Giganteschi scricchiolii nell'economia mondiale

(«il comunista»; N° 165 ; Luglio-Ottobre 2020)

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Le grandi istituzioni internazionali e gli economisti di ogni genere non possono non riconoscerlo: l’economia mondiale è entrata in una crisi d’ampiezza storica, più grave della «grande recessione» di dieci anni fa (2008-2009) che dovrebbe essere paragonabile alla crisi che seguì la fine della seconda guerra mondiale negli Stati Uniti, quando l’economia di guerra doveva essere riconvertita, o addirittura a quella degli anni Trenta del secolo scorso. Sappiamo che quest’ultima fu realmente superata solo con la guerra, mentre la crisi seguita alla fine del secondo macello imperialistico fu superata con la «ricostruzione» postbellica («piano Marshall» ecc.).

Secondo Gita Gopinath, la «capo economista» dell’FMI (14/4/20), «Stiamo vivendo la peggiore crisi economica dalla Grande Depressione degli anni 1930».

Da parte sua, l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) prevede (8/4/20) «un forte calo degli scambi (...) probabilmente maggiore della contrazione negli scambi causata dalla crisi finanziaria globale del 2008-2009. (...) Avrà conseguenze dolorose per le famiglie e le imprese».

Per la Commissione europea (6/5/20), siamo in presenza di «un grave shock con conseguenze socioeconomiche molto gravi. Nonostante la velocità con cui le autorità pubbliche hanno reagito adottando un ampio arsenale di misure, sia a livello nazionale che europeo, quest’anno l’economia dell’UE subirà una recessione di portata storica». Quando tutte queste istituzioni imperialiste sono preoccupate per le dolorose conseguenze socioeconomiche della crisi, è il momento che i proletari debbono davvero allarmarsi!

 

PREVISIONI DEL FMI E DI ALTRE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI

 

Lasciamo queste dichiarazioni, che abbiamo citato solo perché illustrano le conclusioni degli esperti borghesi sullo stato della situazione economica del capitalismo mondiale, per dare un’occhiata più da vicino alle loro previsioni.

Gli esperti del FMI hanno il compito di fornire le cifre più precise possibili sull’economia in modo che gli investitori, le istituzioni finanziarie e statali possano prendere decisioni informate; ma poiché le stime e le previsioni del Fondo possono avere conseguenze negative significative, sono sempre organizzate in modo «diplomatico». Nel presente caso, dimostrando una franchezza per la quale non era noto, il FMI ha avvertito che le sue previsioni erano «estremamente incerte» prima di ammettere che erano già state superate dopo la loro pubblicazione (1). Le riproduciamo, tuttavia, come indicato per l’anno in corso nelle «Prospettive dell’economia mondiale» (aprile), perché danno comunque un’idea dell’entità della crisi.

Produzione mondiale (PIL): - 3%. Questa cifra è da recessione globale storica. Ecco le previsioni paese per paese.

Stati Uniti: -6,1%; Giappone: -5,2%; Germania: -7,5%; Francia: -7%; Italia: -9,1%; Spagna: -8%; Gran Bretagna: -6,5% (2); Grecia: -10%; Turchia: -5%; Russia: -5,5%; Brasile: -5,2%; Messico: -6,6%; Argentina: -5,7%; Sudafrica: -5,8%; Nigeria: -3,4%.

L’FMI   stima che la crescita sarà positiva, sebbene in forte calo, per i due maggiori paesi asiatici: Cina: + 1,2% (3); India: + 1,9% (4). Per i paesi del Maghreb, l’FMI prevede un calo del 5,2% in Algeria, del 3,7% in Marocco; e in Tunisia, a cui ha appena concesso un prestito di 745 milioni di $, un calo del 4,3% (il calo maggiore dall’indipendenza). Al contrario, l’Egitto sarebbe l’unico paese arabo a conoscere una crescita del PIL: + 2% (5), mentre l’Arabia Saudita calerebbe del 2,3%. Infine, quest’anno il commercio mondiale di beni e servizi dovrebbe diminuire del 13,9% in volume.

