Disuguaglianze e lotta di classe

Per i borghesi le disuguaglianze sono un dato di fatto che basta mitigare..., per i proletari, invece, dimostrano l’insuperabile antagonismo fra le classi in cui è divisa la società borghese. Solo la lotta rivoluzionaria del proletariato e la vittoria del socialismo sul capitalismo le può affrontare e superare una volta per tutte!

(«il comunista»; N° 166 ; Dicembre 2020)

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Di fronte ad ogni crisi economica, e ad ogni crisi sanitaria come l’attuale, i borghesi ammettono che nella loro società le diseguaglianze si acutizzano, scavando profondi fossati tra una ristretta minoranza di miliardari e una larga maggioranza di proletari precipitati nella più nera povertà. Anzi, giungono anche ad ammettere – basandosi su dati statistici che ufficialmente i loro Istituti di indagine rilevano con regolarità – che anche in periodo di crisi quella ristretta minoranza di miliardari diventa ancor più ricca, e quella maggioranza di poveri diventa ancor più povera.

La Banca Mondiale, secondo “il fatto quotidiano” del 19 ottobre 2020, dichiara che «la crisi innescata dal Covid-19 entro il 2021 farà cadere nella povertà estrema da 110 a 150 milioni di persone, l’1,4% della popolazione globale». Milioni di persone che vanno ad aggiungersi ai 3 miliardi che i vari istituti di statistica internazionali hanno già registrato ufficialmente come persone che “vivono” con meno di 2 dollari Usa al giorno.

In realtà, al di là della classificazione della povertà nel mondo a cui sono tanto affezionati gli Istituti di ricerca internazionali (condizioni di povertà assoluta o “estrema”, per le persone che “vivono” con meno di 1,25 $ Usa al giorno, di povertà relativa, per persone che “vivono” con meno di 2 $ Usa al giorno ecc.) – come se con 3, 5 , 10 o anche 50 $ al giorno una famiglia proletaria di 4 persone potesse vivere decentemente! – la situazione reale risponde al fatto che l’1% degli abitanti della terra possiede il 99% della ricchezza mondiale, e all’interno di quell’1%, lo 0,30% (poco più di 2.500 persone) possiede il 60% dell’intera ricchezza mondiale. Questa divisione, letta in termini marxisti,  risponde a quanto Marx ha scritto nel Capitale trattando della legge generale dell’accumulazione capitalistica: «L’accumulazione del capitale, che in origine appariva solo come suo allargamento quantitativo, si compie in un continuo mutamento qualitativo della sua composizione, in un incessante aumento della sua parte componente costante a scapito della sua parte componente variabile» (1), dove per costante, nella composizione organica del capitale, si intendono i mezzi di produzione (macchine, materie prime ecc.), e per variabile si intendo i salari degli operai. L’aumento della parte costante avviene a detrimento della parte variabile e questo non è un fenomeno temporaneo, ma è l’essenza dello sviluppo del capitale; non solo, l’applicazione di innovazioni tecniche nei processi di produzione e di distribuzione, sollecitate dal progresso della scienza e dalla lotta di concorrenza, comporta l’aumento della produttività del lavoro. Continua Marx: «Il modo di produzione specificamente capitalistico, lo sviluppo ad esso corrispondente della forza produttiva del lavoro, il mutamento così provocato nella composizione organica del capitale, non vanno solo di pari passo col progredire dell’accumulazione, ovvero con l’aumento della ricchezza sociale: procedono a un passo incomparabilmente più veloce». L’aumento della produttività del lavoro, che progredisce con lo sviluppo stesso del capitalismo, e che produce una massa sempre più grande di plusvalore, determina una diminuzione relativa della componente variabile del capitale rispetto all’accumulazione crescente della sua parte costante; la popolazione lavoratrice tende storicamente ad aumentare sempre più, ma a fronte di una diminuzione dei mezzi del suo sostentamento, cioè del capitale variabile messo a disposizione dei cicli produttivi. E’ così che l’accumulazione capitalistica produce una sovrapopolazione operaia relativa, «cioè eccedente i bisogni medi di valorizzazione del capitale, quindi superflua». E siccome il modo di produzione capitalistico è tale al solo scopo di valorizzare il capitale, la sovrapopolazione operaia, cioè quello che Marx chiamò esercito industriale di riserva, è una costante della società borghese. «La legge per la quale, grazie al progredire della produttività del lavoro sociale, si può mettere in moto una massa sempre crescente di mezzi di produzione con un dispendio progressivamente decrescente di forza umana – questa legge, sulla base capitalistica dove non l’operaio impiega i mezzi di lavoro, ma i mezzi di lavoro impiegano l’operaio, si esprime in ciò che, quanto più alta è la forza produttiva del lavoro, tanto maggiore è la pressione degli operai sui loro mezzi di occupazione, e perciò tanto più precaria è la loro condizione di esistenza: vendita della propria forza per l’aumento della ricchezza altrui, ossia per l’autovalorizzazione del capitale». Il lavoro dell’operaio diventa perciò il prolungamento, un’appendice del mezzo di lavoro su cui è impiegato: è il mezzo di lavoro – dunque l’organizzazione capitalistica del lavoro – che detta legge, è il capitale costante che impiega il capitale variabile, imponendo il vero obiettivo della produzione capitalistica: la valorizzazione del capitale. «Il più rapido aumento – continua Marx – sia dei mezzi di produzione e della produttività del lavoro, che della popolazione produttiva, si esprime dunque capitalisticamente nel fatto inverso che la popolazione operaia cresce sempre più rapidamente dei bisogni di valorizzazione del capitale»; perciò tutta la popolazione operaia creata dallo sviluppo capitalistico si divide in forza lavoro effettivamente occupata nella produzione e nella distribuzione e forza lavoro superflua, definita esercito industriale di riserva perché lo sviluppo capitalistico non è mai stato graduale, senza scosse  o crisi, tutt’altro. E questa forza lavoro di riserva è il bacino dal quale, in tempi di forte espansione, il capitale pesca ulteriore forza lavoro da impiegare, ma è anche una massa di disoccupati che preme sulle masse occupate entrando in concorrenza con loro perché non ha altre alternative per sopravvivere visto che, in questa società, vivi o sopravvivi solo se i capitalisti ti danno un lavoro, e quindi un salario, sennò sei condannato alla miseria più nera e a morire di fame. Il dispotismo economico di base che caratterizza il capitalismo si esprime nel fatto che tutti i mezzi di sviluppo della produzione si capovolgono in mezzi di dominio e sfruttamento della popolazione operaia e trasformano il suo tempo di vita in tempo di lavoro o in tempo di ricerca spasmodica di lavoro. La creazione della sovrapopolazione operaia relativa è una legge specifica del capitalismo che, a fronte di un’accumulazione di capitale, determina un’accumulazione di miseria: «L’accumulazione di ricchezza ad un polo è quindi nello stesso tempo accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, abbrutimento e degradazione morale al polo opposto, cioè dal lato della classe che produce come capitale il suo proprio prodotto». Il carattere antagonistico dell’accumulazione capitalistica non dipende dalla volontà dei capitalisti, è congenito con il capitalismo e può essere eliminato solo eliminando il capitalismo, la sua società, i suoi rapporti di produzione e di proprietà e il suo modo di produzione.

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CON LE CRISI I RICCHI DIVENTANO PIÙ RICCHI, I POVERI PIÙ POVERI

 

Con la ricomparsa, nel 2019, della crisi economica, aggravata dalla crisi sanitaria da Covid-19, se qualcuno poteva pensare che anche la minoranza dei capitalisti più ricchi al mondo sarebbe stata colpita seriamente perdendo parte della propria ricchezza, deve ricredersi. Sono gli stessi dati statistici ufficiali che dimostrano quanto la forbice tra i più ricchi e il resto della popolazione si allarga, e quanto, proprio grazie alla crisi da Covid-19, i più ricchi in assoluto hanno guadagnato diventando ancora più ricchi. Ciò dimostra per l’ennesima volta quanto noi sosteniamo da sempre: le catastrofi economiche, innescate da crisi di produzione, da crisi commerciali, da pandemie o da crisi politico-militari, in ultima analisi sono occasioni di succulenti affari per un pugno di capitalisti; tanto che, se non avvenissero per cause oggettive determinate dalle stesse contraddizioni del sistema capitalistico, sarebbe per loro molto conveniente provocarle o, come sta avvenendo in quest’anno di pandemia da Sars-Cov-2, utilizzare la crisi sanitaria esistente per aggravarne gli effetti disastrosi e sfruttarli al massimo.

Nella società capitalistica la classe dominante borghese non è una classe unita e compatta: si divide in frazioni che lottano costantemente tra di loro, sia a livello nazionale che a livello internazionale. Ed è certo che, di fronte a crisi di grandi dimensioni, come l’attuale, questa lotta è più acuta che mai; ci sono frazioni della borghesia che dalla crisi guadagnano fortune, altre frazioni che ci guadagnano poco, altre ancora che ci perdono fino a dover chiudere le loro attività e precipitare nella rovina.

Da marzo a metà ottobre 2020, cioè in circa sette mesi – ossia da quando il picco della pandemia ha segnato gli indici più importanti –, per una parte non marginale di società per azioni (e quindi per i loro azionisti più importanti) la ricchezza è cresciuta a dismisura. Ne danno conto diversi giornali e siti internet. Il Corriere della sera del 19 ottobre scorso (2), a firma di Milena Gabanelli, nota giornalista investigativa che, con le sue indagini, ha dato fastidio a molti “pezzi da novanta”, ha pubblicato un articolo in cui, sulla base di documenti ufficiali, si mette in evidenza che, con il Covid-19, la ricchezza dei miliardari è cresciuta esponenzialmente. Ad esempio, negli Stati Uniti, «dal 18 marzo al 15 settembre la ricchezza di 643 persone è cresciuta complessivamente di 845 mld di dollari»; nello stesso periodo 50 milioni di persone, sempre negli Stati Uniti, hanno perso il lavoro (di cui, attualmente, 14 milioni sono ancora disoccupati). In sostanza, i 2.947 mld di $ rappresentati da quei 643 ricconi sono diventati 3.792 mld $ (+28,7%) in soli sei mesi. Naturalmente tra di loro c’è chi ha guadagnato di più e chi di meno. Ad esempio, i primi cinque supermiliardari al mondo sono stati Jeff Bezos (Amazon), che passa da 113 a 192 mld $; Bill Gates (Microsoft), da 98 a 118; Mark Zuckerberg (Facebook), da 54,7 a 97,7; Elon Musk (Tesla Spacex), da 24,6 a 91,9; Warren Buffet (holding assicurativa Berkshire Hatahaway) da 67,5 a 80,2. In termini di aumento in percentuale, tra questi big, l’azionista di maggioranza della Tesla Spacex ha segnato il +270%, quello di Facebook il +78,6%, quello di Amazon il +69,9%, quello di Microsoft il +20,4% e quello di Berkshine Hat. il +18,8%. Oltre ai cinque ricconi citati, fra i successivi dieci della classifica, troviamo i maggiori azionisti di Oracle, di Microsoft, di Google, di Amazon, di Bloomberg, dell’Istituto finanziario specializzato in mutui per la casa Quicken Loans, della catena di negozi al dettaglio Walmart, le cui ricchezze personali aumentano dal 45,9% al 79,5% (3). E per chi volesse sapere come se la sta passando il presidente miliardario americano Donald Trump, questi occupa attualmente il posto 766 nella classifica mondiale, con 3,1 mld $; ma, come tutti i miliardari, grazie all’opera dei migliori consulenti fiscali, anche Mr. Trump paga tasse bassissime, anzi «per 15 anni ha pagato zero dollari di tasse», mentre da aprile a settembre di quest’anno, quando il Covid-19 bloccava il paese e faceva più di 200mila morti nei soli Stati Uniti, «la sua ricchezza è cresciuta del 20%» (4).

E’ interessante notare come le multinazionali che hanno guadagnato di più in assoluto sono legate alle nuove tecnologie informatiche applicate al campo dei servizi e nella produzione industriale tradizionale che, a loro volta spingono i sistemi produttivi ad innovarsi sviluppando maggiore produttività nella classica ora di lavoro e impiegando meno forza lavoro; ma la forza lavoro impiegata è, di fatto, obbligata ad una intensità maggiore e a ritmi di lavoro più pesanti di prima. Inoltre, l’applicazione di nuove tecnologie in moltissimi settori economici va a ridurre ulteriormente in ogni azienda il numero di dipendenti necessari per completare i cicli di produzione, cosa che potrebbe non succedere se si diminuissero drasticamente le ore giornaliere di lavoro per ciascun lavoratore... ma questo il capitalismo non lo permette e non lo permetterà mai perché il plusvalore che estorce ai lavoratori (ossia il tempo giornaliero di lavoro non pagato ad ogni salariato) viene proprio da questa particolare forma moderna di sfruttamento. Questa riduzione drastica delle ore giornaliere di lavoro, i proletari la potrebbero ottenere solo attraverso una durissima lotta di classe contro la quale si sono opposti con ogni mezzo, da sempre, non solo i capitalisti, il chè è ovvio, ma tutte le forze dell’opportunismo, della conciliazione e della collaborazione di classe, fra le quali svettano i partiti, le associazioni varie e i sindacati cosiddetti “operai”.

