La lotta di classe è fatto politico, non economico

(«il comunista»; N° 161 ; Ottobre 2019)

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Abitualmente, nella propaganda dei partiti operai di ieri e di oggi, e soprattutto delle correnti estremiste, quando si vuol parlare della lotta operaia per le rivendicazioni economiche molto spesso la si definisce “lotta di classe”. Storicamente, la lotta della classe operaia si svolge su due piani differenti, certamente legati tra di loro, ma in realtà diversi: su quello economico e su quello politico. In entrambi i casi la lotta della classe operaia, di base, poggia sulla condizione sociale oggettiva degli operai, e nel senso più ampio del termine, dei proletari, che la borghesia, dominando economicamente, politicamente, socialmente e militarmente la società, li costringe nella condizione di  lavoratori salariati, estorcendo dalla loro forza lavoro una quota sempre più grande di tempo di lavoro non pagato che il marxismo ha chiamato plusvalore. Nella società borghese è la classe dei produttori per eccellenza ma è di fatto, dati i rapporti di produzione e sociali esistenti, classe subalterna, sottomessa, detta anche “inferiore”.

La condizione di moderni schiavi salariati spinge gli operai – che il marxismo ha definito moderni proletari perché non posseggono nulla in questa società se non la propria forza lavoro individuale – a lottare contro le condizioni in cui sono costretti a lavorare e a vivere. Quindi non si tratta soltanto di condizioni di lavoro, ma, più in generale, di condizioni di vita. Passando dalla fase manifatturiera dello sviluppo capitalistico alla grande industria, il capitalismo ha generalizzato le condizioni salariali di lavoro ad una massa di proletari sempre più ampia, nei confini del proprio paese e al suo esterno, diffondendole nel mondo, e lo ha fatto con tutta la violenza di cui disponeva: economica, politica, sociale, militare. Il capitalismo, come modo di produzione e come regime economico-sociale, non può vivere e svilupparsi se non sfruttando una massa sempre più ampia di lavoratori salariati: questa è la base indispensabile del radicamento e dello sviluppo capitalistico dell’economia e, quindi, della società borghese. Naturalmente, lo sviluppo tecnico della produzione e della circolazione delle merci sui mercati costituisce un progresso sociale con il quale il capitalismo non solo ha portato il proprio sviluppo in tutti i paesi, compreso il suo ampio armamentario di innovazioni tecniche e scientifiche, ma ha sottomesso interi paesi e intere popolazioni al dominio del capitale, da un lato, e della borghesia capitalistica più forte, dall’altro. 

La lotta economica della classe operaia, o in senso più esteso – che comprende l’industria, l’agricoltura e i servizi –  della classe proletaria, è una realtà che i capitalisti hanno accettato da quando, dal suo divieto assoluto per legge, sono passati, nell’Ottocento, alla sua tolleranza e, infine, alla sua manipolazione attraverso il riformismo socialista e il collaborazionismo delle organizzazioni sindacali. La lotta operaia sul piano economico, di per sé, non mette in discussione il dominio politico, economico, sociale e militare della classe borghese, e quindi non mette in discussione il modo di produzione capitalistico da cui deriva la sua condizione di classe sfruttata ai fini esclusivi della valorizzazione del capitale. La classe operaia è sostanzialmente classe per il capitale. Ma le sue condizioni sociali, che derivano dai rapporti di produzione tra capitale e lavoro salariato, e le sue condizioni di esistenza, entrano in contrasto costantemente con i rapporti di produzione e sociali capitalistici, attivando una lotta che, allargandosi a vari settori di produzione e di distribuzione, tende a scontrarsi non solo col singolo capitalista, ma con l’associazione dei capitalisti fino a coinvolgere lo Stato centrale che è il difensore degli interessi generali della classe borghese. Tende, quindi, a porsi sul terreno politico e, quindi, storicamente, a porsi come classe per sé, classe che lotta esclusivamente per i propri interessi di classe immediati e futuri.

La borghesia non ha risposte adeguate a tutte le rivendicazioni economiche dei proletari, perché non ha alcun interesse a non sfruttare il più possibile la classe operaia, non ha alcun interesse a non estorcere dal lavoro salariato il massimo di plusvalore possibile, non ha alcun interesse a eliminare la concorrenza tra i proletari grazie alla quale riesce a tener bassi i salari e a mettere i proletari gli uni contro gli altri. Ha invece interesse ad esercitare il suo dominio sulla classe del proletariato non solo dal punto di vista economico, ma anche politico e culturale; ha interesse a influenzare il proletariato in modo che la sua lotta per l’esistenza sia incanalata nei meandri delle soluzioni riformiste che abbiano come unico gestore, o mediatore, lo Stato borghese. Infatti lo Stato borghese è fatto passare come entità al di sopra delle classi mistificando, sia in regime democratico che in regime totalitario, la sua attività come ricerca del bene comune, dell’armonia sociale, del necessario controllo “super partes” dell’ordine pubblico e della giustizia. Perciò anche la lotta operaia sul piano politico è ammessa dalla classe dominante borghese, purché sia inquadrata nell’ambito delle regole e dei confini che ne difendono il dominio economico e politico. I singoli capitalisti e i singoli borghesi possono essere stupidi, intolleranti, schiavisti, criminali, certamente affaristi e attaccatissimi alla proprietà privata e ai loro privilegi sociali, ma la borghesia nel suo insieme ha un’intelligenza di classe che le deriva da due secoli di dominio sociale ed ha capito da tempo che per piegare il proletariato alle proprie esigenze di dominio è più fruttuoso illuderlo sul piano democratico e riformista che reprimerlo apertamente. Ciò non toglie che nel guanto di velluto la borghesia nasconda il pugno di ferro; d’altra parte, usa questi due metodi contemporaneamente, perché teme, e in cuor suo sa, che la classe del proletariato – come è già successo più volte in questi due secoli di dominio borghese –, nonostante tutte le sconfitte subite, riguadagnerà, prima o poi, il suo terreno di classe e porterà la sua lotta di classe, sotto la guida del partito comunista rivoluzionario, allo scontro di classe decisivo, all’insurrezione rivoluzionaria e alla conquista del potere politico. In realtà, nonostante lo strapotere che la borghesia imperialista ha dimostrato di possedere in tutti i decenni trascorsi dalla fine del secondo macello mondiale, essa non è mai sicura al cento per cento di aver sconfitto per sempre il suo nemico principale, il proletariato. Sa di essere in balìa delle contraddizioni del suo stesso modo di produzione che non riesce a controllare, se non molto parzialmente, e sa che ogni crisi della sua economia – crisi che non riesce ad evitare – è sempre più pesante delle precedenti e può risvegliare il proletariato alla lotta di classe.

