I prossimi dieci anni

(«il comunista»; N° 165 ; Luglio-Ottobre 2020)

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La comparsa della pandemia Covid-19, ufficialmente nel gennaio di quest’anno – sebbene alcuni medici ed epidemiologi affermino che il virus potrebbe essere circolato prima in Cina e poi nel resto del mondo almeno dall’estate 2019 –, ha contribuito a precipitare la difficile situazione che stanno attraversando tutti i paesi. Il collasso sanitario ed economico, anche se con diversa intensità, ha colpito tutti i principali paesi capitalisti. In Cina ovviamente, ma anche nelle principali potenze politiche ed economiche d’Europa, negli Stati Uniti, in Russia, in India, si è visto come il virus abbia costretto i vari Stati a prendere misure drastiche per confinare la popolazione, accusando il duro colpo assestato alla produzione nazionale. Ma, in realtà, la pandemia ha solo rafforzato le tendenze latenti, sempre meno sotterranee, già presenti in questi paesi. Dopo la crisi economica del 2008, che con tutta la sua forza è stata solo un’altra crisi nel lungo ciclo economico iniziato nel 1973-75 – con la grande crisi che ha chiuso la fase di espansione dopo la seconda guerra mondiale –, le principali potenze imperialiste soffrono costantemente e in modo particolarmente acuto per l’avvento di un’era di disordine in tutti i campi, economico, politico, sociale e anche militare. La “ripresa economica” iniziata nel 2013 non ha significato un ritorno a una situazione simile a quella preesistente al 2008. I grandi sforzi che la borghesia è stata costretta a compiere in nome di questa ripresa hanno effetti pesanti soprattutto sui proletari; le loro conseguenze persistono sotto forma di disoccupazione, crescente miseria, peggioramento delle condizioni di lavoro, bassi salari, incertezza della vita ecc. Ma in tutti i grandi paesi capitalisti si può osservare il fatto che i precari equilibri che esistevano nei tempi di relativo benessere economico, sotto forma di una relativa pace tra le classi sociali al loro interno o sotto forma di tregua tra le potenze imperialiste al loro esterno, tendono a scomparire.

Per noi, marxisti rivoluzionari che appartengono alla scuola della Sinistra Comunista d’Italia, una corrente il cui fondamento principale è il fatto di aver combattuto per decenni una lotta durissima in difesa dell’invarianza storica e dell’integrità programmatica del comunismo così come lo hanno esposto Marx ed Engels, quest’epoca di squilibri, di tensioni e di scontri in ogni campo del mondo capitalista non fa che confermare i principi classici della nostra dottrina: le crisi non sono fenomeni eccezionali in questo mondo, ma una realtà ciclicamente ricorrente che, questo sì in modo eccezionale, può aprire la possibilità di un superamento rivoluzionario della società borghese, l’ultimo di un lungo arco temporale in cui rappresenta il culmine delle società divise in classi e, proprio per questo, il preludio alla loro definitiva scomparsa.

Il marxismo è la scienza che studia le condizioni nelle quali si può – e si deve! – realizzare l’emancipazione della classe proletaria e, in questo senso, non sorprende che sia soprattutto una scienza delle crisi, più che della stabilità, dello scontro tra le classi, più che della pace sociale e che, quindi, presta una grande attenzione ai fenomeni che il mondo capitalista in decomposizione ci propone proprio come segno della putrefazione che lo erode.

Ma la verità è che noi marxisti non siamo gli unici interessati a questa situazione, non siamo nemmeno gli unici a valutarla come una vera crisi sociale che può significare l’apertura di un lungo periodo di instabilità in tutti i sensi. La Deutsche Bank ha recentemente pubblicato il suo principale studio annuale sull’andamento dell’economia mondiale e del suo impatto sulla vita sociale. In questo, che è stato significativamente intitolato, The Age of Disorder (1), l’ente tedesco, attraverso i suoi principali economisti, disegna un panorama della situazione mondiale sotto gli effetti della pandemia di Covid-19. Ovviamente questa banca, analizzando tale realtà ha interessi completamente opposti a quelli che abbiamo noi, ma è utile leggere attentamente il loro rapporto come segnale che quando la terra trema non solo chi va scalzo se ne accorge, ma anche coloro che indossano scarpe da migliaia di euro possono percepirlo; non solo, ma, data la loro posizione nell’ingranaggio politico-economico e i mezzi di cui dispongono, a volte lo percepiscono più intensamente.

Gli otto punti cruciali che il rapporto della Deutsche Bank identifica come caratteristici del prossimo decennio sono i seguenti:

 

• il deterioramento delle relazioni USA-Cina e l’inversione della globalizzazione illimitata;

• un decennio decisivo per l’Europa;

• un aumento del debito, mentre il “denaro lanciato dell’elicottero” diventa sempre più comune (2);

• inflazione o deflazione?

• il peggioramento delle diseguaglianze prima che vi sia una reazione e un’inversione;

• ampliamento del divario intergenerazionale;

• il dibattito sul clima;

• rivoluzione tecnologica o bolla?

 

La principale differenza tra il marxismo e la volgare dottrina economica dei redattori di questo studio non consiste tanto nelle conseguenze previste dalle premesse – che nel loro caso passano sempre attraverso un ritorno alla stabilità e nel nostro attraverso un inasprimento del turbolenza – ma principalmente nell’ordine in cui queste premesse vengono analizzate e nel significato ad esse attribuito. Il marxismo studia la vita delle società alla ricerca delle forze telluriche che ne dominano lo sviluppo, senza fermarsi alla sua registrazione statistica. L’economia borghese, anche quando può arrivare a capire, come in questo caso, che il mondo che propagandano non è realistico, si ferma alla sola constatazione perché isola i diversi fenomeni che studia non solo gli uni dagli altri ma, soprattutto, dalle leggi fondamentali che li governano.

Nel nostro schema, sintetizzando il più possibile, la successione fondamentale che appare in ogni società suddivisa in classi è la seguente: modo di produzione – classi sociali – Stato nelle mani di una di queste classi. Per il capitalismo, la successione è: modo di produzione capitalistico, cioè basato sull’appropriazione privata della ricchezza prodotta socialmente – due classi principali, la borghesia e il proletariato, poste ai due estremi della produzione, oltre ad una moltitudine di classi intermedie e mezze-classi (piccola borghesia, ecc.) – Stato borghese. L’ordine dell’esposizione è quindi storico. Sulle rovine del mondo feudale appare un modo di produzione basato, da un lato, sul denaro, sul lavoro salariato e, dall’altro, sulla proprietà privata; su ciascuno di questi lati si forma una classe sociale, intesa come un aggregato che si definisce in base a interessi materiali molto precisi riguardo al modo di produzione (la borghesia mantiene grazie ad esso, il suo status privilegiato ed una posizione conservatrice, ma il proletariato vive nella condizione di senza riserve e si ribella spontaneamente). Poiché le classi sociali mantengono interessi assolutamente contrastanti, la classe dominante costruisce il proprio Stato per tenere a bada la classe dominata. Qualunque sia il fenomeno da studiare, deve essere posto in un punto di questa linea e dall’influenza che su di lui hanno i punti adiacenti si capisce da che cosa è determinato. Ad esempio: il modo di produzione capitalistico dà luogo all’emergere della borghesia che combatte, prima, contro la classe dominante feudale e il suo Stato, poi, contro il resto delle classi borghesi nazionali e, sempre, contro il proletariato. Gli scontri tra paesi, soprattutto nell’epoca imperialistica, in cui le guerre di nazionalità che si svilupparono in Europa e in America, durante i secoli XVII, XVIII e XIX e nel resto del mondo per tutto il XX secolo, sono ormai superate, derivano dall’esistenza di borghesie nazionali che, essendo il risultato di un modo di produzione che ha le sue radici nel substrato nazionale, lottano continuamente tra di loro per la spartizione del mondo, per l’accesso alle materie prime, per la conquista dei mercati o semplicemente per non restare indietro nella concorrenza mondiale. La guerra non è un fenomeno tipico solo del capitalismo, ma le sue caratteristiche nell’era attuale derivano dalla natura di questo modo di produzione e non da una natura sovrastorica o congenita all’essere umano che non può vivere se non nel confronto bellico...

Prendiamo quindi il materiale fornito dallo studio della Deutsche Bank e lo presentiamo nei termini corretti del marxismo, dandogli l’ordine dialettico che ne permette la comprensione e che parte dai fatti economici per avanzare su quelli politici e sociali, mostrando la vera relazione causale esistente tra loro.

 

1. MODO DI PRODUZIONE CAPITALISTA, CRISI E SCONTRI INTERIMPERIALISTI

 

Da decenni i principali portavoce della borghesia, compreso il servizio di ricerca della Deutsche Bank, parlano di crescita economica illimitata. Hanno presentato, in tutti i loro rapporti annuali, pubblici o privati, l’idea di uno sviluppo economico che non vedeva nuvole nere all’orizzonte, una volta superate le turbolenze congiunturali di questa o quella crisi di portata limitata.

