condizioni del suo sfruttamento. Il benessere dei proletari sta solo nella lotta anticapitalistica, antiborghese, contro tutto ciò che porta beneficio alla borghesia; nella lotta contro la concorrenza tra proletari, non importa se l’acciaio si produce nelle fabbriche della franco-indiana ArcelorMittal, della tedesca TyssenKrupp o della China Baowu Group, della nipponica NSSMC Group o della sudcoreana POSCO, della brasiliana Techint-CSA o dell’americana US Steel Corporation.

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I voucher sono la conferma del precariato permanente

 

 

Erano stati tolti, verso la fine del governo Renzi-Gentiloni, per evitare che il loro gigantesco abuso (nel 2016 ne furono venduti 134 milioni! e per questo i giornalisti lo chiamarono l’annus horribilis); la disoccupazione arrivava a quota particolarmente alta (11,7%) mentre quella giovanile, soprattutto al sud, toccava punte del 43%. Gridi di allarme si alzarono, quando i dati statistici ufficiali, che sono notoriamente in difetto rispetto alla realtà, sottolineavano che i poveri, in Italia, avevano raggiunto la quota di 6 milioni circa, mentre il PIL saliva, quindi un numero minore di lavoratori salariati producevano un valore molto più alto degli anni precedenti. Molte promesse sono sempre state fatte dai partiti che ambivano ad andare al governo, e da quelli che ci andavano veramente, circa le politiche economiche per aumentare i posti di lavoro e, contemporaneamente, per dare ai giovani (laureati o no) un “futuro”. Ma quel che succedeva nei fatti era ben altro: aumentavano la precarietà, il lavoro nero, il lavoro sottopagato, mentre aumentava l’intensità di lavoro e la nocività sui posti di lavoro.

Il governo giallo-verde del “cambiamento” proclama la lotta contro la precarietà e contro la povertà: col cosiddetto “decreto dignità”, introduce nuovamente i voucher, che non sono altro che l’istituzionalizzazione della precarietà permanente, e per evitare il loro abuso da parte degli imprenditori, ne limitano formalmente l’utilizzo: i nuovi voucher sono riservati solo agli studenti sotto i 25 anni, ai pensionati, ai disoccupati e possono essere utilizzati per non più di 10 giorni. Sono stati concepiti in particolare per l’agricoltura e i lavori cosiddetti “stagionali”, perciò anche per il settore alberghiero, e addirittura per le Poste. Di fatto si tratta di lavori assolutamente incerti, perciò non vanno nella direzione di “assicurare” un “dignitoso” futuro lavorativo ai giovani e ai disoccupati, mentre è certo che istituzionalizzano il lavoro sottopagato.

Il “cambiamento” c’è stato, e non va verso la cosiddetta “sbandata a sinistra” (per via dei limiti nel loro utilizzo) di cui 600 imprenditori veneti accusano la Lega governativa – come riporta “la Repubblica” – ma verso la regola del precariato permanente che, al massimo, può aspirare ad un lavoro a tempo determinato, come nella realtà avviene e che le stesse statistiche non possono più nascondere. Abbassano i salari, aumentano la precarietà e l’assoggettamento delle masse lavoratrici alle esigenze del profitto capitalistico: nulla è cambiato; questa, come i governi che l’hanno preceduto e che lo seguiranno, non è che la voce del padrone, la voce del capitale. La voce dei proletari non può essere che in totale opposizione di classe.

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Ryanair: licenziamenti contro sciopero europeo

 

 

