8 marzo: giornata della colossale ipocrisia sull’emancipazione della donna

Soltanto con la lotta di classe che unisce le proletarie e i proletari contro ogni manifestazione del dominio borghese sulla società, si potranno fare passi avanti decisivi sulla via dell’emancipazione della donna e, con essa, dell’intera specie umana

(«il comunista»; N° 158; Marzo 2019)

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Come ogni anno, da decenni, nella giornata dell’8 marzo l’intera società borghese celebra, sotto ogni cielo, la giornata della donna. Su ogni tipo di media si rincorrono articoli, studi, notizie, reportage, conferenze, convegni, discorsi, tutti concordi nel mettere in rilievo come le condizioni della donna in questa società non sono cambiate se non di pochissimo da quelle che la vedevano sistematicamente, ufficialmente e giuridicamente, trattata come un essere inferiore rispetto al maschio. Non si fa che ribadire incessantemente che, nella società più progredita e avanzata che la storia umana abbia conosciuto, nella società che si fregia di aver raggiunto il più alto livello di vita civile e democratica, di avere leggi e costituzioni inneggianti ai diritti delle persone come mai in precedenza nella storia, le violenze sulle donne non diminuiscono, anzi  aumentano. Ogni tipo di violenza, da quella psicologica a quella economica, da quella fisica a quella sentimentale: non passa giorno che le donne non subiscano molestie, approcci indesiderati, maltrattamenti, soprusi verbali e fisici, botte e ferite, fino all’assassinio.

Ogni episodio di violenza si trasforma immediatamente in un’occasione di notizia da cronaca nera, di scoop, di pubblicità, un’occasione per vendere più copie di un giornale e per aumentare l’audience dei servizi televisivi; si riduce, in questo modo, ogni episodio di violenza sulle donne a un episodio a sé, a qualcosa che riguarda solo quell’individuo e quella donna, a un fatto del tutto individuale ascrivibile ad un malinteso rapporto d’amore, alla gelosia, ad una ossessione, ad un rapporto “malato”. Si interpretano questi episodi come dati che vanno sommati, per farne una casistica e tracciare dei diagrammi affinché gli psicologici e gli studiosi possano discettare sul “fenomeno” della “violenza sulle donne” e su quanto la società dovrebbe fare per l’emancipazione della donna.  In realtà, invece di stimolare la tanto amata “presa di coscienza” da parte dei molestatori, dei picchiatori e degli assassini, non si fa che amplificare la diffusione della paura e del terrore da parte delle donne. Più il tempo passa e più le donne si sentono sole, indifese, alla mercé di qualsiasi molestia o violenza che, prima o poi, le colpisce.  

Nella società del capitale, tutto ciò che nasce e vive è sottoposto ad una violenza generale di base: la violenza della classe dominante borghese che si combina con la violenza insita nel modo di produzione capitalistico; se nasci da una famiglia proletaria sei condannato ad una vita da schiavo, femmina o maschio che tu sia, ma se nasci da una famiglia borghese fai già parte della classe possidente, nasci già erede di un patrimonio che i tuoi genitori hanno accumulato sullo sfruttamento del lavoro salariato anche se tu non sai ancora camminare. La società è già divisa in classi antagoniste, non aspetta che ogni individuo si collochi in un certo posto o in un certo ruolo nella società; nella società capitalistica si attua una polarizzazione elementare per cui la gran massa di proletari costituisce la forza lavoro utile alla produzione di tutto ciò che alla società borghese serve per vivere, e che perciò viene dominata e sfruttata, mentre la minoranza di borghesi capitalisti costituisce la parte dominante, che vive esclusivamente dello sfruttamento del lavoro salariato. Il lavoro dei proletari consiste nel produrre ricchezza sociale, il lavoro dei capitalisti consiste nello sfruttare il proletariato e nel difendere il propriodominio sociale affinché questo sfruttamento perduri nel tempo. «La condizione più importante per l’esistenza e il dominio della classe borghese è l’accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la molitplicazione del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato», così si legge nel Manifesto di Marx-Engels, scritto centosettant’anni fa!