Per il marxismo, invece, la stabilità economica e il “progresso” produttivo sono solo tappe intermedie tra le forti crisi che periodicamente scuotono il mondo capitalista. Gli anni di prosperità e crescita sono solo anni di preparazione della successiva crisi che sconvolgerà nuovamente il mondo e frantumerà l’ottimismo infondato della borghesia, dei suoi economisti e della sua stampa. Prendendo l’esempio degli ultimi vent’anni, assistiamo a questa sequenza: il periodo si apre con la crisi, nel 2001-2002, della cosiddetta “crisi delle dot-com” o dei valori tecnologici, in cui un investimento eccessivo di capitale vincolato ad imprese ad alto contenuto tecnologico provoca un’improvvisa svalutazione di buona parte di esse e un drastico calo della redditività del capitale. Si trattava di una crisi di breve periodo che, pur interessando solo un settore molto specifico della produzione, poteva essere superata solo a costo di misure economiche generali, in particolare attraverso ripetute riduzioni dei tassi di interesse per garantire il flusso di credito ai capitali esausti dopo il ciclo del boom. Negli anni immediatamente successivi, questa facilità di finanziamento del capitale, accompagnata dalla creazione “definitiva” del quadro economico comune europeo con l’entrata in vigore dell’euro come moneta unica per un ampio gruppo di paesi, dà luogo ad un nuovo ciclo di rialzo che si manifesta in una crescita esponenziale degli investimenti in infrastrutture, immobili ecc. nonché a una particolare raffinatezza delle forme di capitale finanziario con cui si cerca di massimizzare la redditività di questa parte dell’economia. Nel 2008, a soli sette anni dalla crisi precedente, con la cosiddetta “bolla immobiliare” che ha mandato in rovina tutti questi investimenti, si è mostrata la sovracapacità produttiva accumulata, questa volta in tutta l’economia. Nonostante le misure di investimento pubblico attuate dalla maggior parte degli Stati dei paesi capitalisti più sviluppati, la crisi è durata fino al 2012 in quella che è stata definita la “Grande Recessione”. Disoccupazione, chiusura di aziende, calo dei salari ecc. erano i suoi sintomi più visibili. Questa volta le cosiddette “misure di stimolo”, che vengono attivate utilizzando essenzialmente le leve dell’economia monetaria, non sono state sufficienti ed è stato necessario attendere il completamento della distruzione di capitali su larga scala per vedere una ripresa economica. Il breve periodo di ripresa sembrava sempre più vicino alla sua conclusione nel 2019. Un “surriscaldamento” economico, principalmente nei settori metalmeccanico e automobilistico, ha cominciato a manifestarsi un anno prima che la pandemia offuscasse le serie storiche.

Il riconoscimento dell’esistenza di crisi economiche non è ciò che distingue il marxismo dalle altre scuole economiche. Negli ultimi vent’anni, infatti, è proliferata un’abbondante mole di letteratura sia sulle crisi stesse che sull’impossibilità per aziende e Stati di anticiparle, parte della quale è stata scritta da alcuni dei massimi esperti di economia di alcune delle principali istituzioni finanziarie mondiali (2). Ciò che è caratteristico del marxismo è considerare ogni aspetto della vita economica nazionale o internazionale dal punto di vista dell’inevitabilità delle crisi, qualunque sia il corso che un’industria, un settore produttivo ecc. imbocca in un dato momento. La legge della tendenza alla caduta del saggio di profitto, pietra angolare in questa prospettiva, definisce il comportamento dinamico di qualsiasi momento economico come parte di una tendenza al baratro. E questo è ciò che nessun economista borghese, per quanto preparato ad affrontare la realtà senza pregiudizi, può accettare.

In questo modo, l’attenzione degli analisti dello studio di Deutsche Bank che stiamo commentando si pone correttamente sui gap che l’economia mondiale già presenta e che, come loro stessi avvertono, si amplieranno nel prossimo decennio.

 

-Inflazione o deflazione? Tra i dibattiti “tecnici” tenuti dagli economisti borghesi, uno dei più importanti dell’ultimo decennio è questo. In sostanza, nei termini in cui si discute, l’inflazione è assimilata a una conseguenza del “surriscaldamento” economico (cioè della sovrapproduzione di beni e capitali) che implica un aumento dei prezzi che svaluta il potere d’acquisto della moneta corrente. Da parte sua, la deflazione consiste nel fenomeno opposto, una diminuzione dei prezzi che rivaluta il potere d’acquisto di detta moneta come conseguenza di un periodo di crisi economica più o meno esplicita. L’inflazione accompagna i periodi di boom economico, seppur in modo moderato, fino a diventare insostenibile, rendendo difficile per l’industria l’accesso alle risorse produttive (capitale e lavoro), appesantendone la crescita e diventando un fattore di aggravamento della crisi della sovrapproduzione. La deflazione arriva quando il livello di produzione nell’economia, nazionale o mondiale, scende al di sotto del livello minimo che garantisce prezzi vantaggiosi nel mercato per i beni prodotti. Tradizionalmente uno degli obiettivi delle banche centrali (la BCE in Europa e la FED negli Stati Uniti) è stato quello di mantenere livelli accettabili di inflazione (circa il 2% o il 3% di crescita del livello dei prezzi annui) nella convinzione che il vero pericolo per le economie sviluppate, seguendo gli “insegnamenti” della crisi del 1974, fosse l’aumento incontrollato del livello dei prezzi. Ma la crisi del 2008 ha dimostrato in tutto il mondo che, ad eccezione di alcuni paesi, generalmente chiamati di capitalismo “periferico”, l’inflazione è la conseguenza di un periodo di crescita economica prolungata nel tempo e in cui il tasso di profitto del capitale rimane al di sopra dei livelli che consentono il normale corso dell’economia. Quel periodo di crescita, aperto con la fine della seconda guerra mondiale e la ricostruzione postbellica che portò enormi profitti ai capitalisti di tutto il mondo, si è chiuso da tempo. Il saggio di profitto (profitto diviso capitale investito) è diminuito costantemente dalla fine della seconda guerra mondiale e l’ultima crisi economica lo ha drasticamente ridotto. Gli investimenti diminuiscono, non si forma nuovo capitale né si espandono i capitali esistenti, le risorse rimangono inattive e i prezzi diminuiscono. Ciò si traduce in meno investimenti, meno formazione ed espansione del capitale ecc. La deflazione non è la causa, ma è una conseguenza di prim’ordine della crisi e uno dei suoi fattori aggravanti per eccellenza quando persiste nel tempo. Durante il prossimo decennio è molto probabile che la deflazione permanente sarà il filo conduttore dell’economia capitalista, producendo forti squilibri sia sul piano cosiddetto “reale” di questa (produzione di beni e servizi) sia sul piano considerato “fittizio” (l’economia finanziaria). Ciò garantirà tassi di profitto capitalistici molto bassi e quindi una concorrenza smisurata tra aziende e paesi.

Questo punto deve essere collegato, nella nostra esposizione, a un altro dello studio della Deutsche Bank: Aumento costante del debito e politica monetaria espansiva (teoria monetaria moderna, “elicottero monetario”) predominante. La crisi del 2008 ha avuto una svolta con l’inizio dei cosiddetti Quantitative Easing, ovvero le misure di politica monetaria attuate dalla BCE (sulla scia della Federal Reserve nordamericana) per garantire che il debito pubblico dei paesi non perdesse il suo valore e potesse continuare a ottenere finanziamenti dai mercati. Fino a quel momento, le politiche di investimento pubblico attuate da tutte le maggiori potenze capitaliste avevano determinato una crescente necessità di finanziamenti da parte dello Stato per poterlo pagare. Gli investitori, consapevoli della debolezza di alcuni paesi la cui capacità produttiva era gravemente ridotta, paesi in cui la disoccupazione era in costante crescita ed era molto dubbio che la riscossione delle tasse sarebbe stata in grado di garantire la solvibilità dello Stato, non erano particolarmente disponibili a continuare a facilitare tale finanziamento tramite acquisto di debito pubblico. E così la BCE è intervenuta per acquistare il debito dei paesi e per garantirne un prezzo ragionevole (non è questa la sede per smascherare il complesso processo di acquisto, vietato per legge ad esempio alla BCE e che si realizza attraverso interventi su mercati secondari). Questo processo di acquisto implica, ai fini pratici, l’iniezione di denaro nell’economia, in quella che è nota come politica monetaria espansiva. Se l’immagine dell’elicottero contro le cui eliche in movimento viene lanciato denaro è abbastanza chiara da non doverla spiegare, ci eviteremo anche di dettagliare la cosiddetta teoria monetaria moderna, un correlato ideologico per giustificare questa politica monetaria espansiva che stravolge la natura della moneta come merce fino a quando non possono adattarla a ciò che vogliono avallare. Il nocciolo del problema è che le massime autorità economiche, che per almeno quattro decenni hanno basato il loro intervento sull’applicazione di misure monetarie, sono state costrette ad aumentare continuamente la quantità di moneta esistente nelle economie nazionali per finanziare l’aumento del debito pubblico. Con questa politica sono riusciti a rendere estremamente convenienti i finanziamenti sui mercati, dando luogo ad un aumento del debito, che può essere pagato a tassi di interesse molto bassi. Ma non è solo il settore pubblico che si rivolge a finanziamenti ultra economici per sopravvivere. La crisi del 2008, che all’inizio ha comportato la paralisi del credito, delle banche e del commercio, ha lasciato le aziende private senza canali di finanziamento. Il suo basso margine di profitto si è scontrato con alcune esigenze, determinate dal tasso di interesse al quale il debito viene rimborsato, inaccessibile per gran parte di esse. Le misure adottate dalle Banche Centrali non hanno riguardato solo il settore statale dell’economia; la riduzione dei tassi di interesse, come conseguenza dell’ingresso di quella cospicua quantità di moneta a partire dal 2012, ha fatto sì che l’accesso ai finanziamenti sia incredibilmente economico per le aziende private. Se la crisi, distruggendo il surplus di capitale rendendo gli investimenti più costosi, ripuliva l’economia dal surplus e permetteva di riprendere il ciclo economico, le misure per uscirne hanno portato ad un aumento di capitale che non deve rispondere delle risorse che prende a credito visto che sono molto economiche e quindi può permettersi tassi di profitto molto bassi. È il fenomeno che alcuni economisti hanno chiamato delle “aziende zombie”, cioè quelle che vivono artificialmente perché si possono finanziare praticamente a costo zero. Il settore zombie dell’economia aumenta, quindi aumentano gli investimenti eccessivi di capitale e la sovrapproduzione. Con questo, l’uscita dalla crisi inizia a spianare la strada a una crisi più ampia.

