Dal movimento dei gilet gialli alla ripresa della lotta di classe proletaria

(«il comunista»; N° 157; Gennaio 2019)

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Nato come movimento di protesta contro l’aumento delle tasse sul gasolio, il movimento dei Gilets gialli ha quasi immediatamente assunto un’altra dimensione e si è trasformato in una protesta contro le tasse e le imposte. Sulla spinta della generale simpatia da parte di ampi strati della popolazione e godendo, inizialmente, di un’accoglienza mediatica benevola, si è rapidamente esteso a tutta una serie di rivendicazioni sociali come l’aumento delle pensioni.

Gli scontri con le forze di polizia a Parigi e in numerose altre città e la radicalizzazione delle rivendicazioni politiche del movimento, il cui punto centrale è rappresentato dalle dimissioni di Macron, hanno modificato l’atteggiamento dei media, e anche quello delle forze politiche di opposizione: tutti, dalla destra alla sinistra, gli avevano dichiarato il proprio appoggio (da Wauquiez che indossava un gilet giallo, a Hollande che incoraggiava i Gilets gialli a continuare la loro azione, per non parlare di Mélenchon o di Le Pen). Pur dichiarando di «capire la collera» dei Gilets gialli (come ha fatto in un primo tempo il governo!), i partiti e i vari politicanti hanno cautamente fatto marcia indietro, mentre i media iniziavano a diffondere la propaganda governativa contro i «teppisti» e a sostegno della polizia.

      

I POMPIERI SINDACALI ALLA RISCOSSA

 

Ma tutto questo non è bastato a fermare la mobilitazione, e il governo, a un certo punto, ha fatto appello anche ai sindacati che, dopo il suo insediamento, aveva lasciato ai margini: il 5 dicembre Macron chiedeva «alle forze politiche, alle forze sindacali e al padronato, di lanciare un appello chiaro ed esplicito alla calma e al rispetto del quadro repubblicano» e Grivaux, il portavoce del governo, aggiungeva che «il momento che stiamo vivendo non è più all’opposizione politica, ma per la Repubblica». Di fronte al pericolo sociale, tutti i partiti  e i sindacati borghesi devono fare blocco! Rispondendo immediatamente a questo appello alla difesa dell’ordine costituito, CGT, CFDT, FO, FSU, UNSA, CGC e CFTC si sono riunite e hanno stilato una dichiarazione di condanna di «ogni forma di violenza nell’espressione delle rivendicazioni»; e le organizzazioni sindacali si felicitavano che il governo avesse «aperto le porte al dialogo» (1).

Il 7 dicembre, dopo un incontro con Elisabeth Borne, ministro dei Trasporti e dell’Ecologia, la CGT e FO revocavano lo sciopero a oltranza dei camionisti che avrebbe dovuto iniziare il lunedì successivo; e il 10 dicembre la CFDT e FO venivano ricevute dal governo, mentre la CGT decideva all’ultimo momento di non partecipare all’incontro, per mantenere agli occhi dei suoi aderenti di base una parvenza di indipendenza.

Il governo, in realtà, se da un lato apriva le porte ai rappresentanti sindacali, dall’altro scatenava brutalità poliziesca e repressione contro i Gilets gialli che manifestavano: mobilitazione di decine di migliaia di poliziotti e gendarmi (e anche di gendarmi a cavallo!), uso di ogni genere di armi: vari tipi di granate, quantità mai viste di gas lacrimogeni, proiettili di gomma, cannoni ad acqua ecc., e addirittura schedatura dei Gilets gialli ricoverati in ospedale, applicando una misura promulgata nel quadro della lotta contro il terrorismo.

Sono state censite le vittime della polizia e della gendarmeria delle manifestazioni di novembre e dicembre; circa 1700 feriti di cui 82 gravi (occhi accecati, mani spappolate ecc.) e un’anziana donna uccisa da una granata (senza contare la decina di morti in incidenti ai blocchi stradali). Secondo il ministero della Giustizia, sono state effettuate 5.300 «custodie cautelari», sempre più spesso nel quadro degli arresti preventivi, e sono state comminate centinaia di pene detentive. L’attentato di Strasburgo ha fornito al governo un pretesto, favorito anche dal declino del movimento, per smantellare la maggior parte dei posti di blocco e spingere i tribunali a usare fermezza nei confronti dei manifestanti arrestati.

