Sulla pandemia da Covid-19

Coronavirus, pandemia e cinismo borghese

(Supplemento a «il comunista»; N° 163; April 2020)

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Il blocco delle attività industriali, dei commerci e dei servizi, dovuto al confinamento forzato della gran parte dei lavoratori  che i governi hanno decretato, uno dopo l’altro, a partire dalla Cina – da dove è iniziato il giro del mondo del nuovo virus chiamato Covid-19 – ha, da subito, indotto governanti, economisti ed esperti di ogni settore a temere che questa epidemia, se si fosse diffusa a livello globale, avrebbe potuto causare un abbattimento significativo del Pil delle economie più avanzate.

E’ alla fine di dicembre 2019 che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) è stata informata dal Giappone, dove si è verificato il primo morto, che era apparasa una nuova malattia epidemica di coronavirus emersa nella città di Wuhan, capitale della provincia Hubei, nel centro della Cina, ma l’ufficializzazione dell’epidemia è avvenuta il 16 gennaio 2020 (1); le cancellerie dei paesi capitalisti più sviluppati hanno cominciato sicuramente a preoccuparsi visti i rapporti commerciali molto stretti con la Cina. Il ricordo dell’epidemia Mers del 2012 e prima ancora di quella della Sars del 2002-2003, non poteva non allertare tutte le cancellerie. Nel 2003 la Sars, originatasi in Cina, «ha colpito diverse migliaia di persone, diffondendosi grazie agli spostamenti in aereo in diverse regioni del mondo e causando circa 800 vittime. Ma nel 2012, nelle regioni del Medio Oriente, è comparso un altro coronavirus, battezzato Mers-CoV che al momento circola in 27 nazioni del mondo, sebbene l’80% dei casi sia concentrato in Arabia Saudita e abbia causato circa 2500 casi di infezione con oltre 800 decessi» (2). Nonostante la preoccupazione per la possibile diffusione dell’epidemia del nuovo coronavirus, tutte le cancellerie hanno preferito credere che il nuovo coronavirus non si sarebbe diffuso così rapidamente nel mondo come invece è avvenuto, e non fosse altrettanto contagioso e letale come i precedenti. Avrebbe dovuto essere sufficiente limitare i contatti con la Cina e seguire gli eventuali casi di polmoniti che presentavano sintomi simili a quelli riscontrati in Cina e in Giappone.

Sempre il 16 gennaio, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdpc), un’agenzia dell’UE, sosteneva che le probabilità che il virus arrivasse nell’Unione Europea erano considerate basse. D’altra parte, anche se fosse arrivato a infettare qualche decina di persone e ci fosse scappato anche qualche morto, non si poteva certo fermare un’economia che aveva già dato segni di difficoltà nell’ultimo trimestre del 2019!

A cavallo tra la fine di gennaio e la prima metà di febbraio il nuovo coronavirus 2019-nCoV, come l’ha definito l’Oms, aveva cominciato a preoccupare seriamente, tanto da spingere le autorità cinesi a chiudere la città di Wuhan e il governo russo a chiudere la frontiera con la Cina. I governi dell’Unione Europea rimanevano... in attesa degli eventi. Nell’ultima settimana di febbraio, in Italia, il Covid-19 inizia a farsi sentire; le statistiche – che in questi casi sono sempre inferiori, e di molto, alla realtà, dato che i casi vengono alla luce solo quando la malattia è progredita parecchio e gli infettati, finiti in ospedale, cominciano a riempire le sale di rianimazione – dicono che nell’ultima settima di febbraio i casi positivi sono 821 (limitati ad alcuni comuni del lodigiano, e nel padovano), per salire, nei primi dieci giorni di marzo, a 8.514, a 28.710 entro il 18 marzo, a 75.528 entro il 30 marzo, a 93.187 al 6 aprile, a 106.962 al 17 aprile. I decessi, nello stesso periodo, ammontano ufficialmente a 22.745 (3). La velocità dei contagi è direttamente proporzionale all’insipienza e alla faciloneria dei poteri politici ed economici; la mortalità dei contagiati è a sua volta direttamente proporziale alla mancanza assoluta di una reale prevenzione, come se le epidemie precedenti non avessero lasciato alcuna esperienza e fossero state cancellate dalla memoria, consentendo ai governi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni di continuare a tagliare investimenti e personale nelle strutture ospedaliere pubbliche per favorire le strutture private. E così, quando la situazione generale diventa una vera emergenza, scattano le grandi misure della cosiddetta “guerra contro il coronavirus”, una guerra in realtà persa in partenza perché la sua diffusione – invisibile e silenzionsa, certo – è molto più vasta di quel che le statistiche sono in grado di registrare. Ma la situazione d’emergenza è preferita dal potere politico borghese per due motivi principali, e questo riguarda non solo l’Italia ma ogni paese, in quanto saltano una serie di controlli sui flussi di denaro resi necessari per tamponare le diverse falle che si sono aperte nel tessuto sanitario, sociale ed economico, e vengono favorite misure di controllo sociale simili a quelle che sono state adottate durante la cosiddetta “stagione del terrorismo”, cioè misure di confinamento molto strette, di  coprifuoco 24 ore su 24, di intervento delle polizie e dell’esercito per farle rispettare. E non mancano gli stimoli alla delazione in tutte le situazioni in cui le misure decretate sembrano non essere rispettate.

Naturalmente, con il confinamento stretto della gran parte della popolazione – perché a questo si è arrivati dopo che l’epidemia è stata presa sottogamba fin dal suo apparire – le aziende hanno dovuto diminuire drasticamente la propria attività o chiuderla del tutto. Il problema si è fatto serio, non solo a causa della crisi economica già in essere, ma anche perché il decorso dell’epidemia – diventata pandemia, cioè epidemia mondiale – presentava un quadro molto negativo. Non si trattava di chiudere per qualche giorno o una settimana, come sembrava potesse essere sufficiente all’inizio, ma si trattava di chiudere per settimane, se non per mesi. Ecco allora che le diverse fazioni borghesi che lottano continuamente le une contro le altre, vanno allo scontro nel modo più sgangherato e schizofrenico, in difesa degli interessi economici particolari che rappresentano ma, nello stesso tempo, con l’obiettivo di approfittare della situazione di grave emergenza strumentalizzandola a fini elettorali.