Gli altri due punti, il cambiamento climatico e la “bolla” tecnologica, che il rapporto della Deutsche Bank aggiunge e che inseriamo tra le determinanti economiche di quell’era di disordine che si sta aprendo, sono davvero minori. Né il boom tecnologico degli ultimi vent’anni suppone un cambiamento sostanziale nei rapporti di produzione, né il cambiamento climatico definirà il corso del capitalismo nel prossimo decennio. Entrambe le questioni possono essere esaminate senza che appaia un briciolo di novità, con le posizioni classiche del marxismo riguardo alle macchine e grande industria (3) e il problema della rendita fondiaria (4), in cui dobbiamo solo generalizzare i problemi posti da un bene scarso nel determinare il prezzo della produzione che lo utilizza, e quindi nel reddito della classe che lo possiede. La moda, insieme alla necessità di cogliere ogni dettaglio della riproduzione della vita sociale come un fatto isolato e capace di diventare il cardine di una teoria, porta gli autori del rapporto a dare un peso decisivo ad entrambi i fattori, la tecnologia e il cambiamento climatico. Ma, da parte nostra, preferiamo dedicare questa esposizione alle determinanti che segneranno l’evoluzione sociale dei prossimi anni, attenendoci ai punti veramente essenziali.

 

-Decennio decisivo per l’Europa. Per gli autori del rapporto, la zona monetaria unica, il Mercato comune e tutte le norme di legge che presumibilmente uniscono in modo definitivo i paesi europei dell’Unione, affronteranno nei prossimi dieci anni una prova definitiva. Per questo tipo di economisti il  †corso dell’UE è un tema ricorrente, prospettando o il suo fallimento nei termini in cui è stata concepita, o le possibilità che ha di avere successo. Il punto di partenza della loro analisi è, ma non potrebbe essere altrimenti, il fortissimo shock che l’UE ha subito con l’ultima crisi economica del 2008-2012. Come è noto, in quel periodo le istituzioni comunitarie, in particolare la BCE e la Commissione Europea, massimi responsabili delle questioni economiche nell’Eurozona, hanno svolto un ruolo incentrato unicamente sull’imposizione di una più che rigida disciplina fiscale ai Paesi che di conseguenza richiedevano aiuti economici a causa della loro mancanza di fondi. L’UE è stata poi accusata di essere incapace di agire come un organo di coesione sovranazionale e le sue istituzioni economiche di essere poco più che una filiale appunto della Deutsche Bank, entità in cui si sintetizzava la natura del capitalismo tedesco. Per i prossimi dieci anni, che gli analisti di questa banca non vedono esattamente come un letto di rose neanche per gli stessi paesi che hanno sofferto la cosiddetta “ortodossia di bilancio” durante il precedente periodo di crisi, il rischio è che queste tendenze centrifughe si accentuino nella misura in cui i paesi più poveri non possono dare una risposta soddisfacente non solo agli eventuali aiuti ricevuti, ma alle stesse richieste del capitale dei paesi più ricchi che vi hanno investito, cosa che è appunto alla base dell’unione economica.

In generale, il mito dell’Europa unita ha accompagnato la borghesia sin dagli albori della prima guerra mondiale, quando è crollato l’equilibrio ottenuto dopo la guerra franco-prussiana del 1870-1871. L’idea di una grande confederazione di Stati, unita dal commercio e in grado di superare i conflitti di interesse mediante un accordo politico generale, è vecchia. E nonostante il fatto che, dopo la prima guerra mondiale, l’idea stessa di un’Europa unita sia nata morta, assassinata dalle imposizioni fatte alla Germania in termini di debito, territori ecc., tale idea fu ripresa dopo la seconda guerra mondiale e propagandata fino a diventare una dottrina di credo comune. Ma, anche oggi che diverse generazioni sono già nate e cresciute sotto una presunta Europa unita, i piedi di argilla del mito sono sempre più evidenti mano mano si succedono le crisi e l’armonia tra i paesi si trasforma in uno scontro.

Per il marxismo, la critica a questa superstizione democratica e pacifista è stata lanciata molto prima che la Comunità europea del carbone e dell’acciaio iniziasse il suo viaggio dopo la seconda guerra mondiale.

«[…] In regime capitalistico, gli Stati uniti d’Europa equivalgono ad un accordo per la spartizione delle colonie. Ma in regime capitalistico non è possibile altra base, altro principio di spartizione che la forza. Il miliardario non può dividere con altri il “reddito nazionale” di un paese capitalistico se non secondo una determinata proporzione: “secondo il capitale” (e con un supplemento affinché il grande capitale riceva più di quel che gli spetta). Il capitalismo è la proprietà privata dei mezzi di produzione e l’anarchia della produzione. Predicare una “giusta” divisione del reddito su una tale base è proudhonismo, ignoranza piccoloborghese, filisteismo. Non si può dividere se non “secondo la forza”. E la forza cambia nel corso dello sviluppo economico. Dopo il 1871 la Germania si è rafforzata tre o quattro volte più rapidamente dell’Inghilterra e della Francia, e il Giappone dieci volte più rapidamente della Russia. Per mettere a prova la forza reale di uno Stato capitalistico non c’è altro mezzo che la guerra. La guerra non è in contraddizione con le basi della proprietà privata ma è il risultato diretto e inevitabile dello sviluppo di queste basi. In regime capitalistico non è possibile un ritmo uniforme dello sviluppo economico né delle singole aziende, né dei singoli Stati. In regime capitalistico non sono possibili altri mezzi per ristabilire di tanto in tanto l’equilibrio spezzato, all’infuori della crisi nell’industria, e della guerra nella politica.

«Certo, fra i capitalisti e fra le potenze sono possibili accordi temporanei. In tal senso sono anche possibili gli Stati uniti d’Europa, come accordo fra i capitalisti europei... Ma a qual fine? Soltanto al fine di schiacciare tutti insieme il socialismo in Europa per conservare, tutti insieme, le colonie usurpate, contro il Giappone e l’America che somno molto lesi dall’attuale spartizione delle colonie e che nell’ultimo cinquantennio si sono rafforzati con rapidità incomparabilmente maggiore dell’Europa arretrata, monarchica, la quale incomincia a putrefarsi per senilità. In confronto agli Stati Uniti d’America, l’Europa, nel suo insieme, rappresenta la stasi economica. Sulla base economica attuale, ossia in regime capitalistico, gli Stati uniti d’Europa significherebbero l’organizzazione della reazione per frenare lo sviluppo più rapido dell’America. Il tempo in cui la causa della democrazia e del socialismo riguardava soltanto l’Europa è passato senza ritorno» (5).

 

È chiaro che per i marxisti, gli “anni decisivi” per l’Europa, soprattutto se ci riferiamo all’area racchiusa dall’UE, saranno tali solo nella misura in cui i freni che pretesero porre alla voracità imperialista delle potenze che la compongono, saltano in aria. Mentre si accentuano gli scontri con le altre superpotenze mondiali, come gli Stati Uniti o la Cina, l’Europa vedrà come nel proprio seno si annullano gli “accordi dei capitalisti europei”, dando vita a nuove alleanze e nuovi scontri, che avranno poco a che fare con il sogno d’oro di un’Europa sovranazionale e pacifica, qualcosa che la borghesia non è mai stata in grado di garantire.

-Il deterioramento delle relazioni USA-Cina e l’inversione di una globalizzazione sconfinata

Nel Manifesto del Partito Comunista si legge:

«Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi all’industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo nel paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. A vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’amntica autosufficienza e all’antico isolameto locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L’unilateralità e la ristrettezza nazionali diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale.

«Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con la quale essa spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace  xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza» (6).

Non è necessario, quindi, costruire una nuova teoria economica o politica per inquadrare il problema delle relazioni commerciali tra paesi entro i limiti del capitalismo. Né per dimostrare che queste relazioni non sono mai pacifiche, non portano civilizzazione, non riscattano i popoli “barbari”. La borghesia, incapace di tagliare, data la sua origine storica, con le sue radici nazionali, lotta instancabilmente per estendere il suo mondo. Lo fa attraverso il commercio, l’estensione delle sue franchigie commerciali, l’esportazione e l’importazione di capitali, la colonizzazione economica, politica e militare di tutte le parti del mondo. E lo fa dall’inizio del suo corso storico. Il capitale, che non può prescindere dalla sua base nazionale, lotta contro di essa internazionalizzando la sua esistenza, e la differenza che appare tra la sua natura nazionale e la sua tendenza a diffondersi a livello internazionale è una delle principali cause di crisi economiche. Questo è il motivo per cui i cicli economici possono essere misurati in modo abbastanza esatto facendo riferimento ai movimenti commerciali. Durante i periodi di boom economico, il commercio esplode, le grandi aziende invadono ogni angolo del pianeta; in risposta alla necessità di ottimizzare le risorse produttive, le aziende formano conglomerati “multinazionali”, creano fabbriche in diversi continenti per nutrirsi di risorse locali, si tratti di manodopera o di qualsiasi fonte di ricchezza naturale come i minerali, l’acqua ecc. Durante i periodi di crisi, il commercio si restringe. Gli impianti meno redditizi vengono chiusi, si dà priorità alla produzione nazionale quando possibile o, in alternativa, si sviluppando piani regionali.