Con lo sviluppo del capitalismo si sviluppa e si rafforza il dominio del capitale sul lavoro sociale, il dominio dei capitalisti sul proletariato, e tale dominio si esplica in mille forme diverse, dalle più pacifiche alle più violente, ma ciò che lo tiene in vita è la violenza di base del modo di produzione capitalistico che ha per obiettivo principale non la soddisfazione dei bisogni della vita sociale, ma la soddisfazione delle esigenze del mercato di cui il capitale non può fare a meno. Questo tipo di violenza può apparire del tutto estranea a quella che individualmente una donna subisce da parte di un maschio, ma nella realtà non è così. Il modo di produzione forma la base economica della vita sociale di qualsiasi società e i suoi rapporti di produzione determinano i rapporti sociali, quindi i rapporti tra tutti gli individui che formano la società; il capitalismo è basato sulla proprietà privata, è indiscutibile, ma soprattutto sull’appropriazione privata della ricchezza sociale prodotta dal lavoro salariato, mentre l’organizzazione sociale attuale ribadisce la gerarchia maschilista ereditata dalle società precedenti. Il lavoro salariato al quale è obbligato ogni proletario, se vuole vivere, è l’esempio più evidente di violenza con cui la classe borghese, che possiede tutto, obbliga ogni nullatenente, ogni proletario, a procurarsi di che vivere: lo sfruttamento del lavoro salariato consiste nel far lavorare ogni proletario un certo numero di ore al giorno di cui gliene viene pagata solo una parte, quella che “corrisponde” al salario contrattato, ossia a quei beni giornalieri di prima necessità indispensabili al proletario per vivere e ricostituire le forze sufficienti per essere sfruttato il giorno dopo, e così per ogni giorno successivo. E tutto ciò avviene in una società che trasmette la sua organizzazione gerarchica maschilista dall’alto verso il basso, da strato sociale a strato sociale, da classe a classe, perciò la stessa impronta maschilista la si ritrova anche negli strati medi e piccoloborghesi e nel proletariato, come d’altra parte succede per la stessa ideologia borghese, che si tratti di pregiudizi, luoghi comuni, credenze, mentalità, miti politici o religiosi.

Lo sfruttamento del lavoro salariato da parte della classe borghese è il suo modo di vivere, perché solo da questo sfruttamento essa trae il suo profitto, ed è il modo in cui la classe borghese perpetua il suo dominio sulla società e sul proletariato in particolare. Come moderni schiavi, i lavoratori salariati sono costretti a subire ogni tipo di violenza, ideologica, fisica, morale, pratica e sociale, date le loro condizioni materiali, che abbiano o no un lavoro, che siano sfruttati direttamente da un capitalista o che facciano parte di quell’esercito industriale di riserva in cui i capitalisti li scaricano quando non conviene più sfruttarli e in cui possono pescare, di volta in volta, i lavoratori a basso costo di cui temporaneamente hanno bisogno; in questo modo, la violenza esercitata sui lavoratori salariati occupati si trasmette su tutti gli strati proletari esistenti, precari, sottopagati, disoccupati, emarginati, insomma sull’intero corpo proletario. Con lo sviluppo del capitalismo l’oppressione salariale si è a sua volta allargata, espandendosi dal genere maschile al genere femminile. Se l’introduzione delle donne nei processi lavorativi ha di fatto tolto le donne dalle quattro mura di casa facendole partecipare alla produzione sociale e, quindi, alla vita sociale, le ha in ogni caso inserite nelle forme di ulteriore sudditanza, pagandole meno dei maschi e, quindi, sfruttandole ancor di più; e, visto che il capitalismo non si ferma di fronte a nessun tipo di sfruttamento e di violenza, ha esteso lo sfruttamento anche ai fanciulli, così la famiglia proletaria che nei primissimi tempi – in qualche modo a immagine e somiglianza della famiglia borghese – vedeva solo il “capofamiglia” al lavoro e la donna perlopiù dedita alle faccende domestiche e alla cura dei figli, dandole in questo modo un’apparenza di unità e di stabilità, nel capitalismo appena un po’ più sviluppato la famiglia proletaria viene completamente lacerata dagli stessi rapporti di produzione che hanno aperto anche alle donne le porte del lavoro e di un’apparente emancipazione e indipendenza. Con un dato negativo in più per la donna proletaria: all’oppressione domestica si aggiunge l’oppressione salariale. Ciò non toglie che, nella società borghese, la famiglia, come istituzione, è considerata come la sua base economica di cui non può fare a meno. Ma la famiglia borghese che cosa è in realtà? «Su che cosa si basa la famiglia attuale, la famiglia borghese? – si legge nel Manifesto di Marx-Engels – Sul capitale, sul guadagno privato. Una famiglia completamente sviluppata esiste soltanto per la borghesia: ma essa ha il suo completamento nella coatta mancanza di famiglia del proletariato e nella prostituzione pubblica. (...) La fraseologia borghese sulla famiglia e sull’educazione, sull’affettuoso rapporto fra genitori e figli diventa tanto più nauseante, quanto più, per effetto della grande industria, si lacerano per il proletario tutti i vincoli familiari, e i figli sono trasformati in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro». Famiglia e prostituzione, ecco le due istituzioni borghesi che dovrebbero sorreggere la stabilità e la morale sociali anche per il proletariato; ma entrambe manifestano il completo fallimento della stabilità nel rapporto tra i due sessi, del quale fallimento i figli subiscono inevitabilmente le conseguenze peggiori. Il rapporto tra i due sessi, dipendendo dai rapporti di produzione e sociali, è stato ridotto ad un rapporto essenzialmente commerciale: le donne, per i borghesi, sono strumenti di produzione, producono figli, producono piacere, producono profitto, e come strumenti di produzione possono essere sfruttati in comune, fatto salvo il “diritto” di proprietà  che vincola ogni tipo di rapporto in questa società e che è sempre alla base di ogni violenza sulle donne e sui figli. 