Il governo decide un confinamento a casa piuttosto stretto nelle cosiddette “zone rosse”, epicentro dell’epidemia o di chiudere tutta una serie di attività non essenziali per la sopravvivenza quotidiana? Allora le forze politiche di opposizione sostengono che tutto rimanga aperto e che si rafforzi l’attività degli ospedali, magari costruendone di nuovi – dopo averne smantellato parecchi nei decenni scorsi e aver chiuso parecchi padiglioni di quelli rimasti ancora in attività. Il governo decide delle misure più strette, vista la rapida crescita dei contagi e delle morti da coronavirus? Allora le forze politiche di opposizione sostengono che le misure prese sono insufficienti e che bisogna chiudere tutto. Nello stesso tempo, visto che la sanità, in Italia, è gestita direttamente dalle Regioni, ogni Regione va per conto proprio, aldilà di quel che decide o fa il governo; dal governo vogliono soltanto che metta a disposizione più denaro, più mezzi e più polizia, mentre ogni Regione deciderà per conto proprio sul come e quando affrontare l’epidemia e le sue conseguenze (come se in ospedale, ogni reparto andasse per contro proprio, e dovesse contrattare con gli altri reparti se, come e quando  fare una cosa o non farla).  E così l’Italia affronta l’epidemia di coronavirus senza prevenzione, senza strutture ospedaliere sufficienti e sufficientemente attrezzate, senza personale medico e ospedaliero sufficiente, senza dispositivi di protezione individuale né per il personale ospedaliero né, tanto meno, per la popolazione, e senza attrezzature sufficienti per le terapie intensive, per le analisi ecc.

Ovvio che l’Italia dovesse diventare il paese epicentro dell’epidemia in Europa. Ma la palma del paese più esposto all’epidemia e alle sue conseguenze mortali non è rimasta per molto tempo al Bel Paese; la Spagna, prima, e poi gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, dove l’epidemia si è sviluppata più tardi e che hanno preso sottogamba la vicenda più di quanto non abbia fatto l’Italia, si sono portati in testa al gruppo. Mentre la Cina subiva un tracollo economico di notevole portata, diffondendo nel mondo non solo il nuovo virus ma anche la crisi economica, soprattutto nel settore automobilistico, per il quale la Cina produce più del 50% della componentistica necessaria, e nel settore medicale e farmaceutico, gli altri paesi concorrenti, a partire dagli Stati Uniti, tentavano di approfittare delle sue difficoltà per sopravanzare economicamente e finanziariamente il colosso cinese.

 

STATI UNITI D’AMERICA: IL PAESE PIÙ AVANZATO DEL MONDO, SE NE FREGA CINICAMENTE DELLA VITA UMANA

 

Il virus non guarda in faccia nessuno e la strafottenza di un Trump o di un Boris Johnson, che nei primi tre mesi dell’anno ha riempito i media di tutto il mondo con le loro dichiarazioni imbecilli – chi sminuendo la nuova epidemia a livello di una semplice influenza stagionale che i morti li fa ogni anno, chi ineggiando all’immunità di gregge, quindi al fatto che fosse un bene che una gran parte della popolazione (come pecore) si infettasse così da produrre... una immunità generalizzata – salvo poi correre in qualche modo ai ripari con misure più o meno improvvisate e certamente incoerenti, dovendo fare i conti con una sanità organizzata esclusivamente sulle assicurazioni, come negli USA, o con una prosopopea tipicamente isolana dell’ex padrone del mondo britannico che continua a non avere alcuna seria strategia.

In America gli afroamericani risultano, come sempre, i più esposti alle catastrofi come questa. Oprah Winfrey, nota conduttrice e produttrice televisiva americana, colpita da una forte polmonite mesi fa, denuncia cose risapute ma di cui i media parlano di rado: «Il coronavirus sta letteralmente devastando la comunità nera negli Stati Uniti». E il perché non è difficile da capire, visto che per la gran parte i neri d’America sono occupati in lavori saltuari, soprattutto fuori casa, in lavori faticosi e in luoghi malsani, malpagati che non permettono un’alimentazione decente, e perciò più facili ad ammalarsi di ipertensione ed avere problemi di diabete e cardiovascolari, più esposti quindi ad infettarsi di polmonite e più deboli nel resistere all’attacco del coronavirus (4). Nel frattempo Trump si diletta a inventarsi un piano per rimettere in moto l’economia americana, un piano (Opening Up America Again, riaprire l’America) che si è dilettato a progettare in tre fasi. Partendo dalla considerazione oggettiva che sono 22 milioni i nuovi disoccupati in quattro settimane, dovuti alla chiusura delle fabbriche, ed è aumentato l’abuso di droghe e di alcol, con conseguenti disturbi cardiaci e mentali, tentava di imporre per decreto, quindi con pieni poteri, le date di riapertura dell’attività economica, ma su suggerimento dei suoi “consigliori” sanitari ed economici, si è limitato ad invitare i governatori dei diversi Stati ad aprire le attività a tappe. Già il governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo, e non solo lui, si era opposto alla rapida riapertura nella città in cui più alta è la percentuale di infettati e di decessi da coronavirus. Il “piano” di Trump è costituito da tre fasi, da 14 giorni l’una (che corrispondono alla “quarantena” moderna), in cui gradualmente, a seconda del calo statistico dei contagi e dei decessi, ogni Stato riaprirà, nella fase 1, le diverse attività, a fronte di “robusti sistemi di testing per il personale sanitario a rischio, inclusi test per gli anticorpi”, mantenendo “il divieto di viaggi non essenziali e di socializzare in più di dieci persone”, tenendo chiusi i bar e le scuole, ma aprendo cinema, arene sportive, ristoranti, palestre, chiese e luoghi di culto e, naturalmente, proseguendo con il telelavoro. Nella fase 2, se non vi sono segni di recrudescenza del virus, riaprirà le scuole, i bar mentre i limiti di socializzazione passano da 10 a 50 persone, consentendo maggiori viaggi e spostamenti anche non essenziali. Nella fase 3, sempre in presenza di costanti ed ufficiali cali di infezioni e sintomi, in tutta l’America si tornerà alla “normalità”: luoghi di lavoro con dipendenti al completo, ripresa delle visite in ospedali e case di riposo, libera frequentazione dei bar, mentre per la “popolazione vulnerabile”, cioè afroamericani, senzatetto, disoccupati, precari, alcolizzati, drogati ecc. “rimarrebbero in vigore raccomandazioni di evitare luoghi affollati”...