La lotta di classe del proletariato, quindi, nel senso marxista del termine, è la vera bestia nera della classe dominante borghese, e contro la ripresa della lotta di classe proletaria la borghesia combatte e combatterà la sua battaglia di sopravvivenza, utilizzando non solo il suo dominio economico, politico e militare, ma tutti gli strumenti ideologici, culturali e morali che la religione e l’opportunismo, apertamente collaborazionista o no, riescono a fornirle.

 

Nella storia, allo sviluppo della borghesia corrisponde anche lo sviluppo del proletariato

 

Sono diversi i passaggi dal Manifesto del 1848 di Marx ed Engels utili all’argomento che stiamo trattando.

«Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artigliera pesante con la quale essa spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi, in una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza» (1).

Che cosa è cambiato da allora? Gli strumenti di produzione hanno continuato ad essere migliorati raggiungendo livelli di automatismo e di robotizzazione un tempo impensabili; le comunicazioni si sono sempre più infittite e sono state rese sempre più agevoli e veloci (basti pensare ai trasporti ferroviari, marini, aerei e ad internet), i bassi prezzi delle merci hanno distrutto dappertutto la produzione artigianale e della piccola industria mandando in rovina masse sempre più ampie di artigiani e piccoli produttori, proletarizzandoli, e la stessa lotta di concorrenza fra gruppi e nazioni borghesi non ha fatto altro che imporre la civiltà borghese capitalistica in ogni paese del mondo, in ogni anfratto di vita sociale. Il mondo è ormai da quasi due secoli borghese, anche se lo sviluppo capitalistico nei diversi paesi è stato ed è inevitabilmente ineguale. Come la grande industria, sviluppatasi nei monopoli e nei trust, ha soppiantato la piccola e media industria, la piccola e media distribuzione, emarginandone la funzione sociale ad essere un comprimario della grande borghesia nei confronti degli strati più poveri delle popolazioni, così le grandi entità statali che concentrano la forza economica e politica delle grandi potenze economiche e finanziarie del mondo, difese con potenti apparati militari, hanno emarginato la stragrande maggioranza dei paesi del mondo sottomettendoli alle oscillazioni del mercato mondiale e alla variazione dei rapporti di forza internazionali. Il mondo borghese, rendendo il capitalismo un’economia universale e proletarizzando la grande maggioranza delle masse popolari, ha diffuso in tutto il mondo le stesse contraddizioni economiche e sociali che emergevano nei primi paesi capitalisti (Inghilterra e Francia), rendendo nello stesso tempo internazionale il lavoro salariato come condizione di vita e di lavoro dei proletari di ogni paese.

Continuiamo col Manifesto: «Nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni, che vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che trovano lavoro fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo commerciale, e sono quindi esposti, come le altre merci, a tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato» (2). Questo passaggio del Manifesto è fondamentale perché, da un lato, afferma che il lavoratore salariato, non importa di quale paese, è un proletario, un senza riserve – perciò la sua condizione di proletario nel rapporto di produzione e sociale capitalistico è la stessa in tutto il mondo – e, dall’altro, dovendo vendere la propria forza lavoro ogni giorno, ogni minuto, per poter sopravvivere, è una merce come tutti gli altri articoli commerciali, e la sua sopravvivenza è condizionata dalle alterne vicende della concorrenza borghese, da tutte le oscillazioni del mercato. Qui è già presente la critica a tutti gli opportunisti che continuano a sostenere che l’operaio, il lavoratore salariato, non è una merce e che la sua “dignità” di lavoratore è salva se il capitalista gli concede un salario più alto e gli permette di esprimere democraticamente le sue esigenze. In quanto merce, anche la forza lavoro subisce la concorrenza di altra merce-forza lavoro che costa meno, che fa lo stesso lavoro, ma a salari più bassi. La concorrenza tra borghesi viene trasferita in questo modo tra i proletari.

E ancora: «L’industria moderna ha trasformato la piccola officina del maestro artigiano patriarcale nella grande fabbrica del capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate militarmente. E vengono poste, come soldati semplici dell’industria, sotto la sorveglianza di una completa gerarchia di sottufficiali e ufficiali. Gli operai non sono soltanto servi della classe dei borghesi, dello Stato dei borghesi, ma vengono asserviti giorno per giorno, ora per ora dalla macchina, dal sorvegliante e soprattutto dal singolo borghese fabbricante in persona. Questo dispotismo è tanto più meschino, odioso ed esasperante, quanto più apertamente esso proclama come proprio fine ultimo il guadagno» (3); il “guadagno” dell’operaio è il salario, che è il compenso, il prezzo dello sfruttamento giornaliero della sua forza lavoro, mentre il borghese valorizza il suo capitale, aumentandolo, e “guadagna” sull’investimento che ha fatto appropriandosi il tempo di lavoro non pagato all’operaio (che corrisponde al plusvalore). La merce-forza lavoro, pur essendo trattata sostanzialmente come qualsiasi altro articolo commerciale, è però una merce speciale: è l’unica che, applicata al processo di produzione capitalistico non solo trasferisce il suo valore nel prodotto che esce dalla produzione, come qualsiasi altra materia prima da trasformare o mezzo di produzione, ma ne aumenta il valore proprio perché il suo tempo giornaliero necessario per produrre le merci da portare al mercato è inferiore al tempo giornaliero necessario (che si traduce in salario) per la sua sopravvivenza giornaliera e per ricostituirsi come forza lavoro per i giorni successivi. Questa differenza di valore, cioè questo valore aumentato lo può dare soltanto la forza lavoro salariata. Il capitale, perciò, non può vivere senza sfruttare la forza lavoro salariata.  