L’OMC è molto meno precisa per il commercio internazionale; stima che il commercio di merci potrebbe scendere dal 13 al 32% secondo le ipotesi (e comunque più che durante la grande recessione del 2008-2009 quando era diminuito del 10%), mentre il commercio di servizi potrebbe essere ancora «più colpito». Secondo un rapporto del 13/05/20 dell’UNCTAD («Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo»), il commercio mondiale dovrebbe scendere del 27% nel secondo trimestre di quest’anno, mentre l’indice medio dei prezzi delle materie prime ha registrato un calo record del 20,4% nel mese di marzo – questo calo senza precedenti da lungo tempo (al culmine della recessione del 2008-2009 il calo è stato del 18%) è dovuto principalmente al crollo dei prezzi del petrolio.

L’OCSE, nella sua «prospettiva economica» n. 1/2020 (giugno) è più pessimista dell’FMI, prevedendo una recessione globale di almeno il 6%, senza precedenti in tempo di pace da un secolo. L’Europa sarebbe particolarmente colpita: se non vi fosse una «seconda ondata» dell’epidemia che porta a nuove misure per limitare l’attività economica, si stima che il calo del PIL sarebbe superiore al 9% (Gran Bretagna, Francia e Italia le più colpite), mentre sarebbe «solo» del 7,3% negli Stati Uniti e del 6% in Giappone. Per la Cina e l’India, le previsioni dell’OCSE, a differenza dell’FMI, prevede il PIL in calo: rispettivamente del 2,6% e del 3,7% nello scenario più favorevole.

Non esporremo ulteriormente le previsioni delle varie istituzioni internazionali; le cifre che abbiamo citato sono sufficienti per mostrare, a prescindere dalla loro approssimazione, la scala senza precedenti della crisi economica in cui il capitalismo mondiale è entrato.

 

L’ESPLOSIONE DELLA DISOCCUPAZIONE

 

Tra le prime conseguenze della crisi per il proletariato c’è stata una vera esplosione della disoccupazione in molti paesi. In particolare, i lavori precari sono i primi ad essere scomparsi, lasciando i proletari colpiti senza alcuna protezione. Questo non è solo il caso dell’America Latina o dell’India; nella ricca Germania 1,5 milioni di proletari impiegati in «mini lavori»  e che sono pagati meno del salario minimo, per un orario di lavoro fino a 48 ore settimanali e che non hanno diritto alle indennità di disoccupazione, hanno così perso il loro lavoro. Nella maggior parte dei paesi europei, le misure parziali di disoccupazione, in parte finanziate dallo Stato, sono state tuttavia in grado di contenere l’aumento della disoccupazione per i lavoratori con contratto a tempo determinato, sebbene tale aumento sia stato comunque significativo. In Gran Bretagna, quasi 9 milioni di salariati dipendenti e 2,5 milioni di lavoratori autonomi, ossia più di un quarto della forza lavoro totale, erano all’inizio di giugno sotto questo regime che garantisce loro l’80% del salario precedente; in Germania sono state presentate richieste di disoccupazione parziale per oltre 10,5 milioni di lavoratori a marzo e aprile (ultimo dato noto all’inizio di giugno), mentre al culmine della crisi del 2008-2009 queste misure riguardavano solo di 1,5 milioni di lavoratori. In Francia il numero di richieste ha raggiunto i 12 milioni, in Spagna il numero di lavoratori interessati da queste misure («ERTE») era di 3,5 milioni alla fine di maggio. In Italia, dove la pandemia ha colpito molto duramente fin da febbraio 2020, la chiusura delle attività di produzione e di distribuzione ha colpito in particolare le medie e piccole imprese, ossia dove sono più concentrati i lavoratori precari, con contratti a termine, e il lavoro nero, compreso quello degli immigrati, in particolare nell’agricoltura e nell’edilizia. I dati non sono facili da trovare, ma si sa che nel quarto trimestre del 2019 dei 23,4 milioni di occupati circa 18,1 milioni erano lavoratori dipendenti, mentre gli altri 5,3 milioni erano lavoratori indipendenti; tra i dipendenti, 14,9 milioni sono quelli permanenti, e i 3,2 milioni restanti sono lavoratori a termine e sono quelli che sono rimasti senza lavoro durante la pandemia, ai quali vanno aggiunti i 9 milioni di lavoratori in cassa integrazione, che in totale fanno 12 milioni di lavoratori in condizioni molto precarie (6). In tutto, circa 40 milioni di salariati in Europa si sono trovati in queste condizioni. Anche se la remunerazione prevista è più o meno importante, comunque limitata nel tempo, queste misure rientrano nel quadro del sistema degli ammortizzatori sociali che esiste ancora, sebbene si riduca nel corso del tempo.