Bel piano davvero! Nel frattempo, negli Stati come New York, New Jersey e Michigan, il corso della malattia rimane tragico. Finora, i dati ufficiali parlano di oltre 36.721 decessi a causa del coronavirus, contro 692.162 malati, ma se si considera che finora negli Stati Uniti solo l’1% della popolazione è stato sottoposto a esami per diagnosticare il virus, si può immaginare quale sia la reale situazione dei contagiati e dei morti e, soprattutto, quale valore possano avere le misure tracciate nelle “tre fasi” propagandate da Trump basate, appunto, sui dati statistici ufficiali (5). Va detto che lo stesso Trump aveva ipotizzato tempo fa che gli americani morti di Covid-19 avrebbero potuto essere pari a quelli morti nella seconda guerra mondiale – 200 mila –, poi più recentemente ipotizzati in 100.000. Se oggi siamo a 32 mila, ne mancherebbero come minimo 68 mila: come dire, perché la ripresa economica sia assicurata val bene che muoiano almeno 100 mila persone, e se poi saranno di più, ci penserà la statistica ufficiale a... far quadrare i conti! Intanto la Borsa di New York non aspettava altro che l’ottimismo di Trump e le mosse del suo governo per iniziare a recuperare sull’ultimo periodo negativo: la speculazione di borsa e il capitale finanziario non hanno tempo da perdere, e che i morti seppelliscano i propri morti...

 

CINA: SI RIAPRONO TUTTE LE FABBRICHE, CON IL TIMORE DELLA SECONDA ONDATA DELL’EPIDEMIA

 

Una settimana fa a Wuhan non si sono più riscontrati decessi e casi di contagio da coronavirus. Gli 11 milioni di abitanti si sono riversati nelle strade come se avessero aperto le carceri. La Cina, salvo la regione al confine della Russia che è ancora colpita dall’epidemia, è tornata “a lavorare”: il Pil è troppo importante, bisogna recuperare su almeno 15 settimane di fermo.

Appena la situazione generale nel paese si è presentata non più emergenziale, molti cinesi sparsi nel mondo hanno cominciato a rientrare, raggiungendo le proprie famiglie, per riprendere il loro lavoro. Ma questo “tornare a casa” si è portato appresso il possibile “contagio di ritorno”, ed è questa, ora, la possibile nuova emergenza. Resta il fatto che lo stretto controllo sociale che un governo così centralizzato come quello cinese – che falsamente si autodichiara “comunista” – ha applicato con molta efficacia e rapidità, costituisce un’esperienza concreta e non vi sono dubbi che, se si ripresentasse nuovamente un’emergenza come quella di gennaio, un controllo ancor più duro scatterebbe immediatamente. D’altra parte, tra le armi che la borghesia cinese ha a disposizione, la pressione politica, sociale ed economica e la repressione sono le più usate. Ed è grazie al loro sistematico uso che la Cina, nei settant’anni dalla sua indipendenza, è riuscita a scalare la classifica dei paesi industrializzati fino a raggiungere la vetta in cui gareggiare con i più vecchi paesi imperialisti, USA, Gran Bretagna, Germania, Francia e naturalmente Russia che, per qualche decennio ha contribuito allo sviluppo capitalistico cinese con la mira – in verità mal riposta – di farne, se non il suo satellite orientale come aveva fatto con i paesi dell’Est Europa, almeno la sua zona di influenza diretta a difesa dei concorrenti giapponesi e americani. Ma la Cina non è la Polonia; poggiava e poggia su una storia millenaria caratterizzata da un’abitudine al potere centralizzato su un territorio molto vasto e particolarmente popoloso. In Russia il capitalismo, già presente sotto gli zar, si è sviluppato in modo accelerato grazie alla rivoluzione antizarista che lo ha liberato dai troppi vincoli economici, sociali e politici del feudalismo, e sulla quale il proletariato, condotto dal partito bolscevico di Lenin, ha tentato lo scavalcamento contando che la rivoluzione proletaria non si limitasse entri i confini russi ma si espandesse in tutto il mondo, a cominciare dall’Europa occidentale. In quegli anni vinsero la borghesia internazionale e il suo alleato più efficace, l’opportunismo stalinista, e così il capitalismo ebbe mano libera per svilupparsi, nutrendosi di forza lavoro proletaria sottoposta ad un massacrante sfruttamento come richiesto da un potere borghese che ambiva a riprendere e a sviluppare il suo ruolo di potenza mondiale, che con la seconda guerra imperialista mondiale è effettivamente diventata. In Cina, lo sviluppo capitalistico ha seguito grossomodo lo stesso corso, in un primo tempo sotto l’ombrello russo, poi, e in modo sempre più accelerato e al riparo dal coinvolgimento diretto nelle centinaia di guerre con le quali le potenze imperialiste si stavano dividendo il mondo, relazionandosi e commerciando con i vecchi paesi colonialisti. Oggi, sebbene il capitalismo cinese, sviluppatosi soprattutto sulle coste, non abbia sviluppato allo stesso modo tutto il suo vasto territorio, mantenendo ampie sacche di arretratezza contadina al suo interno, ha comunque raggiunto un forza economica e finanziaria di prim’ordine, tanto da potersi confrontare con gli USA, e quindi anche con tutte le altre potenze, da pari a pari.