Ebbene, questa violenza di classe, che è specifica della classe borghese, dunque della società moderna, si aggiunge alla preesistente violenza delle classi proprietarie delle società precedenti, delle classi feudali della nobiltà, dell’aristocrazia e del clero, e delle antiche classi schiaviste, durante il cui dominio si trasmise, da una all’altra, il principio della proprietà privata, del dominio di una minoranza possidente sulla maggioranza della popolazione, e con esso il dominio del genere maschile su quello femminile. L’oppressione della donna inizia praticamente con l’apparizione della proprietà privata, e si manifesta nell’oppressione domestica che, via via, si è sempre più radicata passando da un modo di produzione all’altro, senza dubbio tecnicamente più progressista e moderno, ma dal punto di vista dei rapporti tra il genere maschile e femminile sempre più reazionario. L’oppressione della donna affonda le sue radici nella storia delle società costruite sulla proprietà privata e trova la sua più classica manifestazione nella famiglia che la società capitalistica ha elevato a “unità economica” della società. Ecco perché, per i comunisti rivoluzionari, l’emancipazione della donna non potrà avvenire mai se non in corrispondenza dell’abolizione della famiglia borghese, cosa che potrà avvenire soltanto attraverso una rivoluzione totale della società, dal punto di vista politico ed economico, distruggendo tutti gli apparati – a partire dallo Stato e dalle sue istituzioni – che la classe borghese dominante ha costruito a difesa dei suoi specifici interessi di classe.

 

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E così, anche in questo 8 marzo 2019 la propaganda borghese ha consumato il solito rito annunciando che la donna vive ancora in condizioni di subalternità e di oppressione, e che solo una nuova “cultura” della parità dei sessi sul piano dei diritti potrà averla vinta sulle discriminazioni e sulle violenze di genere. Da tre anni, in una settantina di paesi, si è instaurata la pratica dello “sciopero delle donne” nella giornata dell’8 marzo, per far vedere che senza il lavoro e l’opera delle donne la società si ferma o, perlomeno, subisce un danno e che, per non subire questo danno, le donne devono essere più “valorizzate” dalla società maschilista. Ma come tutte le iniziative che cercano di smuovere “le coscienze”, in questo caso dei maschi, anche questa non fa che aggiungere ipocrisia a ipocrisia. Si tratta, in verità, di una persistente deviazione della questione dell’emancipazione della donna, dal solo terreno concreto della battaglia di classe, al terreno fumoso della battaglia culturale, per di più “di genere”.