Al contrario, negli Stati Uniti, dove il ricorso alla disoccupazione parziale è quasi sconosciuto, lo shock è enorme, avendo le aziende licenziato rapidamente e in massa dall’inizio della crisi. Al culmine della recessione del 2008-2009, il numero di richieste di sussidi di disoccupazione settimanali non ha mai superato i 750.000, mentre le richieste sono state quasi 7 milioni durante la settimana del 21 marzo! Diversi milioni di lavoratori americani continuano a registrarsi nelle liste di disoccupazione ogni settimana: al momento della stesura di questo documento, si tratta di circa 44 milioni.

Il tasso di disoccupazione per il mese di aprile è stato del 14,7%; ma lo stesso rapporto ufficiale ha riconosciuto che questa cifra non descriveva esattamente la realtà e che il tasso reale poteva essere vicino al 20%, un tasso che era stato raggiunto solo durante la grande crisi degli anni ’30 del secolo scorso. Per il mese di maggio, il tasso di disoccupazione è sceso al 13,3% (una cifra salutata dai tweet trionfali di Trump) a causa della riapertura delle attività alberghiere, del tempo libero, dell’istruzione, dell’edilizia ecc. Anche se il numero di richieste di sussidi di disoccupazione settimanali diminuisce, all’inizio di giugno era ancora di oltre 1.500.000. L’iscrizione alla disoccupazione è necessaria per ricevere le prestazioni, ma a causa della congestione dei servizi amministrativi, molti disoccupati non hanno ancora ricevuto nulla; piombano nella povertà, incapaci di pagare gli affitti o di nutrire i propri figli; la chiusura delle scuole, inoltre, ha comportato la fine dei pasti gratuiti nelle mense scolastiche.

In Messico, secondo un sondaggio INEGI (1/6/20), 12 milioni di persone hanno perso il lavoro (oltre il 12% della popolazione attiva) principalmente nel settore informale - mentre «solo»  un milione di lavoratori del settore formale sarebbe stato licenziato.

In Cina il tasso ufficiale di disoccupazione era del 6% a fine aprile; ma uno studio condotto da un’organizzazione cinese ha stimato, alla stessa data, che la disoccupazione reale era del 20,5% (ossia 70 milioni di disoccupati); lo studio è stato ritirato e la direzione dell’organizzazione è stata punita dalle autorità, ma gli economisti occidentali hanno presentato cifre simili. Le statistiche ufficiali non tengono conto delle decine di milioni di lavoratori migranti in esubero senza copertura previdenziale per il 75% di essi (7). In India, dove non esiste una pubblicazione regolare del tasso di disoccupazione, le misure di contenimento hanno portato al ritorno di milioni di lavoratori nella loro regione di origine (e hanno fatto precipitare milioni di altri nella miseria più nera); a Bombay un’organizzazione ha stimato che le misure del governo hanno triplicato il tasso di disoccupazione portandolo al 24%.

 

LA «GUERRA DEL PETROLIO»

 

Dall’autunno 2016, gli accordi di regolamentazione della produzione tra Russia e Arabia Saudita (leader dell’OPEC) hanno permesso di aumentare il prezzo del petrolio a oltre 60 dollari al barile: avversari su molti terreni, dalla Siria alla Libia passando per il Golfo, questi due Stati avevano finora concordato di mantenere a quel livello i prezzi di una risorsa per loro molto importante e cruciale.