Se è vero, come è vero, che le malattie più contagiose si diffondono più facilmente tra gli esseri umani grazie a condizioni igieniche precarie o inesistenti e all’ammasso in spazi ristretti di moltissimi abitanti, la Cina capitalista è destinata ad essere epicentro di molte epidemie. Lo era ieri, lo è oggi e lo sarà fino a quando la rivoluzione proletaria, vittoriosa almeno in alcuni paesi imperialisti occidentali e nella Cina stessa, comincerà ad abbattere l’organizzazione sociale borghese – volta esclusivamente allo sfruttamento irrazionale di qualsiasi risorsa naturale, animale e umana, per il benessere del capitale, e che è facilitata dall’ammasso di esseri umani in metropoli-formicai e da abitudini igieniche inesistenti – e a sostituirla con un’organizzazione sociale basata su un’economia volta a soddisfare le esigenze della vita umana distribuendo l’umanità sul pianeta armonizzandone l’attività con l’ambiente naturale e le sue leggi, separando la vita umana dalla vita di tutti gli altri animali in modo che il benessere e l’igiene sociali siano la norma per tutti e non solo per un gruppo ristretto di persone. Ma quel tempo non è purtroppo così vicino, anche se, da comunisti rivoluzionari, siamo certi che la crisi più profonda del sistema capitalistico porterà la classe proletaria, spinta dalle sempre più acute contraddizioni di questa società disumana e assassina, a sollevarsi inesorabile spezzando le mille catene con cui le classi dominanti borghesi la mantengono schiava.

Ma una differenza fra quel che è successo in Cina e quel che è successo negli altri paesi capitalisti avanzati c’è, e non è cosa da poco. Al di là dei dati ufficiali che il governo cinese ha diramato dalla comparsa del nuovo coronavirus – e che il mondo occidentale, “democratico” e cosiddetto “libero”, ritiene sostanzialmente inaffidabili – se confrontati con i dati ufficiali di tutti gli altri paesi – altrettanto inaffidabili vista la differenza dei metodi di rilevamento tra un paese e l’altro, e l’interesse a coprire una parte della realtà per diffondere sì la paura del contagio, ma per non sollecitare troppe tensioni sociali – dall’inizio dei rilevamenti dei contagi e dei decessi da coronavirus al 20/4/2020, nel mondo, sono 2.406.745 i contagiati in totale, di cui 165.257 deceduti. Ma i paesi che, ad oggi, hanno avuto finora ufficialmente più di 10.000 contagiati con relativi decessi, sono:

 

USA: contagi 759.766, deceduti 36.368 (quasi la metà, 15.732, nello Stato di New York)

Spagna: contagi 198.674, deceduti 20.453

Italia: contagi 178.972, deceduti 23.660

(più della metà, 12.376, in Lombardia)

Francia: contagi 154.098, deceduti 19.718

Germania: contagi 145.742, deceduti 4.642

Regno Unito: contagi 121.173, deceduti 16.060

Turchia: contagi   86.306, deceduti  2.017

Cina: contagi   82.692, deceduti 4.632 (dicui 3.869 a Wuhan, epicentro della pandemia)

Iran: contagi  82.211, deceduti  5.118

Russia:  contagi  42.853, deceduti 361

Brasile: contagi  38.654, deceduti 2.466

Belgio: contagi  38.496, deceduti  5.685

Canada: contagi  32.039, deceduti 1.604

Olanda: contagi  32.833, deceduti 3.684

Svizzera: contagi 27.740, deceduti 1.393

Svezia: contagi  14.385, deceduti 1.540

Giappone: contagi 10.797, deceduti 236

Corea del Sud: contagi 10.674, deceduti 236

 

Per quanto possano esprimere i dati, va notato che i paesi che hanno preso sottogamba, fin dall’inizio, gli effetti disastrosi della pandemia, registrano nell’ultimo mese una crescita notevole di contagi e di decessi. Gli Stati Uniti hanno superato di molto l’Italia che è stato il primo paese occidentale, dal 6 febbraio, in cui si sono evidenziati l’alto grado di contagio del Covid-19 e la sua letalità; e poi Spagna, Francia, Regno Unito e Belgio, dove si rileva una percentuale altissima di decessi rispetto ai contagi, il 14,77%; seguono Olanda (con l’11,32% di decessi rispetto ai contagi) e Svezia (il 10,7% di decessi rispetto ai contagi) che, fino a due settimane fa, veniva studiata come “modello svedese” (tutto aperto) di affrontare l’epidemia... I paesi, come Giappone, Corea del Sud, Russia che, per posizione geografica e per relazioni commerciali con la Cina, avrebbero potuto essere investiti più pesantemente dall’epidemia, riscontrano invece un numero molto basso di decessi rispetto ai contagi, probabilmente non tanto perché hanno chiuso rapidamente le frontiere con il vicino cinese, ma perché hanno applicato più tempestivamente e diffusamente i controlli sanitari non solo su coloro che avevano avuto contatti diretti con la zona di Wuhan e la sua provincia, ma anche rispetto a coloro che risultavano ammalati e ai loro contatti quotidiani.

 

LA SOLIDARIETÀ PELOSA  DEI CAPITALISTI DI FRONTE

 

Un esempio di concorrenza spietata che caratterizza ogni paese capitalista lo dà la cosiddetta solidarietà che i diversi Stati hanno espresso ed esprimono di fronte alla più forte crisi in cui alcuni paesi sono precipitati per primi a causa della pandemia da coronavirus.

