Siria: interessi borghesi e imperialistici contrapposti alimentano di continuo una guerra senza fine. La macelleria mediorientale scatenata da tutti gli imperialisti e dalle potenze regionali è lo specchio di quel che offre il capitalismo in ogni paese!

(«il comunista»; N° 162 ; Dicembre 2019)

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Negli ultimi 8 anni, in Siria, si sono giocate le sorti delle varie fazioni borghesi siriane che tentano di accaparrarsi parte del potere vendendosi ora a questo ora a quell’imperialismo. Per ragioni capitalistiche, politiche, religiose il clan di al-Assad è sempre stato sostenuto dall’Iran sciita, ma la vera forza per ristabilire un ruolo e un potere che stava perdendo sotto gli attacchi americano-anglo-francesi l’ha trovata nell’intervento e nel sostegno della Russia. Mosca, infatti, non solo ha le sue uniche basi navali e aeree strategiche del Mediterraneo in Siria, ma ha colto l’occasione di una relativa incapacità di Washington di coordinare sotto il suo comando i paesi della Nato (non solo Gran Bretagna e Francia, ma anche Turchia) per estendere la sua influenza sull’area mediorientale, pur non  avendo sotto controllo diretto alcun paese se non la Siria, o meglio, la parte della Siria che il regime di Damasco è riuscito finora a “riconquistare” in una guerra che, oltre agli imperialismi citati, ha visto e vede protagonisti il Daesh (detto Stato islamico, ISIS, o Califfato), il cosiddetto Esercito Libero Siriano (formazione araba pro-Turchia), la coalizione delle Forze Democratiche Siriane (Sdf) con le Unità di Protezione Popolare curde (Ypg) e il suo braccio politico (il Partito dell’Unione Democratica, PYD), ossia la milizia curda sostenuta dagli USA ma considerata terrorista dalla Turchia. E così il ginepraio mediorientale si ripresenta sotto forme diverse, ma in un quadro nel quale sono aperte le soluzioni più contraddittorie e cambi di fronte e di alleanze repentini, rimettendo in discussione sistematicamente ogni posizione conquistata da un fronte piuttosto che da quello avverso e rendendo volatile ogni accordo preso tra imperialisti e forze locali, come il voltafaccia americano nei confronti dei curdi siriani dimostra ampiamente.

 

I NUOVI RUOLI DI RUSSIA E TURCHIA

 

Il regime di al-Assad, senza l’intervento della Russia, grazie al quale una parte della Siria si è “normalizzata” anche grazie alla brutalità conosciuta di questi regime, è tornato a rappresentare una possibile opportunità di affari (armi, ricostruzione, petrolio). Non per questo l’intero territorio, che va dal Libano all’Iraq, alla Giordania e al Kuwait si è affrancato da situazioni di estrema conflittualità sia sociale (già coi movimenti della cosiddetta “primavera araba” si erano verificate situazioni difficilmente controllabili se non con sistematici massacri degli strati popolari e proletari che si ribellavano), sia di scontri armati nei quali, di volta in volta, inevitabilmente vengono coinvolti Iran, Israele, Arabia Saudita e Turchia, ossia le potenze regionali ciascuna delle quali ha mire di dominio e di espansione nell’ area mediorientale.

E mentre l’Arabia Saudita si è occupata dello Yemen, come può occuparsene una potenza capitalistica che non sopporta ai propri confini regimi politici che intralcino i suoi interessi economici, l’Iran ha cercato di occuparsi della Siria, sostenendo in Siria, con i propri capitali e con le proprie coperture politiche (anche in Libano con gli Hezbollah, e a Gaza con Hamas), il clan di al-Assad. Ma troppi interessi imperialistici si scontrano in terra siriana e, da solo, l’Iran non ce l’avrebbe mai fatta a salvare il regime di al-Assad. Ci voleva una potenza imperialistica che avesse forti interessi strategici nell’area, ma che non fosse coinvolta apertamente nelle guerre mediorientali precedenti (le due guerre del Golfo, gli scontri tra Stati arabi e Israele, la repressione sistematica delle popolazioni palestinesi o curde) e che avesse udienza diplomatica e godesse di un certo rispetto nelle cancellerie di Teheran, di Damasco, di Ankara, di Amman, di Beirut. Ed ecco l’occasione per la Russia, ma anche per la Turchia che, con la politica dei tre tavoli (USA, Unione Europea, Russia) sui quali giocare contemporaneamente tre partite diverse, poteva finalmente azzardare un ruvido confronto non solo con l’Unione Europea, ma anche con gli USA e la stessa Russia. Nei confronti dell’Europa, la moneta di scambio, e il ricatto, che la Turchia di Erdogan sta usando da anni riguarda il tema dei flussi dei migranti (più di due milioni di migranti fuggiti da ogni parte dell’Africa e dell’Asia sono stati bloccati ai confini turchi del sud dietro pagamento di 3 miliardi di euro, e ci sono notizie che parlano addirittura di 6 miliardi di euro), perché questi non proseguissero il loro tragico cammino verso i paesi d’Europa. Nei confronti degli USA, invece, la Turchia fa leva sul tema della libera decisione di fare la guerra non solo ai curdi del PKK in qualsiasi paese si rifugino (perciò non solo in Turchia, ma anche in Siria e in Iraq), ma anche sulla libertà di contrattare, ad esempio con la Russia, al di fuori delle sanzioni decise da Washington, acquisti e vendite di armi e prodotti vari, sebbene essa non solo faccia parte delle forze Nato, ma abbia addirittura nel proprio territorio una dozzina di basi americane e Nato, con la presenza nella base aerea di Incirlik di 50 bombe nucleari B-61 (1).