Ma le compagnie petrolifere russe avevano fretta di aumentare la produzione per finanziare i loro investimenti; e, in una riunione con i funzionari dell’OPEC all’inizio di marzo, la Russia ha rifiutato di continuare le restrizioni di produzione. L’Arabia Saudita ha risposto immediatamente aumentando la sua produzione. In una situazione in cui la domanda di petrolio stava già calando, questa decisione di inondare rapidamente il mercato ha causato un vero crollo del prezzo dell’oro nero, a un punto tale che il prezzo del petrolio è diventato negativo per alcuni contratti a termine (i cosiddetti “futures”)! Secondo il Financial Times, quotidiano finanziario di Londra, l’industria petrolifera stava affrontando «la peggior crisi degli ultimi cento anni» (8).

L’azione saudita ha preso di mira apertamente la Russia; ma ha anche preso di mira gli Stati Uniti,  che sono tornati a essere i principali produttori mondiali di petrolio davanti a questi due paesi grazie al gas di scisto; tuttavia, questa produzione è redditizia solo a un livello di prezzo relativamente elevato. Di fronte alla caduta dei prezzi che minaccia di far fallire molte operazioni americane, gli Stati Uniti sono intervenuti direttamente (minacciando perfino di ritirare la protezione militare ai sauditi) come «mediatori» (sic) nello scontro. Finalmente dopo alcune settimane è stato raggiunto un accordo per una riduzione storica della produzione di petrolio di 10 milioni di barili al giorno: la Russia ha perso e l’Arabia Saudita ha confermato il suo ruolo di leader nel mercato mondiale del petrolio, avendo ottenuto, probabilmente, che anche gli Stati Uniti tagliassero la loro produzione. Al momento in cui scriviamo, il prezzo al barile è salito ben oltre i 30 $ al barile, che è comunque inferiore di quasi il 50% rispetto all’inizio dell’anno.

Ci siamo soffermati un po’ sulle convulsioni del prezzo del petrolio innanzitutto per la sua importanza per l’economia mondiale e poi anche per le conseguenze disastrose che la sua caduta avrà sui paesi produttori per i quali rappresenta una grande ricchezza, dall’Algeria all’Iran, dalla Russia al Venezuela, senza dimenticare i paesi del Golfo, che si sono affrettati a rimandare in massa, a casa loro, i lavoratori immigrati. Ma anche perché questa guerra petrolifera è una dimostrazione che la crisi economica alimenta tensioni e scontri tra Stati, scontri che inevitabilmente passeranno dal terreno economico a quello militare.

 

LE FUNESTE CONSEGUENZE DELLA CRISI

 

Una crisi dell’ampiezza che stiamo conoscendo oggi non può non avere conseguenze gravi sulla situazione sociale interna perché i capitalisti, come sempre, faranno pagare ai proletari il salvataggio della loro economia; avrà anche gravi conseguenze per la situazione internazionale e le relazioni tra le grandi potenze, se non altro per il peggioramento della concorrenza economica tra Stati.

Non potrebbe essere diversamente se la crisi non fosse che un’interruzione fortuita e momentanea della vita economica. Questa è la tesi diffusa da istituzioni internazionali e amministrazioni nazionali per le quali si tratta di uno shock, senza dubbio violento, ma «esogeno», vale a dire un incidente non derivante dal meccanismo capitalista stesso (9). Pertanto, tutti annunciano una ripresa più o meno forte dell’economia non appena la pandemia terminerà e i danni causati dall’incidente saranno riparati.

Le misure adottate per far fronte alla pandemia, che ha provocato un forte rallentamento dell’attività economica e la chiusura di alcuni settori, sarebbero state sufficienti da sole per innescare una grave recessione; ma in realtà, come abbiamo già detto in diverse occasioni sulla nostra stampa (10), la crisi economica generale stava per scoppiare - e si stava già manifestando in alcuni paesi.