Tornando alle diseguaglianze, secondo la ong Oxfam (5), nel 2016 «2153 miliardari del mondo detengono il 60% della ricchezza globale, ovvero hanno più soldi di quanti ne possiedono tutti insieme 4,6 miliardi di abitanti della terra» (6); secondo l’ultimo report UBS, i miliardari nel 2017 sono diventati 2.158, e nel 2019 sono aumentati a 2.189. «Josef Stadler, capo del family office di Ubs, ha parlato di mondo post pandemico a rischio di polarizzazione con una concentrazione della ricchezza che è ai livelli del 1905 quando c’erano i Rockefeller and Co» (7). Forse non tutti ricordano che i Rockefeller erano, all’epoca, i più ricchi al mondo e che non si occupavano soltanto di petrolio, ma anche di chimica, farmaceutica, sanità, istruzione universitaria ecc, tutti rami di attività che permettevano ad essi, e ai capitalisti loro alleati, di piegare la politica ai loro interessi privati. Dimostrazione ineccepibile dello sviluppo monopolistico del capitalismo. 

Dando uno sguardo alla Cina che, da potenza capitalistica mondiale quale è diventata, fa concorrenza diretta agli Stati Uniti in tutti i mercati, Forbes riscontra ben 456 miliardari (includendo Hong Kong e Macao) che, contro i 614 degli USA, la pone al secondo posto. Un dato particolare, ma che conferma la nostra tesi in merito all’arricchimento dei capitalisti grazie alle crisi e alle pandemie, riguarda l’allevatore di maiali più grande al mondo, Qin Yinglin che, nello scorso aprile è passato da 4,3 mld di dollari del 2019 ai 23,4 mld attuali, e tale incremento è dovuto ad un’altra epidemia, quella della peste suina, che ha fatto schizzare alle stelle il prezzo della carne.

Grazie al Covid (sempre dal servizio del “Corriere della sera” citato) (8) anche i supercapitalisti cinesi si sono riempiti le tasche: il presidente e ceo di Tencent (una superholding di videogiochi che controlla la WeChat, una specie di facebook cinese), Ma Huateng, oggi, ottobre 2020, ha un patrimonio di 61,6 mld di dollari, contro i 38 che possedeva solo nel marzo scorso; subito dopo si trova Zheng Shanshan che, nello stesso periodo e dopo aver quotato in borsa le sue acque minerali Nongfu Spring e il gruppo farmaceutico Wantai Biological Pharmacy, da 1,9 mld di dollari è passato a 55,9; poi c’è Jack Ma, capo del colosso dell’e-commerce Alibaba che oggi quota 53 mld di dollari. E a seguire ci sono i maggiori azionisti di holding immobiliari (come Evergrande Group e Country Garden), di elettromestici (come Midea Group), di multipiattaforme digitali come Netease (che si divide il mercato cinese di videogiochi) ecc. Tutte queste società per azioni sono, per la maggior parte, “chiuse” nel mercato cinese che, per quanto conti su più di 1 miliardo e mezzo di abitanti, sta cominciando a stare molto stretto per capitalisti di queste dimensioni; il che vuol dire che la concorrenza con gli americani, gli inglesi, i tedeschi, i francesi, i giapponesi, i coreani, gli indiani, gli italiani, insomma con tutto il mondo cosiddetto occidentale, si farà sempre più acuta e i colpi di teatro si faranno sempre più frequenti.

Naturalmente, in un paese come la Cina in cui il partito unico al governo è nello stesso tempo espressione del capitalismo d’assalto cinese – non certo espressione di un comunismo che la degenerazione staliniana ha completamente cancellato dai programmi di quello che fu il partito bolscevico di Lenin, e che non è mai entrato nei programmi del partito che fu di Mao Tse-Tung – e forza politica centralizzata che governa gli interessi non solo particolari ma generali del capitalismo cinese, è ovvio che i grandi miliardari rappresentano quello che è stato definito il “capitalismo di relazione”, cioè gli affari fatti grazie all’appoggio del governo con leggi a favore, fatta salva la lotta tra frazioni borghesi che non smette mai e che si ripercuote inevitabilmente sulla politica mettendo fazioni contro fazioni nonostante la forte centralizzazione esistente. Tale “capitalismo di relazione” lo si riscontra soprattutto in paesi come la Russia, il Messico, le Filippine, la Malesia dove le leggi apertamente a favore dei grandi miliardari fanno da contorno ad organismi antitrust inesistenti, a costante lobbying sui parlamenti, a sistemi di brevetti e di esclusive talmente a loro favorevoli da creare direttamente dei monopoli.

In Russia, ad esempio, tra i primi dieci miliardari che si occupano tutti di materie prime e di idrocarburi, figurano Vladimir Potanin (22,9 mld di $), maggior azionista di Nornickel (palladio e nichel); Vladin Lisin (22,6 mld di $), il re dell’acciaio; Leonid Mikhelson (20,7 mld di $) produttore di gas; Roman Abramovich (12,6 mld di $) magnate nel campo del carbone, del nichel e del palladio. Nelle Filippine, Enrique Razon (4,8 mld di $) controlla  i porti del paese; in Malaysia Robert Kuok (11,1 mld di $) è il maggior produttore di olio di palma; in Messico Carlos Slim (53,1 mld di $) è padrone assoluto della telefonia del paese (9). Ma il capitalismo di relazione lo si è riscontrato anche in paesi come l’Italia dove regna la democrazia parlamentare (a dimostrazione che la democrazia serve soprattutto alla grande borghesia per ingannare le masse, e che il parlamento è soltanto un mulino di parole in cui, ad ogni tornata elettorale, si eleggono coloro che vengono chiamati, di volta in volta, a governare l’oppressione delle grandi masse a favore della minoranza borghese). Basti pensare alla Fiat degli Agnelli e degli Elkhan o alla Fininvest di Berlusconi, che sono riusciti anche a farsi eleggere al parlamento, e Berlusconi addirittura a diventare capo del governo per ben 4 volte dal 1994 al 2008.

 

I MONOPOLI IMPERANO SU TUTTA L’ECONOMIA, QUINDI SULL’INTERA SOCIETÀ

 

Nel 1915 Lenin scriveva “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”, in cui affermava che «se si volesse dare la definizione più concisa possibile dell’imperialismo, si dovrebbe dire che l’imperialismo è lo stadio monopolistico del capitalismo»; e poco oltre passava a precisare «i suoi cinque principali contrassegni, e cioè: 1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva della vita economica; 2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo “capitale finanziario”, di un’oligarchia finanziaria; 3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci; 4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti che si ripartiscono il mondo; 5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche» (10).

Cos’è cambiato dal 1915? Le basi del capitalismo sono sempre le stesse; quel che si è modificato con lo sviluppo imperialistico del capitalismo è lo sviluppo più accentuato del capitale finanziario e delle associazioni monopolistiche internazionali, con il contemporaneo acutizzarsi della concorrenza tra giganteschi trust e tra i grandi Stati imperialisti per una nuova ripartizione della terra, obiettivo reale dei diversi rapporti di forza che nel frattempo si sono modificati (basti pensare alla Cina di oggi). Quel che non si modifica è la tendenza da parte del capitalismo a concentrare in poche mani il potere finanziario ed economico, e , come affermava Lenin, «la tendenza alla stasi e alla putrefazione», poiché «nella misura in cui s’introducono, sia pur transitoriamente, i prezzi di monopolio, vengono paralizzati, fino ad un certo punto, i moventi del progresso tecnico e quindi di ogni altro progresso, di ogni altro movimento in avanti, e sorge immediatamente la possibilità economica di fermare artificiosamente il progresso tecnico» (11).

In campo medico-sanitario, questa tendenza a paralizzare ogni progresso è evidente; non solo per effetto della distruzione, da parte della chimica-farmaceutica e dei giganteschi interessi ad essa abbinati, di ogni esperienza secolare delle cure della medicina cosiddetta naturale e della cancellazione di ogni ricerca  scientifica che non sia orientata al business, ma anche per l’indirizzo imposto alle politiche sanitarie di ogni paese da parte delle potenti associazioni capitalistiche che, con i loro capitali, piegano ai loro interessi, da più di un secolo, le politiche governative. E, su questo, la politica dei vaccini la dice lunga. Già nei primi anni Venti del secolo scorso i Rockefeller e i loro soci, attraverso la Rockefeller Foundation e le loro istituzioni internazionali, determinavano le politiche sanitarie della Lega delle Nazioni (poi diventata Società delle nazioni e, dal 1948, ONU) (12). Tra l’altro, la Rockefeller Foundation ha finanziato fin dall’origine l’Istituto Superiore della Sanità italiano. Quel che facevano i Rockefeller a quell’epoca, lo fanno oggi Bill Gates e consorte nei confronti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il cui indirizzo è determinato dai suoi finanziatori, tra cui spicca, appunto, la Bill & Melinda Gates Foundation che «ha destinato all’Oms quasi 444 milioni di dollari nel 2016, di cui circa 221 vincolati, e quasi 457 milioni nel 2017, di cui 213 vincolati a programmi specifici» (13). Il governo degli Stati Uniti è stato, finora, il primo finanziatore dell’Oms, ma la Bill & Melinda Gates Foundation è il secondo e il governo del Regno Unito il terzo. Il caso vuole che Bill Gates si sia concentrato in particolare sulla somministrazione dei vaccini nei paesi in via di sviluppo, soprattutto africani, dove evidentemente è molto più facile fare ogni genere di esperimento direttamente su esseri umani... E’ evidente l’interesse in campo vaccinale, perché i governi possono decretare l’obbligo di vaccinazione, soprattutto nei confronti dei bambini, col pretesto della “prevenzione” rispetto a malattie molto contagiose come il morbillo, la difterite ecc. e molte altre derivate da epidemie insorgenti improvvisamente, e spesso gonfiate appositamente (ma le cui cause sono, per la stragrande maggioranza dei casi, da ricercare proprio negli ambienti malsani creati soprattutto nelle grandi metropoli e nell’assenza sistematica di una reale prevenzione). E’ noto, ad esempio, il caso della famosa influenza suina che l’Oms aveva denunciato nel giugno 2009, inducendo molti paesi a contrattualizzare l’acquisto di vaccini pandemici, poi dimostratasi una falsa emergenza; è stato il caso, denunciato dall’Istituto di Sanità Globale della facoltà di medicina dell’Università di Ginevra, per bocca del suo direttore Antoine Flahault, dell’Oms «costretta a tenere conto di quello che Gates ritiene prioritario» come, ad esempio, «vincolare fondi consistenti all’ampliamento della lotta alla polio in una fase che vede la malattia quasi debellata e nuove potenziali epidemie insorgere» (14). Riportando le parole del presidente dell’Agenzia Europea per lo Sviluppo e la Sanità, Jean-Marie Kindermans, “la Repubblica” (2/6/2017) scriveva che l’Oms, nel bilancio 2016-2017, destinava alla lotta contro la poliomelite ben 894,5 milioni di dollari, 10 volte di più rispetto alla prevenzione dell’Aids, la quarta causa di mortalità nei paesi poveri. E’ plausibile allora chiedersi: che fine hanno fatto quei soldi?, che siano serviti per distribuire tangenti per piegare i governi agli interessi delle maggiori case farmaceutiche?... In ogni caso, quando ci sono miliardi di dollari in ballo si scatena regolarmente la lotta tra lobby e progetti contrastanti, ma in genere univocamente tesi a soddisfare interessi che rispettino le sacre leggi del capitalismo che valgono per tutti i contendenti: prima di curare, sia garantito il guadagno! E la prevenzione?, in genere i suoi costi sono inferiori a quelli delle cure in situazioni di emergenza, ma non garantisce i cospicui guadagni che ogni emergenza porta con sé, perciò la si riduce al minimo possibile... e i morti che si potevano evitare?, vanno classificati regolarmente tra i danni collaterali... D’altra parte, che dicevano questa primavera Boris Johnson, Donald Trump, Jair Bolsonaro sui morti da Covid-19, se non che erano il prezzo da pagare per giungere infine all’immunità di gregge?