I vari istituti di ricerca che si sono gettati, ventre a terra, a raccogliere più dati possibile dalla comparsa del Covid-19 nel dicembre dello scorso anno, avevano bisogno di una quantità significativa di malati su cui fare diagnosi, analisi, esperimenti. Dalle esperienze delle epidemie precedenti era evidente che il loro obiettivo finale era quello di trovare il vaccino, o i vaccini qualora i ceppi dell’epidemia fossero più d’uno. Cinesi, inglesi, americani, olandesi, francesi, tedeschi, italiani, annusato il possibile affare, si sono lanciati in una gara che la cosiddetta “comunità scientifica” – che si presenta sempre al di sopra degli interessi nazionali e degli interessi di classe – chiama scambio nelle ricerche dei risultati che progressivamente l’uno o l’altro istituto raggiunge. E’ risaputo che le ricerche per giungere ad identificare un vaccino efficace sono molto costose e che le grandi compagnie farmaceutiche sono sempre attente a cogliere qualsiasi occasione che possa spalancare le porte ai loro affari.

Di tale “solidarietà” tra scienziati e Stati, costretti ad affrontare una pandemia ancora sconosciuta, davano notizia tempo fa i media riportando la mossa di Trump verso la società farmaceutica tedesca, la Cure Vac, di Tubinga. Il 2 marzo scorso, alla Casa Bianca si è tenuto un incontro tra Trump e il suo staff e le maggiori case farmaceutiche del mondo. E’ in quell’occasione, secondo il Die Welt, che Trump ha proposto alla Cure Vac di trasferire in territorio statunitense le ricerche e la produzione del vaccino al quale stava già lavorando da due mesi; il trasferimento in territorio americano consente, infatti, secondo le leggi USA, di essere proprietari del brevetto. Ciò significava, in soldoni, che gli Stati Uniti, che, per questa operazione, avrebbero pagato alla casa tedesca 1 milione di dollari, e avrebbero avuto l’esclusiva di un vaccino prodotto da una casa farmaceutica tedesca. Ovvia l’alzata di scudi tedesca ed europea contro questo tentativo di colpo di mano. Dichiarando che “il capitalismo ha dei limiti”, Karl Lauterbach, della Spd, ha difeso il fatto che “gli impiegati della sanità tedesca, così come quelli del resto del mondo, hanno bisogno di avere accesso libero a quanto si sviluppa in Germania e che nessun Paese dovrebbe essere in grado di avere un vaccino in esclusiva”, a cui si è accompagna la dichiarazione del ministro degli esteri tedesco, Heiko Maas: “I ricercatori tedeschi sono leader nello sviluppo di medicine e vaccini, nell’ambito di collaborazioni globali. Non possiamo permettere ad altri di acquisire in esclusiva i vaccini” (7). Non è da oggi che l’amministrazione Trump coglie ogni occasione per dare addosso alla Germania, prima col fatto che l’export tedesco verso gli USA era cresciuto molto di più dell’import americano da parte tedesca, poi con la vicenda della truffa dei dispositivi di regolazione dei motori diesel delle auto tedesche vendute negli Stati Uniti, ora con la crisi da coronavirus che rischia di mandare in recessione gli Stati Uniti che, proprio sotto la presidenza Trump, avevano recuperato, dopo il crollo del 2008-2009, percentuali molto positive rispetto a tutti gli altri paesi nella crescita economica. Nel caso dei medicinali e dei vaccini, è noto che le big Pharma mondiali fanno miliardi di profitti che non hanno alcuna intenzione di condividere semplicemente per amore della scienza medica e della solidarietà in situazione di crisi sanitaria mondiale dalla quale, come vanno propagandando da settimane tutti i governi, si esce solo insieme, non gli uni contro gli altri...

Ma questo inno alla solidarietà planetaria tra briganti imperialisti, quanto credito può avere? Si è visto negli ultimi decenni quanta solidarietà c’è stata tra i paesi più civilizzati del mondo nei confronti dei flussi migratori di masse disperate che continuano a fuggire dalla miseria, dalla fame, dalle guerre: sono stati alzati muri, reticoli di filo spinato; sono stati posizionati soldati e guardie autorizzati a sparare; i naufraghi sono stati abbandonati in mezzo al mare o riconsegnati agli aguzzini libici... o, se le risorse finanziarie dei paesi lo permettono, sono stati versati miliardi di euro al kapò di turno, come nel caso del turco Erdogan, perché trattenga nei suoi campi di internamento le masse di migranti siriani e mediorientali che tentano la via balcanica per giungere in Europa.

Tutta la vicenda legata ai finanziamenti necessari per affrontare il blocco della produzione e la crisi sanitaria dei paesi europei –  e che fa scontrare sistematicamente i governi dell’Unione Europea sui miliardi di prestiti in particolare ai governi dei paesi più colpiti dall’epidemia, come l’Italia, la Spagna, la stessa Francia –  riconferma per l’ennesima volta la necessità da parte di ogni capitalismo nazionale di difendere con ogni mezzo i propri interessi: con accordi per alzare il debito pubblico dei paesi affamati di soldi, concedendo una rateazione prolungata nel tempo, o con l’applicazione delle misure usurarie e strangolatrici prestabilite come nei casi dei famosi “aiuti” del FMI o del cosiddetto “Fondo salva Stati” (Mes). Lo scontro tra l’Italia, già esposta con un debito pubblico del 135% del Pil e sofferente per una crisi economica che sta durando da diversi anni, con i paesi del nord Europa, Germania, Olanda, Finlandia in particolare, che non consentono l’erogazione dei miliardi europei “senza condizioni”, necessari per sostenere l’economia italiana in questo periodo e per farla riprendere una volta allentata la morsa dell’epidemia, è il classico scontro in un’Europa, in realtà da sempre disunita, tra gli Stati capitalisti che hanno la forza per approfittare delle disgrazie altrui, e gli Stati capitalisti che tentano di far valere l’interesse “comune” a beneficio di una supposta difesa dell’Unione europea come mercato di prima grandezza nello scacchiere mondiale, e di un’Unione che rimane in piedi a condizione che gli uni sostengano gli altri nelle situazioni di necessità. Il matrimonio economico, e politico, tra gli Stati capitalisti non differisce dal matrimonio borghese tradizionale: si sta insieme fino a quando conviene ad entrambi i contraenti del contratto matrimoniale, ma quando questa convenienza reciproca decade la via da seguire è la separazione e il divorzio, con tutte le battaglie giuridiche del caso. Brexit docet.