Secondo i dati dell’”Agenzia europea per i diritti fondamentali”, «Nei paesi del nord Europa che hanno i più alti standard in materia di tutela dei nuovi diritti e di parità di genere, l’indice di violenza domestica sulle donne è sorprendentemente più elevato rispetto a quei paesi che sono comunemente considerati arretrati in questa materia» (1). E tutte le indagini relative a fatti di violenza fisica e sessuale contro le donne riportano, da anni, che il luogo in cui queste violenze avvengono per la maggior parte dei casi sono le quattro mura domestiche. Al vertice di questa classifica si trova la Danimarca (col 52% delle donne al di sopra dei 15 anni che denunciano di aver subito violenza fisica o sessuale) seguita da Finlandia (47%) e Svezia (46%); seguono poi i Paesi Bassi (45%), Francia e Gran Bretagna (44%), mentre l’Italia è al diciottesimo posto (27%). Come tutti i dati statistici che vengono rilevati, anche questi subiscono l’influenza generale delle abitudini e dei comportamenti radicati nei diversi paesi; ad esempio, nei paesi del nord Europa l’abitudine ad appellarsi ai diritti previsti dalla legge, che vengono in generale rispettati anche dai funzionari della legge, spinge più facilmente le donne a denunciare le violenze subite rispetto ai paesi dove tali diritti non sono applicati allo stesso modo e le violenze subite sono vissute come eventi vergognosi da nascondere; anche altri elementi intervengono nella motivazione delle violenze fisiche e sessuali e degli omicidi, come ad esempio l’abuso di alcolici e sostanze stupefacenti, ed è noto che nei paesi scandinavi l’abuso di alcolici è più elevato che negli altri paesi. Per non parlare della gelosia o della più recente “tempesta emotiva” (come da sentenza del tribunale italiano che ha dimezzato gli anni di condanna per femminicidio comminati al processo) che assalgono il compagno o l’ex-partner trasformatosi in assassino, per cui è evidente la loro correlazione non tanto con un rapporto affettivo che si pretende esclusivo da parte della donna, quanto con il principio della proprietà privata nel quale il partner fa rientrare il rapporto d’amore e affettivo verso l’altro.

E’ dato per assodato che la donna, nella società capitalistica, in quanto donna, viva un’oppressione di genere. Ma è altrettanto indubbio che la lotta che la donna borghese, o influenzata dall’ideologia borghese, è disposta a fare per la propria “emancipazione” non è una battaglia contro la doppia oppressione domestica e salariale in generale, oppressione che tocca la stragrande maggioranza delle donne di questa società, ma una battaglia contro particolari discriminazioni sul piano dei ruoli occupati nei posti di lavoro, nelle istituzioni politiche e statali, nelle forze armate, nelle istituzioni economiche e finanziarie o sul piano delle remunerazioni. Queste battaglie non mettono in discussione le cause dell’oppressione della donna nella società presente, cioè le cause materiali economiche e sociali di fondo; sono tutte battaglie che le donne, in realtà, perdono in partenza; anche nel caso in cui le donne riuscissero a farsi eleggere alla carica di presidente di tutte le repubbliche del mondo, o al vertice delle Banche nazionali o delle forze armate di ogni paese, che cosa cambierebbe per i milioni e milioni di proletarie e proletari nel mondo? Non sarebbero più sfruttati? Non vi sarebbero più guerre di concorrenza sui mercati? Non vi sarebbero più guerre di conquista e di brigantaggio? Sparirebbe come per incanto la violenza dalle strade o dalle quattro mura di casa? Si otterrebbe una parità reale, attuata quotidianamente, tra uomini e donne? I paesi più civili, che prevedono per legge le maggiori tutele per i diritti delle donne, come abbiamo visto, sono quelli in cui i fatti di violenza fisica e sessuale contro le donne sono maggiori. Dunque? Finché persiste il modo di produzione capitalistico, quindi il capitale e il lavoro salariato, non sparirà mai il contrasto tra i sessi perché tra le classi in cui è divisa la società, da cui discende ogni tipo di oppressione, vi sarà sempre antagonismo e lotta. Esisterà sempre la classe borghese dominante formata da uomini e donne, da patrimoni da aumentare e da difendere per farli ereditare ai propri figli, maschi o femmine che siano; esisterà sempre un potere di classe da trasmettere alle generazioni successive di borghesi e capitalisti, esisterà sempre l’interesse materiale di fondo legato al dominio economico e sociale, e perciò politico e ideologico che la classe dominante borghese difende e difenderà con ogni mezzo, al di sopra di ogni supposta parità di diritti. S’è visto che valore hanno le leggi borghesi: anche quando forti movimenti sociali riescono a far cedere la resistenza della borghesia nel concedere diritti alla stragrande maggioranza della popolazione – come nel caso dell’aborto o del divorzio, per non parlare delle violenze di genere – la borghesia trova mille cavilli legali e metodi per non applicare quanto le sue stesse leggi prevedono.