In una piccola nota nelle pagine dedicate all’economia, “la Repubblica” scrive: «Più di 130 voli cancellati in Italia su 600 totali, è questo il bilancio dello stop di 24 ore del personale di volo di Ryanair che si è svolto nel nostro paese in concomitanza con la protesta europea che ha coinvolto anche Belgio, Spagna e Portogallo». Per “la Repubblica” usare la parola sciopero, sembra troppo ardito, meglio usare la parola “stop”. La nota continua: «L’Enac e il Garante degli scioperi hanno avviato delle verifiche sui disagi prodotti dall’agitazione. Intanto la low cost è passata al contrattacco: visto l’arrivo di nuove proteste anche in Irlanda, ha annunciato di voler tagliare del 20% la flotta a Dublino, mettendo a rischio 300 posti (100 piloti e 200 assistenti di volo) e i lavoratori avrebbero già ricevuto la lettera di prelicenziamento. Gli aerei tolti dalla base irlandese saranno spostati in Polonia dove la pressione sindacale è molto più bassa. La decisione, spiega Ryanair, è attribuibile al calo delle prenotazioni che sarebbe stato causato dagli scioperi dei piloti nel Paese». In realtà, il sindacato belga Cne, che organizza la maggioranza dei piloti e degli assistenti di volo, denuncia la Ryanair perché chiamava equipaggi polacchi e tedeschi in sostituzione degli scioperanti in Belgio (Eco di Bergamo, 24 luglio). 

Si riconferma il metodo borghese dell’intimidazione e della repressione nei confronti dei lavoratori che scioperano. Ryanair, solo nel dicembre 2017, «al culmine del caos cancellazioni, ha accettato dopo 30 anni di riconoscere i sindacati dei piloti» (Eco di Bergamo, cit.); bell’esempio di libera organizzazione nella democratica Irlanda! Quel che vogliamo mettere in evidenza è, oltre ai motivi dello sciopero – “per il diritto ad un contratto collettivo e per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori”, come sostengono Filt Cgil e Uiltrasporti (ToDay, 24 luglio) –, il fatto che lo sciopero è stato proclamato per gli stessi giorni a livello “europeo”, in Spagna, Belgio, Portogallo, Irlanda (di 48 ore, dal 25 al 26 luglio) e Italia (per 24 ore, il 25 luglio).

Aldilà del fatto che tutti i sindacati che hanno proclamato lo sciopero non sono di classe ma opportunisti, resta il fatto che solo sotto la pressione dei lavoratori queste organizzazioni si sono decise a proclamare uno sciopero di questo tipo. Già il fatto che la low cost irlandese abbia acettato di dover incontrare i sindacati dei lavoratori per trattare sulla base delle loro richieste è un fatto positivo, ma i lavoratori faranno davvero un passo avanti nella difesa dei loro interessi quando riusciranno ad organizzarsi effettivamente sul terreno di classe, cioè sul terreno della difesa esclusiva dei loro interessi immediati che comprendono anche la lotta contro la concorrenza tra lavoratori e contro il crumiraggio.

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L’Europa delle città?

 

 