In America Latina, la CEPAL stimava, a novembre 2019, che il periodo 2016-2020 avrebbe registrato la crescita più lenta del continente da 75 anni (principalmente a causa dell’entità della crisi economica in Venezuela e Argentina) (11). In Europa il 2019 è stato il terzo anno di rallentamento economico e la recessione era già in marcia in Germania e in Italia. In Cina le statistiche ufficiali, che dipingono ancora la realtà... in rosa, indicano tuttavia che il 2019 ha visto la crescita economica più debole da trent’anni a questa parte. Negli stessi Stati Uniti, dove la droga della moneta facile suggeriva una crescita robusta, il settore industriale, che è il vero motore dell’economia nei grandi Stati capitalisti, era entrato in recessione nella seconda metà del 2019. La risposta al coronavirus ha fatto scoppiare la bolla, ponendo fine al più lungo ciclo di espansione economica dalla fine della Seconda Guerra Mondiale; la conseguente crisi economica sarà ancora più lunga e profonda.

D’altra parte, i responsabili governativi sono i primi a non credere in una rapida ripresa; ne fanno fede i piani annunciati per sostenere l’economia che, voltando le spalle a tutte le regole dell’ortodossia di bilancio e del bilancio in pareggio, sono di miliardi di euro e dollari presi in prestito sui mercati finanziari o da deficit bilancio... Questi annunci hanno alimentato un rimbalzo nei mercati azionari mondiali che, dopo cali storici, hanno registrato aumenti altrettanto storici nonostante lo stato catastrofico dell’economia. Molti economisti sono preoccupati per questo «disaccoppiamento» della finanza dall’«economia reale»; ma i finanziatori sanno che gran parte del denaro che andrà nell’economia finirà nei mercati finanziari se non ci sono investimenti redditizi altrove. Finché la sovrapproduzione che ha gonfiato i mercati non è superata dalla liquidazione delle forze produttive in eccesso, tutti questi miliardi non potrannno portare a una vera ripresa.

I capitalisti lo sanno bene; sperano sempre che siano liquidate le aziende degli altri. Nell’esacerbata concorrenza che si sta svolgendo sul mercato mondiale, si appellano al sostegno dei rispettivi Stati. Invece di sfociare in una maggiore cooperazione internazionale, o addirittura in un «cessate il fuoco globale» come volevano imporre i pacifisti (mediante una petizione!), una conseguenza immediata della crisi è l’acutizzazione degli antagonismi tra gli Stati. La chiusura generale dei confini, gli onnipresenti appelli alla sovranità economica nazionale, l’inasprimento della concorrenza per trovare o produrre forniture mediche, e il peggioramento della rivalità tra Stati Uniti e Cina e, in modo meno visibile, tra loro e gli altri paesi, ne sono l’espressione.

Ciò non è dovuto al capriccio di un Trump o all’autoritarismo di uno Xi Jinping; è l’inevitabile tendenza allo scontro tra le grandi potenze imperialiste che può solo essere accentuata e accelerata dalle crisi economiche. Il capitalismo si sta inesorabilmente dirigendo verso un nuovo conflitto mondiale, che poteva essere prevenuto o fermato solo dalla rivoluzione proletaria internazionale.

 

GUERRA O RIVOLUZIONE

 

Venticinque anni fa, in un testo sul cosiddetto «nuovo ordine mondiale» promesso dall’imperialismo americano, abbiamo fatto riferimento a uno studio di specialisti americani nelle relazioni internazionali che, basandosi sull’analisi dei cicli economici, impostava il 2020 come termine per un terzo conflitto mondiale. Ciò significava che la borghesia americana credeva che per i successivi 25 anni avrebbe potuto continuare a mantenere il suo dominio mondiale.

«Ammettiamo dunque», scrivevamo «che la previsione borghese abbia un fonda­mento reale, e che per altri 25 anni i proletari dei paesi indu­strializzati, o i proletari di Cina, Corea, India, Medio Oriente, non abbiano la forza di scendere stabilmente sul terreno della lotta di classe e dello scontro frontale con le borghesie dei propri paesi; ammettiamo dunque che i tempi di maturazione dei fattori rivoluzionari, oggettivi e soggettivi, siano ancora così lunghi.  Ammettiamo dunque che la previsione borghese abbia un fonda­mento reale, e che per altri 25 anni i proletari dei paesi indu­strializzati, o i proletari di Cina, Corea, India, Medio Oriente, non abbiano la forza di scendere stabilmente sul terreno della lotta di classe e dello scontro frontale con le borghesie dei propri paesi; ammettiamo dunque che i tempi di maturazione dei fattori rivoluzionari, oggettivi e soggettivi, siano ancora così lunghi.