La cosiddetta globalizzazione è stata la conseguenza di due fattori. Il primo è costituito da un periodo di relativo boom economico, dal 1985 al 2008 circa, che ha spinto le grandi aziende capitaliste sui mercati esteri per rafforzare la loro posizione nel mercato mondiale, ottenere risorse economiche e smerciare i loro prodotti. Il secondo è costituito dallo sviluppo accelerato di buona parte dei paesi che, dopo la fine delle loro lotte nazionali per l’indipendenza dalle metropoli imperialiste euro-americane (Cina, India, Egitto ecc.), hanno aperto i loro confini commerciali al passaggio delal nuova invasione dei vecchi padroni. Il risultato di questo processo è, principalmente, la creazione di quella che alcuni economisti hanno chiamato la “catena del valore globale”, cioè una serie di metodi di produzione che ottimizzano i complessivi costi di produzione al punto che i costi di trasporto risultano poco rilevanti. Ad esempio, in questo modo, i giganti della tecnologia come Apple producono simultaneamente, in molti paesi, diversi pezzi dei loro prodotti e ricorrono al paese d’origine soltanto per il loro assemblaggio. Questo processo di “globalizzazione” della produzione capitalistica non è un fenomeno autonomo, non ha vita propria, ma è il riflesso di una crescita economica che si è basata su di esso per soddisfare le proprie necessità. Man mano che la crisi economica si sviluppa (e ciò avverrà a salti, non in modo lineare e uniforme) il mondo aperto del commercio internazionale chiuderà i battenti. La lotta tariffaria, la limitazione delle quote commerciali, le misure di restrizione fitosanitarie si acuiranno nella misura in cui ciascuna borghesia nazionale cercherà di limitare l’ingresso dei concorrenti in quello che considera il proprio mercato privato.

Questo non vuol dire che i decenni di “globalizzazione” siano trascorsi invano. In primo luogo, perché le economie dei paesi che hanno sviluppato sia il mercato interno che quello estero, in un modo strettamente legato alla globalizzazione, soffriranno gravemente della drastica riduzione del commercio internazionale per come si è svolto negli ultimi due decenni. Ciò provocherà inevitabilmente nuovi scontri tra paesi e borghesie. In secondo luogo, perché le masse popolari di quei paesi, che sessanta o ottant’anni fa erano il motore principale delle lotte per l’indipendenza nazionale, hanno subito un rapido processo di proletarizzazione. I contadini della Thailandia oggi sono impiegati a migliaia nelle fabbriche tessili locali, che infatti appartengono ai grandi marchi europei e americani. Lo stesso accade in Vietnam, Indonesia, India o Cina. Il capitalismo crea i suoi becchini proprio così, gettando le masse diseredate nel lavoro salariato, creando un magnifico esercito di proletari dove prima c’erano solo contadini impoveriti. Quando, dopo la seconda guerra mondiale, i vari movimenti di liberazione nazionale guidarono queste masse contadine contro le potenze imperialistiche, la borghesia che li capeggiava trovò ben poca opposizione da parte di un proletariato nazionale debole. La classe sociale più numerosa, i contadini, non poteva toglierle la leadership del movimento contro l’oppressione coloniale e, in assenza di un proletariato che in Europa e in America avrebbe dovuto condurre anche la battaglia di classe sul terreno antimperialista, le masse povere di questi paesi furono semplicemente carne da cannone per le rispettive borghesie nazionali e anche per le borghesie imperialiste. Oggi, il passaggio di decine di milioni di questi contadini nelle file del proletariato è da considerare un fatto decisivo. Se l’indipendenza nazionale e l’inclusione di questi paesi nel circuito commerciale mondiale poterono essere fatte sulle spalle delle classi subalterne, la chiusura di questi circuiti, la rovina di molte di queste nazioni, costringerà una classe sociale, il proletariato, a lottare contro la propria borghesia.

 

Un discorso a parte merita il rapporto tra Stati Uniti e Cina. Qualsiasi lettore della stampa quotidiana sa che la guerra commerciale tra i due paesi sta avanzando a passi da gigante sia nel campo della produzione industriale che in quello della produzione culturale, della sicurezza ecc. I media, infatti, presentano questo conflitto come il principale rischio per la pace nei prossimi decenni, come la minaccia di una nuova guerra, non più commerciale, ma politica e militare, che coinvolge gran parte dei paesi più sviluppati.

Rispetto a questo scontro tra Usa e Cina va osservato un doppio aspetto. In primis, l’allerta sul pericolo di una guerra su larga scala, cioè il problema della guerra imperialista. In secundis, il fatto che questa guerra possa avere come protagonisti principali Stati Uniti e Cina, ovvero il problema dei rapporti (economici, politici, commerciali ecc.) tra due delle maggiori potenze imperialiste mondiali. Riguardo al primo aspetto, il marxismo ha sempre mantenuto la stessa posizione: così come i tempi di prosperità e progresso economico sono inevitabilmente l’intermezzo tra due crisi, i tempi di pace sono l’interludio tra due guerre. Da un lato, le leggi economiche dimostrano che la società capitalista tende inevitabilmente alla sovrapproduzione di beni e capitali, alla caduta del saggio di profitto e quindi alla distruzione di buona parte della ricchezza sociale allo scopo di riprendere il ciclo produttivo, e affermano che lo scoppio delle crisi economiche è già contenuto nei primi passi dei periodi di boom dell’economia; dall’altro lato, le stesse e inappellabili leggi mostrano che gli equilibri costruiti in tempi di pace, le alleanze, i rapporti fraterni tra paesi, sono solo qualcosa di transitorio e che, col passare del tempo, la rivalità tra paesi diventa talmente forte che i conflitti, prima “pacifici”, poi bellici ma limitati a determinati territori, si trasformano, infine, in scontri militari generalizzati all’intero globo, dimostrando la loro inevitabilità. È in questo senso che il marxismo condanna la pace capitalista come preludio alla guerra, come fase inevitabile di preparazione a futuri scontri bellici che, su scala maggiore o minore, scuotono e scuoteranno il pianeta. E non è nemmeno possibile parlare di pace in senso stretto: i periodi tra due guerre, come quello vissuto dalla fine della seconda guerra mondiale, quando la borghesia propagandava la definitiva pacificazione dopo decenni di scontri, in realtà sono punteggiati da guerre “locali” che hanno coinvolto buona parte delle principali potenze imperialiste. Sono molteplici i casi che dimostrano quanto sosteniamo: non solo le cosiddette “guerre di liberazione nazionale” (Algeria, Vietnam, Angola...), nelle quali le diverse potenze imperialiste, dall’URSS agli USA passando per la Francia o l’Inghilterra, sono intervenute in difesa dei loro interessi particolari e in difesa dello status quo generale, ma anche i numerosi conflitti armati situati in diverse aree del pianeta dove diverse potenze intervengono attraverso paesi, eserciti o fazioni locali per far rispettare le loro esigenze (Congo, Rwanda, i Balcani, il Medio Oriente ecc.). Per questo motivo, le dichiarazioni degli autori del rapporto della Deutsche Bank circa il potenziale pericolo per la “pace” rappresentato dal progressivo aggravamento del confronto tra Stati Uniti e Cina, si collocano per il marxismo in una serie di episodi che lentamente vanno aprendo la strada a una guerra generale.

Ma, è lecito chiedersi, il conflitto sino-americano sarà il fattore scatenante definitivo per questo scontro su larga scala che il mondo ha temuto per decenni? Questa è la seconda parte del problema e per affrontarla è necessario fare riferimento, anche brevemente, alla storia dei rapporti tra le due potenze da quando il mappamondo è stato configurato come lo conosciamo oggi. In una prima fase, c’è stato l’intervento di Francia e Stati Uniti nel sud-est asiatico per garantire proprio l’ordine imperialista emerso dalla seconda guerra mondiale. Con la Guerra d’Indocina (1946-1954) e la Guerra del Vietnam (1955-1975) all’epicentro di questo intervento, questa regione del mondo divenne teatro di uno dei più potenti scontri della storia moderna. Come è noto, una volta che la Francia lasciò l’area, stabilendo un ordine estremamente precario basato su una divisione dell’attuale Vietnam in due stati (Nord e Sud) di cui uno, il Sud, fece da gendarme per le potenze imperialiste, la guerra civile continuò. Il Sud, sostenuto dagli Stati Uniti al punto di entrare in guerra per difenderlo, e il Nord, con il quale hanno collaborato direttamente URSS e Cina, hanno combattuto una guerra ventennale che ha lasciato più di tre milioni di morti. Per quel che riguarda i rapporti tra Cina e Stati Uniti in questa fase, essi erano caratterizzati da uno scontro latente dato che la Cina, in quei decenni, in guerra contro il governo del Kuomitang (che si rifugerà a Taiwan), con l’istituzione della “Repubblica popolare” sotto il comando di Mao Zedong, aveva seriamente scombinato l’ordine imperialista in tutto l’estremo Oriente.