L’iniziativa militare intrapresa dalla Turchia il 9 ottobre scorso ha per obiettivo la formazione di una larga zona cuscinetto sul confine con la Siria (480 km di lunghezza per 30 km di profondità in territorio siriano), da nord-ovest (città di Afrin) fino all’estremo nord-est (città di Derik e di Sabah el Hayr) ai confini con l’Iraq. Il pretesto è il solito: combattere il PKK curdo non solo nella zona meridionale della Turchia (il Kurdistan turco) che confina con Siria e Iraq, ma anche in territorio siriano (la regione del Rojava) e in territorio iracheno. La mira espansionista della Turchia è lampante: visto che al-Assad non è stato eliminato, cosa di cui avrebbe approfittato per estendere la propria influenza su tutta la Siria, si accontenta di creare le cosiddette “zone cuscinetto” – come ha fatto Israele in tutti i decenni di guerra contro i paesi arabi, a nord verso il Libano, nel Golan siriano, e a sud nella penisola del Sinai, per non parlare della frammentatissima Cisgiordania – zone che servono per allargare il proprio controllo spostando i confini reali nei territori dei paesi limitrofi. Nei confronti dei curdi, inoltre, il disegno permanente della Turchia è di impedire quasiasi formazione territoriale autonoma, per non dire indipendente, che desse l’idea di una prossima o futura costituzione di uno Stato curdo. Israele insegna: non accettare mai la reale formazione di uno Stato “palestinese”, e se si è obbligati ad accettarla sotto pressione degli imperialismi padroni del mondo e sotto pressione della lotta armata delle milizie combattenti palestinesi, accettarla solo formalmente per poi calpestarla e distruggerla praticamente, soffocando economicamente, politicamente e reprimendo sistematicamente l’intera popolazione che agogna ad una sua indipendenza. In più, la Turchia detiene un’ulteriore arma che usa, per l’enensima volta, come una “soluzione” che metterebbe al riparo la situazione di conflitto attuale da ulteriori destabilizzazioni: i profughi siriani, fuggiti durante questi 8 anni di guerra civile e riparati in Turchia dove sono stati sistemati, come buoi destinati al macello, ai confini con la Siria e che ammontano a più di 5 milioni. Una massa consistente usata come “cuscinetto” sia contro i curdi del Rojava, sia contro il regime di al-Assad.

 

I CURDI STANNO SULLO STOMACO A TUTTI I BELLIGERANTI

 

I curdi continuano a rappresentare una spina nel fianco che la Turchia vorrebbe eliminare per sempre. L’Isis, dal 2014, aveva conquistato un vasto territorio che dal Nord della Siria (Idlib) si estendeva per tutto il territorio al confine con la Turchia, toccando Raqqa (che diventò per un certo tempo la “capitale” dello Stato islamico), e andava verso il nord dell’Iraq, costituendo in questo modo una specie di Stato sopranazionale contro cui si lanciarono tutti gli imperialisti, e verso il quale le potenze regionali (Turchia, Iran, Arabia Saudita, Israele) hanno mostrato atteggiamenti estremamente ambigui: da un lato lo sostenevano di nascosto, favorendo gli spostamenti delle formazioni djadiste (il nemico del tuo amico è nemico finché non diventa amico), dall’altro lato lo combattevano (più a parole che nei fatti) perché dovevano dimostrare, chi agli americani e chi ai russi, che non li avrebbero contrastati nella loro lotta contro il terrorismo di Daesh (un terrorismo che andava ad operare anche fuori dei confini siriano-iracheni e che attirava i cosiddetti foreign fighters sia dai paesi europei che dai paesi del nord Africa – Tunisia soprattutto – e dell’Asia). In effetti lo Stato islamico è stato battuto militarmente più dalla coalizione USA-Milizie curde siriane, che, con la presa di Kobane, oltre che di Raqqa, dettero un colpo mortale all’Isis, che non dalla coalizione russo-siriana anche se al-Assad aveva interesse a riconquistare i territori del nord sottratti al suo controllo proprio dall’Isis, ma anche dai curdi.