«Per le borghesie dei paesi industrializzati i prossimi 25 anni saranno anni di crescente concorrenza sul mercato mondiale, anni di indebitamento pubblico eccezionale, anni di preparazione di nuove alleanze in vista dei futuri sbocchi di guerra, anni di rapina e di colonizzazione feroce rispetto ai paesi meno avanzati e più poveri, anni di austerità interna, di pressione crescente su tutti gli strati della popolazione  e di controllo sempre più accentrato di tutte le risorse nazionali, anni di interventi armati nelle zone del mondo considerate «vitali» per gli equili­bri internazionali esistenti. La nuova spartizione del mercato mondiale non sarà il risultato di riunioni fra i G7 o i G8, non sarà il risultato delle sedute dell’ONU, non sarà il risultato degli accordi politici ed economici che nel frattempo verranno presi bilateralmente o plurilateralmente nelle più disparate sedi di associazioni e istituzioni internazionali. Essa sarà il risultato, in parte, della forza economico-finanziaria e militare che ognuna delle potenze imperialistiche in campo metterà a disposizione della difesa dei propri interessi nazionali e dei propri alleati, e, in modo decisivo, della prossima guerra mon­diale»Per le borghesie dei paesi industrializzati i prossimi 25 anni saranno anni di crescente concorrenza sul mercato mondiale, anni di indebitamento pubblico eccezionale, anni di preparazione di nuove alleanze in vista dei futuri sbocchi di guerra, anni di rapina e di colonizzazione feroce rispetto ai paesi meno avanzati e più poveri, anni di austerità interna, di pressione crescente su tutti gli strati della popolazione  e di controllo sempre più accentrato di tutte le risorse nazionali, anni di interventi armati nelle zone del mondo considerate vitali per gli equili­bri internazionali esistenti. La nuova spartizione del mercato mondiale non sarà il risultato di riunioni fra i G7 o i G8, non sarà il risultato delle sedute dell’ONU, non sarà il risultato degli accordi politici ed economici che nel frattempo verranno presi bilateralmente o plurilateralmente nelle più disparate  sedi di associazioni e istituzioni internazionali. Essa sarà il risultato, in parte, della forza economico-finanziaria e militare che ognuna delle potenze imperialistiche in campo metterà a disposizione della difesa dei propri interessi nazionali e dei propri alleati, e, in modo decisivo, della prossima guerra mon­diale. (12).

L’attuale crisi si sta avvicinando alla scadenza di una guerra mondiale, che non è tuttavia immediata. Ma se le lotte proletarie non sono mancate, i 25 anni trascorsi non hanno ancora visto il ritorno del proletariato sulla strada di un’efficace lotta di classe. Nel prossimo periodo, caratterizzato dal raddoppio degli attacchi capitalistici, spetterà alle minoranze proletarie d’avanguardia fare ogni sforzo per liberare se stesse e il resto dei proletari dalla collaborazione di classe che, in nome della nazione e della democrazia, paralizza ancora il proletariato.

Cinquant’anni fa, a proposito di una recessione negli Stati Uniti, un rapporto del partito affermava:

«La vera crisi, che si situerà storicamente tra la seconda e la terza guerra mondiale, sarà internazionale ad un grado ancor più elevato di quella che ebbe luogo tra la prima e la seconda guerra; la prova di ciò può essere trovata nella collaborazione del capitalismo di Stato russo alle “misure anticrisi” che abbiamo delineato; collaborazione che, culminata nel rimedio dell’estensione del commercio mondiale tra i due cosiddetti blocchi, dimostra, solo con la sua presentazione ideologica, che la futura crisi di sovrapproduzione colpirà tutte le mostruose macchine produttive del mondo: sarà la crisi della follia iperproduttiva che unisce l’America e la Russia nella competizione emulativa che entrambi lodano. E questa crisi metterà il mondo alla vigilia di una nuova guerra generale, se non lo metterà alla vigilia della rivoluzione» (13). La condizione per vincere è la presenza preparata da lungo tempo, di un partito organizzato sulla base dell’invariante programma comunista.