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GLI AFFARI “RICHIEDONO” LA CRISI, SU CUI SPECULARE A MAN BASSA, E LA PACE SOCIALE, DUNQUE LA COLLABORAZIONE FRA LE CLASSI, PER TENERE IL PROLETARIATO SOTTO CONTROLLO

 

Ogni situazione di emergenza, però, può comportare lo scatenamento di violente ribellioni delle masse diseredate e impoverite che ormai riempiono anche le periferie delle grandi metropoli dei paesi supersviluppati. La borghesia si pone da sempre questa eventualità e, sebbene dalla sua esperienza di dominio sociale accumulata in due secoli abbia ricavato molte lezioni per attrezzare la difesa del suo potere nelle situazioni anche più gravi, è certa che in situazioni di grave emergenza economica e sociale deve pagare un prezzo anche alto per le sue tasche e per la “credibilità” dei suoi governanti politici. Deve, però, nello stesso tempo, ricorrere a tutta una serie di misure che, dal punto di vista economico, metta a tacere, almeno in parte, i bisogni elementari di vita delle grandi masse e che, dal punto di vista politico-sociale, dia alle masse la sensazione che per affrontare le emergenze sociali sia più che mai necessario unire tutte le forze di qualsiasi classe sociale, convincendole che questo tipo di collaborazione interclassista guidata dal governo centrale sia l’unica strada per “uscire dall’emergenza”. Lo “sforzo comune” richiesto a gran voce dalla borghesia e da tutti i suoi servi, ma nello steso tempo imposto attraverso le misure d’emergenza attuate dai governi – cioè con i borghesi che perdono qualche quota di profitto e i proletari che perdono il lavoro e il salario, cioè l’unica fonte di sopravvivenza! –, diventa il classico mezzo col quale la borghesia scarica direttamente sulle spalle delle masse proletarie il peso più grosso della crisi. In questo modo le diseguaglianze tra ricchi e poveri dello stesso paese, e tra paesi, invece di diminuire, aumentano enormemente.

Sono anni, a partire soprattutto dalla grande crisi mondiale del 1975, che economisti, esperti di sviluppo, politici di ogni tendenza si incontrano in convegni e meeting in cui discutere su come diminuire le diseguaglianze nella speranza di ridurre, nello stesso tempo, i pericoli di rivolte non solo nei paesi della periferia dell’imperialismo, ma anche nelle metropoli imperialiste. Ridurre le diseguaglianze, per i capitalisti, in sostanza, significa, da un lato, aumentare la capacità di spesa, dunque i consumi, delle masse, soprattutto degli strati più alti della forza lavoro e della piccola borghesia, consumi che possono essere orientati grazie a forti campagne pubblicitarie e ad una propaganda “culturale” mirata su determinati prodotti e su certe abitudini che i borghesi amano definire “stili di vita”; dall’altro lato, tendere ad attenuare le tensioni sociali provocate da condizioni di vita e di sfruttamento intollerabili che esprimono quelle stesse diseguaglianze, attraverso politiche sociali impostate sulla più stretta collaborazione fra le classi, irrorate con sussidi e briciole economiche tipiche della carità. Non è infatti un caso che, negli ultimi 45 anni, si sia sviluppato nei paesi capitalisti più industrializzati oltre al settore delle fondazioni filantropiche, quello del  volontariato e delle onlus, sia in campo religioso che laico.

Le fondazioni filantropiche costituite da capitalisti miliardari di ogni nazione – gli esempi di Rockefeller e di Bill Gates lo dimostrano – muovono centinaia di milioni di dollari in progetti e azioni con lo scopo propagandato di “aiutare” le popolazioni più povere e gli strati popolari più emarginati, ma con una finalità materiale ben più concreta in termini economici e sociali, come un ricchissimo finanziere, Peter Buffet, non ha avuto scrupoli a svelare: in un articolo pubblicato dal New York Times, nel 2013, egli dichiarava che «la filantropia sta diventando un business enorme (con 9,4 milioni di occupati che muovono 316 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti), ma le disuguaglianze globali continuano a crescere a spirale, fuori controllo, e altre vite e comunità vengono distrutte dal sistema che crea immense quantità di ricchezza per i pochi» (15).

Il capitalismo è avido e cinico e le sue contraddizioni non possono essere risolte con un capitalismo “dal volto umano”, espresso dalle Ong, dalle organizzazioni religiose o dalle fondazioni filantropiche come le già citate Gates Foundation e Gavi Alliance, che “donano” miliardi di dollari all’OMS (Organizzazione mondiale della sanità). Di fatto, queste “donazioni”– che provengono anche dalla Cina – consentono di orientare le decisioni di politica sanitaria globale. Ma che questo giro di miliardi risponda sempre al business è dimostrato anche dal fatto che le multinazionali miliardarie hanno spostato e spostano le proprie sedi fiscali nei paesi dove è più conveniente, non per nulla chiamati “paradisi fiscali”... risparmiando in questo modo decine di miliardi ogni anno. A fianco di questa attività “benefica” da parte dei grandi miliardari, da decenni le organizzazioni del volontariato, sia laiche che religiose, si sono attivate per svolgere un compito di assistenza molto prezioso per la conservazione sociale perché non fanno che lenire i mali dello stesso sistema sociale che li genera continuamente e sui quali non manca mai la speculazione. Queste organizzazioni servono, inoltre, come vasche di compensazione in cui far defluire una parte delle tensioni sociali che si accumulano proprio a causa di quei mali. A questo compito, diventato strategico per il capitalismo e per la pace sociale, partecipano anche gli Stati; lo dimostra il fatto che in campo fiscale lo Stato prevede la distribuzione di una parte delle tasse pagate dai contribuenti ad enti e associazioni religiose, sociali, assistenziali, culturali o umanitarie riconosciute legalmente (in Italia, ad esempio, sono previsti tre scaglioni: l’8 per le chiese riconosciute, il 5‰ per le varie associazioni sociali del volontariato, culturali, scientifiche, sportive ecc., e il 2‰ per i partiti politici).

Ma, come si sa, l’avidità dei capitalisti non si ferma al terreno fiscale, si rifrange direttamente sui salari dei propri dipendenti. La loro “forza contrattuale” è tale per cui sono in grado non solo di orientare le politiche governative secondo i loro interessi, ma di ottenere normalmente condizioni estremamente vantaggiose dai propri fornitori (che a loro volta abbattono i salari ai propri dipendenti), e di imporre ai propri dipendenti diretti e ai propri falsi “collaboratori” condizioni economiche miserrime (ad esempio, in Italia, Amazon paga un co.co.co sì e no 700 euro al mese, per non parlare dei riders). Di fronte a queste condizioni le grandi organizzazioni sindacali tradizionalmente legate al collaborazionismo di classe si dimostrano sistematicamente complici della borghesia: chiedono e organizzano negoziati, non la lotta. E dai negoziati che cosa hanno ricavato e che cosa ricavano? Quando va bene, briciole che non risolvono nessun problema, ma normalmente promesse che non vengono mai mantenute.

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COME I CAPITALISTI GUARDANO AL FUTURO PROSSIMO

 

I capitalisti più lungimiranti non si limitano a far fruttare i propri miliardi in ogni attività economica, finanziaria o filantropica che realizzano; si preoccupano anche di disegnare “un futuro prevedibile”, ad esempio in caso di guerra o di pandemia. Rimanendo sul terreno della crisi sanitaria e pandemica, è interessante evidenziare una particolare simulazione fatta un anno fa dal Johns Hopkins Center for Health Security, in collaborazione con il World Economic Forum e la Bill and Melinda Gates Foundation. Il “Corriere del Ticino” del 16 marzo 2020, dava conto che il 18 ottobre 2019, a New York, veniva lanciata un’iniziativa, chiamata “Event 201”, con la quale si simulava un’epidemia causata da un nuovo coronavirus, del tipo Sars, trasmesso dai pipistrelli ai maiali e da questi all’uomo, virus che facilmente si trasmetteva da uomo a uomo portando a una grave pandemia e con una letalità molto elevata, tanto che in 18 mesi avrebbe provocato la morte di 65 milioni di persone (16). Per rendere la simulazione più vicina alla realtà, Event 201 si basava su uno scenario molto dettagliato. Evidentemente, grazie alle passate esperienze, a partire appunto dalla Sars del 2002-2003, non è stato difficile immaginare una situazione simile, ma più catastrofica. Lo scenario ipotizzato vedeva la malattia svilupparsi in alcuni allevamenti di maiali in Brasile, per poi diffondersi all’uomo, partendo soprattutto dai quartieri più poveri e densamente popolati delle metropoli sudamericane. Da qui l’epidemia esplodeva e veniva “esportata” per via aerea dapprima in Portogallo, negli Stati Uniti e in Cina, e poi in molti altri paesi, fino a diventare una vera e propria pandemia. Si prevedeva, inoltre, che in un primissimo tempo la diffusione venisse controllata, ma nel giro di pochissimi mesi sfuggisse al controllo e che nessun paese riuscisse più a controllarla. Si ipotizzava ovviamente la corsa al vaccino, ma che sarebbe stato disponibile non prima di un anno; si ricorreva perciò a dei farmaci antivirali che potevano aiutare i malati ma non guarire dalla malattia. I contagi aumentavano esponenzialmente e con loro anche i decessi, e le conseguenze economiche e sociali diventavano sempre più gravi. Event 201 ipotizzava che la pandemia, dopo aver fatto 65 milioni di morti, avrebbe continuato a diffondersi per concludere la sua letalità o mediante un vaccino efficace, o grazie al fatto che l’80-90% della popolazione mondiale fosse stata esposta al virus e, quindi, si fosse immunizzata (la famosa “immunità di gregge”).

La combinazione vuole che lo scenario ipotizzato da Event 201 sia diventato, con il Covid-19, realtà. Alcune indagini sostenevano che l’epidemia da Sars-CoV-2 già circolasse a Wuhan e dintorni nell’ottobre 2019 e che, perciò, abbia avuto ben 4 mesi di tempo per diffondersi nel mondo, per via aerea. Il virus, in Europa, ha colpito soprattutto in luoghi di campagna dove gli allevamenti, non solo di maiali, sono intensivi e dove le condizioni anche per i lavoratori di quegli allevamenti sono simili a quelle ipotizzate da Event 201. Tale virus si è diffuso con più facilità nelle zone più umide e inquinate – come la Val Padana in Italia – e con alta densità di abitanti. Inutile dire che, come qualsiasi epidemia da virus o da batteri, anche questa si è diffusa e concentrata molto più facilmente nelle periferie delle megalopoli, densamente popolate e igienicamente degradate, che non nei centri storici. Quel che la simulazione non ha messo in conto, perlomeno dai resoconti che abbiamo letto, era l’impatto drammatico che la quantità di malati ha avuto sul sistema sanitario di ogni paese, sia dal punto di vista delle strutture ospedaliere esistenti sia da quello del personale medico e infermieristico: strutture non adeguate a far fronte ad una epidemia di questa ampiezza (mancanza di ospedali, di posti letto in terapia intensiva e in terapia subintensiva, mancanza di attrezzature adeguate, dai ventilatori polmonari ai dispositivi di protezione per tutto il personale ospedaliero e per i pazienti, mancanza di medici, di infermieri e di operatori sanitari ecc.), tanto da non smentire il detto popolare: in ospedale ci si ammala, non ci si cura... Infatti i pronto-soccorso degli ospedali, nei quali, giorno dopo giorno, si sono ammassate migliaia e migliaia di contagiati, sono stati tra i più efficaci trasmettitori dell’epidemia, sia tra i pazienti che tra il personale ospedialiero. Così, gli ospedali del 2020 sono diventati simili agli ospedali da campo del 1918, nella prima guerra mondiale, quando, sotto attacchi nemici e cannoneggiamenti, i soldati ammassati nelle trincee in situazioni di malnutrizione, di affollamento, di scarsa igiene, di stress, si infettavano a migliaia di quella che fu definita l’influenza più grave di tutti i tempi, la cosiddetta “spagnola”, un’influenza tenuta nascosta per molto tempo (alcune fonti parlano di un anno) dalla censura di guerra, ma che venne alla luce per i casi emersi nel 1918 in Spagna, dove non vigeva la censura perché il paese non partecipava alla guerra, da cui il nome “spagnola”.

Ma torniamo alla grande contraddizione della società borghese: profitto capitalistico contro salute. In verità, profitto capitalistico contro la salute, sì, ma delle masse proletarie e più povere perché i ricchi capitalisti, anche se colpiti da questo coronavirus, sono talmente assistiti da medici personali e curati con grandissima solerzia e attenzione che riescono, in genere, a cavarsela; Berlusconi, Boris Johnson, Bolsonaro, Trump sono lì a dimostrarlo contro le centinaia di migliaia di persone comuni uccise più dal sistema capitalistico, con le sue diseguaglianze, che dal coronavirus.