Le forze produttive, ossia il capitale e il lavoro salariato, nel capitalismo hanno quindi un unico obiettivo: la valorizzazione del capitale, e non importa se il processo di produzione soddisfi o meno le esigenze di vita della massa proletaria, l’importante è che soddisfi le esigenze di vita del capitale. Il lavoro dell’operaio, con il progresso dell’industria, dei processi di produzione e di distribuzione, diventa sempre più un accessorio della produzione capitalistica, un accessorio indispensabile, ma sempre accessorio del capitale che, per valorizzarsi sempre più, ha bisogno di ingigantire la parte di lavoro morto (il capitale fisso) su cui impiegare una forza lavoro viva (il capitale variabile), ma sempre più flessibile e sempre meno costosa rispetto al capitale totale investito, e perciò lo sfruttamento capitalistico si allarga alla manodopera femminile e minorile, aumentando ulteriormente la concorrenza tra proletari. Le oscillazioni del mercato, come detto sopra, condizionano la vita degli operai a tal punto che le crisi capitalistiche, commerciali e finanziarie, provocate dalla concorrenza fra borghesi, fra gruppi capitalisti e fra Stati borghesi e, soprattutto, dalla sovraproduzione sia di merci che di capitali, vanno ad intaccare inevitabilmente la stabilità dei posti di lavoro operaio e, quindi, dei salari; i salari vengono decurtati, gli operai vengono licenziati, il dispotismo di fabbrica aumenta e fa il paio con il dispotismo sociale, aumenta l’incertezza di vita nelle masse operaie; si forma la massa di forza lavoro disoccupata che va ad ingrossare quello che Marx ha chiamato l’esercito industriale di riserva, la massa di lavoratori senza lavoro, quindi senza salario per vivere.

 

L’antagonismo di classe è inevitabile nel capitalismo, come la lotta di classe

 

La collisione tra operai e borghesi è inevitabile, lo scontro di interessi dell’una e dell’altra classe rivela un antagonismo di classe esistente da quando è nato il capitale. I borghesi sono già coalizzati fra di loro perché hanno conquistato il potere politico ed hanno eretto il loro Stato a difesa dei loro interessi generali e della violenta espropriazione delle vecchie classi dominanti, degli artigiani, dei contadini; gli operai, ad un certo punto dello sviluppo capitalistico e del peggioramento delle loro condizioni di esistenza, iniziano a coalizzarsi per difendere il loro salario che è l’unico mezzo per potere vivere e danno vita a moti, sollevamenti, scontri contro i borghesi, i loro scherani e le “forze dell’ordine borghese”. «Fondano perfino associazioni permanenti – ricorda il Manifesto – per approvvigionarsi in vista di quegli eventuali sollevamenti. Qua e là la lotta prorompe in sommosse. Ogni tanto vincono gli operai; ma solo transitoriamente. Il vero e proprio risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma il fatto che l’unione degli operai si estende sempre più. Essa è favorita dall’aumento dei mezzi di comunicazione, prodotti dalla grande industria, che mettono in collegamento gli operai delle differenti località. E basta questo collegamento per centralizzare in una lotta nazionale, in una lotta di classe, le molte lotte locali che hanno dappertutto uguale carattere. Ma ogni lotta di classe è lotta politica» (4).

E qui siamo arrivati ad un punto cruciale. E’ la lotta operaia stessa che spinge gli operai ad organizzarsi, ad unirsi per avere più forza nello scontro con i capitalisti e il loro Stato, scontro che in determinate situazioni si trasforma in verie e proprie sommosse. Alle volte gli operai in lotta vincono, cioè ottengono qualche concessione dai capitalisti sul piano salariale, su quello normativo  e sulle condizioni di lavoro; ma i capitalisti, sostenuti dalle proprie associazioni e soprattutto dallo Stato borghese centrale, tendono a rimangiarsi una buona parte delle concessioni su cui hanno dovuto cedere di fronte alla pressione della lotta operaia e gli operai sono così costretti a tornare ogni volta a lottare, ad organizzarsi meglio per resistere nella lotta contro i capitalisti e ad estendere le proprie organizzazioni di difesa associando sempre più operai nella stessa lotta. E’ questa unione, questa solidarietà di classe, dice il  Manifesto, il vero risultato delle loro lotte. Questa unione di operai in quanto lavoratori salariati, in quanto proletari, è la vera base della lotta di classe, perché supera la divisione e la concorrenza tra operai, organizza la lotta al di là dei limiti di categoria, di fabbrica, di settore produttivo, va oltre la differenza di specializzazione e di età o di genere, e si muove come un sol uomo, nella stessa direzione e verso lo stesso obiettivo.  

La lotta operaia in difesa delle condizioni economiche, sviluppandosi, ed estendendosi a livello nazionale, ha bisogno di centralizzarsi, ha bisogno di un’organizzazione che centralizzi le molte lotte locali che hanno dappertutto uguale carattere: assume perciò il carattere di lotta di classe, ossia gli operai delle diverse categorie, dei diversi settori, di diversa età e genere e di diversa nazionalità, lottano insieme per gli stessi obiettivi, e con gli stessi metodi e mezzi di lotta utilizzati localmente. La forza messa in campo aumenta numericamente, e si trasforma in qualità, diventa forza di classe. Ma ogni lotta di classe è lotta politica. Perché?

Perché la lotta di classe, in cui sono coinvolti gli operai di molti settori e di molte categorie, si pone materialmente contro la classe borghese nel suo insieme e contro il suo Stato politico che non esiterà un secondo ad usare tutte le armi che ha a disposizione: dal ricatto del posto di lavoro al negoziato con le organizzazioni sindacali, dalla minaccia delle leggi che difendono la proprietà privata, il suolo pubblico, il “diritto” dei crumiri ad andare al lavoro, il “diritto” dei padroni di entrare ed uscire dalle proprie aziende alla condanna delle manifestazioni e dei cortei non autorizzati, e naturalmente dello sciopero “illegale”; e non si fa scrupolo di schierare la polizia, se non l’esercito, a difesa della classe borghese e di ogni suo componente, e di scatenarli contro gli operai. Di esempi ce ne sono a migliaia, e gli operai li conoscono benissimo.