La seconda fase delle relazioni sino-americane fu segnata dalla fine della guerra del Vietnam dopo gli accordi di Parigi del 1973, con i quali la potenza nordamericana si ritirò dall’area, lasciando il Vietnam del Nord libero nella sua lotta contro il Sud. La conseguenza immediata di questa sconfitta degli USA è stata la caduta del Vietnam nell’orbita dell’influenza cinese, mentre l’URSS ha rinunciato a intervenire nella politica del nuovo Vietnam unificato. In un certo senso, si può dire che l’uscita da quello scacchiere da parte degli Stati Uniti è stata accompagnata da un patto con la Cina in base al quale quest’ultima si era incaricata di mantenere l’ordine nella regione evitando che quella polveriera scoppiasse sulla spinta delle masse contadine vietnamite che avevano vinto contro il gigante americano. A questo patto seguì, pochi anni dopo, il ristabilimento, tra i due paesi, delle relazioni diplomatiche (1979) interrotte dalla vittoria dell’esercito di Mao nella guerra civile cinese. Da allora, le reciproche relazioni diplomatiche, politiche e commerciali hanno costituito un asse centrale nell’ordine imperialista per il Sud-Est asiatico e il Sud Pacifico: il grande sviluppo economico conosciuto dalla Cina dalla fine degli anni ‘70 fino ad oggi è stato sostenuto da ottimi rapporti con gli Stati Uniti che, ad eccezione di qualche raffreddamento come quello seguito al massacro di piazza Tienanmen nel 1989, hanno avuto il loro principale alleato nella Cina. È noto, ad esempio, che la Cina è da più di un decennio il principale detentore del debito pubblico nordamericano, dando così un contributo importante per molti anni al mantenimento del dollaro come valuta mondiale. La famosa espressione ChinaMérica, coniata per descrivere la buona armonia tra le due potenze, riflette il fatto che negli ultimi quarant’anni lo sviluppo economico di entrambi i paesi si è intrecciato, rafforzando così l’industria nazionale cinese e le finanze americane.

La terza fase, l’attuale scontro tra le due potenze, si apre proprio con l’obiettivo di buone relazioni commerciali tra loro. Lo spettacolare sviluppo commerciale cinese, capace di inondare il mercato statunitense sia di materie prime agricole che di manufatti; la “fuga” delle fabbriche nordamericane sul suolo cinese, dove per decenni hanno trovato manodopera a basso costo, personale tecnico altamente qualificato e strutture in cui stabilirsi; l’espansione dell’influenza politica ed economica cinese nella regione asiatica (creazione della Pacific Development Bank, consolidamento delle sue reti commerciali attraverso la Nuova Via della Seta ecc.)... Tutto questo ha rotto le buone relazioni reciproche tra questi due paesi al punto da forzare gli Stati Uniti a tenere una politica estera aggressiva nei confronti della Cina, aumentando le tariffe doganali sui prodotti provenienti dalla Cina, con limitazioni sulle tipologie di prodotti importati, oltre a cercare di forzare le aziende americane che fabbricano in Cina a far rientrare parte dei loro impianti di produzione in America.

L’entrata in quest’ultima fase significa forse che gli scontri tra Cina e America si stanno dirigendo verso uno scontro bellico definitivo? Per il marxismo, la guerra non è una conseguenza della politica commerciale o militare seguita da un paese, tanto meno delle decisioni prese da un governo o da un gruppo di essi. Nella fase imperialista del capitalismo, la guerra è una conseguenza della natura stessa del sistema produttivo, che inevitabilmente si confronta con le diverse borghesie, al riparo dietro i rispettivi Stati, nella lotta per il controllo dei mercati, delle materie prime o, semplicemente, un vantaggio sui loro concorrenti. È la natura delle relazioni interimperialiste che forza le guerre, non la “politica imperialista” di un paese o di un altro. In questo senso, Cina e Stati Uniti si comportano nell’unica maniera in cui possono farlo: prima stringendo alleanze per il controllo del Sud-Est asiatico e poi rompendole per scontrarsi sul terreno della concorrenza economica e commerciale al fine di collocare i rispettivi prodotti e capitali in quanti più paesi possibile. D’altronde la guerra imperialista non è la conseguenza di uno scontro tra due paesi, ma della cristallizzazione di una serie di tensioni e conflitti che si accumulano nei decenni e che, ad un certo momento, trovano un catalizzatore in un certo conflitto intorno a cui si delineano due o più blocchi che non hanno altra scelta che dichiararsi guerra a vicenda perché la situazione, esterna ed interna, è diventata impossibile da superare. L’attuale conflitto sino-americano sarà il vettore della prossima guerra mondiale? È impossibile saperlo. Le relazioni tra i due paesi potrebbero variare come nelle precedenti occasioni. Nuovi conflitti, diversi interessi contrastanti, l’entrata in gioco di altri attori ecc. potrebbero forzare una riformulazione delle relazioni sino-americane. Ad esempio, mentre la reciproca guerra commerciale è scatenata dall’invasione del mercato interno statunitense da parte dei prodotti cinesi, non sembra interessare un altro mercato, quello in cui si estende l’influenza della Cina in Africa, dove è già il maggior investitore di capitali. Tutt’altro, lo Stato nordamericano sembra guardare anzicon una certa soddisfazione al ruolo cinese in quest’area, in cui l’intervento cinese limita l’influenza europea contribuendo a “stabilizzare” la regione. Anche questo fatto, come la guerra commerciale, può giocare in modo decisivo nel futuro dei rapporti di queste due potenze, anche se in senso diametralmente opposto.

Quel che è certo è che l’attuale scontro fra Cina e Stati Uniti che stiamo vivendo non passerà invano. Ecco cosa ci distingue dal rapporto della Deutsche Bank. Mentre tale rapporto vede in questa situazione una sorta di interregno verso un nuovo equilibrio pacifico nelle relazioni internazionali, guidati, sì, da attori diversi da quelli attuali, ma comunque ugualmente accettabili e capaci di garantire la pace, noi vediamo in questo tipo di conflitti i segni di un ordine incrinato. Questi conflitti non si risolveranno con un trasferimento pacifico di poteri o con un nuovo patto concordato sotto l’ombrello dell’Onu, ma, anche se parzialmente risolti, indeboliranno l’insieme degli equilibri che governano questo mondo che è già multipolare. Ogni passo compiuto verso la pacificazione delle relazioni tra Stati Uniti e Cina farà ricadere il peso del conflitto a cui assistiamo oggi su altri punti del complicato panorama internazionale. La guerra imperialista è su un orizzonte non troppo lontano e ogni parziale conflitto di questo tipo contribuisce ad aumentare la tensione tra rivali che, pur non essendo oggi direttamente coinvolti in questi conflitti, finiranno per condurre domani una guerra a cui non potranno rinunciare.

 

2. IL RITORNO DELLA LOTTA DI CLASSE DEL PROLETARIATO?

 

Finora ci siamo soffermati sui punti che il rapporto della Deutsche Bank dedica alle determinanti economiche di questa “era del disordine” prevista dai suoi autori. Abbiamo infatti riorganizzato l’ordine che davano alla loro presentazione, in modo da indicare quali fattori di quelli spiegati dalla banca fanno parte della struttura economica che sta alla base della vita sociale e, quindi, dei rapporti tra classi sociali. Abbiamo così cercato di collocare correttamente nella prospettiva marxista ciò che un economista borghese, nonostante sia arrivato al punto di riconoscerlo come di vitale importanza, non potrà mai correttamente valutare. Tassi di interesse, relazioni internazionali, scontri commerciali... Per i borghesi appaiono, è vero, come divari che si stanno aprendo intorno a loro. Attribuiscono loro anche il ruolo di destabilizzare l’ordine politico, economico e sociale. Ma sbagliano nel collocarli nella prospettiva di una graduale rinormalizzazione di questo ordine. E questo perché, sebbene siano in grado di riconoscere l’importanza immediata di questi fattori destabilizzanti, non riescono a capirne l’importanza, che va oltre il breve periodo, in quanto inneschi di tensioni sociali che trascendono il meramente economico per mettere in discussione l’intera struttura del mondo capitalista.

Abbiamo lasciato per ultimi i due punti cruciali della relazione: l’aggravarsi della disuguaglianza prima che ci sia una reazione e una reversione e l’allargamento del divario intergenerazionale.

Ancora una volta, modifichiamo l’ordine che gli analisti economici gli hanno dato e per prima cosa spieghiamo il significato e l’importanza di questo divario inter-generazionale nella questione molto più ampia del peggioramento della disuguaglianza.

È' praticamente un luogo comune ripetere che i giovani, di età fino a trent’anni, saranno la prima generazione dopo molto tempo a vivere peggio dei loro genitori. Basta dare uno sguardo ai dati relativi alle condizioni di vita degli strati più giovani della popolazione in ogni paese per mostrare fino a che punto questa affermazione sia vera.

 

Il periodo studiato copre gli anni dall’inizio della Grande Recessione al 2018, anno in cui gli economisti borghesi consideravano tutto finito... nella misura in cui una nuova crisi era già in atto. Prima di proseguire, va notato che l’aggregazione dei dati senza tener conto dell’origine del reddito crea confusione: la caduta del reddito pro capite negli strati che ne ricevono di meno è stata senza dubbio molto più marcata per coloro che ricevono un importo maggiore. In altre parole, le classi borghesi e piccoloborghesi, che traggono il loro reddito non tanto dal salario quanto dal capitale posseduto, hanno subito meno impoverimento della classe proletaria, che vive del solo salario. L’unione di queste classi sociali fa sì che la pendenza discendente venga attenuata nelle sezioni in cui si verifica una caduta.

In ogni caso, in particolare in Spagna ma non solo, mentre il reddito delle fasce di età più anziane ha subito un forte calo durante gli anni più duri della crisi (2009 e 2010) per poi riprendersi a ritmo praticamente costante fino al 2018, il reddito dei più giovani è diminuito continuamente (fino al 2014) e il suo recupero è stato inferiore. Per la fascia di età intermedia, i tempi di caduta e recupero sono simili anche se meno pronunciati. Infine, e questa è la cosa più importante, la distanza tra i gruppi è aumentata alla fine del periodo.