Un sistema, d’altra parte, che ha chiaramente fallito su tutta la linea e che, per le sue leggi a difesa del profitto, è giunto cinicamente a distribuire malati da Covid-19 dagli ospedali alle residenze per anziani, per il semplice motivo che i posti letto negli ospedali non bastavano per tutti e bisognava fare posto per nuovi ricoverati gravi. Un sistema che, per la cronica mancanza di attrezzature ospedaliere adeguate e per mancanza di letti nelle terapie intensive, metteva i medici nelle condizioni di dover scegliere quale paziente favorire e quale abbandonare alla morte; inutile dire che i più anziani e coloro che avevano patologie pregresse erano destinati all’abbandono. Ma è un sistema che, per non far pesare su ogni singolo medico la decisione tremenda su chi curare e salvare e chi abbandonare alla morte, ha trovato, grazie all’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche e alla Società Svizzera di Medicina Intensiva, una “soluzione” burocratico-amministrativa.

Il documento elaborato da queste autorità scientifiche, di cui dà conto “La Stampa” del 24 ottobre 2020, si intitola Triage dei trattamenti di medicina intensiva in caso di scarsità di risorse (17), e contiene delle direttive molto precise. Il presidente dei medici dichiara che questo protocollo per le cure in caso di sovraffollamento delle terapie intensive «è pesantissimo, ma così le regole sono chiare». Nella distinzione dei livelli di intervento sono date, ad esempio, queste indicazioni: al livello A, con letti in Terapia Intensiva disponibili, ma risorse limitate, i criteri per non essere ammessi alla rianimazione sono, tra gli altri, «Arresto cardiocircolatorio ricorrente, malattia oncologica con aspettativa di vita inferiore a 12 mesi, demenza grave, insufficienza cardiaca di classe NYHA IV, malattia degenerativa allo stadio finale»; al livello B, ossia nell’indisponibilità di letti in Terapia Intensiva «non andrebbe fatta alcuna rianimazione cardiopolmonare». Va detto che questo documento è stato ufficialmente emanato il 20 marzo 2020, quando anche in Svizzera aumentavano esponenzialmente i contagi e i morti da Covid-19, ma non è stato mai applicato visto che quei casi non si sono davvero verificati. Restano però direttive valide da mettere in pratica in caso di reale mancanza di posti nelle terapie intensive..., ed è un esempio che potrebbe essere seguito dalle borghesie degli altri paesi, anche perché non è pensabile che in ogni paese vengano costruiti a tamburo battente nuovi ospedali attrezzati per affrontare qualsiasi situazione epidemica, oltre all’attuale, che si dovesse verificare... Non è stato fatto in dieci anni dalla comparsa della precedente epidemia da Sars, né nei decenni precedenti, non sarà fatto nemmeno oggi né domani perché la legge del profitto capitalistico non cambia a causa di una pandemia, come gli stessi capitalisti ripetono continuamente e come i fatti dimostrano.

Va detto che di fronte al tremendo dilemma: chi curo, chi abbandono, si sono trovati tutti i medici in ogni paese. Bergamo è stata la provincia italiana in cui il sistema sanitario ha fatto più morti da coronavirus di qualsiasi altra provincia; i medici dichiaravano: «La situazione è così grave che siamo costretti a operare al di sotto dei nostri standard di cura. I tempi di attesa per un posto in terapia intensiva durano ore. I pazienti più anziani non vengono rianimati e muoiono in solitudine senza neanche il conforto di appropriate cure palliative» (18). Tutti ricordano le lunghe file di camion militari che nella bergamasca portavano centinaia e centinaia di bare in cimiteri di altre città perché mancavano posti anche nei cimiteri della zona.

Certo, qualche differenza, tra paese e paese, può esserci. La potenza economica ha potuto consentire alla classe dominante borghese di un paese, per esempio la Germania, di non scardinare la sanità pubblica come è stato fatto in Italia e in quasi tutti gli altri paesi, Stati Uniti compresi: la sanità tedesca ha 8,3 posti letto ogni 1000 abitanti, contro i 3,2 dell’Italia; ed ha 6,1 posti in terapia intensiva ogni 1000 abitanti, contro 1,8 dell’Italia. Finora, secondo i dati ufficiali, sembra che siano stati sufficienti a fronteggiare l’epidemia in Germania, un paese che, al 23 ottobre, ha avuto fino ad ora 426.110 contagiati, ma con molti meno decessi (10.010, quindi con un rapporto di 0,023%) rispetto all’Italia (37.059, su 484.869 contagiati, con un rapporto di 0,076%) o alla Francia (34.536, su 1.084.659 contagiati, con un rapporto di 0,032%) (19).

E’ un fatto del tutto assodato che la grandissima parte dei morti da coronavirus non fa parte della classe dominante borghese, e certamente non dei ricchi miliardari tra i quali, come risulta dai dati degli stessi istituti di indagine borghesi, sono proprio quelli legati alle tecnologie e alla sanità che hanno guadagnato più di tutti. Prendendo come base i dati del 2018, “il fatto quotidiano” del 19 ottobre scorso scrive che «i miliardari della salute» sono quelli che hanno aumentato la propria ricchezza del 50,3%, anche grazie ai ricavi generati da farmaci, diagnostica e attrezzature per il coronavirus. Rimanendo ai paesi capitalisti avanzati, secondo l’Ocse «la diseguaglianza tra i suoi 37 Stati membri è ai massimi dell’ultimo mezzo secolo: l’1% dei suoi abitanti più ricchi guadagna nove volte il reddito del 10% più povero». E, durante la prima ondata del Covid-19, nella primavera scorsa, «sono aumentati divario di genere, disparità etniche, impoverimento dei lavoratori a basso reddito e bassa scolarità: i colletti bianchi hanno usato lo smart working in sicurezza, i lavoratori essenziali della sanità e della distribuzione hanno rischiato la vita e quelli della gig economy sono scivolati nella disoccupazione» (20).

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NELLA CIVILTÀ BORGHESE LA POVERTÀ DELLE MOLTITUDINI SORGE DALL’ABBONDANZA DEI POCHI RICCHI

 

Nella civiltà – cioè nella società borghese – la povertà sorge dalla stessa abbondanza; è una conclusione tratta dal socialista utopista Fourier che Engels riprende nel suo opuscolo “L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza” (21). Engels si ricollega a Fourier per dimostrare che egli era già giunto ad una concezione della storia della società da materialista; aveva, infatti, suddiviso il corso storico di sviluppo della società in quattro fasi: stato selvaggio, barbarie, stato patriarcale e civiltà. La fase ultima, che Fourier chiama civiltà, è la società borghese che si dimostra come una società che «si muove in un “circolo vizioso”, in contraddizioni che continuamente riproduce senza poterle superare, cosicché essa raggiunge sempre il contrario di ciò che vuol raggiungere o che dà a vedere di voler raggiungere. Cosicché, per es., “nella civiltà la povertà sorge dalla stessa abbondanza”». La dialettica non mancava a Fourier; vedeva la contraddizione tra un’abbondanza che si accumulava da una parte della società moderna e la povertà che si accumulava dalla parte opposta. Ma ci volle il materialismo dialettico marxista per scoprire che lo sviluppo delle società umane, come succede nella natura, procede sì attraverso fasi storiche caratterizzate da contraddizioni, ma non all’interno di un sistema assoluto che la filosofia deve interpretare immaginando una realtà sociale più “giusta”, dove le “diseguaglianze” possono essere risolte attraverso atti “di coscienza”, atti “di volontà” senza cambiare la struttura economica della società, bensì all’interno di un divenire storico basato sullo sviluppo delle forze produttive che, ad un certo grado del loro sviluppo, si vanno a scontrare con le forme di produzione nelle quali la società si è organizzata. Il socialismo utopistico non andava oltre una concezione morale delle contraddizioni che emergono dal corso di sviluppo sociale; il capitalismo accumulatore di ricchezza da un lato e la povertà accumulata dall’altro lato erano interpretati come il male della società, il male che andava rigettato perché ingiusto e discriminante, e con esso andavano rigettati la proprietà privata, l’arricchimento straordinario da parte delle classi al potere, l’impoverimento costante e l’asservimento delle classi lavoratrici, l’ingiustizia sociale, insomma tutte contraddizioni acutizzatesi nella società civile contro cui i socialisi utopisti richiedevano un rinnovamento sociale nel quale le nuove potenti forze produttive moderne «dovevano essere destinate, come proprietà comune, a lavorare solo per il benessere comune», ma sulla base della libera concorrenza e di una più “equa” distribuzione dei profitti... come se potesse esistere un capitalismo senza appropriazione privata della ricchezza prodotta socialmente e senza la concentrazione di questa ricchezza nelle mani di una piccola minoranza di grandi borghesi. Siamo all’inizio dell’Ottocento, in Inghilterra la grande industria era appena sorta e in Francia era ancora sconosciuta, perciò «il modo di produzione capitalistico e con esso l’antagonismo tra borghesia e proletariato era ancora poco o nulla sviluppato». Ma fatti storici di grande rilevanza, come la prima sollevazione operaia a Lione nel 1831 e le lotte dal 1838 al 1842 dei cartisti inglesi (il primo movimento operaio nazionale, come sottolinea Engels), dimostravano che «la lotta di classe tra il proletariato e la borghesia si presentava in primo piano nella storia dei paesi più progrediti d’Europa, nella stessa misura in cui in quei paesi si sviluppavano da una parte la grande industria e dall’altra il dominio politico che la borghesia aveva di recente conquistato». Sono questi nuovi fatti storici a spingere verso una nuova concezione – e in ciò consiste il marxismo – non solo della storia della società moderna, ma di tutta la storia precedente, che, «ad eccezione delle età primitive, era la storia delle lotte delle classi, e che queste classi sociali che si combattono vicendevolmente sono di volta in volta risultati dei rapporti di produzione e di scambio, in una parola dei rapporti economici della loro epoca; che quindi di volta in volta la struttura economica della società costituisce il fondamento reale partendo dal quale si deve spiegare in ultima analisi tutta la sovrastruttura delle istituzioni giuridiche e politiche, così come delle ideologie religiose, filosofiche e di altro genere di ogni periodo storico».

Solo su queste basi, cioè sulle basi del materialismo storico e dialettico, dunque del marxismo, è stato possibile spiegare la nascita e il tramonto di ogni società divisa in classi, e della società capitalistica in particolare; è stato possibile spiegare il modo di produzione capitalistico «nel suo nesso storico e nella sua necessità nell’ambito di un determinato periodo storico, e quindi anche la necessità del suo tramonto». Ma, soprattutto, il marxismo ha svelato la caratteristica specifica del modo di produzione capitalistico rimasta fino ad allora inspiegabile: il plusvalore. «Fu dimostrato – scrive Engels – che l’appropriazione di lavoro non pagato è la forma fondamentale del modo di produzione capitalistico e dello sfruttamento dell’operaio che con esso viene compiuto; che il capitalista, anche se compra la forza lavoro del suo operaio secondo il pieno valore che essa, come merce, ha sul mercato, ne trae tuttavia un valore maggiore di quello che per essa ha pagato; e che in ultima analisi questo plusvalore costituisce la somma di valore per cui la massa di capitale continuamente crescente si accumula tra le mani delle classi possidenti. Il processo tanto della produzione capitalistica che della produzione del capitale era spiegato».

Detto in sintesi, si tratta della contraddizione fondamentale del capitalismo: la contraddizione tra produzione sociale e appropriazione privata. La produzione capitalistica si basa sul lavoro associato, dunque è produzione sociale, produzione che non è a disposizione dell’intera società, ma delle sole classi possidenti, cioè della classe capitalistica dominante che se ne appropria, obbligando tutti i componenti della società e, soprattutto, la classe proletaria ad acquistare al mercato i beni, che essa stessa produce, necessari per vivere. Non solo i capitalisti non pagano a ciascun operaio una parte, sempre più alta, del suo tempo di lavoro giornaliero, ma lo obbliga a comprare al mercato i beni necessari per vivere – quindi a spendere tutto il suo salario solo per ricostituire la propria forza lavoro perché i capitalisti possano sfruttarla giorno dopo giorno. E’ evidente che questa contraddizione si presenti come antagonismo tra proletariato e borghesia, che è l’antagonismo di classe tipico della società capitalistica.

L’antagonismo tra proletariato e borghesia non è un’espressione della contrapposizione tra poveri e ricchi, e non è attenuando la contrapposizione tra ricchi e poveri che si può attenuare, tanto meno eliminare, questo antagonismo. Anche nel caso di salari aumentati e di un tenore di vita delle masse proletarie più alto, questo antagonismo non scompare: la borghesia capitalista continuerà a estorcere plusvalore dal lavoro salariato, continuerà ad accumulare capitale attraverso la sua valorizzazione generata dallo sfruttamento del lavoro salariato e manterrà, difendendola con ogni mezzo, legale e illegale, pacifico e violento, il regime di appropriazione privata della produzione sociale.