Si parla continuamente di Europa, ma di quale Europa? Gli “europeisti” sono da anni alla ricerca di una “idea forte” per dare un significato decente ad un continente perché non sia semplicemente un’espressione geografica: dall’Europa delle patrie, cara a De Gaulle, all’Europa unita, cara ad Altiero Spinelli, dall’Europa degli Stati nazionali all’Europa dei cittadini, a quella dei lavoratori cara agli “eurocomunisti” di un tempo. Oggi, quando si parla di “Europa” si intende l’Unione Europea, ossia un’organizzazione politico-economica, costituita nel 1993 (perciò dopo il crollo dell’Urss e la fuga degli Stati dell’est europeo dal controllo di Mosca), nella quale è riunita la maggior parte degli Stati del continente. Nel 1951, a sei anni dalla fine del secondo macello imperialistico mondiale, 6 paesi (Belgio, Francia, Repubblica Federale di Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) decisero di organizzarsi nella Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, la CECA; successivamente, nel 1957, attraverso la CEE, detta anche Mercato Comune Europeo, e la Comunità Europea dell’Energia Atomica (Euratom), estesero gli accordi economici nella prospettiva di costituire un mercato al quale imporre delle regole che facilitassero la crescita economica di ogni singolo paese e che dessero più forza al gruppo di Stati che costituivano questa “Comunità” nei rapporti col resto del mondo, in particolare con gli Stati Uniti, la Russia e tutto il mosaico delle colonie ed ex colonie. Indiscutibilmente, in virtù anche delle gigantesche distruzioni della guerra mondiale, il capitalismo mondiale ebbe uno slancio notevole nella ricostruzione – a conferma del fatto che il capitalismo è un’economia basata sulla sciagura, sulla devastazione e, quindi, sulla ricostruzione continua –, slancio che aprì un periodo di espansione tale da formare, in pochi anni, un mercato di primaria importanza mondiale, e tale da attirare nella “Comunità europea” molti altri Stati del continente; e così il numero dei suoi membri aumentò considerevolmente, per raggiungere nel 2013 quota 28, quota che può essere superata se altri candidati – Albania, Macedonia, Montenegro e Turchia – venissero accettati. La “Comunità Europea”, nel corso degli anni, diventò il secondo mercato del mondo, dopo gli Stati Uniti, mentre la UE è diventata la prima “potenza commerciale” del mondo. Ovvio che una forza economica esprima e debba essere supportata da una forza politica adeguata, che rappresenti quella forza economica in tutte le relazioni con gli altri Stati del mondo. Ed è in questa direzione che le classi dominanti borghesi degli Stati europei più forti hanno perseverato nel tentativo di creare, fin dai primi passi e a maggior ragione con l’Unione Europea, anche una forza politica di prima grandezza, in grado di competere con gli altri poli imperialistici mondiali, Usa e Russia, prima di tutti, e poi il Giappone e, per ultimo ma non ultimo, la Cina. Ma le ragioni che hanno spinto gli Stati europei ad unirsi sono, in parte, anche quelle che li spingono a dividersi, ferme restando le ragioni economiche che li spingono ad avere relazioni molto strette, dato il notevole sviluppo capitalistico che caratterizza i paesi dell’Europa, soprattutto occidentale, e il fatto di essere confinanti. Se l’avvicinarsi della crisi capitalistica mondiale del 1975 ha spinto Regno Unito, Irlanda e Danimarca ad associarsi alla “Comunità Europea” nel 1973, portandosi poi appresso, tra il 1981 e il 1995, Grecia, Spagna, Portogallo, Austria, Finlandia e Svezia, e nel giro di poco più di dieci anni la gran parte dei paesi dell’Europa dell’Est ormai “liberatisi” dagli artigli dell’imperialismo russo, per finire tra gli artigli dell’imperialismo soprattutto americano e tedesco, le successive crisi economiche e finanziarie che hanno punteggiato i 40 anni successivi alla prima grande crisi mondiale del 1975 hanno acutizzato sempre più i contrasti interstatali ed interimperialistici che non sono mai scomparsi, nonostante i tentativi di collaborazione e del loro “superamento” messi in atto ideologicamente e propagandisticamente da ogni Stato-membro. Gli obiettivi fondamentali proclamati dall’UE, come si può leggere nei suoi documenti di base, sono riassumibili nella promozione della pace, dei suoi valori e del benessere dei suoi popoli e, naturalmente, nella libertà, nella sicurezza e nella giustizia al disopra delle reciproche frontiere, con un mercato aperto alla libera concorrenza, al progresso economico, scientifico e tecnologico, e in opposizione ad ogni esclusione e discriminazione. Tante belle parole, di cui si riempiono la bocca da sempre i rappresentanti delle borghesie dominanti, ma che mascherano in realtà il fondamentale contrasto di interessi