Perché è successo? Abbiamo già detto che l’origine del reddito dovrebbe essere presa in considerazione come fattore determinante, ma dal momento che non possiamo, per ora, presentare i dati sulla base di questo criterio, tra gli altri, prendiamo ciò che il grafico fornisce come un’approssimazione abbastanza vicina al realtà della classe proletaria. A partire da questo, vediamo che l’effetto degli ammortizzatori sociali, delle cosiddette “politiche di welfare” e dell’intera rete del lavoro e delle prestazioni sociali, ha un effetto più pronunciato sulle fasce di età più elevate. Quando torniamo ai gruppi di età più giovane, si ritiene che questi stabilizzatori del reddito abbiano un effetto minore. Per dirla senza mezzi termini: ci sono migliori condizioni di lavoro per i lavoratori più anziani che, insieme al maggior numero di benefici sociali che questi lavoratori ricevono, ha reso le loro condizioni di vita meno peggiori di quelle dei lavoratori più giovani. Questa è la sintesi, in senso lato, del cosiddetto “gap generazionale”: le condizioni del cosiddetto “welfare state”, sviluppatosi durante i decenni degli anni ’60, ’70 e, in misura minore, ’80 non esistono per il giovani proletari. Dopo la crisi capitalista degli anni ’70 e con la fine del periodo di crescita economica che ha caratterizzato l’Europa e il Nord America dalla fine della seconda guerra mondiale, si è assistito sia ad una costante diminuzione dei salari che ad un peggioramento delle condizioni di vita che erano state garantite dagli ammortizzatori sociali messi in atti dalla borghesia per favorire la politica di collaborazione tra classi che caratterizzava quegli anni.

Ma questo peggioramento delle condizioni di vita della classe proletaria non è avvenuto in modo omogeneo tra tutti i proletari. La classe borghese ha imparato la lezione degli anni ’10 e ’20 del secolo scorso, quando la grande ondata rivoluzionaria stava per spodestarla. Divide et impera, il classico detto, divenne il suo motto di fronte al nuovo episodio della sua lotta contro il proletariato. In questo modo è stato possibile vedere come mentre cresceva la disoccupazione, cresceva anche il pensionamento anticipato, cosa che permetteva di allontanare dalle fabbriche gli operai che avevano più esperienza di lotta e di lasciare al loro destino un’intera generazione di proletari che, cominciando a lavorare in condizioni peggiori che mai, fu privata dell’esperienza che i proletari più anziani potevano portarle. Inoltre, mentre i sussidi a interi settori di produzione erano finalizzati allo smantellamento dell’industria regionale pagando ai proletari più anziani elevate indennità di disoccupazione che permettevano, bene o male, di garantire la loro sussistenza negli anni a venire, migliaia di giovani rimasero disoccupati e senza la possibilità di trovare un lavoro come quello che avevano avuto i proletari anziani. E così potremmo tirare fuori dozzine di esempi che spiegano il peggioramento delle condizioni di lavoro delle giovani generazioni di proletari. Insomma, lo smantellamento del sistema degli ammortizzatori sociali è stato effettuato progressivamente, garantendo la continuità di parte di questi ai proletari anziani, al fine di addolcire la crisi sociale che si stava aprendo davanti ai loro occhi e sapendo che, in fondo, i vantaggi erano concessi solo per un tempo limitato, mentre la parte più cruda era lasciata ai giovani proletari.

Nel mondo capitalista contemporaneo, la discriminazione basata sull’età è una delle più dure per il proletariato: mentre i giovani subentrano nello sfruttamento lavorativo praticamente senza nessuna delle garanzie, legali o meno, che avevano i loro genitori, le generazioni più anziane di proletari sono state tagliate fuori dalla lotta per gli interessi della loro classe nel suo insieme (proprio loro, che hanno avuto un’intensa esperienza in questo campo), distaccandole materialmente dalla realtà sofferta dai loro figli. In un paese come la Spagna, dove di per sé questi ammortizzatori sociali sono scarsi rispetto a quelli di cui godono i proletari dei paesi più vicini, abbiamo avuto il recente esempio della lotta dei pensionati contro la riduzione delle pensioni pagate loro dallo Stato. Soprattutto nelle città dei Paesi Baschi, si sono viste decine di migliaia di ex lavoratori di tutti i settori hanno manifestare continuamente per l’aumento delle pensioni minime. È proprio questa forza di classe che la borghesia ha cercato in ogni modo di annullare, separando i giovani proletari dai proletari più anziani attraverso le sue politiche sociali e del lavoro. E se quella forza fosse stata dimostrata ogni volta che una nuova legislazione, nazionale o locale, impoveriva le condizioni di vita dei giovani proletari, ad esempio licenziando lavoratori con meno anzianità aziendale nella grande industria? E se ognuna delle riforme del lavoro che sono state applicate quasi esclusivamente a quelle recentemente inserite nel mercato del lavoro avesse trovato la risposta che i pensionati sono stati in grado di dare? In questo campo, come in tanti altri, la borghesia, aiutata dai suoi agenti pseudo-lavoratori dell’opportunismo politico e sindacale, ha saputo vincere la partita dividendo per età, così come in altri ambiti, per sesso o per razza. Il “gap generazionale” che aumenta e aumenta di anno in anno, è la conseguenza più diretta di questa vittoria. Ma questo divario rappresenta solo un vantaggio temporaneo per la stessa borghesia. Prima o poi le condizioni di vita dei proletari saranno più o meno livellate verso il basso, la forza politica della distinzione tra “vecchi” e “giovani” svanirà gradualmente e, quindi, cesserà di essere un oggettivo fattore ritardante per la ripresa della lotta di classe proletaria. Ovviamente questo fatto non è considerato plausibile dagli economisti della Deutsche Bank, ma nel loro caso le illusioni prevalgono sulla realtà.

Il secondo punto di quelli considerati “sociali” nel rapporto che commentiamo serve come conclusione: l’aggravarsi della disuguaglianza costituisce la sintesi di tutto il lavoro. Il cambiamento nella politica monetaria, l’evoluzione dell’Europa, le relazioni sino-americane ecc. servono soprattutto a chiarire quella che sarà la caratteristica più importante dei prossimi anni, cioè il peggioramento delle condizioni di vita della classe proletaria.

Per gli autori del rapporto questo peggioramento non è ovviamente presentato come tale e non è solo un problema di termini. Per loro, il decennio di malessere vedrà come la società si frammenta in differenti strati sociali che sono sempre più delimitati come compartimenti stagni e lontani l’uno dall’altro. Finora, da un punto di vista puramente descrittivo, non abbiamo molto altro da aggiungere: partendo da determinanti economiche di base, sia noi che gli stessi analisti di Deutsche Bank, possiamo solo giungere alla conclusione che il futuro più immediato sarà segnato dall’instabilità sociale. Ma per loro questa instabilità consiste unicamente in una differenziazione tra i diversi gruppi sociali, fondamentalmente quelli che hanno mezzi sufficienti per vivere e quelli che non ne hanno, differenziazione che appare come un prodotto di quelle determinanti economiche al cui studio hanno consacrato il loro testo. Per noi l’instabilità sociale, al contrario, non è solo un prodotto, ma anche un fattore nel corso economico e sociale sia dei prossimi anni che di tutta la storia umana.

Mentre per gli economisti borghesi, che si dedicano allo studio della realtà, la “frammentazione sociale” consiste in un impoverimento degli strati sociali più svantaggiati mentre il contrario accade ai più ricchi in modo temporaneo, transitorio, come passo verso un equilibrio socio-economico, per il marxismo ciò che avviene con questo fenomeno è il trionfo della tendenza a polarizzare le classi sociali e il loro antagonismo, vero riassunto di tutti i problemi economici.

Infatti, lo studio della Deutsche Bank, per chi lo legge da un punto di vista marxista, non solo conferma questo impoverimento delle classi subalterne, che inteso così sarebbe qualcosa che può accadere o meno a seconda di uno specifico corso degli eventi, ma ciò che si può davvero leggere in questo studio è la verifica del declino di un’epoca in cui la situazione economica dei paesi capitalisti sviluppati ha consentito alla classe proletaria di mantenere il tenore di vita al di sopra della mera sussistenza.

Il periodo di aumento accelerato della produzione capitalistica, di alti rendimenti sul capitale investito, di enormi tassi di profitto, che si aprì durante l’immediato dopoguerra grazie al lucroso business della ricostruzione delle devastazioni causate dalla guerra, coprì un arco temporale di circa 30 anni (i cosiddetti 30 Glorious in Europa e Nord America). Questo periodo terminò con la crisi del 1975, dopo di che se ne aprì un altro in cui la borghesia dei paesi più sviluppati non poteva più mantenere una politica economica basata sulla ridistribuzione limitata, ma efficiente in termini sociali, di una piccola parte degli eccessi di profitto per la classe proletaria. Da allora, le crisi economiche successive (1978, 1982, 1993, 2001, 2008) fino a quella attuale, hanno contribuito a smantellare le impalcature su cui si basavano quegli ammortizzatori sociali che permettevano di preservare la vita proletaria dalla povertà più estrema ed assoluta. L’attuale crisi economica, accelerata e aggravata dalla pandemia, sarà un’altra spinta in tal senso.