D’altronde, le stesse grandi compagnie chimico-farmaceutiche del mondo dimostrano che la solidarietà scientifica tra i vari laboratori di ricerca, mentre da un lato sollecita lo scambio di informazioni, dati e risultati, dall’altro lato scompare nel momento in cui vengono trovati, o inventati, nuovi farmaci: la famosa proprietà intellettuale, la proprietà della ricerca e dei suoi risultati si valorizzano attraverso la loro trasformazione in prodotti vendibili, in denaro sonante, in profitti da conteggiare nei bilanci societari. L’interesse “comune” della ricerca si trasforma così in interesse privato dell’azienda che se ne è appropriata.

Come succede nei casi di ogni epidemia, l’attenzione delle grandi compagnie farmaceutiche del mondo si rivolge alla ricerca e allo sviluppo di nuovi vaccini, sempre che la loro vendita comporti un riscontro di profitto all’altezza delle aspettative.

Prima dell’esplosione dell’epidemia di Covid-19, nel 2018, il mercato globale dei vaccini aveva un valore di 37,4 miliardi di euro e, secondo le stime di Fortune Business Insights, potrebbe raggiunere gli 83,6 miliardi entro il 2026 (8). Sono cinque i giganti della farmaceutica che si dividono l’80% del mercato globale dei vaccini: GlaxoSmithKline (Regno Unito, 34,2 mld di euro di fatturato 2018), Merck (Usa, 36,83 mld di $US di fatturato 2018), Sanofi (Francia, 34,46 mld di euro di fatturato 2018), Pfizer (Usa, 46,72 mld di $US di fatturato 2018) e Gilead Sciences (Usa, 19,3 mld di ricavi nel 2018). Inutile dire che le azioni di queste società, vista la possibilità di sviluppare vaccini anti Covid-19, in questo periodo sono balzate al rialzo. Ma, si chiede la rivista «Valori» che stiamo citando, è davvero conveniente produrre vaccini in grado di debellare completamente una malattia, come avvenuto dei decenni scorsi con il vaiolo? No, non è più conveniente.

E questo, nel 2018, lo conferma anche un rapporto del colosso finanziario Goldman Sachs che si chiedeva: «La cura dei pazienti è un modello di business sostenibile?», e l’esempio portato era quello del trattamento di Gilead Sciences per l’Epatite C che ha prodotto tassi di guarigione superiori al 90%. Le vendite di questo trattamento negli Stati Uniti nel 2015 hanno raggiunto i 12,6 mld di dollari, ma sono scese a soli 4 mld di dollari dopo tre anni perché non c’erano più sufficienti pazienti bisognosi di cura. Per il cancro, concludeva il rapporto, finora non si pone questo problema; naturalmente, la conclusione ovvia è che è interesse di tutte le compagnie farmaceutiche non trovare una vera cura per le diverse tipologie di cancro... (9).

Ma basta confrontare l’uso dei farmaci e dei vaccini per capire che l’interesse delle case farmaceutiche è quello di produrre farmaci in quantità perché questi si usano, spesso, per lunghi periodi se non per tutta la vita, mentre i vaccini si usano per periodi molto brevi se non una volta sola. E come succede sempre nella società dei consumi, l’abuso di farmaci, per l’uomo e per gli animali, è la regola, mentre non è la regola che i farmaci servano effettivamente a curare le malattie, spesso invece le aggravano o causano danni collaterali. Per i capitalisti l’importante è vendere anche se la cura non è garantita.

La redditività dei farmaci è spesso doppia o tripla rispetto a quella dei vaccini, perciò la convenienza multimiliardaria di investire sui farmaci piuttosto che sui vaccini è evidente. Resta comunque il problema di salvaguardare dalle conseguenze anche mortali delle epidemie la gran parte della popolazione, e della forza lavoro in particolare, visto che la macchina produttiva di tutti i paesi, e soprattutto dei paesi capitalisti avanzati, non gira senza il lavoro dei salariati. Perciò ai vaccini le case farmaceutiche e i governi devono necessariamente riferirsi, aldilà del fatto che siano davvero efficaci nella cura per la quale sono stati prodotti. Ma è stato, è e sarà sempre il calcolo della redditività del prodotto quello che deciderà se investire e quanto sul tale o tal altro vaccino e, cosa non secondaria, il suo prezzo di vendita. E’ risaputo che per trovare un farmaco o un vaccino, che abbia un reale effetto rispetto al motivo per il quale è stato prodotto, ci vuole parecchio tempo (7-10 anni) perché il percorso che deve fare la molecola chimica per diventare un medicinale è lungo e deve passare una lunga serie di sperimentazioni, prima in laboratorio, poi su animali e poi sull’uomo (10). Di fronte alla paura che si è diffusa rispetto al Covid-19, quel “nemico invisibile” e aggressivo che tanta parte ha avuto ed ha nella propaganda borghese, fior di scienziati, virologi, epidemiologi, inffettivologi e compagnia cantante si sono lanciati a promettere che il vaccino anti Covid-19 si sarebbe trovato in due anni, secondo altri in 18 mesi, in 12 mesi o addirittura a settembre di quest’anno... E’ evidente la sollecitazione economica che sta alla base di queste promesse fantastiche. “Riaprire tutto” significa rimettere in moto l’economia capitalistica che non può limitarsi alla produzione e alla distribuzione dei prodotti essenziali per la vita umana, ma deve riprendere il ritmo serrato di produzione e di vendite non solo negli alimentari, nella farmaceutica, nei dispositivi di protezione medicale, nell’informatica o nella telefonia, ma anche nell’auto, nella moda, negli articoli di lusso, nei tabacchi, negli alcolici e via dicendo. Virologi più seri non si pronunciano sulla tempistica di questo vaccino, ma ammoniscono di non prendere sottogamba, come è stato fatto finora, gli effetti letali del contagio di questo coronavirus; non solo, annunciano che ci sarà senza dubbio una seconda ondata e che riaprire troppo presto le attività e la circolazione umana come se, passato il cosiddetto picco epidemico, si potesse tornare alla “normalità”, sarebbe facilitare la rinnovata diffusione dell’epidemia, oltretutto con un virus che muta rapidamente come i tre ceppi distinti – cinese, europeo e americano – stanno dimostrando.