 

CRISI POLITICA

 

Il movimento dei Gilets gialli ha causato le prime vere difficoltà al governo Macron. Indubbiamente non è la prima volta che un movimento di questo genere pone problemi a un governo: basti ricordare come, nel 2013, i «Bonnets rouges» (Berretti rossi) della Bretagna avevano costretto il governo di Hollande a un umiliante e costoso passo indietro dopo una serie di violente dimostrazioni e una massiccia mobilitazione. Avviato da alcune compagnie di trasporti contrarie all’«ecotassa», a cui si erano poi uniti gli agricoltori della FNSEA, questo movimento aveva trascinato con sé i lavoratori dei macelli in difficoltà guidati da FO, con un orientamento regionalista chiaramente borghese.

Tuttavia, il movimento dei Gilets gialli si distingue da quello dei Bonnets rouges in quanto non è mai stato gestito da organizzazioni padronali. È cresciuto e si è allargato al di fuori delle organizzazioni professionali o politiche; anche se alcune forze politiche di destra o di estrema destra hanno contribuito alla sua nascita o hanno cercato di influenzarlo, sono state rapidamente messe ai margini dall’ostilità nei confronti dei partiti e dei sindacati in generale.

Successivamente, la sua estensione quasi immediata a livello nazionale, la sua capacità di resistere non solo alla propaganda dei media e alla repressione, ma anche alle promesse del governo e alle manovre divisorie per far emergere una corrente pronta al compromesso con le autorità, hanno portato a una vera e propria crisi politica. Il governo, che si vantava di portare avanti ad ogni costo la sua cosiddetta politica di «riforma» – in realtà, i suoi attacchi antisociali – è stato costretto ad abbandonare la prevista tassa sul gasolio, e Macron ha annunciato una serie di misure a favore di più poveri.

Il vero motivo di questa ritirata più che il movimento in sé, è stato la paura che questo potesse incoraggiare i proletari a entrare in lotta sul loro proprio terreno, l’unico terreno mortale per la borghesia, quello della lotta di classe contro lo sfruttamento capitalista.

Incentrato sulle rivendicazioni contro le tasse, il movimento dei Gilets gialli è per sua natura piccoloborghese – come dimostra il fatto che né i padroni né il sistema capitalista sono presi come bersaglio delle critiche. Come tutti i movimenti piccoloborghesi, per quanto diversi possano essere, pretende di essere al di sopra delle classi, assicurando di difendere gli interessi di «tutti i cittadini». Poiché sostiene di rappresentare «il popolo», «la nazione», nel loro insieme, è perfettamente naturale che abbia adottato come emblemi la bandiera francese e la marsigliese e che utilizzi ogni immagine che richiami la rivoluzione borghese del 1789.

Questo interclassismo significa che vi partecipano anche dei proletari, che si riconoscono non solo nell’ostilità verso il governo, ma soprattutto in rivendicazioni quali l’aumento delle pensioni, dei minimi sociali e dello SMIC (aumento dello SMIC combattuto invece dai piccoli proprietari che partecipano al movimento dei Gilets gialli). La persistenza del movimento si spiega con le sue radici sociali,  con la partecipazione di molti proletari che non hanno nulla da perdere e con la simpatia che riscuote presso ampi strati di sfruttati, mentre i piccoli proprietari e le classi medio-alte prendono a poco a poco le distanze. Questo significa che il movimento potrebbe cambiare natura e diventare proletario? Perché ciò possa accadere, dovrebbe esistere una forza di classe abbastanza potente e organizzata da strappare i proletari all’influenza piccoloborghese – forza di classe che attualmente non c’è!

Ma il rischio di contagio al proletariato delle fabbriche e grandi aziende, nonostante il controllo sindacale, è stato comunque ritenuto abbastanza grave da far sì che il governo decidesse di elargire qualche concessione pur di spegnere l’incendio.