Contribuire alla costituzione e allo sviluppo di questo partito è un compito che l’attuale crisi sta ponendo e mettendo all’ordine del giorno più urgentemente che mai.

(da le prolétaire, 16/6/2020)

 


 

(1) In una conferenza del 7 maggio, i responsabili del FMI hanno dichiarato che la situazione economica in «molti paesi» è peggiorata dalla pubblicazione della presente relazione il 14 aprile.

(2) La Banca d’Inghilterra ha avvertito che il paese rischia di subire la peggior recessione degli ultimi 300 anni (dal «grande inverno» del 1709), con un calo del PIL del 3% annuo nel primo trimestre e del 25 % nel secondo, ma che sarebbe seguito da un rimbalzo nei trimestri seguenti, che ridurrebbe la caduta per il 2020 al 14%. Cfr. «An illustrative scenario for the economic outlook. Monetary Policy Report. May 2020» (Uno scenario illustrativo per le prospettive economiche. Rapporto sulla politica monetaria. Maggio 2020).

(3) Per la prima volta, il governo cinese non ha presentato, alla riunione del parlamento di fine maggio, un obiettivo quantificato di crescita economica (tradizionalmente sempre superiore al 6%): le previsioni erano senza dubbio pessime...

(4) Il «collasso economico» di cui parlano gli economisti locali in India suggerisce che quest’anno non ci sarà crescita, ma una recessione di almeno il 5%. I produttori di armi francesi sono una delle vittime della crisi; per esempio Dassault ha visto scomparire un mercato molto succoso di cento aerei da combattimento con Nuova Delhi. Cfr. Capital, 20/5/20 e Saxo Bank, 18/5/20.

(5) Questa cifra è particolarmente sorprendente, dato che alcuni economisti egiziani già ad aprile hanno previsto un calo del 3,5% (Al Monitor, 15/4/20); senza dubbio si spiega col desiderio dell’FMI di non ridicolizzare le previsioni del governo mentre erano in corso discussioni per finalizzare un prestito di 2,8 miliardi di dollari.

(6) Cfr. www.documentazione.info/ occupazione-in-italia-ecco-i-numeri, e www.consulentidellavoro.it/ home/storico- articoli/12584- quasi - 9 - milioni - di - italiani - in - cassa-integrazione  

(7) Les Echos, 15/06/06.

(8) Financial Times, 24/03/20, citato in «Verso una depressione economica», Contretemps, 12/5/2020.

(9) Questa era già la tesi avanzata durante la crisi del 1974-75, che segnò la fine degli anni di forte crescita economica seguiti alla seconda guerra mondiale: la crisi sarebbe dovuta semplicemente alla decisione contingente dell’OPEC.

(10) Vedi «Le capitalisme sur un volcan», Le Prolétaire n. 535, dicembre 2019-gennaio 2020, e il comunista n. 163, marzo 2020 (Il mondo capitalista su di un vulcano); «Le capitalisme mondial de crise en crise» Le Prolétaire n. 527, 530 e 531 (da gennaio 2018 a gennaio 2019), e il comunista nn. 152, 155 e 156 del 2018, e n. 157 del 2019 (Il capitalismo mondiale di crisi in crisi).

(11) Cfr. «Bilancio preliminare delle economie dell’America Latina e del Caribe», CEPAL (Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi), novembre 2019.

(12) «Il nuovo disordine mondiale. Dalla guerra fredda alla pace fredda e, in prospettiva, verso la terza guerra mondiale», il comunista, n. 43-44, ottobre 1994-gennaio 1995; Programme communiste n. 94, maggio 1995 (Le nouveau désordre mondial. De la guerre froide à la paix froide et, en perspective, vers la troisième guerre mondiale).

(13) «Il corso del capitalismo mondiale nell’esperienza storica classica e nella dottrina di Marx», Il programma comunista 1957-1958.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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