che caratterizza ogni borghesia nazionale, interessi di parte che sono insopprimibili e che tendono a schiantare, prima o poi, qualsiasi tentativo di appianamento, di pace, di condivisione, di reciproca e disinteressata collaborazione. L’uscita del Regno Unito dall’UE, nel 2017, è stato un primo segnale di interessi contrastanti; altri segnali vengono da tutti i paesi che, in occasione dei forti flussi migratori che hanno sottoposto i confini d’Europa ad una fortissima pressione, si sono opposti decisamente a rispettare le decisioni prese dalle istituzioni europee in termini di “accoglienza” (alla faccia della lotta contro ogni discriminazione!), senza contare i segnali altrettanto forti che provengono dagli interessi economici di ogni Stato che ha dovuto sacrificare in modo nettamente superiore rispetto agli altri Stati-membri i propri interessi nazionali per poter sopravvivere grazie agli “aiuti” della BCE e dei fondi europei. Le minacce di uscire dall’Europa o dalla zona-Euro vanno esattamente nella stessa direzione. Oggi sono ancora soltanto delle minacce portate avanti dalle forze politiche cosiddette “sovraniste” che stanno prendendo forza in più paesi; forze politiche che intendono riprendersi una “sovranità nazionale” che lo stesso sviluppo mondiale del capitalismo ha messo e mette continuamente in discussione e non perché le classi borghesi nazionali non contino più nulla, salvo quelle più potenti come l’americana, la russa, la cinese, la giapponese, la tedesca, la francese, ma perché il capitalismo, sviluppandosi inesorabilmente a livello mondiale (globalizzandosi, per dirla con un termine di uso comune) tende a costituire dei poli economico-finanziari e, quindi, imperialistici, al disopra dei confini che le nazioni borghesi si sono ritagliate nel corso della loro storia. Lo sviluppo storico del capitalismo non poteva che partire dal territorio “nazionale” nel quale si è sviluppata sia la classe borghese che detiene la proprietà dei mezzi di produzione, sia la classe proletaria che detiene la forza-lavoro da sfruttare necessariamente per valorizzare i capitali investiti nella produzione. I rapporti di produzione capitalistici dovevano, ad un certo punto dello sviluppo dell’economia capitalistica, espandersi in territori sempre più vasti e sempre più “liberati” dai vincoli delle forme feudali o asiatiche che ne impedivano lo sviluppo. L’epoca rivoluzionaria della borghesia corrisponde a questa fase di sviluppo del capitalismo, e alla formazione dei mercati nazionali che i moderni Stati avevano il duplice compito di  sviluppare al massimo, dentro e fuori dei propri confini, e difendere dall’intrusione di altre forze economiche straniere. Ma le leggi economiche del capitalismo non possono essere domate; gli interessi economici si sono intrecciati con gli interessi finanziari e sono diventati interessi di potenza. Sono scomparsi i vincoli tipici delle forme politiche e amministrative medievali, ma si sono imposti altri vincoli ben più potenti e di respiro inevitabilmente internazionale: la legge del valore, la legge secondo la quale il capitale – forza impersonale di prima grandezza – si investe allo scopo di valorizzarsi, di produrre altro capitale, non importa attraverso quale produzione di beni. Ma in questo vortice gigantesco di produzione capitalistica, lo stesso capitale trova un ostacolo costruito dalla sua stessa forza produttiva: la sovraproduzione. Oltre un certo limite, il capitale deve distruggere se stesso, almeno in parte, per poter ricominciare i cicli di valorizzazione, in una spirale senza fine. Ecco che la fase “rivoluzionaria” della borghesia viene sostituita da una fase, prima riformista (di controllo sociale sia del mondo del lavoro che del mondo della produzione) e poi, visto che il riformismo, per quanto applicato estesamente, non risolve il problema della sovraproduzione e quindi dello scontro sociale e della concorrenza con le altre classi dominanti borghesi, passa alla fase reazionaria in cui la guerra, dunque lo scontro armato per difendere o conquistare altri mercati, diventa la politica corrente delle classi dominanti borghesi. Questa fase reazionaria è la fase imperialistica, è la fase in cui le borghesie nazionali si accordano, si uniscono per fronteggiare altre borghesie nazionali con tutti i mezzi: economici, commerciali, politici, militari, ideologici. E di questa fase fa parte l’esperimento dell’Unione Europea che, come tutte le alleanze che l’hanno preceduta, è e sarà costretta a chiudersi come una fortezza, sottoposta al comando della o delle potenze economiche più forti; e come ogni alleanza, può perdere dei pezzi e guadagnarne degli altri, ma sempre in vista di uno scontro mondiale che si profila all’orizzonte come scontro militare.