Non è il sesso che determina il rapporto sociale, è il rapporto di produzione che determina il rapporto sociale tra i sessi e finché il rapporto di produzione dominante è determinato dal modo di produzione capitalistico, il rapporto sociale tra i sessi non è riformabile: la donna subirà sempre l’oppressione da parte del maschio; non solo, essa stessa viene convertita sistematicamente in vettore della sua stessa oppressione come lo è il proletario nella misura in cui resta un semplice lavoratore salariato sfruttato dal capitalista. Marx, non a caso, indicava una delle contraddizioni fondamentali della società capitalistica nella figura del proletario: esso, nella misura in cui è lavoratore salariato sottoposto al capitale, è membro della classe per il capitale, ma, nella misura in cui lotta esclusivamente come classe per la propria emancipazione, è membro della classe per sé, membro della classe rivoluzionaria che ha il compito storico di emancipare se stessa dal capitalismo e, mentre attua questo compito storico, emancipa l’intera specie umana da ogni divisione e oppressione di classe e, perciò, da ogni contrapposizione tra i sessi. La più profonda contraddizione della società capitalistica non alberga nel capitale, ma nel proletariato, nella classe sociale più moderna che esista perché è la classe che produce l’intera ricchezza sociale pur non possedendone nemmeno una briciola, fatto che dialetticamente la pone come l’unica classe rivoluzionaria della società presente, l’unica classe che non ha alcun interesse a perpetuare la sua condizione di senza riserve per sostenere col solo suo lavoro il dominio della classe borghese, ma che ha tutto l’interesse a spezzare le forme della produzione capitalistica e tutte le forme di dominio del capitalismo per liberare le forze produttive sociali che quelle forme tengono violentemente prigioniere.

Non da oggi esistono movimenti femministi che hanno denunciato e denunciano le condizioni di subalternità e di inferiorità concreta in cui la stragrande maggioranza delle donne vive la propria vita quotidiana; le denunce di sfruttamento della prostituzione, di donne tenute in condizioni di schiavitù, ricattate e violentate sui posti di lavoro e fra le quattro mura domestiche, riempiono continuamente le pagine dei giornali e dei servizi televisivi. La violenza di genere è ormai talmente messa in risalto che solo i benpensanti, i moralisti e gli ipocriti sessisti possono considerarla come fatto episodico; è diventata talmente “normale” che ormai la notizia di ogni episodio ulteriore non sconvolge più come un tempo. Insieme alle notizie di chiusura di fabbriche e di licenziamenti, di devastazioni del territorio, di  massacri nelle scuole o nei teatri di guerra, di pedofilia sempre più diffusa nella chiesa e nella società, di scontri di piazza o di attentati, la notizia che una donna venga uccisa dal suo compagno, dal suo ex o da un qualsiasi parente o amico o conoscente, o che venga assalita e violentata da sconosciuti, giunge come un qualsiasi fatto violento, alla stessa stregua di un forte temporale, di un ponte che crolla, di un pino che si abbatte sulle case, di una frana, di un fiume che esonda o di un incendio che distrugge ettari di bosco. La propaganda borghese appiattisce tutto, ogni fatto violento è reso “normale” e nei suoi confronti non si può far altro che registrare l’accaduto, elencare i danni, i feriti, i morti e intervistare qualche “esperto” del momento o qualche “autorità”... e passare ad altre notizie sulla musica, sugli spettacoli, sui programi tv, sulle vicende dei reali d’Inghilterra, sui listini di borsa o sulle dichiarazioni di qualche potente dell’est o dell’ovest. La propaganda borghese ha, di fatto, il compito di rendere del tutto normale ogni episodio di violenza, ogni contraddizione, e di considerare, nello stesso tempo, ogni episodio di violenza come un fatto a sé, isolabile dalla vita quotidiana di tutti, facendolo recepire come qualcosa che fatalmente succede e contro il quale non c’è prevenzione che tenga. Abituare la gente alla fatale normalità della violenza ha lo scopo di abituarla ad approvare, o ad usare, la violenza tutte le volte che l’interesse privato viene messo in pericolo. E l’uomo che violenta o uccide una donna, la “sua donna” o quella che considera essere “sua e di nessun altro”, che tipo di interesse privato vede messo in pericolo? La donna viene considerata semplicemente una proprietà privata, oltre che uno strumento di produzione, un oggetto, come ricordavano Marx ed Engels nel Manifesto, o una schiava; una proprietà privata che da mobile – come fosse un capitale in denaro – si vuol far diventare immobile – come fosse una casa, un pezzo di terra –, ma che ha la caratteristica particolare di potersi sottrarre, per volontà propria, ad essere considerata una cosa e non un essere umano in grado di intendere e volere indipendentemente dal “padrone”.