Certamente molte delle misure annunciate sono solo fumo negli occhi, come l’aumento del salario minimo, che in realtà è semplicemente un premio pagato solo a una parte dei lavoratori (il governo, soprattutto, non voleva aumentare la retribuzione oraria per non creare problemi ai padroni); e altre iniziative come l’organizzazione di un «grande dibattito nazionale» costituiscono un diversivo.

Ma comunque, queste misure – il cui costo è stimato tra 8 e 10 miliardi di euro fra spese e perdita di entrate fiscali – comporterebbero un aumento del deficit di bilancio. Ciò rappresenterebbe un indebolimento politico dell’imperialismo francese in Europa proprio quando vorrebbe apparire come forza trainante.

Ma la preoccupazione principale dei circoli borghesi dominanti non è questa: temono che verrà messa a repentaglio la continuazione degli attacchi capitalistici, finora portati avanti ininterrottamente dal governo.

Così, pur rimandando i temi più immediatamente scottanti, come quello delle pensioni, il governo ha simbolicamente ribadito la sua determinazione a proseguire con i suoi piani pubblicando, a fine anno, un decreto che inasprisce le sanzioni contro i disoccupati che rifiuteranno un’offerta di lavoro o non si presenteranno a un appuntamento all’Ufficio di collocamento – proprio mentre sono ancora in corso trattative per una riforma del sussidio per la disoccupazione. E, nel corso di una visita ufficiale in Germania, il Primo Ministro ha affermato, davanti a diverse centinaia di capi d’azienda, di voler «colpire in fretta, colpire forte, agire in profondità». A sua volta, l’11 gennaio, alla vigilia del nono giorno di manifestazioni dei Gilets gialli, Macron non ha esitato ad attribuire questo movimento a un «rifiuto della fatica»: per i borghesi, in generale, e per i banchieri in particolare, i poveri e i proletari non fanno mai abbastanza fatica!

Sarebbe sbagliato non dare peso a queste parole dure; ciò che queste parole esprimono è la determinazione dei capitalisti francesi, i cui tassi di profitto rimangono troppo bassi rispetto a quelli dei concorrenti, nell’aumentare sempre più lo sfruttamento dei proletari – anche concedendo, se necessario, un po’ di respiro agli strati piccoloborghesi.

 

DOVE VANNO I GILET GIALLI?

 

Le manifestazioni dell’«atto 9» (2) (tenute il 12 gennaio) hanno mostrato una ripresa della mobilitazione (quasi centomila dimostranti, secondo le cifre fornite da France Info), mentre i sondaggi d’opinione attestano un consenso sempre maggiore fra gli operai e gli impiegati. Ma nel movimento sono sempre più evidenti i dubbi e le divergenze sul proseguimento; alcuni leader, anche se ora in declino, vogliono formare un partito politico o partecipare in ogni caso alle prossime scadenze elettorali, mentre altri, pur continuando a invitare alla mobilitazione, si dicono pronti a negoziare con Macron, di cui in precedenza chiedevano le dimissioni. In alcune località, come Tolosa, le assemblee dei Gilets gialli hanno fatto appello ai sindacati. Rivolgersi ai pompieri sociali che hanno dimostrato e dimostrato ogni giorno il loro attaccamento allo statu quo è un’ulteriore prova che il movimento non ha niente di rivoluzionario come invece credono alcuni esaltati.

 

IL MIRAGGIO DEL RIC

 

Ciò è dimostrato, se ancora ce ne fosse bisogno, anche da quella che è diventata la rivendicazione centrale dei Gilets gialli: il referendum di iniziativa cittadina (RIC). Questo tipo di consultazione, che esiste in Svizzera, è sempre stato un sogno per i democratici francesi; la sua rivendicazione si è diffusa a macchia d’olio tra i Gilets gialli, nonostante le numerose esperienze che hanno dimostrato che si tratta di una farsa, proprio come gli altri meccanismi elettorali della democrazia borghese. Basti ricordare che, malgrado un clamoroso «no» al referendum sul Trattato di Maastricht, questo è stato ratificato dal Parlamento. Ai suoi tempi, De Gaulle era uno specialista del referendum: ma quando tentò di fermare con un referendum il movimento di sciopero nel maggio 1968, il proseguimento delle proteste e degli scioperi fece  miserabilmente naufragare il suo tentativo.