La lotta tra queste due classi principali della società capitalistica non scompare mai e non è una lotta “di concorrenza” tra il proletariato e la borghesia. Il proletariato non ha il compito storico di togliere ai ricchi una parte della ricchezza di cui si impossessano sistematicamente, e farla sua allo scopo di elevarsi dalla condizioni di povertà in cui è caduto; non ha il compito storico di mitigare le diseguaglianze economiche, sociali, politiche, culturali che lo distanziano dalla classe borghese e nemmeno quello di raggiungere, nelle condizioni di esistenza generali, una media tra le condizioni superprivilegiate dei grandi capitalisti e le condizioni di estrema indigenza delle masse impoverite. Il compito storico del proletariato è di eliminare la divisione in classi dalla società, di mettere la produzione sociale a disposizione delle esigenze reali di tutti gli esseri umani eliminando la proprietà privata e, soprattutto, l’appropriazione privata dell’intera ricchezza prodotta. Ma, per ottenere questo risultato, il proletariato deve organizzare la propria forza sociale sul terreno rivoluzionario della lotta di classe, della lotta che mira a strappare il potere politico dalle mani della classe borghese, ad instaurare la sua dittatura di classe per fronteggiare e distruggere la dittatura politica ed economica della classe borghese, unica via per distruggere i rapporti borghesi di produzione e di proprietà (cioè le forme in cui sono imprigionate le forze produttive) e per liberare le forze produttive sociali al loro pieno e crescente sviluppo a favore dell’intera società, della società di specie, liberatasi in questo modo definitivamente del mercantilismo e della divisione sociale del lavoro, ossia dei due perni su cui si è formato e sviluppato il capitalismo. Perché questo compito storico è del proletariato e di nessun’altra classe della società borghese? Il perché lo sintetizza Engels nell’Introduzione a Lavoro salariato e capitale, di K. Marx:

«Nello stato attuale della produzione la forza lavoro dell’uomo non solo produce in un giorno un valore superiore a quello che essa possiede e a quello che costa; ad ogni nuova scoperta scientifica, ad ogni nuovo perfezionamento tecnico questa eccedenza del suo prodotto giornaliero sul suo costo giornaliero aumenta, così si riduce quella parte della giornata di lavoro in cui l’operaio produce l’equivalente del suo salario, e si allunga perciò d’altro lato quella parte della giornata in cui egli deve regalare al capitalista il suo lavoro senza essere pagato. Tale è la costituzione economica di tutta la nostra società attuale: solo la classe operaia è quella che produce tutti i valori» (22).

Ai borghesi fa comodo battere il tasto della povertà di fronte alla ricchezza, perché l’una e l’altra vengono trattate come un dato di fatto, come una condizione sociale che non dipende da precisi rapporti di produzione e di proprietà – che ovviamente si danno per intoccabili ed eterni –, ma dal caso, dalla fortuna o dalla sfortuna, dall’abilità o dall’incapacità negli affari, dall’applicazione o meno dell’ingegno individuale, dal rischio che ognuno vuole o non vuole correre. Per i borghesi la povertà diventa quindi un dato statistico che può essere frazionato in una stratificazione infinita e che, per la legge dei grandi numeri, può essere ridotta alle ormai famose fasce di povertà assoluta (coloro che “vivono” con 1 dollaro al giorno) e di povertà relativa (coloro che “vivono” con 2 dollari al giorno). Coi termini povertà e ricchezza si tenta di cancellare la divisione della società in classi contrapposte, riducendo la società ad una somma di individui singoli più o meno “fortunati”. Povertà: vale genericamente per tutti coloro che per svariate ragioni ritenute “individuali” non sono più in grado, o non lo sono mai stati, di mantenere una condizione di vita in cui assicurarsi non solo i beni di prima necessità, ma anche tutti quei servizi che servono per soddisfare i bisogni sempre nuovi che lo sviluppo del capitalismo genera continuamente. Ricchezza: vale per quel ceto sociale che vive in condizioni di particolare benessere grazie alla proprietà dei capitali coi quali costituire aziende (di produzione, di commercio, di servizio nelle quali sfruttare direttamente forza lavoro), o semplicemente intascare rendite e profitti generati dallo sfruttamento del lavoro salariato da parte di altri capitalisti.

Sebbene la borghesia sia giunta, nel corso del suo sviluppo, ad ammettere la divisione in classi sociali contrapposte della sua società, da quando il movimento proletario, sviluppatosi insieme allo sviluppo della grande industria, ha dimostrato di essere l’unica classe ad avere una prospettiva storica universale e indipendente, e perciò rivoluzionaria, e nonostante la storia delle lotte di classe e delle rivoluzioni del proletariato dimostri che esso agisce, sulla base dell’antagonismo di classe, come classe sociale con proprie finalità, la classe dominante borghese fa di tutto – sul piano ideologico, politico, culturale – per negare la divisione in classi storicamente antagoniste. I concetti di popolo, di nazione, di patria, o di identità etnica o di razza sono utilizzati allo scopo di falsare la realtà sociale capitalistica; questi concetti si innestano perfettamente nella realtà della produzione e dello scambio di merci, del mercato, della concorrenza. Per i borghesi qualsiasi prodotto è una merce, qualsiasi ambito in cui i prodotti vengono venduti e scambiati con denaro è un mercato, qualsiasi prodotto è destinato allo scambio, quindi al mercato, ed il mercato è il luogo dove fiorisce la concorrenza. Il mercato diventa il centro della vita, perché si vendono e si comprano tutti i prodotti necessari alla vita degli esseri umani. Come i prodotti immessi nel mercato sono misurabili secondo il valore che incorporano, così gli esseri umani, che devono rivolgersi al mercato per soddisfare qualsiasi esigenza (dai beni di prima necessità a tutti gli altri), sono misurabili secondo il “valore” che ognuno di loro esprime in termini di disponibilità di denaro necessario per acquistare al mercato qualsiasi tipo di prodotto. Chi ha più denaro è ricco, ha la possibilità di acquistare al mercato una varietà tendenzialmente infinita di prodotti; chi ha meno denaro, o non ne ha proprio, è povero, non ha questa possibilità, è perciò un essere umano al quale il mercato è poco o per nulla interessato, dunque lo emargina, lo esclude, lo rifiuta. Il mercato diventa così il luogo dove si decide chi vive bene, chi sopravvive e chi muore; diventa l’ago della bilancia della vita umana e nel mercato non ci finiscono soltanto i prodotti-merce che vanno scambiati con denaro, ci finisce anche il denaro-merce, sia per essere dato a credito ai capitalisti, sia per circolare in quanto denaro nei circuiti finanziari che formano il mercato della speculazione. E ci finiscono anche gli esseri umani-merce, in particolare i non possidenti, i nullatenenti, i senza riserve, in una parola i proletari i quali non posseggono mezzi di produzione su cui impiegare forza lavoro salariata: sono loro la forza lavoro che i capitalisti impiegano contro salario nelle proprie aziende.

Tutti i prodotti che escono dai cicli di produzione capitalistici sono merci, ma lo è anche la forza lavoro del proletario il quale, non possedendo altro che la propria forza lavoro e non potendo acquistare al mercato nulla se non contro denaro – che non ha – è costretto a venderla ai capitalisti che la utilizzano nelle loro aziende pagandola con un salario in denaro: se i capitalisti non gliela comprano non avrà mai un salario per vivere, dovrà vivere di elemosina, di carità o morirà come “muoiono” tutte le merci invendute. La diseguaglianza principale in questa società è quella tra chi ha i soldi e chi non li ha?, tra i ricchi e i poveri? E’ ben più profonda: è tra chi possiede tutto e chi possiede soltanto la forza lavoro. Per un operaio possedere la forza lavoro non è di per sé una garanzia di vita, perché se non viene impiegata nelle aziende capitalistiche non viene pagata con un salario, e chi può impiegare la forza lavoro contro salario se non i capitalisti (privati o pubblici, poco importa)? Nel campo della produzione il capitalismo produce molte più merci di quante il mercato riesca ad assorbire per garantire un saggio medio di profitto; nel campo della produzione di forza lavoro il capitalismo impiega molte meno braccia di quante siano disponibili sul mercato del lavoro; alla sovraproduzione di merci si aggiunge la sovrapopolazione di forza lavoro salariata, raggiungendo in questo modo i punti più acuti della contraddizione sociale: l’abbondanza di merci genera l’abbondanza di affamati.

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LA PICCOLA BORGHESIA ALZA LA VOCE

 

Fa comodo ai borghesi parlare di diseguaglianze sociali, non solo perché sono talmente evidenti che nessun borghese è tanto stupido da negarle, ma perché è il linguaggio adatto a nascondere il vero punto cruciale delle contraddizioni della società attuale, quello dell’antagonismo insuperabile tra gli interessi del proletariato e gli interessi della borghesia. Dal punto di vista ideologico borghese, le diseguaglianze, anche se estreme, possono essere attenuate, appunto con una diversa ripartizione della ricchezza, come sollecita papa Francesco e tutto il corteo dei riformisti; le diseguaglianze, quindi le condizioni di povertà, conducono alla compassione, alla pietà, alla carità, stimolano le persone a rinunciare a qualche acquisto o a qualche spicciolo a favore dei “più sfortunati”, comportamenti che non scalfiscono le vere cause della dilagante povertà, della miseria crescente, dello sfruttamento sempre più cinico della forza lavoro, anzi le ribadiscono. La povertà, le diseguaglianze sono motivo, come gli stessi borghesi ammettono senza problemi, per speculare anche sull’enorme giro di miliardi dedicati alla beneficienza, facendo leva su quello spirito di “solidarietà umana” che i borghesi intendono soltanto come articolo di commercio. L’importante, per loro, è che i poveri rimangano poveri, che gli sfortunati rimangano sfortunati, che gli emarginati rimangano emarginati e che coloro che si dedicano alla beneficienza umanitaria continuino il loro lavoro, meglio ancora se aumentano di numero: non si spiegherebbe altrimenti il fatto che le masse povere nel mondo, invece di diminuire, aumentano, e il fatto che le organizzazioni umanitarie crescono di numero.

Con la pandemia da Covid-19 (Sars-CoV-2) l’acuirsi delle diseguaglianze non poteva che emergere drammaticamente. Limitandosi agli ultimi vent’anni, una ricerca del FMI rivela che «le ultime cinque epidemie – Sars nel 2003, H1N1 nel 2009, Mers nel 2012, Ebola nel 2014 e Zika nel 2016 – hanno aumentato la disuguaglianza economica dell’1,5% nei cinque anni successivi» (23). E’, perciò, del tutto plausibile dedurre che nei prossimi cinque anni, e visto che la pandemia da Covid-19 risulta essere molto più grave delle cinque epidemie precedenti, la disparità economica tra le grandi masse proletarie e diseredate e gli strati ricchi e benestanti aumenterà ancor di più. Ciò significherà inevitabilmente aumento delle tensioni sociali e delle mobilitazioni violente delle masse, dunque aumento della pressione e della repressione da parte di ogni borghesia dominante. I proletari e le masse povere di ogni paese devono aspettarsi un generale peggioramento delle loro condizioni di esistenza, un aumento del controllo sociale espletato in ogni forma ed una costante repressione delle loro proteste e manifestazioni.

Non saranno certo gli strati piccoloborghesi rovinati dalla crisi che potranno indicare una via per uscire dal baratro in cui il capitalismo ha fatto precipitare anche loro. Le loro proteste, le loro manifestazioni, anche violente, non sono dettate da una prospettiva storica diversa ed opposta a quella della grande borghesia. Essi protestano innanzitutto perché nella crisi hanno perso i loro guadagni, i loro benefici, i loro privilegi sociali e perché non vogliono cadere nella proletarizzazione; essi vogliono continuare a vivere sulle spalle del lavoro salariato, come fanno tutti i borghesi, con l’ambizione di aumentare i loro patrimoni privati, di vivere con tutte le comodità che la tecnica moderna sforna continuamente, in belle case e in belle ville; essi vogliono mantenere in vita la loro azienda e svilupparla, farla diventare più grande e in concorrenza con le altre già presenti nel mercato e, se proprio non ci riescono, vogliono almeno mantenere la posizione sociale che avevano prima della crisi. Il fatto che siano anch’essi “datori di lavoro”, nei loro negozi, nelle loro piccole o medie anziende, li fa sentire imprenditori, li pone su un gradino della scala sociale superiore a quello in cui sono ammassati gli operai e i proletari in generale, e molto più in alto di quello in cui sono precipitati i disoccupati cronici, i sottoproletari, gli emarginati.