 

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Negli ultimi tempi, le star del cinema, le donne di spettacolo più famose, forti della loro notorietà e dei loro patrimoni, hanno alzato la voce contro le molestie e le violenze sessuali di cui sono state vittime, accusando magnati e uomini potenti che le hanno obbligate a sottostare alla violenza sessuale; è nato così un movimento, chiamato #metoo, attraverso il quale denunciare la pratica corrente dello scambio e del ricatto sessuale per fare carriera, nell’intento di contrastare e di eliminare quella pratica, dando così modo alle attrici e alle donne di spettacolo di fare carriera grazie al proprio talento personale e non ai letti in cui, volenti o nolenti, doversi stendere. La carriera, innanzitutto! E sarebbe questa la via dell’emancipazione della donna? La carriera, nella società capitalistica, non è che la strada per giustificare la sopraffazione di alcuni rispetto ai molti, visto che l’organizzazione economica e sociale del capitalismo prevede una ben precisa gerarchia attraverso la quale mantenere non soltanto la maggioranza dei lavoratori salariati nelle condizioni di schiavitù salariale, da sfruttare in ogni ambito lavorativo per produrre e intascare profitto, ma anche per sottolineare costantemente la divisione del lavoro tra coloro che possiedono tutto e si appropriano ogni ricchezza prodotta – non importa in quale ambito economico e sociale – e coloro che sono obbligati a produrre profitto che la classe dei proprietari, dei capitalisti intascherà. Il tentativo di partecipare alla ripartizione del profitto da parte di elementi delle classi medie e piccoloborghesi, di cui fanno parte indubbiamente i personaggi dello spettacolo, è del tutto normale in regime capitalistico ed è ovvio che tale “rivendicazione” venga propagandata ampiamente dai media borghesi perché risponde alla generale deviazione sul terreno dell’individualismo e della cosiddetta “meritocrazia” grazie al talento che ogni individuo – non isolato, ma membro della società umana – per natura possiede. Il talento che ogni operaio applica quotidianamente nel segmento di lavoro in cui è costretto ad impiegare la sua forza lavoro non è dissimile da quello che un attore applica nell’interpretare un testo; entrambi, nella misura in cui lavorano al servizio di un capitalista, o di un impresario, sono lavoratori produttivi, poiché il loro lavoro viene nell’un caso e nell’altro, scambiato contro capitale (2); la funzione sociale è diversa: il lavoro dell’operaio produce direttamente merci, valori di scambio, per il capitalista e, quindi, profitto capitalistico, mentre il lavoro dell’attore (o del poeta, del pittore, di ogni artista o dell’intellettuale in genere) si inserisce non nella produzione diretta della ricchezza sociale, ma nella ripartizione del profitto capitalistico.