Ebbene, di fronte al quadro desolante in cui versa l’Unione Europea, su “la Repubblica” che stiamo consultanto si afferma, senza mezzi termini, che l’Unione Europea è in pezzi, «stretta a tenaglia tra l’America di Trump e la Russia di Putin, appare immobilizzata da problemi su cui non riesce neanche ad immaginare una posizione comune». E insiste: «Ma se l’Europa dell’Unione non trova la spinta per ripartire, neanche quella degli Stati nazionali se la passa meglio. Impegnati ciascuno a risolvere i propri problemi interni, nessuno di essi è in grado di affrontare questioni ingestibili a livello nazionale, da quella migratoria a quella ambientale, a quella della sicurezza: ciò che li unisce, per una sorta di paradosso, è solo un interesse nazionale contrastante con quello degli altri Stati, spesso interpretato in maniera angusta e regressiva». Dunque, gli stessi borghesi ammettono che i contrasti che caratterizzano i loro poteri, i loro Stati, i loro interessi non trovano una soluzione se non... nell’interesse nazionale contrastante con quello degli altri Stati! Con il che è sottinteso che lo Stato più forte la vince sugli Stati più deboli. Ma la fantasia degli ideologi borghesi non ha limiti. Nello stesso articolo, il filosofo che lo scrive, dopo aver affermato che né i Trattati, né gli accordi tra Stati possono portare ad un equilibrio e ad una collaborazione piena, prospetta una via d’uscita: l’Europa delle città! Il progredire storico della società umana è passato dalla campagna alla città, dalla città allo Stato, e lo Stato nazionale è diventato l’emblema del progresso economico-sociale e politico, mentre lo sviluppo del capitalismo ha costretto tutti i popoli della terra a vivere in un mondo in cui valgono le stesse regole economiche, in un mondo che è un grande mercato e in cui le sue stesse leggi hanno facilitato la comunicazione e i rapporti sotto ogni parallelo e ogni meridiano; il capitalista usa il denaro a Washington come a Kabul, a Londra e Parigi come a Khartoum, a Pechino come a Mosca, a Bissau come a Lusaka o a Reykjavik. La grande idea, l’idea forte che qui si propone è di tornare dallo Stato nazionale alle città, idea supportata da quello che viene chiamato il «modello culturale italiano delle cento città», città che hanno preceduto la nascita degli Stati moderni, ma che sono state «prima che italiane, europee: Venezia, Genova, Firenze, ma anche Milano e Napoli sono sempre state legate all’Europa da una trama sottilissima di fili economici, politici, culturali».