La lotta di classe, dal punto di vista marxista, non è un punto di partenza, ma un punto di arrivo di molte lotte parziali, economiche, locali; di lotte operaie che si pongono già sul terreno della difesa esclusiva degli interessi operai e che, quindi, utilizzano metodi e mezzi di lotta di classe, ossia metodi e mezzi che non tengono conto delle esigenze delle aziende e che non si sentono obbligati a rispettare le regole dettate dai capitalisti e dalle loro leggi in cui le lotte operaie vengono normalmente imprigionate. La lotta di classe è lotta politica e, in quanto tale, ha obiettivi generali che superano ogni divisione all’interno del corpo sociale del proletariato e che puntano a mettere in discussione in generale la politica borghese. Ma il movimento operaio che si eleva al livello della lotta di classe, pone oggettivamente il problema del potere politico centrale, dello Stato e, quindi, della classe che detiene il potere politico, della classe dominante. E pone oggettivamente il problema della guida della sua lotta per la conquista del potere politico. Questa guida, per il marxismo, è il partito politico rivoluzionario, il partito comunista che per Marx ed Engels non aveva bisogno di aggettivi nazionali e che, in quanto comunista – ossia rappresentante nell’oggi dell’obiettivo storico generale della distruzione della società capitalista per sostituirla, nel corso della trasformazione rivoluzionaria dell’intera società borghese mondiale, con la società comunista, con la società di specie.

Infatti, Marx ed Engels, nel Manifesto, estendono il concetto di lotta di classe in modo inequivocabile. L’organizzazione che ha come obiettivo la centralizzazione delle lotte operaie e che, quindi, ha il compito di orientare e dirigere la lotta di classe verso i suoi obiettivi generali, e storici, non può che essere un’organizzazione squisitamente politica, il partito di classe. Che significato avrebbe la frase del Manifesto in cui afferma, a proposito della centralizzazione della lotta di classe nazionale «questa organizzazione dei proletari in classe e quindi in partito politico», se non che l’unica organizzazione politica in grado di rappresentare gli interessi generali della classe del proletariato e di centralizzarne la lotta contro la classe borghese nel suo insieme è il partito proletario di classe, il Partito Comunista il cui Manifesto vive dal 1848?

 

Ordine e classe, due concetti totalmente diversi

 

Ora, prima di proseguire, conviene fermarci sul termine classe dal punto di vista marxista. Sappiamo che la “lotta fra le classi” non è stata inventata da Marx, l’ha ripetuto più volte lui stesso, ma ne parlavano già da tempo gli stessi intellettuali ed economisti borghesi che cercavano di scoprire le leggi dell’economia capitalistica e di definire con esattezza i rapporti di produzione e sociali della nuova società borghese, ma che in realtà non scoprirono, fermandosi alla constatazione che la classe dei capitalisti aveva interessi diversi, e contrastanti, da quelli della classe dei lavoratori salariati, che questi interessi cozzavano gli uni contro gli altri spingendo le due classi alla lotta per difendere i rispettivi interessi e, naturalmente, demandarono allo sviluppo del capitalismo e della sua civiltà mercantile la possibile soluzione dei contrasti.

In un “filo del tempo” del 1953, trattando della differenza tra due concetti: ordine e classe, in polemica con un gruppo politico che vedeva nella burocrazia una nuova classe sociale (non solo in Russia, ma dappertutto), si può leggere:

«La parola classe che il marxismo ha fatto propria è la stessa in tutte le lingue moderne: latine, tedesche, slave. Come entità sociale-storica è il marxismo che la ha originalmente introdotta, sebbene fosse adoperata anche prima. La parola è latina in origine, ma è da rilevare che classis era per i Romani la flotta, la squadra navale da guerra: il concetto è dunque di un insieme di unità che agiscono insieme, vanno nella stessa direzione, affrontano lo stesso nemico. Essenza del concetto è dunque il movimento e il combattimento, non (come in una assonanza del tutto... burocratica) la classificazione, che ha nel seguito assunto un senso statico. (...) Classe dunque indica non diversa pagina del registro di censimento, ma moto storico, lotta, programma storico. Classe che deve ancora trovare il suo programma è frase vuota di senso. Il programma determina la classe » (5).

Dunque classe è un concetto che esprime il movimento di una forza sociale che va in un’unica direzione, agisce come una “squadra navale da guerra”, perciò esprime il combattimento affrontando lo stesso nemico; una forza sociale guidata da una “nave ammiraglia” che la dirige secondo un piano di guerra ben preciso. Classe è perciò un insieme di unità che agiscono insieme, organizzate come fossero un’unica unità pur con compiti diversi e complementari, il cui movimento ha lo scopo non solo di affrontare il nemico, ma di combatterlo e vincerlo. Senza un piano di guerra ben preciso, senza una guida ferma e decisa, cosciente della guerra che si sta conducendo, dei nemici che si devono combattere e degli scopi di questa guerra, non solo immediati, ma soprattutto finali, le unità (dunque, le organizzazioni proletarie) che sono scese in lotta agirebbero scoordinate, senza un piano generale e unificante, senza un’unica guida in grado di affrontare adeguatamente, e secondo le forze messe in campo, le diverse fasi della guerra e i diversi nemici, dando in questo modo un decisivo vantaggio ai nemici che si vogliono combattere. La guerra di cui stiamo parlando è la guerra di classe, cioè è la prosecuzione inevitabile dello sviluppo della lotta di classe. Con la parola classe intendiamo non la banale classificazione sociale dei sociologi borghesi, prezzolati dai grandi gruppi industriali, commerciali e bancari al fine di segmentare gli strati sociali in mille e più fasce aggregandole per professione lavorativa, disponibilità di risorse, titolo di studio, età, genere, comportamenti d’acquisto ecc. ecc., ma l’intero corpo sociale caratterizzato dalla condizione di puro salariato che, proprio in ragione della sua posizione nel processo di produzione e del suo rapporto sociale con la borghesia, rappresenta la forza produttiva basilare e positiva della società che si scontra, inesorabilmente, con l’altra forza produttiva della società, il capitale, che, nel corso dello sviluppo della società fatta a sua immagine e somiglianza, è diventata negativa, distruttrice, dannosa per l’intera società umana.