In realtà, tutte le potenze coinvolte nella guerra siriana, chi più chi meno, hanno interesse a soffocare l’ambizione curda a costituire un suo Stato indipendente; troppi contrasti tra Turchia e Curdi, troppi contrasti tra Russia e USA in Medio Oriente, troppi contrasti tra Iran e USA, e troppi tra Israele e Iran, dunque anche tra Israele e al-Assad e, quindi, tendenzialmente anche con la Russia. La costituzione di uno Stato curdo indipendente, non solo per queste ragioni, ma anche per i contrasti interni tra le varie fazioni borghesi curde e per un passato fatto di continue sottomissioni ora ad una potenza imperialista ora ad un’altra, non vedrà mai la luce, come non poteva vedere e non ha visto la luce un effettivo Stato indipendente palestinese. Per quanto i combattenti delle varie formazioni armate curde dimostrino una certa continuità e tenacia nel difendersi dalla repressione e dagli attacchi dei vari Stati in cui sono divisi (Turchia, Siria, Iraq, Iran), non riusciranno nel loro intento indipendentista visto che la loro sorte dipende soprattutto dalla protezione o dalla mancanza di protezione di questo o di quell’imperialismo. E’ chiaro da sempre, per noi, che l’unica via d’uscita dalle guerre borghesi e interborghesi in cui vengono coinvolte le popolazioni, come i curdi o i palestinesi, non sta di certo nelle decisioni prese all’ONU (rivelatesi sempre carta straccia) o negli accordi tra pescecani, non importa se situati a Washington, a Mosca, a Londra, a Parigi, a Berlino, ad Ankara, a Teheran, a Riyadh o a Pechino. Finché i proletari dei diversi paesi mediorientali non prenderanno nelle proprie mani le loro sorti, scendendo sul terreno della lotta classista in difesa esclusivamente dei propri interessi di classe contro ogni borghesia, contro ogni forza conservatrice ed ogni forza imperialista, la prospettiva per le stesse popolazioni mediorientali sarà sempre una prospettiva di guerra, di massacro, di miseria, di fame, di deportazione, di fuga dalla propria terra e di asservimento agli interessi di ogni borghesia e di ogni fazione borghese che ora si vende ad una potenza e ora si vende alla potenza opposta. Una lotta classista che dovrà contare sulla stessa lotta antiborghese che i proletari dei paesi imperialisti europei, americano, russo o cinese dovranno scatenare contro le proprie opulente borghesie che si nutrono del loro sfruttamento e del loro sangue anche se hanno concesso loro condizioni di lavoro e di esistenza appena sopra la soglia di povertà. E’ soltanto nella prospettiva proletaria rivoluzionaria di classe, al di sopra delle diverse nazionalità, e perciò interna-zionalista, che le questioni “nazionali” ancora aperte, come nel caso dei curdi e dei palestinesi, potranno essere affrontate e risolte perché primeggerà la lotta contro ogni oppressione borghese e capitalistica.

Mentre Washington continua nella sua politica di relativo ritiro dal Medio Oriente in termini di controllo diretto con proprie truppe a terra, e cerca di difendere i propri interessi strategici attraverso l’attività delle potenze regionali come Israele, Arabia Saudita e Turchia, la Russia tenta di radicare la propria influenza non solo attraverso la Siria di al-Assad, ma anche attraverso i nuovi rapporti politici e diplomatici con Turchia e Iran; anzi, con la Turchia ha fatto un passo in più, concordando con Erdogan, fin dal 2017, un’importante fornitura del sistema missilistico di difesa antiaerea S-400, ritenuto dagli esperti militari tra i più avanzati al mondo, in consegna proprio in questi ultimi mesi del 2019. La cosa ovviamente ha fatto imbestialire Washington che ha promesso una caterva di sanzioni e l’esclusione della Turchia dal programma dei suoi cacciabombardieri F-35. Ma Erdogan è andato dritto per la sua strada e, per il momento, gli USA si sono astenuti dall’andare giù pesanti contro di lui, anche perché non hanno interesse a inimicarsi la Turchia che ancor oggi risulta una pedina indispensabile nello schieramento Nato verso il Medio Oriente e la Russia, e nemmeno ad acutizzare il contrasto con la Russia, riprendendo la guerra contro al-Assad – nemico sia degli USA che della Turchia – in una situazione in cui era già stato deciso (anche da Obama) che non valeva la pena di scontrarsi con la Russia e l’Iran per la Siria. Come sempre, mentre le potenze capitalistiche e imperialistiche fanno e disfano a seconda degli interessi contingenti che premono di più, chi ci va di mezzo è la popolazione civile, e la popolazione curda di nuovo ha subito gli ennesimi  massacri.