Ma ciò che crolla con l’edificio economico non è solo il mantenimento delle condizioni di vita della classe proletaria ma, soprattutto, la politica promossa dalla borghesia e dai suoi agenti politici e sindacali basata sulla collaborazione tra le classi, cioè, su una serie di risorse e canali che avevano permesso di smobilitare una parte sostanziale della classe proletaria attraverso il loro accesso a migliori condizioni di vita. Questa politica è stata lanciata durante il periodo di ricostruzione dell’enorme quantità di capitale devastata dalla guerra tra gli Alleati e le potenze dell’Asse e ha plasmato lo stato moderno come lo conosciamo, come un gigante e attivo agente economico incaricato di sostenere una politica di ridistribuzione delle prestazioni attraverso alloggi sociali, sicurezza sociale, assicurazione contro la disoccupazione ecc. L’immenso apparato del cosiddetto “settore pubblico” ha esercitato per diversi decenni il ruolo lenitivo di ultima garanzia sociale di fronte alla povertà. Sebbene ciascuna delle crisi economiche abbia contribuito a smantellare via via una “garanzia” dopo l’altra, la verità è che le entrate ottenute in trent’anni di funzionamento a tutto gas, nonché l’esperienza politica della borghesia, hanno permesso a questo Stato di aver in parte conservato il suo ruolo puramente assistenziale e con esso la sua capacità di mantenere in una certa misura il proprio ruolo nell’imposizione della politica di collaborazione tra classi. In questo modo, ad esempio, si può vedere come in tutta la cosiddetta Europa sviluppata, lo smantellamento di buona parte dell’industria negli anni ’70 e ’80, che ha portato alla disoccupazione intere regioni, sia stato mitigato dall’intervento dello Stato in forma di aiuto economico di ogni tipo, al fine di allentare la tensione sociale e reindirizzarla verso la via della pace sociale.

Sia il fiorire economico che la capacità della borghesia di intervenire attraverso il proprio Stato per indebolire gli effetti della polarizzazione sociale, quindi della lotta di classe, stanno volgendo al termine e questo fatto è ciò che apre davvero le porte all’era del malessere. Non possiamo dire se questa era coinciderà esattamente con i prossimi dieci anni, se in questo lasso di tempo vedremo la chiusura definitiva di un’era che ha cominciato a morire quattro decenni fa, ma possiamo confermare che, quando arriverà, la sua fine significherà sia la fine dei fattori economici che permettono di confinare il proletariato e di trasformarlo in una mera appendice della classe borghese e piccoloborghese, sia dei fattori politici che impongono la collaborazione tra le classi, la pace sociale e la rinuncia alle sue rivendicazioni di classe come l’unico modo per sopravvivere nella società capitalista.

Possiamo anche affermare, questo con assoluta sicurezza, che quando entrambi i fattori, economico e politico, si indeboliscono, la classe proletaria cesserà di essere un mero riflesso della classe borghese, un fatto che deve essere preso in considerazione ma dal quale non ci si aspetta nessuna grande rivelazione quando si tratta di tener conto dell’andamento economico e sociale, per tornare a essere il fattore determinante della storia. Prendiamo una citazione dal nostro testo Partito e classe del 1921, nella quale si mostra tutto ciò che ci differenzia dagli economisti borghesi che stiamo commentando, quando si tratta di valutare la natura degli sconvolgimenti sociali che ci si aspetta: mentre loro prendono la frattura sociale come prodotto della loro analisi, noi invertiamo i termini e spieghiamo il corso dell’economia come un problema di classe, cioè come una questione centrata su quale classe domina e su qual è la classe su cui esercita questo dominio. Con ciò mettiamo al centro la necessaria ricomparsa della classe proletaria nei termini spiegati dal marxismo rivoluzionario, cioè non come aggregato sociale di natura puramente descrittiva, ma come forza sociale che emerge dai rapporti di produzione capitalistici e che , allo stesso tempo, ha in essi il suo punto di vista storico, tendente alla rivolta contro le condizioni di vita che le vengono imposte e a distruggere la totalità della società borghese.

«Che cos’è infatti, secondo il nostro metodo critico, una classe sociale? La ravvisiamo noi forse in una constatazione puramente obiettiva, esteriore, dall’analogia di condizioni economiche e sociali, di posizione rispetto al processo produttivo, di un grande numero di individui? Sarebbe troppo poco. Il nostro metodo non si arresta a descrivere la compagine sociale quale essa è in un dato momento, a tracciare astrattamente una linea che divida in due parti gli individui che la compongono come nelle classificazioni scolastiche dei naturalisti. La critica marxista vede la società umana in movimento, nel suo svolgersi nel tempo, con criterio essenzialmente storico e dialettico, studiando cioè il collegarsi degli avvenimenti nei loro rapporti di reciproca influenza.

«Anziché prendere – come secondo il vecchio metodo metafisico – una fotografia istantanea della società in un momento dato, e lavorare poi su quella per riconoscervi le varie categorie in cui gli individui che la società compongono vadano catalogati, il metodo dialettico vede la storia come una cinematografia che svolge l’uno dopo l’altro i suoi quadri; ed è nei caratteri salienti del movimento di questi che la classe va cercata e riconosciuta.

«Nel primo caso cadremmo nelle mille obiezioni dei puri statistici, dei demografi, gente – se mai ve ne fu – di corta vista, che rivedrebbero le divisioni, osserverebbero che non sono due classi, o tre, o quattro, ma ve ne possono essere dieci o cento o mille separate fra loro per successive gradazioni e zone intermedie indefinibili. Nel secondo caso abbiamo ben altri elementi per riconoscere questo protagonista della tragedia storica che è la classe, per fissarne i caratteri, l’azione, le finalità, che si concretano in uniformità evidenti, in mezzo alla mutevolezza di una congerie di fatti che il povero fotografo della statistica registrava in una fredda serie di dati senza vita.

«Per dire che una classe esista ed agisca in un momento della storia non ci basterà dunque conoscere quanti erano, ad esempio, i mercanti di Parigi sotto Luigi XVI, o i landlords inglesi nel secolo XVIII, o i lavoratori dell’industria manifatturiera belga agli albori del XIX. Dovremo sottoporre un periodo storico intero alla nostra logica indagine, rintracciarvi un movimento sociale, e quindi politico, sia pure che, attraverso alti e bassi, errori e successi, si cerchi una via, ma di cui sia evidente l’aderenza al sistema di interessi di una parte di uomini posti in una certa condizione dal sistema di produzione e dai suoi sviluppi.

«Così Federico Engels, in uno dei primi suoi classici saggi di tale metodo, dalla storia delle classi lavoratrici inglesi traeva la spiegazione di una serie di movimenti politici e dimostrava la esistenza di una lotta di classe.

«Questo concetto dialettico della classe ci pone al di sopra delle scialbe obiezioni dello statistico. Egli perderà il diritto a vedere le classi opposte nettamente divise sulla scena della storia come le masse corali sulle tavole di un palcoscenico, egli non potrà dedurre contro le nostre conclusioni dal fatto che nella zona di contatto si accampano strati indefinibili, attraverso i quali si svolge uno scambio osmotico di singoli individui, senza che la fisionomia storica delle classi che sono in presenza l’una dell’altra venga alterata» (7).

 

3. IL PARTITO E I DECENNI DI DISORDINE

 

Se abbiamo svolto tutto questo lavoro di sintesi e critica delle posizioni che emanano da uno dei centri di analisi privilegiati della borghesia (...) non è perché vediamo in esso un avallo delle nostre posizioni, che sono quelle storicamente difese dalla Sinistra Comunista d’Italia, convalidate o meno dai professionisti e accademici borghesi. Ma, come partito, vediamo possibile un’improvvisa accelerazione della situazione nel prossimo decennio che ci permetta di parlare di una ripresa della lotta di classe del proletariato e persino di una rivoluzione proletaria nel senso previsto dal marxismo?

Storicamente i marxisti sono stati spesso criticati per essere stati eccessivamente ottimisti nel valutare queste situazioni favorevoli. Marx ed Engels, dopo l’insurrezione proletaria del giugno 1848, ritennero che una situazione simile potesse ripetersi negli anni successivi. Lenin, dopo la rivoluzione del 1905, affermò che gli anni successivi avrebbero visto il trionfo del proletariato in Russia. Il nostro stesso partito, negli anni Cinquanta del secolo scorso, ha ritenuto possibile che la crisi che avevamo anticipato per il 1975 avrebbe innescato una ripresa della lotta di classe proletaria e rivoluzionaria su larga scala... In nessuna di queste occasioni le date erano “giuste”. Ma questo non era allora, come non lo è adesso, il problema centrale, che ha sempre ruotato attorno al contenuto della prossima rivoluzione e alla sua inevitabilità.

Nel 1848 si trattava, per Marx ed Engels, di affermare contro tutta la canaglia democratica piccoloborghese che giugno non era un passo falso dei proletari parigini, che la classe proletaria, non solo francese ma mondiale, prima o poi si sarebbe liberata dalla tutela che le classi borghesi e piccoloborghesi esercitavano su di essa, considerandola solo carne da cannone per i loro obiettivi democratici, affermando i propri interessi sotto forma di azione organizzata e indipendente. Il 1871 diede loro ragione. Nel 1905 Lenin cercò di riaffermare che la classe proletaria, ferocemente repressa dall’assolutismo zarista, non era stata sconfitta in termini storici, ma piuttosto che, nello sviluppo sociale verso forme borghesi che germogliavano nella stessa società russa, la classe proletaria avrebbe formatoa un corpo sociale proprio, autonomo nella sua dottrina e nella sua pratica, e che inevitabilmente sarebbe entrata in guerra contro il resto delle classi sociali. Per il nostro partito di ieri si trattava, nel punto più oscuro della controrivoluzione mondiale, quando era mezzanotte nel secolo per usare l’espressione di Victor Serge, del fatto che la rivoluzione proletaria sarebbe tornata al centro della scacchiera mondiale, inevitabilmente così forte mentre le forze economiche e politiche che tenevano sottomessa la classe proletaria si stavano indebolendo. In tutti questi casi noi marxisti potevamo peccare di ottimismo, è vero, se ci riferiamo solo all’aspetto superficiale delle “previsioni”, ma questo eccesso aveva anche una funzione storica: quella di rinforzare l’energia dei militanti rivoluzionari che tenevano strette le fila intorno al nucleo della dottrina rivoluzionaria nel momento in cui la reazione è stata più forte, instillando in loro uno spirito che non nasceva da illusioni o desideri vuoti, ma dalla capacità di questa dottrina di farli diventare più compatti e resistenti anche quando la situazione è del tutto sfavorevole.