Ma tra proletariato e classe proletaria va fatta una differenza sostanziale: col termine proletariato indichiamo la classe per il capitale, cioè la classe che lotta sì contro i capitalisti per difendere e migliorare le proprie condizioni di esistenza, ma nell’ambito e nei confini del capitalismo, della società capitalistica, del suo modo di produzione e del regime borghese e delle sue leggi; col termine classe proletaria indichiamo la classe per sé, la classe che nel suo movimento di lotta va verso il superamento dell’ambito e dei confini del capitalismo, verso la distruzione della società capitalistica, del suo modo di produzione e dei rapporti di produzione e sociali che ne derivano, verso il socialismo, ossia verso un regime politico che ha il compito di avviare un modo di produzione che risponda alle esigenze di vita della specie umana e non del mercato, del capitale, del profitto capitalistico. E il regime politico socialista non può che essere la dittatura di classe, ossia la dittatura del proletariato inteso come classe rivoluzionaria, come classe che ha il compito storico di abbattere il potere politico borghese, in ogni paese, e avviare la trasformazione dell’economia dal capitalismo al socialismo, aprendo così le porte alla società senza classi, alla società di specie, al comunismo. La dittatura del proletariato è la dittatura di classe che si oppone politicamente, militarmente, economicamente e socialmente alla dittatura della borghesia; l’espressione usata nel Manifesto del 1848, a proposito della rivoluzione con la quale il proletariato conquista il potere politico, dice: «il primo passo sulla strada della rivoluzione operaia [e comunista] consiste nel fatto che il proletariato s’eleva a classe dominante» (6). Quindi, lotta di classe del proletariato, rivoluzione proletaria, conquista del potere politico e instaurazione della dittatura di classe, sono fasi storiche del movimento rivoluzionario del proletariato che vedono la classe proletaria – la classe produttrice per eccellenza – in lotta per affermare i propri interessi generale e storici di classe, fasi che sono unite dialetticamente dall’azione del partito proletario di classe, dal partito comunista che, rappresentando il programma storico della classe del proletariato e della sua lotta, ha il compito di guidare il movimento proletario, a livello nazionale e internazionale, a raggiungere e superare via via le diverse fasi sopra ricordate. Perché tutto questo avvenga è necessario, infatti, che alla testa del movimento del proletariato ci sia il partito di classe, quell’organo speciale, e unico, che nel presente rappresenta il futuro della lotta di classe, il futuro della rivoluzione proletaria, il futuro dell’umanità. Ecco perché abbiamo sottolineato che classe, per il marxismo, significa moto storico, lotta, programma storico, cioè la qualità di classe, nel senso storico del termine, che il proletariato acquisisce non con la sua lotta economica, spontanea, anche violenta, sul terreno immediato, ma attraverso la lotta politica di classe orientata e guidata dal partito di classe che è il detentore del programma storico del proletariato e, per questa ragione, è la sua  “coscienza di classe”, ossia conosce in anticipo le finalità del moto storico e della lotta della classe del proletariato.

Il salto di qualità che il proletariato deve fare rispetto alla sua lotta di difesa immediata non è costituito soltanto dal passaggio dalla lotta economica alla lotta politica; la borghesia, questo passaggio, glielo ha fatto fare fin dal principio, facendolo combattere per i suoi fini contro le vecchie classi feudali, per distruggere il loro potere politico e instaurare il proprio potere di classe. E tutte le volte che la borghesia si appella al proletariato per sostenere la sua politica, sia interna che estera, chiama il proletariato alla lotta politica; che lo faccia attraverso le elezioni democratiche o che lo faccia da posizioni apertamente totalitarie, l’effetto finale non cambia: la borghesia ha sempre bisogno di mobilitare il proletariato, in pace e in guerra, per difendere interessi nazionali e “comuni” che, in realtà, sono interessi esclusivamente borghesi e, perciò, antiproletari.

Il salto di qualità sta nel fatto che il proletariato passi alla lotta politica di classe, ossia alla lotta che dalla difesa esclusiva dei propri interessi di classe immediati, comuni sì ma comuni esclusivamente ai lavoratori salariati, passi alla lotta di offesa, alla lotta insurrezionale per la conquista del potere politico centrale, seguendo l’orientamento e la direzione del partito di classe che ha il compito di unificare le forze del proletariato che la borghesia divide, frammenta, spezza, sparpaglia e mette le une contro le altre in una guerra tra proletari tutta a beneficio del dominio borghese: un dominio che va abbattuto e sostituito con il dominio politico proletario. Dunque, quando parliamo di lotta di classe parliamo di fatto politico, non economico.

Che cos’è dunque l’ordine? Ordine «è una partizione della società che vorrebbe conservarla immobile e garantita contro le rivoluzioni» (7). Entriamo un po’ più nel merito, perché la parola riguarda in particolare la società medioevale: «Ordine in francese si dice, “état”, con la stessa parola che indica lo Stato politico centrale, che in fondo nel primo feudalesimo è appena delineato e si riduce alla corte militare dell’imperatore o re. Quando Luigi XIV, in pieno rigoglio di forze capitaliste di produzione sotto la monarchia assoluta, dice “L’Etat c’est moi”, sono io lo Stato, si tratta dello Stato politico. Gli ordini allora erano tre, secondo l’organamento feudale. Primo ordine, premier état, la nobiltà, chiusa in un gruppo ereditario di famiglie e di titoli araldici; secondo ordine, deuxième état, il clero, secondo l’organismo gerarchico della chiesa cattolica; troisième état, terzo ordine, fu detta la borghesia, che in effetti non partecipava al potere, pure essendo rappresentata negli “stati generali” ossia nell’assemblea nazionale degli ordini, corpo non legislativo e tanto meno esecutivo, ma appena consultivo del re e del suo governo: tali borghesi erano allora mercanti, finanzieri, funzionari. (...) Quando il modesto e poco decorativo terzo ordine diventò la possente e rivoluzionaria classe capitalista si disse: cosa è il terzo Stato? Nulla. Cosa vuole essere? Tutto» (8).