Negli ambienti militari e politici americani, la decisione del presidente Trump di ritirare i propri soldati dalla Siria (ma per rafforzare la presenza militare americana in Iraq in difesa dei pozzi petroliferi), col pretesto che ormai la guerra contro l’Isis è stata vinta, ha trovato opposizione perché i militari, e i politici loro portavoce, contano sul fatto di essere impegnati su molti fronti di guerra (ne va delle carriere, degli investimenti in armamenti e in potere politico interno), e perché prevedono che l’Isis, anche se è stato battuto militarmente, e anche se il suo grande capo Al Baghdadi, individuato nella zona di Idlib, è morto (2), può contare ancora su molti miliziani sparsi nella regione di Idlib e in altre regioni della Siria e dell’Iraq, e dare quindi ancora molti problemi non solo in Siria ma, attraverso il rimpatrio dei foreign fighters, anche nei paesi occidentali. Non solo. Gli USA si sono fatti superare dalla Russia sia nella conduzione di una guerra che avrebbe dovuto far fuori al-Assad (come sono stati fatti fuori Saddam Hussein in Iraq e Gheddafi in Libia), mentre  l’intervento russo lo ha salvato e gli ha ridato forza e potere, sia nella gestione delle operazioni militari della Turchia della quale Washington sta subendo in realtà l’iniziativa. Se da un lato lo spostamento dei militari americani dalla zona di confine tra il Rojava e la Turchia ha facilitato l’operazione militare turca per occupare la lunga fascia di confine in terra siriana e per dare una mazzata significativa alle milizie curde che operano in quel territorio, dall’altro però ha rimesso in gioco le forze militari russe che sono andate nella stessa fascia di confine a protezione dell’alleato al-Assad e, obtorto collo, dei curdi siriani. A conti fatti, la Turchia da questa sua operazione non ha ottenuto quel che ambiva ottenere, si può dire perciò che è stato più un azzardo che una mossa che le avrebbe consentito davvero di allargare il territorio controllato in terra siriana, in quanto lo deve condividere con i russi, e perché i curdi sono solo ripiegare più all’interno, ma non sono stati sconfitti.

Resta il fatto che la guerra in Siria, un paese di 18 milioni di abitanti, in questi 8 anni, ha fatto più di 400mila morti, ha costretto più di 5 milioni di profughi a riparare all’estero – per la maggior parte finiti in bocca alla Turchia – ed altri 6 milioni di siriani alla condizione di sfollati interni. E la fine di questa guerra devastante non si vede, a dimostrazione che sotto il regime borghese e capitalistico, non solo per i proletari, ma per la stragrande maggioranza della popolazione dei paesi in cui i contrasti interborghesi e interimperialistici assumono le caratteristiche del conflitto armato, non ci sono alternative: o il proletariato riconquista il terreno della lotta di classe e si riorganizza in modo indipendente da qualsiasi altra classe o mezza classe della società, con l’obiettivo di lottare per il potere politico, dunque per la rivoluzione, oppure il proletariato, e con lui tutti gli strati sociali che vengono colpiti dalla crisi e dalla miseria economica, continueranno a subire la condizione di essere masse da sfruttare in tempi di pace e carne da cannone in tempi di guerra.

(Continua nel prossimo numero)

 


 

(1) La base aerea di Incirlik, nota anche come base aerea di Adana, si trova vicino al Porto di Tasucu, sul Mediterraneo, ed è indiscutibilmente la base americana più importante in territorio turco. In essa sono presenti 50 bombe termonucleari B-61 a caduta libera, bombe “a campo di resa variabile”, ossia programmabili prima della detonazione su una specifica potenza compresa tra gli 0,3 e i 340 kilotoni, del peso ognuna di 320 kg. Vedi www . armietiro . it/ turchia, e https ://it.sputniknews.com/infografica/201712065369538-infografica-basi-usa-nato-in-siria

(2) Notizia dell’ultima ora mentre scriviamo. Vedi ilfattoquotidiano.it del 27/10/2019.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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