Infine, parlare di solidarietà tra capitalisti, quando tutto gira intorno al capitale e alla sua valorizzazione, è come parlare della bontà di dio di fronte alle devastazioni e ai massacri di guerra; non sta né in cielo né in terra. Altra cosa sono la vicinanza e gli atti di solidarietà umana che sorgono spontaneamente da persone che sentono il bisogno di soccorrere chi sta male, di spendere le proprie energie e i propri soldi per aiutare chi non ce la fa, chi rischia di ammalarsi e di morire per cause non dipendenti dalla sua volontà. Ma anche  questa connaturata dedizione dell’uomo alla salvaguardia della propria specie è motivo di interesse economico per la classe borghese. Più il capitalismo si è sviluppato nel mondo, e più si sono create masse sempre più povere e debilitate, aumentando le diseguaglianze sociali non solo tra paesi ricchi e poveri ma anche all’interno dei paesi ricchi tra i diversi strati sociali; più si sono diffuse le associazioni di volontariato che si prendono in carico la serie di servizi sociali che spetterebbero agli Stati, servizi per i quali ogni Stato preleva percentuali elevatissime di tasse il cui ammontare, di norma, viene dirottato soprattutto sull’economia privata, a beneficio quindi del capitalismo in generale e del capitalismo privato in particolare.

Il tipo di solidarietà benefica del volontariato, oltre a lavorare in buona parte gratuitamente per i servizi sociali, e quindi di competenza dello Stato e delle sue istituzioni locali, se da un lato dà lustro alla “comunità nazionale”, dall’altro lato non attenua di un grammo la guerra di concorrenza tra le aziende e tra gli Stati – semmai corre ad attenuarne gli spigoli – e funziona come collante sociale soprattutto nelle situazioni di crisi in cui la società borghese precipita ciclicamente.

 

SOLIDARIETÀ DI CLASSE, OBIETTIVO DELLA LOTTA PROLETARIA ANTIBORGHESE

 

Ben altra cosa è la solidarietà che, invece, può dare una soluzione non episodica ma storica alle conseguenze dannose, pericolose e mortali della società capitalistica, cioè la solidarietà di classe del proletariato. E’ la solidarietà che combatte e supera la concorrenza insinuata e diffusa tra i proletari, tra lavoratori salariati dal cui sfruttamento sistematico e plurisecolare il capitalismo estorce plusvalore, facendolo crescere in quantità e in potenza, aumentando in questo modo il tormento del lavoro e della vita quotidiana della stragrande maggioranza della popolazione mondiale.

Ma questa solidarietà proletaria di classe non è un atto di beneficienza, non è un atto genericamente pacifico: è un aspetto fondamentale della lotta di classe, della lotta degli oppressi contro gli oppressori, la lotta che oppone alla classe borghese dominante la classe portatrice di un fine storico che vede una società non più basata sul profitto capitalistico, sul denaro, sul mercato, sulla sopraffazione dei più deboli, sulla divisione tra classi, una società che noi chiamiamo comunismo.

I capitalisti, per interesse economico e per interesse di classe, non sono solidali, sono al massimo alleati, ma soprattutto sono concorrenti, l’uno contro l’altro, perciò fondamentalmente nemici. Si alleano per fare concorrenza agli altri, all’interno del proprio paese o all’estero, comprano e fondono aziende per diventare più potenti sul mercato, distruggono la concorrenza dei più piccoli per ingigantire i propri profitti. E si alleano, anche al di sopra dei loro reciproci contrasti di interesse, per far la guerra ad un altro nemico, molto meno invisibile di qualsiasi virus: il proletariato organizzato, consapevole di avere un suo compito storico da svolgere, guidato dal suo partito di classe rivoluzionario.

Oggi, la pandemia da coronavirus, ha sollecitato le borghesie di tutto il mondo ad organizzare una “guerra” contro di essa. Ma questa guerra, in realtà, non è una guerra contro il Covid-19, ma contro il proletariato. Dall’epidemia, la borghesia dominante, nonostante il crollo temporaneo della produzione e delle vendite, ricava all’immediato profitti certamente diminuiti, e in certi settori molto più bassi del solito – come ad esempio per le auto o il petrolio –, ma ne approfitta per imporre un controllo sociale da guerra guerreggiata. E qual è la classe che la borghesia intende controllare più di tutte? La classe proletaria, la classe dei lavoratori salariati che non vede l’ora di riportare nelle fabbriche per sfruttarne la forza lavoro come è suo compito.

La pandemia da coronavirus, con le misure di drastico confinamento attuate, poteva scatenare proteste violente e ribellioni sociali. In parte è successo che in molte fabbriche gli operai sono scesi in sciopero, non tanto per lottare contro i capitalisti in quanto capitalisti, ma per chiedere che le stesse misure di protezione individuale diramate per tutta la popolazione in generale valessero anche per i lavoratori che entravano in fabbrica. Negli ospedali, il personale infermieristico e ospedaliero in genere ha dovuto subire in condizioni estreme e a mani nude il peso eccezionale dei ricoverati da coronavirus che andavano a sommarsi alla massa di ricoverati già presente: chiedevano semplicemente di essere messi in condizioni di protezione reale perché non si trasformassero essi stessi in diffusori del contagio; inoltre, ammalandosi, il loro già gravoso carico di lavoro andava a pesare sugli altri compagni di lavoro non ammalatisi, o, perlomeno, con sintomi dell’infezione non evidenti.