 E’ nella società feudale in disgregazione che la borghesia, sullo slancio della scoperta dell’America, della circumnavigazione dell’Africa e dell’aumento degli scambi con le colonie orientali e americane, diventa sempre più una classe produttiva, industriale, soppiantando gli artigiani e sviluppando sempre più l’industria. In questo rivoluzionamento della produzione e degli scambi commerciali, non si sviluppa soltanto la borghesia, ma si forma e si sviluppa un’altra classe, la classe dei lavoratori salariati, il moderno proletariato. Spariscono, sebbene in un lungo processo di sviluppo borghese, le corporazioni, la suddivisione in ordini e sottordini e, con la rivoluzione borghese viene spezzato definitivamente lo Stato centrale feudale e sostituito dallo Stato borghese; ma non spariscono gli antagonismi di classe, solo si semplificano. “L’intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici – come dice il Manifesto del 1848 –, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato”.

Ma al tempo della rivoluzione francese, benché fosse ben presente e costituisse una forza sociale importante, tanto che la borghesia la organizzò e la mobilitò nella rivoluzione contro la monarchia assoluta, il proletariato urbano non si riconobbe ancora come nuova classe rivoluzionaria nella società borghese (sarà il marxismo, cinquant’anni dopo, a riconoscerle questa funzione storica), ma, nei primi decenni del suo sviluppo, al movimento operaio bastò considerarsi un nuovo ordine, un quarto Stato. Nella realtà, il “quarto Stato” non fu riconosciuto né dal potere feudale, che negava la partecipazione dei contadini e dei proletari ad ordini specifici, né tanto meno dal potere borghese che eliminò tutti gli ordini, riconoscendo soltanto cittadini di egual diritto.

Confondere classe con ordine significa negare il movimento reale e ridurre la storia delle lotte fra le classi e delle rivoluzioni ad un contrasto tra specifici gruppi di cittadini all’interno della società borghese. E tutti coloro che guardano al “quarto Stato” considerandolo come la prima rappresentazione storica del proletariato rivoluzionario, o sono degli incalliti romantici assolutamente inutili alla lotta di classe o sono degli incalliti opportunisti che preferiscono imbalsamare il proletariato e la sua lotta nella raffigurazione del famoso quadro di Pelizza da Volpedo dove si mostra una massa di lavoratori inermi che avanza con l’atteggiamento dei contadini di un tempo che andavano a chiedere clemenza al potere costituito.

 

Per la ripresa della lotta di classe

 

Quando noi lanciamo l’obiettivo della ripresa della lotta di classe, ci riferiamo non solo e non tanto alla ripresa della lotta operaia attuata con mezzi e metodi di classe e per obiettivi di classe sul terreno immediato, e non ci riferiamo soltanto alla lotta politica del proletariato, ma alla lotta politica del proletariato sotto l’influenza e la guida del partito di classe affinché gli obiettivi della lotta si elevino fino alla lotta rivoluzionaria, fino alla lotta per la conquista del potere politico, fino alla rivoluzione proletaria e comunista.

Sappiamo bene che la lotta del proletariato raggiungerà il livello e la qualità della lotta di classe solo dopo aver fatto molte esperienze di lotta sul terreno immediato, e dopo essersi riorganizzato sul terreno della difesa esclusiva dei suoi interessi immediati; una lotta che non raggiungerà quel livello se non dopo che i proletari si saranno scontrati con le forze di difesa dell’ordine borghese costituito e con le forze della conservazione borghese, siano essi i partiti e le associazioni dichiaratamente borghesi , o le organizzazioni sindacali e politiche operaie votate alla collaborazione tra le classi. D’altra parte, in ogni guerra i protagonisti della lotta tendono a contrastare le azioni degli avversari utilizzando, in genere, gli stessi mezzi degli avversari: organizzazione contro organizzazione, violenza contro violenza, propaganda contro propaganda, attacco contro attacco. Ma ciò che distingue la lotta del proletariato dalla lotta della borghesia è il programma storico proletario, sono gli obiettivi che la classe proletaria si dà attraverso il suo partito di classe e per i quali scende sul terreno dello scontro di classe. Il proletariato costituisce la grande maggioranza della popolazione in tutti i paesi industrializzati, ma la sua forza numerica è del tutto virtuale e inefficace se non è organizzata e diretta politicamente per le finalità storiche della lotta di classe: farla finita definitivamente con il capitalismo e la società borghese che lo difende e lo conserva, e aprire il corso storico delle società umane alla società non più divisa in classi ma di specie, nella quale lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo sarà un lontano ricordo della sua preistoria. Una finalità che contiene la scomparsa delle classi, perciò la classe proletaria è l’unica classe che, nella storia delle società umane, lotta per la scomparsa anche di se stessa. E lo può fare oggettivamente perché è la classe produttrice per eccellenza e perché è la classe dei senza riserve e dei senza patria.

«Tutte le classi che si sono finora conquistato il potere – afferma ancora il Manifestohanno cercato di garantire la posizione di vita già acquisita, assoggettando l’intera società alle condizioni della loro acquisizione. I proletari possono conquistarsi le forze produttive della società soltanto abolendo il loro proprio sistema di appropriazione avuto sino a questo momento, e per ciò stesso l’intero sistema di appropriazione che c’è stato finora. I proletari non hanno da salvaguardare nulla di proprio, hanno da distruggere tutta la sicurezza privata e tutte le assicurazioni private che ci sono state fin qui» (9).

Dicevamo che il proletariato, la classe dei lavoratori salariati, nel capitalismo è una merce speciale, perché è trattata come una merce (i capitalisti comprano la forza lavoro, i proletari vendono la loro forza lavoro), ma è speciale perchè l’utilizzo capitalistico della forza lavoro proletaria produce la valorizzazione del capitale impiegato nella produzione e in qualsiasi attività umana, perché alla fine del processo produttivo il capitale impiegato ne esce aumentato.