Ma, secondo i suoi sostenitori, il RIC sarebbe deciso per iniziativa dei cittadini di base, cosa che impedirebbe la manipolazione da parte dei politici venduti. In questo modo non fanno che mostrare le loro illusioni democratiche – illusioni tipiche di ogni movimento interclassista, che immagina di difendere gli interessi di «tutti i francesi» e che intende solo riformare la società del capitale, non distruggerla e neppure combatterla.

 

LA CRITICA MARXISTA DELLA DEMOCRAZIA

 

La critica marxista alla democrazia non è basata su manovre e manipolazioni del potere, ma sulla denuncia della menzogna democratica e dell’ideologia «dei cittadini». Secondo questa menzogna e questa ideologia, tutti gli individui sarebbero uguali (per legge) e in grado, in un regime democratico, di determinare la politica dello Stato esprimendo la loro opinione con un voto.

In realtà, come tutti sanno, gli individui non sono uguali; ci sono gli sfruttati, che non possiedono nulla, e una minoranza di sfruttatori che possiedono tutto (o quasi). Questi sfruttatori costituiscono la classe dominante, che si appoggia su un apparato statale costituito per difendere questa ineguaglianza difendendo il modo di produzione capitalista. La classe dominante, che possiede tutti i mezzi di produzione, possiede anche i mezzi di produzione delle «idee» (media, scuola, istituzioni religiose e statali, partiti politici ecc.); come diceva Marx, in tempi normali le idee dominanti sono le idee della classe dominante. Questo spiega come mai gli sfruttati votano «naturalmente» per la borghesia, per i loro padroni ecc.

Le cose cambiano quando le lotte di classe indeboliscono il dominio della classe borghese sulla società; in queste situazioni almeno una parte dei proletari, un’avanguardia, può liberarsi dalle idee dominanti – la maggior parte lo farà dopo il rovesciamento della classe dominante e la fine dell’abbrutimento esercitato dalle istituzioni borghesi. Come diceva ancora Marx, la rivoluzione è necessaria anche per emancipare il cervello dei proletari e delle masse. Ma se in teoria si può immaginare che in una situazione di indebolimento del dominio borghese, le elezioni possano portare a risultati contrari al suo volere, rimane il fatto che anche nel più democratico dei regimi democratici, non è la scheda elettorale a determinare la politica dello Stato, ma il fatto che questo Stato è l’organo del dominio borghese; e in particolare che dipende dai gruppi capitalisti più potenti (a volte contro altri gruppi capitalisti più deboli).

Chi può credere che se un RIC pacificamente organizzato fornisse un risultato contrario agli interessi dei borghesi, questi gentilmente si inchinerebbero al risultato? Possono crederci solo i piccoli borghesi che rifiutano di vedere la divisione della società in classi antagoniste e che pensano che lo Stato, con la sua polizia, i suoi giudici ecc., possa essere al servizio di tutti i «cittadini».

I marxisti non contrappongono una «vera» democrazia,  sia essa «di base», «diretta», «partecipativa» o, come sembra andare di moda oggi, «a rotazione», a una falsa, ma la lotta di classe contro i capitalisti, i loro Stati e il loro sistema economico, contro la democrazia in generale.

 

UNA SOLA PROSPETTIVA: LA RIPRESA DELLA LOTTA ANTI-PACIFICA DELLA CLASSE

 

La lotta di classe, spinta fino in fondo, fino alla conquista rivoluzionaria del potere, è l’unico modo per i proletari di emanciparsi, ponendo fine al capitalismo. Ma è anche l’unico modo per gli strati piccoloborghesi di combattere con successo il capitalismo che li schiaccia. Il Manifesto del Partito Comunista spiega che le classi medie possono diventare rivoluzionarie nella misura in cui abbandonano il loro punto di vista di classe per aderire a quello del proletariato (3).