E qui si svela lo spirito piccoloborghese del filosofo che idealiza l’Europa delle città. Sì, perché richiamare gli esempi storici di Venezia, Genova, Firenze ecc. significa richiamare tutta l’evoluzione della società borghese che è contenuta, in nuce, proprio nell’esperienza storica delle Repubbliche marinare e nella Repubblica di Firenze, ossia nel Quattrocento italiano (7). E’ ben vero che queste città, che in realtà non erano per nulla limitate nei confini “comunali”, ma possedevano vasti territori, avevano relazioni economiche, politiche e militari con le monarchie e i feudatari dell’epoca; ma la loro forza (e quindi la loro cultura, che si esprimeva nella tecnica delle costruzioni e delle macchine a scopo militare e civile) stava nel fatto di essere città-stato, ossia di possedere un potere economico e politico centralizzato tanto da rappresentare il primo esempio al mondo di capitalismo di Stato: basti pensare alla costruzione delle navi per le quali nessun borghese privato era così ricco da potersi permettere un cantiere navale atto alla loro costruzione; solo un potere centrale, un potere statale aveva le risorse economiche e finanziarie per la loro costruzione e per riunire la massa di lavoratori e di tecnici delle diverse specializzazioni ad essa necessaria. Questo valeva per le Repubbliche marinare, mentre per la Repubblica di Firenze valeva rispetto alla costruzione dei monumenti. Di che cosa si tratta, quindi? Di tornare alle città-Stato?, alle origine del capitalismo, alle origini della società borghese? Il piccolo borghese, quando l’economia entra in crisi e questa crisi non resta un evento eccezionale, ma diventa frequente e normale, teme ovviamente la propria rovina, non “culturale” ma economica e sociale; teme di perdere i privilegi e la posizione sociale che lo pone al di sopra della massa proletaria, e di precipitare nelle condizioni proletarie. Egli sogna quindi un mondo in cui il progresso reale che la società capitalistica storica ha fatto e non poteva non fare, possa essere fermato e invertito: sogna di ruotare la storia all’indietro e tornare alla situazione dell’artigiano, del bottegaio, del piccolo commerciante che nel Quattrocento si stava emancipando dal servaggio di campagna per conquistare una posizione sociale nel borgo, nella città, in cui il modo di produzione capitalistico cominciava a dare i primi segni di un potente futuro, in particolare dopo la scoperta dell’America e il progresso dei traffici mondiali. Ma la storia della società umana non procede a comando; sono le condizioni materiali di produzione e di scambio, e non le idee, che segnano le dinamiche di sviluppo o di recessione, i passi avanti o i passi indietro. D’altronde, la sognata Europa delle città dovrebbe funzionare con le stesse leggi capitalistiche esistenti: modo di produzione e rapporti di produzione e sociali intatti; merce, denaro, profitto capitalistico intoccabili; sfruttamento del lavoro salariato confermato. Dunque, tutte le componenti economiche del capitalismo, che sono state alla base del suo sviluppo fino all’epoca presente dell’imperialismo, con la conseguente universalizzazione dello sfruttamento delle masse proletarie e contadine povere del mondo, con i crescenti contrasti di ordine economico, commerciale e militare tra nazioni, Stati o città-stato (Singapore è un esempio attuale) e le inevitabili guerre per accaparrarsi e difendere i mercati di sbocco delle proprie merci. La civiltà tanto sbandierata delle città italiane del Quattrocento, o di Londra, Parigi, Milano, Monaco dei secoli successivi è semplicemente la civiltà del capitalismo. E’ ben vero che, come scritto in questo articolo, «in nessuno spazio del mondo vi è un tale addensamento di città come in quello che va da Lisbona a Varsavia», ma questo fatto indiscutibile è la dimostrazione che il capitalismo, originato nel continente europeo, si è sviluppato intensamente nel continente europeo e da qui si è esteso a tutto il mondo, producendo nello stesso tempo delle città-mostro con una urbanizzazione oscena in cui milioni e decine di milioni di uomini donne e bambini sono costretti a vivere in condizioni di povertà e degrado che dimostrano una faccia della civiltà capitalistica che prende sempre più il sopravvento. La via d’uscita di un’Europa illusoriamente unita non sta nelle forme amministrative o giuridiche dei suoi territori. Sta nella lotta di classe del proletariato contro la borghesia, ossia nella soluzione di un antagonismo di classe che è alla base della società borghese e che sarà risolto alla sola condizione che la classe del proletariato – che lo stesso capitalismo ha reso mondiale – riconquisti il suo terreno di classe e si avvii in direzione della lotta rivoluzionaria per abbattere il potere borghese e il suo Stato, perché solo attraverso la conquista del potere politico e l’instaurazione della sua dittatura di classe potrà far fare alla storia non un passo indietro, ma dieci passi vanti, verso la società senza classi, verso un mondo in cui l’antagonismo tra città e campagna sarà completamente superato e in cui la popolazione umana, non più divisa in nazioni  contrastanti e in guerra fra di loro, si distribuirà sul pianeta con un equilibrio razionale e organizzato in modo da entrare sempre più in sintonia con le esigenze della vita sociale dell’umanità intera e la natura.

 


 

(7) A questo proposito vedi il “filo del tempo” intitolato Armamento e investimento (battaglia comunista, n. 17/1951) e l’articolo Un esempio di capitalismo di Stato nel Quattrocento italiano (battaglia comunista, n. 15/1952).

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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