Il proletariato moderno è una classe come lo erano tutte le classi sociali che lo hanno preceduto, ma è una classe particolare perché non solo è la classe dei senza riserve, di coloro che non possiedono nulla che ne garantisca la sopravvivenza per tutta la vita, ma la vita dei suoi componenti dipende dal fatto di vendere ai capitalisti e ai borghesi in generale la loro forza lavoro: se non riescono a venderla giorno per giorno, non mangiano, non vivono. Sono i moderni schiavi del capitale, gli schiavi salariati. La  sopravvivenza quotidiana risulta perciò il motivo principale della loro lotta. I proletari producono l’intera ricchezza sociale, ma non ne posseggono nemmeno una briciola; se lavorano ed hanno un salario riescono a comperare un’infinitesima parte della ricchezza che il loro lavoro produce; se non lavorano non percepiscono salario, perciò sono destinati a morire. E il Manifesto riassume così la situazione: «L’operaio moderno, invece di elevarsi man mano che l’industria progredisce, scende sempre più al disotto delle condizioni della sua propria classe. L’operaio diventa povero, e il pauperismo si sviluppa anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza. Da tutto ciò appare manifesto che la borghesia non è in grado di rimanere ancora più a lungo la classe dominante della società e di imporre alla società le condizioni di vita della propria classe come legge regolatrice. Non è capace di dominare, perché non è capace di garantire l’esistenza al proprio schiavo neppure entro la sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione nella quale, invece di essere da lui nutrita, essa è costretta a nutrirlo. La società non può più vivere sotto la classe borghese, vale a dire l’esistenza della classe borghese non è più compatibile con la società» (10).

La storia delle società umane è storia di lotte fra le classi, e la storia della società borghese è storia di lotta fra borghesia e proletariato, una lotta che si svolge anche nel più “pacifico” regime democratico al mondo, perché la borghesia non può sopravvivere come classe dominante se non imponendo costantemente al proletariato la condizione di lavoratori salariati, di schiavi del capitale. I proletari, da parte loro, come hanno dimostrato nella storia, sono spinti dalle loro stesse condizioni economiche a lottare per sopravvivere e per vivere: se lottano in concorrenza tra di loro, avvantaggiano costantemente la borghesia e perpetuano la loro condizione di schiavi del capitale, se invece lottano contro la borghesia, superando la concorrenza tra di loro, si pongono sull’unico terreno su cui è storicamente possibile cambiare completamente la società, trasformarla da società divisa in classi e sfruttatrice del lavoro salariato in società senza classi, nella società in cui lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo sarà eliminato per sempre. Che questa non sia un’utopia è dimostrato dalle lotte che il proletariato ha condotto da quando si è formato nella società moderna e, soprattutto, da quando il suo movimento di lotta è stato interpretato dal marxismo che ne ha colto, e fissato, non solo la qualità politica di classe, ma ne ha scoperto il necessario moto storico che porterà l’intera società ad essere rivoluzionata da cima a fondo per trasformarsi in una società senza classi e sensa antagonismi fra le classi, dove «una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti» (11). Con la Comune di Parigi, nel 1871, vi è stata già una prima dimostrazione di questo oggettivo moto storico, e con la Rivoluzione proletaria dell’Ottobre 1917 russo vi è stata la dimostrazione ulteriore, e la piena conferma della prospettiva marxista, che il proletariato non solo è l’unica classe rivoluzionaria della società moderna, ma che la direzione storica verso cui la rivoluzione proletaria conduce è la direzione del socialismo e del comunismo integrale, cioè della società senza classi, della società di specie.

I tempi storici non li detta la volontà degli uomini, per quanto di grandi capacità personali possano essere. I tempi storici li dettano il movimento delle grandi masse e forze sociali, la loro lotta di classe e i risultati di questa lotta. Ma la direzione del moto storico, come dal comunismo primitivo dei primi gruppi umani su questa terra ha portato alle prime società divise in classi, e dallo schiavismo al feudalesimo e al capitalismo, attraverso guerre e rivoluzioni, così porterà al socialismo e al comunismo integrale: non è un tornare indietro, non è un tornare alle forme comuniste dei primordi dell’organizzazione umana solo rese più moderne tecnicamente e scientificamente, è al contrario un passaggio storico dalle società divise in classi alla società senza classi, alla società che saprà pianificare, a livello mondiale, e grazie alla liberazione dello sviluppo delle forze produttive dai vincoli del capitalismo, la produzione e la distribuzione secondo le esigenze reali della società umana non solo per le generazioni presenti, ma anche per le generazioni future. Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni, non è un slogan propagandistico, è la sintesi in cui si esprime la società di specie.   