La convinzione che «azioni» ripetute possano alla fine ottenere dallo Stato borghese un cambiamento radicale a favore degli sfruttati è una totale illusione. Non c’è altra soluzione che la ripresa della lotta di classe proletaria, della lotta rivoluzionaria contro il capitalismo e lo Stato borghese. Impegnarsi nella lotta di classe significa rompere nei fatti con la menzogna democratica dell’uguaglianza di tutti i «cittadini». I «cittadini», come il «popolo», sono divisi in classi con interessi opposti; sono la lotta tra i cittadini, all’interno del popolo e l’organizzazione di classe indipendente l’unica via di emancipazione. Al contrario, l’unità democratica dei cittadini e del popolo significa per i proletari rinunciare a difendere i propri interessi, quindi rimanere in eterno dominati e sfruttati.

L’obiettivo deve essere il rovesciamento, la distruzione dello Stato borghese e la sua sostituzione con lo Stato della dittatura del proletariato, che sarà un «semi-Stato», come diceva Engels, perché non si baserà principalmente su una burocrazia, ma sulla più ampia partecipazione delle masse agli «affari pubblici»; e non la sua democratizzazione, come vogliono i democratici piccoloborghesi. Democratico o dittatoriale, lo Stato borghese è sempre al servizio del capitalismo contro il proletariato e le masse sfruttate.

Questo obiettivo non può essere immediato, ma è l’unico realistico. Il movimento dei Gilets gialli, in quanto tale, non può rappresentare una tappa verso questa alternativa. Ma la determinazione e la tenacia che mostra, e che sono in gran parte dovute alla presenza di proletari al suo interno, devono servire da esempio per le future lotte operaie (4). L’aggravarsi delle tensioni sociali, di cui la comparsa dei Gilets gialli è la dimostrazione, si tradurrà presto o tardi, ma inevitabilmente, in nuove lotte proletarie.

Se durante queste lotte almeno una minoranza di proletari troverà la forza di liberarsi dalla paralizzante tutela dei sindacati e di altre organizzazioni collaborazioniste per guidare le lotte su posizioni di classe, allora avrà fatto un primo passo significativo verso la sua emancipazione, e quella di tutti gli oppressi, dal maledetto sistema capitalista.

 

13/01/2019

 


 

1) Presente all’incontro dell’intersindacale, Solidaires (Sud) si è rifiutata di firmare, dicendo che questo comunicato era «fuori luogo». In realtà non è affatto fuori luogo; corrisponde esattamente al ruolo di conservazione sociale e sabotaggio delle lotte degli apparati sindacali collaborazionisti, e in particolare dell’inter-sindacale di cui fa parte Solidaire, come è stato ulteriormente dimostrato l’anno scorso dalla sconfitta organizzata della lotta dei ferrovieri.

2) Il movimento dei Gilets gialli ha definito, fin dall’inizio, ogni sua manifestazione di protesta, tenuta in generale ogni sabato, come un “atto”, numerandola di volta in volta a seconda della sua continuità nel tempo...

3) «Gli ordini medi, il piccolo industriale, il piccolo commerciante, l’artigiano, il contadino, combattono tutti la borghesia, per premunire dalla scomparsa la propria esistenza come ordini medi. Quindi non sono rivoluzionari ma conservatori. Anzi, sono reazionari, perché cercano di far girare all’indietro la ruota della storia. Quando sono rivoluzionari, sono tali in vista del loro imminente passaggio al proletariato, non difendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi futuri, e abbandonano il proprio punto di vista, per mettersi da quello del proletariato». Cfr. Marx-Engels, Il Manifesto del partito comunista, cap. 1, «Borghesi e proletari».

4) Le Monde del 13-14/1/2019 cita un professore che scrive cinicamente a proposito dei Gilets gialli: «Uno degli elementi di forza delle persone mobilitate (...) è che, a differenza degli attivisti sindacali abituati alla sconfitta e alla rassegnazione, accettano meno facilmente di tornarsene a casa». Questa abitudine alla sconfitta e alla rassegnazione è opera del sindacalismo della collaborazione di classe.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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