Qual è stata la solidarietà della borghesia, verso la popolazione in genere e il personale ospedaliero in particolare, in tutto questo periodo? Le cronache raccontano che i borghesi hanno sfasciato la sanità pubblica, hanno abbandonato per lungo tempo la popolazione e il personale ospedaliero al contagio epidemico, hanno approfittato tutte le volte che potevano della situazione di emergenza per fare i loro affari alle spalle delle priorità determinate oggettivamente dalla crisi sanitaria, hanno costruito ospedali ex novo invece di potenziare i padiglioni negli ospedali esistenti e dopo averne chiusi e abbandonati agli atti vandalici parecchi negli ultimi decenni, hanno continuato ad essere capaci di pensare ai propri privilegi, ai propri interessi economici e ai propri interessi elettorali e ad essere incapaci di affrontare questa emergenza sanitaria e sociale tirando le lezioni dalle emergenze sociali precedenti, confermando in questo modo che l’emergenza, la crisi, la sciagura sono elementi negativi per l’uomo, ma positivi per il capitale.

Da questa ennesima crisi sociale i proletari devono e dovranno tirare una lezione che la loro tradizione classista ha già tirato nel corso della storia del movimento operaio. La lotta tra le classi non si è mai fermata, la borghesia lotta ogni giorno, ogni ora, ogni minuto contro la classe proletaria, perché questa lotta le permette di mantenere il potere e di dominare sull’intera società. La borghesia ha sempre interesse ad impedire con ogni mezzo, democratico o autoritario, pacifico o violento, legale o illegale, costituzionale o anticostituzionale, economico, sociale, politico e militare, che il proletariato si elevi a classe antagonista, che riconquisti il suo terreno di lotta antiborghese e anticapitalista, che si riconosca come una forza sociale indipendente ed opposta totalmente alla classe borghese. Il proletariato, da parte sua, ha interesse a svincolarsi dai lacci e lacciuoli che la borghesia democratica ha confezionato in tanti anni di potere per tenerlo imbrigliato nella grande rete sociale in cui le differenze di classe vengono nascoste e mascherate con ogni tipo di trucco, e a riconquistare il suo terreno di lotta e la sua indipendenza di classe non solo per lottare qui e oggi, contro l’oppressione economica, sociale e politica della borghesia, ma anche per lottare per il suo futuro per cui, invece di essere trasformato, senza reagire con forza, in carne da macello in pace come in guerra, deve elevarsi a classe rivoluzionaria capace di rappresentare il futuro non solo di se stessa ma anche dell’intero genere umano.

La lotta proletaria di classe non potrà non scontrarsi con un altro protagonista del suo sfruttamento e della sua cieca fiducia nelle forme economiche e politiche capitalistiche che reggono la società. Questo protagonista è l’opportunismo, o meglio, il collaborazionismo che sulle basi delle tradizioni opportuniste dei traditori della causa proletaria, dai riformisti degli anni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento – alla Bernstein o alla Turati –, ai rinnegati dei primi del Novecento che sostennero le borghesie nazionali nella prima guerra mondiale – alla Kautsky –, agli stalinisti controrivoluzionari che uccisero la Rivoluzione d’Ottobre e l’Internazionale Comunista, portando i proletari di tutto il mondo a partecipare alla seconda guerra mondiale, e alla sua più disparata progenie, che rafforzarono il collaborazionismo tra il movimento operaio e la borghesia dominante in ogni paese. I proletari avranno un compito ancor più duro di quello che ebbero i loro fratelli di classe nell’Ottocento e nel Novecento, perché nel frattempo il capitalismo è diventato più forte, più esperto, e la conservazione sociale si è insinuata nel cuore e nelle menti dei proletari tanto da paralizzarne ogni movimento.

Come per la borghesia, così anche per il proletariato, le crisi inevitabili del capitalismo – economiche, politiche, sanitarie o militari – saranno l’elemento potenziale o per ringiovanire il capitalismo dopo immani distruzioni, o per lanciare il proletariato alla riscossa. Noi, comunisti rivoluzionari, ci prepariamno alla riscossa, non importa quando verrà.

 

20 aprile 2020 (aggiornamento del 20 maggio 2020)

 


 

(1) Cfr. www.who.int/csr/don/16-january-2020-novel-coronavirus-japan-ex-china/en/

(2) Cfr. www.agi.it/blog-italia/salute/coronavirus-6900982/post/2020-01/18/ . Sars è acronimo di Severe acute respiratory syndrome, e Mers è acronimo di Middle east respiratory syndrome.

(3) Cfr. la Repubblica, 18 aprile 2020.

(4) Cfr. il fatto quotidiano, 18 aprile 2020.

(5) Per tutte queste notizie cfr. www.ilsole24ore.com/art/trump-piano-volontario-riaprire-stati-uniti-AD3JkpK, 17 aprile 2020, e www. repubblica.it/ esteri/ 2020/04/18/ news/ coronavirus_ nel_mondo-254332522/?ref=RHPPLF-BH-1254316518-C8-P7-S1.8-T1, 18 aprile 2020

(6) Cfr. www.agi.it/estero/news/2020-03-15/coronavirus-vaccino-tedesco-7543347, e https:// it.insideover.com /politica/ il-giallo-del-vaccino- che- trump-voleva-dalla-germania-html  del 16.3.2020.

(7) Cfr. https://it.insideover.com/politica/il-giallo-del-vaccino-che-trump-voleva-dalla-germania-html, cit.

(8) Cfr. https://valori.it/vaccini-sradicare-una-malattia-non-conviene/, 19.03.2020

(9) Ibidem.

(10) Cfr. https://valori.it/, 15.02.2020

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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