Per la produzione di tutto quel che serve per la vita sociale, e perché ciascuno dia il proprio contributo lavorativo alla comunità umana e riceva tutto quello di cui ha bisogno per vivere, dato il progresso già raggiunto dalle forze produttive nel capitalismo, non sarà più necessario – se non per la classe capitalistica – che sia in vigore il regime borghese e il dominio del capitale; non sarà più necessario che la circolazione dei beni materiali e degli uomini avvenga secondo il regime mercantile; non sarà più necessario che i proprietari di capitali, che sono la minoranza della popolazione in ogni paese, detengano il potere economico, politico e militare sottomettendo ai propri interessi di classe e al proprio dominio di classe l’intera società. E non sarà più necessario che la società sia divisa in classi e che la classe dominante organizzi il proprio dominio attraverso lo Stato, la sua magistratura, le sue leggi, il suo esercito, la sua burocrazia. Già oggi, nei paesi industrializzati più sviluppati, la borghesia, intesa come classe industriale atta a rivoluzionare i processi produttivi, a scoprire ed innovare nuove tecniche, è diventata nei fatti una classe superflua. Le stesse fittissime connessioni internazionali e le grandi potenzialità di nuove scoperte scientifiche che il capitalismo lascia intravvedere, sono in realtà azzoppate, deviate, bloccate dagli interessi contrastanti fra gruppi e Stati borghesi: è il capitalismo che frena e intossica il suo stesso sviluppo, è lo stesso capitalismo che rivela, a questo grado del suo sviluppo, di non avere altro da offrire alla società umana se non crisi drammatiche, carestie, disoccupazione, pauperismo devastante, miseria, fame, guerre. Pur di rimanere in vita, il capitalismo distrugge le forze produttive che esso stesso ha creato e distrugge l’ambiente naturale in cui si è sviluppato. La classe borghese esercita il suo dominio sulla società perché rappresenta gli interessi del capitalismo, perché è l’espressione del suo sviluppo e ne difende l’esistenza e la continuità nel tempo e nello spazio. Ma questo suo dominio dipende dall’appropriazione privata della ricchezza sociale, dalla valorizzazione del capitale e, quindi, dal costringere masse sempre più vaste di proletari, spogliate di tutto, alla condizione di lavoratori salariati. La classe borghese costituisce la minoranza della popolazione di ogni paese industrializzato, mentre il proletariato ne costituisce la maggioranza; come può una minoranza dominare sulla maggioranza? La domina perché possiede tutto, e non solo i mezzi di produzione, ma soprattutto la produzione stessa, la ricchezza sociale prodotta; la vasta maggioranza della popolazione resa proletaria, spossessata di tutto, non vive se non si piega alla condizione del lavoro salariato. Condizione del capitale – afferma il Manifestoè il lavoro salariato. Se, dunque, la classe dei lavoratori salariati costituisce la maggioranza, come mai non ha la forza di essere lei a dominare la società, ad imporre alla società le sue leggi regolatrici? La risposta è molto complessa, ma il Manifesto la sintetizza così: il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro. Ecco il  nodo su cui si svolge la lotta fra le classi: i borghesi vincono in partenza perché mettono i proletari gli uni contro gli altri e, in questo modo, la maggioranza numerica del proletariato, invece di essere una forza a vantaggio del proletariato, diventa una debolezza: come qualsiasi merce immessa nel mercato fa concorrenza ad altre merci per conquistare una posizione di vantaggio sul mercato, così la merce-forza lavoro viene messa in concorrenza con altre merci-forza lavoro; e la concorrenza, nel caso dei proletari, si svolge nei campi del costo della loro forza lavoro, della loro flessibilità rispetto alle esigenze oscillanti della produzione capitalistica e dell’economia capitalistica in generale, del loro piegarsi costantemente a tutti i sacrifici che vengono imposti per difendere la buona salute del capitale. Ma tutto questo avviene sotto la cappa della classe dominante borghese che difende il suo privilegio sociale non solo attraverso il regime della proprietà privata e dell’appropriazione privata della ricchezza sociale, ma attraverso lo Stato e la forza militare. La classe dominante borghese ha tirato delle lezioni importanti dalla storia delle lotte fra le classi, dalle rivoluzioni proletarie e dalle proprie controrivoluzioni: ha potuto constatare che, per piegare le masse proletarie alle proprie esigenze, dopo averle inevitabilmente educate alla lotta politica e all’uso delle armi, e basandosi sulla concorrenza fra proletari, doveva anche costruire sugli strati più alti del proletariato, su quella che Engels chiamò per primo aristocrazia operaia – lo strato proletario più istruito, più specializzato e più pagato – la sua forza proletaria opportunista, i suoi luogotenenti borghesi nelle file proletarie, coloro che avevano e hanno più possibilità di influenzare gli altri strati proletari per deviarne la lotta nell’alveo della conservazione sociale, della difesa del capitalismo come modo di produzione e del regime borghese come regime politico e sociale.

Ed è soprattutto all’opportunismo operaio, all’opportunismo sindacale e politico delle organizzazioni operaie, che, nei paesi capitalisticamente più avanzati, si deve la maggior parte del successo della controrivoluzione. Certo, come la borghesia dominante, così le forze dell’opportunismo si fanno forti della concorrenza dei proletari fra di loro; come la piccola borghesia – democratica, socialista o fascista, a seconda di come gira il vento – così gli opportunisti, poggiano su privilegi economici concessi dalla borghesia e sulla sua protezione, e con la piccola borghesia condividono abitudini, stili di vita, pregiudizi, trasferendo questa mistura tossica direttamente nelle file proletarie. E’ evidente che l’opportunismo, nelle sue più diverse sfaccettature, è nemico della lotta di classe, è nemico del proletariato inteso come classe indipendente, e tanto più è nemico del programma storico della classe proletaria e del partito di classe che lo incarna.   

La lotta fra le classi nella società moderna non è mai democratica, è un combattimento, una guerra per la vita del capitale, e quindi della classe borghese e del suo futuro, o per la vita della classe del proletariato e del suo futuro.

 


 

(1) Cfr. il Manifesto del Partito comunista, di Marx-Engels, Giulio Einaudi Editore, Torino 1962, cap. I, Borghesi e proletari, p. 101.

(2) Ibidem, pp. 108-109.

(3) Ibidem, pp. 111-112.

(4) Ibidem, p. 112.

(5) Cfr. Danza di fantocci: dalla Coscienza alla Cultura, serie, “Sul filo del tempo”, in “il programma comunista” n. 12 del 1953, capitoletto “Ordine e classe”. Questo “filo” faceva parte di un trittico, dedicato alla critica delle posizioni falsamente marxiste del gruppo francese Socialisme ou Barbarie. E’ stato inserito anche nel volumetto di partito del 1972 intitolato Classe, Partito, Stato nella teoria marxista, insieme agli altri due “fili”: La batracomiomachia, e Gracidamento della prassi, pubblicati nei nn. 10 e 11 del 1953 di “programma comunista”.

(6) Cfr. il Manifesto del Partito comunista, cit. p. 157.

(7) Cfr. Danza di fantocci: dalla Coscienza alla Cultura, cit., Ieri, Le società preborghesi.

(8) Ibidem.

(9) Cfr. il Manifesto del Partito comunista, cit. pp. 114-115.

(10) Ibidem, p. 116.

(11) Ibidem, p. 158.

 

 

Partito comunista internazionale

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