La lotta contro l’oppressione e la violenza sulle donne può viaggiare su due binari. Sul binario del riformismo borghese, e non importa se di destra, di centro o di sinistra, attraverso il quale si preveda per legge un'adeguata condanna della violenza sulle donne (manifestata come molestia, stalking, persecuzione, violenza sessuale, maltrattamento, ferimento o assassinio) e dell’oppressione (in ambito domestico o lavorativo), nella speranza che le leggi che si occupano di questi temi siano effettivamente applicate e quindi siano un efficace deterrente rispetto a violenze e oppressioni future. Oppure, sul binario della lotta proletaria di classe, attraverso la quale, in una prima fase, si forzi la classe dominante ad applicare le leggi che con la lotta si sono già conquistate (come la famosa legge 194 sull’aborto, che per la maggior parte dei casi non viene applicata semplicemente applicando un’altra legge – quella sull’obiezione di coscienza – che permette al personale medico di non essere disponibile a tale intervento negli ospedali pubblici, salvo esserlo privatamente e profumatamente pagato!) e si possono ancora conquistare. E, in una seconda fase,  nella consapevolezza che la società borghese, se in duecento anni non ha smesso, al di là delle leggi che può promulgare, di essere una società oppressiva in tutti gli ambiti, e fondamentalmente maschilista, non cambierà mai perché la sua struttura economica e sociale non glielo permette. E' una società irriformabile, una società che va distrutta e sostituita con un’organizzazione sociale completamente diversa, non più basata – come ripetiamo da sempre – sulle esigenze del profitto capitalistico e, quindi, sulla violenza economica e sociale della classe dominante, ma sulle esigenze della vita sociale della specie umana, in una prospettiva molto più ampia delle riforme che la classe dominante si rimangia facilmente: nella prospettiva di una lotta che contiene l’emancipazione della donna perché è una lotta per l’emancipazione dell’intero genere umano dalle molteplici oppressioni che esprime e attua la società del capitale.

Col riformismo borghese, non vince soltanto l’ideologia borghese, vince la struttura violenta della società capitalistica con tutte le sue conseguenze in ambito sociale, lavorativo e individuale; l’oppressione sulla donna non sparisce, anzi, con l’acutizzarsi delle crisi sociali e di guerra del capitalismo, quell’oppressione persiste ed aumenta, imprigionando la vera forza sociale dirompente – la forza delle proletarie e dei proletari – nelle illusioni e nei meandri mefitici dell’ideologia borghese.

Con la lotta di classe, che deve ritrovare la sua spinta uscendo da decenni di intontimento opportunista e di colpi controrivoluzionari alla tradizione classista del proletariato, ai suoi organismi di difesa immediata come al suo partito di classe, la donna proletaria, in primis, ha la possibilità di prendere le sue sorti nelle proprie mani, combattendo la doppia oppressione (domestica e salariale) cui è sottoposta nella società del capitale, e combattendo, nello stesso tempo, contro la mentalità, le abitudini, i comportamenti che gli stessi proletari hanno assorbito dalla classe borghese e dalle classi piccoloborghesi sfogando sulle donne della loro stessa classe le umiliazioni, le insoddisfazioni, le vessazioni che subiscono quotidianamente da parte della borghesia. La rabbia e la violenza che vengono dirette anche da parte dei proletari verso le donne proletarie, in famiglia o all’esterno, qualunque sia il motivo – la gelosia, il timore di essere abbandonati, la perdita di un’entrata economica –, sono reazioni indotte dal clima sociale generato dalla società in cui la sopraffazione e la concorrenza si fanno sempre più spietate, dalla società in cui ogni espressione di affetto, di amore, di amicizia, di sentimento è intrisa di prepotenza e di un attaccamento viscerale alla proprietà privata nella quale viene assimilata anche la “propria” donna, ragazza, fidanzata, moglie o ex moglie che sia. Per lottare contro le conseguenze generate dalla società capitalistica anche sul piano affettivo e delle inclinazioni sessuali, bisogna andare alle cause, e le cause si trovano nella struttura economica e sociale di questa società della proprietà privata, della famiglia come unità economica di base, dello Stato come suo difensore armato.

 


 

(1) Cfr. https://www.tpi.it/2016/11/30/paesi-nord-europa-violenza-donne/

(2) Vedi K. Marx, Storia delle teorie economiche, vol I, cap. II Adam Smith e il concetto di lavoro produttivo,  § 5. Lavoro produttivo e lavoro improduttivo, Giulio Einaudi Editore, 1954, pp. 254-255.

 

 

Partito comunista internazionale

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