Oggi, come abbiamo già detto, non prendiamo le previsioni di questo tipo di centri di studio della borghesia come qualcosa da seguire alla lettera. Abbiamo usato la loro analisi come occasione per approfondire alcune questioni che sono certamente di vitale importanza oggi, ma la nostra valutazione della situazione parte da premesse completamente diverse da quelle di questi economisti, per poi giungere a conclusioni che divergono completamente dalle loro. La pace che essi immaginano alla fine del viaggio turbolento è una cosa; altro è la guerra sociale che la dottrina marxista ha come prospettiva inevitabile per la società di classe, il cui dominio da parte della borghesia è nella sua ultima fase. Pertanto, anche i fattori rilevanti che possono scatenare questa guerra tra classi e che consentirebbero di datarne le fasi sono trattati diversamente.

È vero che gli ultimi anni sembrano mostrare un’evoluzione leggermente accelerata, rispetto ai decenni precedenti, verso la destabilizzazione dell’ordine borghese. Non solo nel campo dell’intensificazione delle rivalità interimperialiste, ma anche nel campo dell’ascesa della lotta della classe proletaria. Il mondo, in generale, è sempre meno governabile e in questo vediamo un elemento di speranza affinché, da sotto i conflitti che avvengono ovunque, la classe proletaria possa emergere con tutta la sua forza storica. Ma quello che non possiamo in alcun modo affermare è che di fronte all’imminente crisi economica e sociale che si sta aprendo in tutte le potenze capitaliste, la rivoluzione proletaria sia proprio dietro l’angolo. Sarebbe del tutto illusorio dare una data, anche solo approssimativa, al tutt’altro che semplice (anzi molto complesso) ritorno della classe proletaria sulla scena della storia.

Ma è anche vero che questa tendenza alla destabilizzazione dell’ordine borghese lascia una scia di lezioni che vanno tratte dal bilancio storico della lunga fase di controrivoluzione permanente che stiamo attraversando. Una di queste sarebbe senza dubbio la constatazione che la fortissima pressione esercitata dalla classe borghese a tutti i livelli (economico, politico e sociale) sulle classi subalterne, soprattutto sul proletariato, ma anche sulla piccola borghesia e sulle altre mezze classi, dà luogo a esplosioni sociali molto intense e brevi ma con un grado di contagiosità non solo locale ma internazionale. Ciò è accaduto, negli anni 2009-2011 con la cosiddetta Primavera araba (8), il movimento degli indignati in Spagna (9) ecc. O anche con le rivolte dei gilet gialli in Francia (10). A differenza di altre volte, queste rivolte non sono state la conseguenza di un lavoro di organizzazione e delimitazione delle forze politiche da parte delle correnti di opposizione, ma piuttosto qualcosa di simile alla lava che sgorga quando la pressione magmatica diventa insostenibile. Da qui la sua forza, mostrata all’improvviso ad una società che solo poche settimane prima sembrava completamente sopita, e la sua breve durata che, nel caso delle rivolte nei paesi arabi, ha favorito l’intervento di varie forze imperialiste, arrivando al caso estremo della guerra civile in Siria.

D’altra parte, è evidente l’incapacità attuale della classe proletaria di portare avanti le proprie posizioni in questo tipo di esplosioni, in modo organizzato e duraturo nel tempo. Dire questo potrebbe sembrare un gioco da ragazzi, visto che decenni di sottomissione della classe proletaria alla forza delle classi borghesi e piccoloborghesi rendono praticamente impossibile al proletariato superare, dall’oggi al domani, lo stato di prostrazione in cui si trova. Ma ciò che è veramente significativo è che, contrariamente ad altre occasioni più o meno lontane nel tempo, di fronte a un’esplosione sociale le forze che controllano i proletari, quelle che solitamente li influenzano più intensamente, devono raddoppiare gli sforzi per mantenerli disciplinati e per non lasciare nemmeno una piccola breccia in questo ordine. Così abbiamo visto, nel periodo 2011-2014, come in Spagna le organizzazioni sindacali si sono prodigate per far abortire ogni tipo di lotta puramente operaia, per quanto limitata, legando mani e piedi ai proletari anche quando una vittoria, ad esempio in uno sciopero, avrebbe significato un rafforzamento del peso di queste stesse organizzazioni tra i lavoratori. Tale atteggiamento è stato di importanza determinante per fare in modo che questi focolai sociali avessero vita brevissima, privando la piccola borghesia di un margine di manovra che l’avrebbe rafforzata al punto da coinvolgere i proletari nelle sue mobilitazioni. E abbiamo visto un simile andamento in Francia, non solo e non tanto rispetto alle manifestazione dei gillet gialli, ma nei confronti dei duri scioperi dei ferrovieri dell’autunno-inverno scorsi di fronte ai quali si sono mobilitate tutte le forze sindacali e politiche dell’opportunismo collaborazionista allo scopo di isolare e soffocare la forte spinta di lotta che avrebbe potuto essere d’esempio per tutte le altre categorie operaie. Con ciò si dimostra che, anche quando la borghesia prevede che la situazione non la metterà in pericolo all’immediato, essa non può in alcun modo permettersi di dare un minimo di corda a una classe proletaria che potrebbe destabilizzare completamente la situazione.

Tutti questi fatti, insieme ad altri di minore importanza, devono essere presi in considerazione come caratteristici di una situazione che può diventare esplosiva nel giro di pochi mesi una volta che la tensione sociale ha iniziato a salire alle stelle. Al di là delle previsioni della Deutsche Bank o di qualsiasi altro organo analogo, l’era del malessere sarà caratterizzata da un susseguirsi di esplosioni e di ritorno all’ordine (ad un ordine molto più duro del precedente), da una pressione raddoppiata sul proletariato perché non sarà permessa nemmeno la minima speranza in un qualche tipo di riforma per alleviare la sua condizione. Con questa politica la borghesia potrà senza dubbio mantenere temporaneamente l’ordine, ma bruciando velocemente le cartucce, esaurendo le tradizionali modalità di collaborazione tra le classi senza poter offrire nulla in cambio al proletariato. Il suo margine di manovra, afflitta dalle sue stesse crisi interne, dalla pressione delle borghesie rivali e, naturalmente, dalla minaccia della lotta di classe dal basso, è molto più limitato di un tempo.

La classe proletaria riapparirà come fattore decisivo nella storia. Lo farà tra terribili convulsioni sociali, in cui la prospettiva storica in molte occasioni non sarà così chiara ai suoi occhi. Ma lo farà spinto dalla forza della decomposizione del mondo borghese, che con il passare del tempo dimostrerà di non avere più nulla da offrirgli.

Questa è la vera speranza che ci nutre come marxisti rivoluzionari, il nostro vero ottimismo. E da esso il partito di classe trae la sua forza per mantenere il suo lavoro quotidiano, sulla via della difesa intransigente della dottrina marxista, che ha la sua ragione d’essere nel rafforzamento della capacità di intervenire su strati sempre più ampi della classe proletaria, e d’azione su ciascuna delle crepe che si aprono nell’ordine borghese... Solo su questa strada l’era del malessere permanente può essere trasformata nell’era della vittoria rivoluzionaria.

(da el proletario, n.21, ottobre 2020)

 


 

(1) Un riepilogo gratuito è disponibile su https://www.db.com/newsroom_news/ 2020/the-age-of-disorder-the-new-era-for-economics-politics-and-our-way-of -life-it-11670.htm

(2) Vedi, ad esempio, Questa volta è diverso. Otto secoli di follia finanziaria, dagli economisti del FMI Kenneth Rogoff e Carmen M. Reinhart.

(3) Marx, Il Capitale, I, capitolo XIII, Macchine e grande industria, Utet, Torino 1974, pp. 501-656.

(4) Marx, Teorie sul plusvalore, in particolare il vol. II, Editori Riuniti, Roma 1973.

(5) Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, Opere, vol. 21, Editori Riuniti, Roma 1966, pp. 313-314.

(6) Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, Giulio Einaudi Editore, Torino 1962, pp. 104-105.

(7) Cfr. Partito e classe nella dottrina marxista, i testi del partito comunista internazionale, n. 4, Napoli 1972, pp. 31-32.

(8) Cfr. Rivolte nei paesi arabi e imperialismo, Suppl. a «il comunista» n. 119, aprile 2011.

(9) Cfr. Indignados: de España a Israel, de Grecia a la India, de Gran Bretaña a los Estados Unidos, a Chile, a Italia..., Suppl. para España n. 15 al n. 49 de «el programa comunista», dicembre 2011.

(10) Cfr. La nostra presa di posizione Dal movimento dei Gilets gialli alla ripresa della lotta di classe proletaria, del 13 gennaio 2019, in «il comunista» n. 157, gennaio 2019.

 

 

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