I piccoloborghesi amano la democrazia, perché dà loro l’illusione di poter scalare i gradini della società e diventare “qualcuno” spaziando in tutti i settori, economico, politico, sociale, culturale, militare. La loro radicalità nei comportamenti e nelle richieste è in proporzione all’andamento dei loro affari; essi, in generale, amano la pace sociale, vogliono la pace sociale, sostengono la pace sociale perché dalla pace sociale guadagnano di più che dalle situazioni di turbolenza sociale. Essi sono più che felici se gli operai riescono ad ottenere un aumento di salario perché significa che spenderanno di più nei negozi, nei ristoranti, che si indebiteranno più volentieri per acquistare la casa, i mobili, la macchina, per sposarsi, per andare in vacanza; i loro affari ne guadagneranno. Ma sono pronti a protestare anche con violenza, occupare strade, piazze, ponti e a scontrarsi con le forze dell’ordine, quando la situazione di crisi fa loro vedere da vicino il precipizio, la rovina dei loro privilegi, del loro benessere, mettendo in serio pericolo la loro posizione sociale. La loro lotta non è mai per combattere lo sfruttamento del lavoro salariato, ma per difendere il loro business, piccolo o grande che sia; la loro ambizione è di aumentare il patrimonio privato e di difenderlo con ogni mezzo, legale o meno, pacifico o violento.

Essendo, fisicamente e socialmente, più vicina al proletariato, la piccola borghesia, che funziona nel mercato come veicolo dello scambio tra la merce da vendere e il denaro che serve per acquistarla (non importa se la merce consiste in prodotti fisici, in servizi, in denaro, in prodotti immateriali o in esseri umani), ha oggettivamente un’influenza sul proletariato nei diversi campi, ideologico, culturale, religioso, politico, economico. Rispetto alla massa proletaria, la piccola borghesia può contare in genere sulle risorse di proprietà (in denaro, in immobili o in mezzi di produzione o di distribuzione) che le permettono di non dipendere dalla sola vendita della propria forza lavoro come per i proletari, e di contare su una maggiore istruzione, una maggiore “professionalità”, una maggiore preparazione tecnica; essa ha, in genere, le risorse per una formazione professionale più specifica con l’obiettivo di diventare direttori o consulenti d’azienda, imprenditori, professionisti della vendita, promotori finanziari, amministratori pubblici o privati, assicuratori, specialisti del marketing, della pubblicità, dei media e della politica, insomma per andare ad occupare tutte quelle posizioni della stratificazione professionale in cui è organizzata la società capitalistica sviluppata che servono per far funzionare l’attività economica, politica, sociale, culturale, militare e religiosa delle aziende e delle istituzioni nei loro diversi comparti. La piccola borghesia occupa una posizione mediana tra la grande borghesia e il proletariato, costituisce lo strato sociale delle mezze classi, come lo chiamiamo noi, delle “classi medie” come lo chiamano i borghesi. Perché mezze classi? Perché storicamente non hanno un interesse storico specifico che le distingua nettamente dalla classe borghese dominante e dalla classe proletaria. In generale, fanno parte della classe borghese perché con essa condividono la difesa della proprietà privata e dei vantaggi sociali che derivano dal mercantilismo e dalla divisione sociale del lavoro, e perché ambiscono ad incrementare il proprio peso sociale in termini di accumulazione capitalistica, quindi sfruttando il lavoro salariato come fanno tutti i capitalisti, solo in piccole o medie aziende. Ma, dato l’inesorabile sviluppo del capitalismo, che tende alla concentrazione economica e, quindi, a distruggere le piccole e medie aziende, queste mezze classi subiscono sia questa tendenza che elimina le forme economiche su cui poggia la loro attività, sia i colpi delle crisi economiche che improvvisamente le manda in rovina, precipitandone una parte nel proletariato. Esse, vivendo a diretto contatto con i proletari, nei negozi, nei quartieri, negli uffici, nella vita quotidiana, proprio perché sono in generale il punto d’incontro fisico quotidiano tra venditori di merci e consumatori, appaiono presso i proletari in una posizione sociale meno abbrutente dei lavoratori salariati, più elevata rispetto a coloro che lavorano “sotto padrone”, perché esse sono i “padroni” del loro lavoro, della loro attività, del loro negozio, del loro pezzo di terra, del loro camion o della loro barca...    

Ma, per la sua posizione sociale, la piccola borghesia è utilizzata dalla classe dominante borghese per trasmettere alle masse proletarie le esigenze dell’economia capitalistica e della conservazione sociale, i modi di pensare, i comportamenti da tenere nelle diverse situazioni che si creano, l’abitudine a negoziare, l’attitudine a considerare la concorrenza come un fatto naturale, le ragioni della proprietà privata, i miti dell’individuo che può “scegliere”, può “decidere”, può “volere”, può essere “padrone” della propria vita, combinati coi miti dello Stato come ente al di sopra delle classi, come ente regolatore delle contraddizioni sociali, e col mito della democrazia grazie alla quale ogni individuo “conta”, ha una “sua” volontà...

E non è un caso che tutti gli strati della burocrazia, nel settore pubblico come in quello privato, hanno una metalità particolarmente conservatrice e reazionaria, legati come sono a sovraintendere su ogni attività di produzione e di scambio, cosa che, da un lato, dà l’impressione di partecipare alle decisioni per il buon andamento delle più diverse attività e, dall’altro, porta alla chiusura mentale e all’abbrutimento individuale determinati dalle operazioni del tutto monotone, ripetitive e lontane dal lavoro produttivo reale. Il loro “mondo” diventa l’ufficio o la bottega dove svolgono la loro piccola attività, situazione abbrutente quanto quella del contadino che per orizzonte ha il suo fazzoletto di terra da coltivare dal quale non riesce più, come un tempo, a trarre cibo per sfamare se stesso e la famiglia ed è costretto, in parte o in toto, a proletarizzarsi.

La piccola borghesia oscilla storicamente tra la grande borghesia e il proletariato; della grande borghesia è invidiosa per la sua ricchezza e per il suo potere reale, ma nello stesso tempo ne è ammirata perché governa masse di lavoratori e masse di capitali che il piccolo borghese non sarebbe in grado di amministrare. D’altra parte, essa condivide con la grande borghesia i benefici sociali che derivano dal sistematico sfruttamento del lavoro salariato, e sa che la sovrastruttura politica, sociale, culturale e militare eretta sulle basi economiche della società capitalistica difende, nel suo complesso, le stesse basi su cui anch’essa prospera. Non vi sono dubbi, d’altra parte, come la storia delle lotte di classe ha più volte dimostrato, che in determinati svolti storici in cui la lotta rivoluzionaria del proletariato si mostra così forte da far tremare il potere della classe dominante borghese e da poter vincere nello scontro sociale contro le forze borghesi della conservazione, alcuni strati della piccola borghesia si fanno trascinare dalle forze rivoluzionarie proletarie nella lotta contro la classe borghese dominante, apparsa particolarmente opprimente anche nei confronti della piccola borghesia. Ma non vi sono dubbi nemmeno sul fatto che, nel momento in cui le classi borghesi riescono a riprendere il controllo della situazione e danno l’impressione di poter restaurare il proprio potere sbaragliando le forze proletarie – anche in questi svolti storici la storia l’ha insegnato – allora la riconversione della piccola borghesia è repentina, nelle città come nelle campagne, verso il sostegno della controrivoluzione diventando l’aguzzina del proletariato.

La doppia faccia della piccola borghesia è una costante: non possiede forza storica per trascinare dietro di sé la grande borghesia perché è da questa che dipende la conservazione della sua stessa esistenza, anche in periodi di crisi economica e sociale; perciò è al servizio della grande borghesia anche se si illude di essere lei a guidare i suoi passi nella politica di governo come nella politica sociale più minuta. Tutti gli sforzi fatti per difendere il buon andamento dell’economia aziendale e nazionale, e per convincere le masse proletarie alla collaborazione fra le classi, sono sforzi che portano il maggior vantaggio al grande capitale, mentre il piccolo o medio capitale rischia sempre di essere mangiato dal grande. E’ questo rischio costante che spinge la piccola borghesia, o meglio alcuni suoi strati, soprattutto in periodi di crisi economica nei quali quel rischio diventa reale, a raddoppiare gli sforzi per influenzare il proletariato affinché, grazie alla sua forza sociale, si prenda carico delle rivendicazioni che difendono la proprietà privata, la libertà di commercio e il diritto a sfruttare il lavoro salariato per il proprio benessere, sanciti da ogni Costituzione, rivendicazioni che, in sostanza, negano gli interessi immediati del proletariato e portano in auge la collaborazione interclassista nella quale “poveri” e “ricchi”, proletari e capitalisti avrebbero “uguali” diritti e, quindi, “uguali” possibilità di vita. Ma le diseguaglianze sociali dimostrano che tutto il castello politico riformistico è talmente fragile da cadere al primo soffio di crisi, acuendole invece di attenuarle. Mentre la politica della collaborazione fra le classi, vera colonna vertebrale del riformismo, si mostra come un’efficacissima difesa della conservazione sociale, per due motivi fondamentali: in primo luogo aumenta l’asservimento del proletariato al capitale e alle sue oscillanti esigenze, in secondo luogo aumenta la concorrenza tra proletari. E’ quindi un’arma al servizio esclusivo degli interessi borghesi.

In tutta la storia delle lotte fra le classi il proletariato ha dovuto far i conti non solo con gli apparati statali e le diverse istituzioni erette a difesa del potere borghese, ma anche con le formazioni politiche che hanno continuato a elaborare idee, concetti, programmi, soluzioni, prospettive che hanno in comune la difesa del modo di produzione capitalistico, dunque della struttura economica della società, proponendo di intervenire invece sulla sovrastruttura della società – politica, culturale, religiosa – attraverso tutta una serie di provvedimenti riformistici applicati gradualmente in modo da non scuotere in modo repentino gli equilibri economici e politici del paese. La tesi era, ed è, che grazie alle riforme, il proletariato, e con lui tutta la società civile, avrebbero potuto ottenere, prima o poi, il superamento delle diseguaglianze esistenti nella società e di tutte le tensioni sociali che queste diseguaglianze inevitabilmente provocano... Ma la storia della lotta fra le classi mostra una realtà che fa a cazzotti con questa tesi: le riforme che hanno portato qualche vantaggio alla classe del proletariato sono state conquistate con durissime lotte, scontri con le forze di polizia e dell’esercito, con moti sociali violenti e sono state varate quando la struttura economica, sviluppata dal punto di vista tecnico e dell’organizzazione del lavoro salariato, era in grado di ottenere un aumento consistente della produttività del lavoro anche con orario giornaliero di lavoro ridotto, e sempre con l’obiettivo di attenuare le tensioni o addirittura spegnere le lotte. C’è da sempre una legge non scritta ma imperante: i diritti, se non ottenuti con la forza, e mantenuti con la forza, sono destinati a non essere mai applicati o ad essere prima o poi cancellati.

E’ noto che una delle rivendicazioni storiche del movimento operaio riguarda la durata della giornata di lavoro. In Inghilterra, in Francia, negli Stati Uniti, in Germania e poi negli altri paesi europei, nei secoli XVIII e XIX il lavoro salariato non riguardava soltanto gli uomini adulti, ma riguardava molto anche i fanciulli dagli 8 anni in su e le donne. Il capitalismo, nel suo potente sviluppo, e nel suo cinico sfruttamento della forza lavoro umana, costringeva a lavorare tutti i componenti della famiglia operaia alimentando anche all’interno della stessa famiglia operaia una fortissima concorrenza. Le rivendicazioni operaie non potevano limitarsi alla richiesta di aumenti di salario per poter sfamare tutta la famiglia, dovevano estendersi anche alla riduzione dell’orario giornaliero di lavoro, alla difesa del lavoro minorile e del lavoro femminile. Su questa strada sono stati ottenuti molti obiettivi – dalla famosa legge in Inghilterra della giornata lavorativa di dieci ore (contro le abituali 14-16 ore) alle successive riduzioni per legge ad otto ore in tutti i paesi capitalisti avanzati – anche sul piano della regolamentazione del lavoro minorile e del lavoro femminile; però regole che in parte venivano disattese, soprattutto per il lavoro minorile e femminile, e che non sono mai riuscite a difendere i lavoratori dal lavoro nero, dall’intensità di sfruttamento nel lavoro a cottimo, dalla discriminazione tra lavoratori autoctoni e lavoratori immigrati ecc. Ancora oggi, nei civilissimi paesi capitalisti avanzati, una parte consistente del proletariato subisce il ricatto del posto di lavoro contro le più elementari rivendicazioni salariali. La precarietà del lavoro e l’insicurezza di vita colpiscono una parte considerevole del proletariato; e più aumenta questa insicurezza di vita, più aumenta la pressione da parte borghese e da parte delle organizzazioni opportuniste per una maggiore collaborazione del proletariato nel sostenere le esigenze delle aziende; il pretesto del Covid-19, per ottenerla senza resistenze, è solo l’ultimo trucco borghese.

Da molti decenni i proletari sono ingannati dal riformismo: dal riformismo borghese, che prometteva un graduale aumento del benessere delle masse lavoratrici in relazione all’aumento della produttività del lavoro e della competitività delle merci prodotte; dal riformismo socialista, che prometteva una emancipazione pacifica dei lavoratori attraverso la via democratica e parlamentare conquistando un pezzettino per volta il potere politico, dal piccolo comune per poi, pian piano, giungere ad amministrare le grandi città e, infine, andare al governo; o, nella versione ordinovista e genericamente operaista, conquistando fabbrica dopo fabbrica per dimostrare che non solo i capitalisti, ma anche i proletari sapevano condurre la produzione e potevano farlo anche meglio dei padroni...

Il cancro riformista ha lavorato intensamente e senza tregua nel corpo sociale del proletariato, debilitandolo a tal punto che, quando giunse l’appuntamento storico con la lotta rivoluzionaria, come nel periodo della prima guerra mondiale e immediatamente successivo (1914-1918, e 1919-1920), il proletariato si trovò confuso e senza una guida politica ferma e cosciente degli obiettivi rivoluzionari; si trovò a dover reagire contando solo sul proprio istinto di classe ai colpi che riceveva dalla crisi di guerra, dalla crisi economica del dopoguerra e dagli attacchi portati contro di lui da parte di tutti i poteri borghesi che, oltretutto, nel fronteggiare l’enorme influenza che la vittoriosa rivoluzione russa dell’Ottobre 1917 aveva sulle masse proletarie di tutto il mondo, si trovarono in grandissima difficoltà, disorganizzati e impauriti com’erano. Ed è proprio in quello svolto storico, decisivo per la rivoluzione proletaria mondiale, che il riformismo e le sue diverse varianti “estremiste” e “nazionali” giocarono il loro grande ruolo di difensori della conservazione sociale, del capitalismo. E’ soltanto grazie all’opera disfattista condotta pervicacemente dai riformisti e dai “massimalisti” di allora nei confronti del proletariato – sia sul terreno sindacale, sia su quello politico – che la classe borghese riuscì a riorganizzarsi dopo la guerra e a riprendere in mano il controllo politico e sociale. E’ soltanto grazie a quell’opera disfattista e traditrice che le borghesie, che più delle altre uscirono dalla guerra con le ossa rotte - quella italiana e quella tedesca  - poterono scovare e organizzare, negli strati più rancorosi della piccola borghesia rovinati dalla guerra, le milizie paramilitari e illegali da lanciare contro le organizzazioni proletarie, incendiando e uccidendo, nella certezza di essere protette, aiutate e sovvenzionate dallo Stato, dai suoi apparati militari e di polizia e dalle associazioni padronali E fu dopo che le forze dell’opportunismo socialdemocratico riuscirono a bloccare e deviare la spinta rivoluzionaria delle masse proletarie, durante e subito dopo la guerra, disarmandole e debilitandole, che il movimento fascista ebbe successo perché, nel periodo più pericoloso per il potere borghese, esso rappresentò l’unica possibilità per il potere borghese di unire le diverse frazioni della borghesia nell’unico obiettivo di piegare definitivamente il proletariato alle esigenze della ricostruzione postbellica del capitalismo nazionale.

Ma anche il fascismo si trovò di fronte un proletariato confuso, sì, ma non piegato e, mentre le frazioni della piccola borghesia ritrovavano in esso una guida, una direzione per incanalare la loro sete di rivincita in una situazione in cui rischiavano di precipitare nella miseria e nella rovina, la grande borghesia trovò in esso la risposta organizzata della repressione, poco importava se con azioni illegali. Alla guerra guerreggiata seguì una guerra civile, ma non scatenata dal proletariato contro la borghesia e tutte le forze della conservazione sociale, ma dalla borghesia contro il proletariato. In Germania la borghesia dominante utilizzò soprattutto le forze della socialdemocrazia che incarnarono contemporaneamente l’opera di deviazione del proletariato dalla lotta rivoluzionaria su cui si stava orientando, e l’opera di repressione poliziesca contro le correnti politiche rivoluzionarie (rappresentante soprattutto da Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e il gruppo di Spartaco) e contro tutti gli strati proletari influenzati dai comunisti. In Italia, la borghesia dominante utilizzò contemporaneamente le forze del socialismo riformista e collaborazionista e le squadre fasciste sorrette dalla forza dello Stato centrale; l’opera dei vertici sindacali e degli opportunisti politici, rivendicando costantemente la legalità costituzionale e parlamentare, di fatto, disorganizzò il proletariato, lo offrì inerme alla repressione statale e agli attacchi delle squadre fasciste, opera che fu contrastata soltanto dai comunisti internazionalisti su tutti i terreni, politico, sindacale, organizzativo, che furono anche i soli ad organizzare la risposta armata agli attacchi fascisti.

In Italia la borghesia dominante comprese rapidamente che poteva uscire dalla situazione di caos e disorientamento che seguì alla fine della guerra appoggiando il partito fascista, nel frattempo costituitosi ed entrato anch’esso nel parlamento, dandogli infine il compito di governare al posto dei vecchi arnesi democratici e liberali ormai logori e inefficaci.

Per i borghesi l’obiettivo era di impedire al proletariato di utilizzare la sua forza sociale e organizzata per condurre la lotta rivoluzionaria; per loro era vitale spegnere qualsiasi nuovo incendio proletario che poteva scoppiare sull’onda della vittoria rivoluzionaria in Russia, e dopo che l’incendio degli anni 1919-1920 era stato praticamente spento in seguito all’opera controrivoluzionaria dell’opportunismo riformista. Il fascismo organizzò le proprie forze con il materiale umano della piccola borghesia, le militarizzò, ottenne la protezioone da parte dello Stato centrale e dimostrò nei fatti di non avere alcuno scrupolo nell’assalire e uccidere proletari e capi proletari, distruggere sedi di giornali, di sindacati e di partiti; dimostrò, nei fatti, che la democrazia, mentre ingannava con grande efficacia le masse proletarie, funzionava benissimo come copertura ideologico-politica della guerra che la borghesia conduceva praticamente contro la classe del proletariato, le sue organizzazioni e il suo partito di classe.

Il fascismo non era l’espressione di un capitalismo retrogrado, ma del capitalismo imperialistico più avanzato, come dimostrò ancor più il nazismo in Germania. Il fascismo capì che per spegnere definitivamente le aspirazioni rivoluzionarie del proletariato – dopo averlo represso con le forze dello Stato e con le squadre fasciste sostenute dallo Stato, e dopo che il riformismo socialista lo aveva disorganizzato, illuso col parlamentarismo e disorientato nell’inefficienza più estrema – doveva andargli incontro sulle rivendicazioni economiche di base, rassicurandolo sui rapporti di lavoro e sul suo futuro, tanto più dopo avergli negato la libertà di organizzarsi sindacalmente e politicamente in modo indipendente. Il collante sociale diventò la collaborazione di classe, attraverso il sistema delle corporazioni e del coinvolgimento degli operai al buon andamento economico delle aziende e, naturalmente, dell’economia nazionale. Aldilà del fatto che il fascismo, nella seconda guerra mondiale, ha perso militarmente, ha in realtà vinto politicamente in quanto espressione dello sviluppo monopolistico dell’economia capitalistica e della politica della collaborazione di classe che accompagna necessariamente lo sviluppo capitalistico in tutte le sue contraddizioni.

Oggi, come previsto dal marxismo, il capitalismo non fa che confermare la sua tendenza alla concentrazione economica, alla centralizzazione politica imperialistica e all’asservimento della classe operaia attraverso la collaborazione fra le classi. Ma il vettore principale della collaborazioni fra le classi è costituito dalla piccola borghesia che, in questo modo, ha trovato un suo specifico ruolo nella società capitalistica: fare da mediatrice tra proletari e borghesi, ma al servizio della borghesia dominante, collaborando con la borghesia dominante per schiacciare il proletariato in un asservimento sempre più pesante.

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STA AL PROLETARIATO ALZARE LA TESTA, PORSI SUL TERRENO DELL’APERTA LOTTA DI CLASSE NELLA PROSPETTIVA DELLA RIVOLUZIONE PROLETARIA

 

Tornando alla situazione attuale, la grande preoccupazione dei governi quest’anno si è rivolta a “combattere” la diffusione del virus confinando parte di popolazione – quella anziana in particolare, in casa o nelle case di cura o di riposo – ritenuta non essenziale per mandare avanti l’economia del paese e decretando periodi di coprifuoco più o meno lunghi per dare la sensazione di “essere in guerra” contro un “nemico invisibile”, ma micidiale, che colpisce silenziosamente. Il suono delle sirene che avvertiva la popolazione delle incursioni aeree nemiche in modo che si rifugiasse nelle cantine e nei rifugi antiaerei, è stato sostituito da quello delle sirene delle ambulanze che, nelle città semideserte, si sente da lontano. Tutto il sistema dei media, televisivi, radiofonici, cartacei e dei social network non fa che mettere in primo piano il Covid-19; si diffondono dati di ogni genere, interviste fatte ai grandi luminari della scienza medica, spesso in contrasto fra di loro, e ai politici, ai commercianti e alla gente comune: ogni altro tema, ogni altra notizia viene sommersa da continui aggiornamenti sui contagi, sui morti, sugli ospedali, sui coprifuoco, sulle chiusure dei bar e dei ristoranti, sui lockdown parziali o totali, sui cosiddetti “negazionisti”, sulle zone rosse, arancioni e gialle; non si parla d’altro. Gli argomenti che riescono a sfondare questa densa nebbia attraverso cui non si vede nemmeno l’orizzonte vicino riguardano le elezioni, oggi negli USA, domani in Italia o in qualche altro paese. Le misure che i governi prendono per fronteggiare la pandemia la fanno da padrone.

Ecco, è esattamente questo che la classe dominante borghese vuole ottenere: che ognuno si pieghi alle regole emanate dall’alto, non importa se hanno un senso o se sono del tutto inutili o addirittura dannose, perché l’importante è che la popolazione, e i proletari per primi, rispettino l’ordine costituito. La chiamata all’unità nazionale per “combattere il virus” non ha altro senso, in questo periodo, se non quello di spingere soprattutto i proletari, cioè coloro che con il loro lavoro rimetteranno in sesto l’economia borghese – già in crisi prima dell’esplosione dell’epidemia e, con questa, peggiorata – a sacrificarsi per l’ennesima volta a favore della ripresa economica, affinché i capitalisti riconquistino le quote di profitto perdute in quest’ultimo anno, mentre agli operai si promette di non abbandonarli al loro destino – “nessuno deve rimanere indietro” è lo slogan di tutti i governi –, di pensare ad una maggiore “sicurezza” sul posto di lavoro per chi ce l’ha e ad incentivare le aziende perché assumano invece di licenziare. L’opportunismo, e tanto più il collaborazionismo, hanno alimentato da sempre l’idea che, per uscire dai periodi di crisi, “tutti devono fare la loro parte”, il che vuol dire che ai proletari non resta che sacrificare i propri interessi immediati per abbracciare gli interessi delle aziende in cui lavorano e, in generale, dell’economia nazionale perché nessuna azienda può vivere se non in una rete di mercato, che prima di tutto è nazionale. Perché questa “unità nazionale” abbia una sembianza di reale comunanza di interessi tra proletari e borghesia, al sistema di ammortizzatori sociali esistente, il governo aggiunge tutta una serie di misure economiche temporanee (il governo italiano le ha chiamate “ristori”, ma poteva chiamarle anche “pane e acqua”, che era la miseria che si garantiva un tempo ai carcerati) che hanno la funzione di tappare in qualche modo la voragine aperta dall’eliminazione di molti ammortizzatori sociali utilizzati ai tempi dell’espansione economica, ma che la borghesia non ha alcuna intenzione di ripristinare. Questa è una politica sociale adottata da tutti i governi capitalisti; la quantità di denaro che viene investito e la durata di questo investimento dipendono dalla forza economica di ciascun paese. Ma l’obiettivo borghese è lo stesso: calmare le masse proletarie con qualche briciola, prima di passare, qualora i proletari non si accontentassero e si ribellassero, a misure più drastiche e violente. E, naturalmente, calmare quegli strati di piccola borghesia che dalle misure di lockdown sono stati e continuano ad essere rovinati. La ribellione di questi strati, come la storia dimostra, non ha mai fatto molta paura alla grande borghesia, perché quest’ultima sa come sfruttare anche la loro ribellione, sa come servirsene contro i proletari più combattivi, sa come comprarseli e sa come premiarli se il loro servizio antiproletario avrà successo.

Con ogni probabilità l’epidemia, come sostengono molti virologi, non frenerà la sua corsa se non tra un anno o più e, soprattutto, se almeno il 70-80% della popolazione si vaccinerà. Molti riferiscono che, grazie alla scienza moderna, si sono potuti vincere quasi completamente, nel mondo, il vaiolo e la poliomielite, probabilmente perché sono virus che si trasmettono soltanto da uomo a uomo e non da animale selvatico a uomo come la gran parte di virus letali.

Poiché il virus Sars-CoV 2, con tutte le sue caratteristiche di contagiosità e di letalità e attraverso le sue successive varianti, riesce a viaggiare nel mondo trasportato da milioni di esseri umani, è logico che i governi, data l’esplosione della crisi sanitaria e la contemporanea crisi economica, prendano misure d’emergenza tra le quali le più ovvie riguardano soprattutto il distanziamento tra le persone e il confinamento obbligatorio, mentre di base viene imposto l’uso della mascherina e consigliato il frequente lavaggio delle mani. Come abbiamo già messo in evidenza negli articoli pubblicati nei giornali di partito, la scienza borghese è indirizzata a studiare le epidemie perché possono stimolare grandemente il business: per il capitale ben venga l’epidemia, meglio ancora la pandemia, perché avrà la giustificazione per obbligare popolazioni intere a vaccinarsi e si sa che i vaccini sono, aldilà della loro efficacia curativa, fonte di profitti giganteschi. Con la catastrofe sanitaria (a cui hanno contribuito anche i drastici tagli alla sanità pubblica per favorire la sanità privata) il capitale va a nozze, nello stesso modo in cui va a nozze di fronte ad ogni catastrofe (terremoti, tsunami, alluvioni, crolli ecc.).

L’homo capitalisticus ha invaso e distrutto notevoli porzioni di foreste e ambienti naturali in cui vivevano, separati dagli uomini, gli animali selvatici; questi animali selvatici, quando non vengono sterminati, rispondono, nella ricerca del cibo,  con l’invasione degli ambienti in cui vivono gli umani (come i ratti, i topi, i pipistrelli ecc.), quando non sono allevati appositamente dagli umani (come bovini,polli, o visoni, saliti alla ribalta negli ultimi tempi in Olanda, in Danimarca, in Belgio come veicoli anch’essi di un coronavirus), portandosi appresso il carico di virus che per loro non sono letali, ma lo sono per l’uomo. Già da questo antefatto si può cominciare a comprendere come mai, nonostante uno sviluppo indiscutibile, almeno in determinati campi, della scienza medica, l’umanità continui ad essere colpita da epidemie che fanno milioni di morti, in cui, d’altra parte, il capitalismo ha più interesse a sfruttare le situazioni di emergenza che non a dedicarsi alla prevenzione. Se poi si aggiungono le condizioni di vita e di lavoro delle masse proletarie e sottoproletarie, soprattutto nelle megalopoli e nelle banlieu superaffollate e superinquinate, condizioni debilitanti da ogni punto di vista, si capisce come mai le epidemie colpiscono soprattutto queste masse di uomini. E così il capitalismo, nella sua folle iperproduzione di merci e nella spasmodica ricerca di profitto, alle cicliche crisi di sovraproduzione che gettano di volta in volta in condizioni di povertà e di fame miliardi di esseri umani, è allo stesso tempo un moltiplicatore di epidemie che oggettivamente distruggono una parte di popolazione umana. E così, quando non ci pensa la guerra, la merce forza-lavoro, risultata sovraprodotta, deve fare la stessa fine di tutte le altre merci sovraprodotte: va distrutta. D’altra parte, la riproduzione della specie umana fa parte del ciclo di vita naturale e, per quanto le guerre, le malattie, le carestie, la povertà ammazzino milioni di persone, la borghesia sa che il “mercato del lavoro”, cioè la massa di lavoratori salariati di cui ha vitale bisogno per far funzionare il sistema capitalistico, si riforma continuamente costituendo un immenso bacino di forza lavoro da sfruttare. Più si sviluppa il capitalismo a livello mondiale, più aumenta la massa del proletariato, offrendo in questo modo alla voracità del capitalismo forza lavoro in permanenza. Nello stesso tempo, grazie alle innovazioni tecniche nella produzione e nella distribuzione, al capitalismo tendenzialmente occorre un numero inferiore di lavoratori salariati per ogni ciclo produttivo rispetto al passato. Aumenta così la concorrenza tra proletari che, risultando in eccesso rispetto alle necessità del sistema produttivo capitalistico, tendono a vendere la propria merce – la forza lavoro personale – ad un prezzo sempre più basso pur di essere comprata.

I proletari hanno un solo modo per non finire dentro a questa trappola micidiale: unirsi nella lotta, trasformare la propria forza lavoro da debolezza personale a forza sociale, organizzarsi sul terreno di classe lottando contro la concorrenza fra proletari, riconoscersi non come parte del sistema produttivo capitalistico – che riduce la forza lavoro proletaria ad un accessorio della macchina produttiva capitalistica – ma come risorsa energetica fondamentale di ogni ciclo produttivo senza la quale nulla si produce. L’antagonismo del capitale contro il lavoro si esprime quotidianamente nella sottomissione del lavoro umano all’interesse esclusivo del capitale; lottare contro questa sottomissione significa prima di tutto lottare per non cedere alla pressione continua del capitale sul lavoro salariato, opporre una lotta di resistenza quotidiana – come diceva il vecchio Engels – contro i capitalisti il cui vero interesse è di mantenere il sistema di sfruttamento odierno e di aumentare il proprio dominio sulla forza lavoro salariata. E questo dominio borghese si rafforza soprattutto grazie alla concorrenza tra proletari. Per questo motivo la solidarietà proletaria nella lotta contro il capitale è il risultato più importante di ogni singola lotta operaia.                                             

In periodo di pandemia come l’attuale la concorrenza tra proletari si è fatta ancor più acuta. E’ aumentata la disoccupazione e si sono abbattuti i salari, è aumentato il lavoro nero e quindi lo sfruttamento bestiale della forza lavoro, il precariato impera e l’incertezza di vita diventa sempre più la norma.

Le reazioni dei proletari alle misure governative relative alla pandemia da coronavirus, come abbiamo potuto constatare, sono state davvero minime e, soprattutto, pacifiche e isolate. Gli scioperi di marzo e aprile hanno avuto qualche risonanza (Non siamo carne da macello!) e una certa risonanza hanno avuto le rivolte in alcuni carceri a causa delle condizioni di sovraffollamento e di mancanza di protezioni elementari dai contagi. Nonostante l’attacco generalizzato alle condizioni di vita proletarie e l’aumento drastico delle masse precipitate sotto la soglia della povertà, emerge sempre più evidente una generale depressione da cui il proletariato non riesce ancora a sollevarsi. Resta il fatto che le morti da Covid-19 riguardano soprattutto gli strati proletari che la propaganda borghese tratta semplicemente come freddi dati numerici, mentre mette in risalto i morti tra i vip. Sono le condizioni di vita dei proletari – ammassati nei quartieri popolari e nei ghetti o negli slum delle grandi città, con un’igiene inesistente, o costretti a lavorare senza adeguate protezioni (basti pensare ai lavoratori in nero in agricoltura e nei servizi), o ammassati all’esterno degli ospedali e nelle corsie perché i pronto soccorso e i reparti dedicati al Covid-19 sono pieni, quando non girano per ore da un ospedale all’altro alla ricerca di un posto per il ricovero – la causa principale della loro più facile esposizione al contagio e alla morte. Abituati, grazie all’opera pluridecennale dell’opportunismo collaborazionista, ad attendere che lo Stato si preoccupi di rimediare a tutti i guai che succedono nella società, e che lo Stato provveda a tamponare le situazioni più difficili; abituati, nello stesso tempo, a delegare automaticamente alle istituzioni e alle organizzazioni sedicentemente “operaie” la difesa dei loro interessi immediati, soprattutto nelle situazioni di crisi, i proletari dei paesi capitalisti avanzati hanno completamente dimenticato i metodi classisti usati dai proletari di due, tre o quattro generazioni fa: proletari che sentivano fortemente lo spirito di classe, che potevano contare sulla solidarietà di classe, che accumulavano esperienza di lotta negli scontri con le forze della conservazione borghese (laiche, religiose, politiche, militari), che erano organizzati in sindacati di classe e che, su queste basi, si facevano guidare da partiti politici che perseguivano l’emancipazione proletaria come un obiettivo rivoluzionario, anche se, in gran parte, finivano per cedere all’opportunismo.

Per i proletari di oggi e di domani, tornare sul terreno della lotta classista, recuperare le tradizioni di lotta dei proletari degli anni Venti del secolo scorso, tornare ad avere fiducia nelle proprie forze se messe in campo sul terreno della difesa dei propri interessi di classe, significa cambiare radicalmente i propri comportamenti, le azioni e e le aspirazioni che hanno riempito finora la loro vita.

Ma un cambiamento del genere non avviene grazie ad una illusoria “presa di coscienza” preventiva, tantomeno grazie ad un’ennesima tornata elettorale che sforni un cambio della guardia al governo; avviene sulla spinta di una situazione sociale, materiale e generale così grave da generare un movimento tellurico sul piano economico e sociale tale da “liberare”, in una successione continua, le energie eversive accumulate nel tempo in tutti gli strati inferiori della società fino a farle esplodere. Come il magma vulcanico, quelle energie invaderanno l’intera società, scuoteranno tutti gli equilibri e tutti gli interessi di conservazione, ponendo per l’ennesima volta il grande problema della riorganizzazione operaia in difesa degli esclusivi interessi proletari di classe.

E’ in questa prospettiva che i comunisti rivoluzionari lavoravano ieri, lavorano oggi e lavoreranno domani, nella consapevolezza che il movimento proletario di classe rinascerà solo rendendosi indipendente da ogni illusione e da ogni apparato borghese, combattendo ogni politica di conciliazione e di collaborazione con la classe borghese nemica, opponendosi ad ogni falsa soluzione democratica avanzata dalle forze opportuniste; rinascerà solo se il partito comunista rivoluzionario si sarà preparato da lungo tempo e se, sulla base della difesa  intransigente del programma comunista rivoluzionario fin dai tempi della più terribile depressione del movimento operaio e comunista – come fece la corrente della Sinistra comunista d’Italia in tutti i decenni trascorsi dal 1926 in poi –, avrà avuto la possibilità di attuare i suoi interventi nelle lotte proletarie e negli organismi proletari di difesa immediata ricostituitisi sul terreno di classe.

Non c’è da illudersi. Da questa crisi economico-sanitaria, le condizioni generali dei proletari usciranno peggiorate. La borghesia dominante, come ha già fatto nella storia del suo dominio, cercherà di dividere ancor di più i proletari su tutti i livelli; aumenteranno le diseguaglianze tra livelli salariali, di categoria, di settore, di luogo, di specializzazione, di età, di genere, di nazionalità e aumenterà la pressione del ricatto tradizionale dei padroni: il posto di lavoro, che diventerà sempre più precario, sempre più temporaneo, sempre più lontano dalle abitazioni, e sempre più oppressivo in termini di durata giornaliera e di intensità lavorativa e in termini di condizioni di lavoro che peggioreranno sul piano della sicurezza e della nocività se la lotta proletaria non si opporrà con decisione. Ciò non significherà che i padroni avranno le mani libere nel gestire la propria manodopera come nell’Ottocento; essi, pur continuando a concedere ai proletari qualche briciola economica e qualche “diritto” in fabbrica, e contando sull’amministrazione da parte statale degli ammortizzatori sociali ritenuti indispensabili per non far scatenare esplosioni sociali a catena, cercheranno di gestire la manodopera sempre più a seconda delle esigenze aziendali e a seconda degli andamenti del mercato. Perciò le loro parole d’ordine saranno: maggiore flessibilità, maggiore produttività, maggiore competitività; parole d’ordine non nuove, certamente, ma che diventeranno i principi fondamentali a cui tutti dovranno sottostare, a partire dalle organizzazioni sindacali collaborazioniste, per finire ai partiti politici e al governo. Questi imperativi borghesi dovranno essere anche i bersagli principali delle lotte proletarie; e dovranno tornare in evidenza, oggettivamente, le classiche rivendicazioni classiste di sempre che il marxismo aveva già definito centosettant’anni fa: diminuzione drastica della giornata lavorativa, aumenti salariali per tutti, maggiori per le categorie peggio pagate, salario integrale ai disoccupati.

Covid o non Covid, i proletari sono obbligati a lavorare sempre più spesso in condizioni di maggiore stress, sia che lavorino negli ospedali o nelle grandi multinazionali, nei grandi magazzini o nei campi, nei servizi o nei trasporti. Covid o non Covid, la difesa degli interessi proletari di classe non deve conoscere sosta. Sono sempre i proletari che pagano il prezzo più alto, sia nelle condizioni di lavoro e di vita, sia nelle condizioni di salute: la difesa da ulteriori peggioramenti non può avvenire che con la lotta, non ci sono altre vie da seguire, perché ogni altra via è lastricata dalla collaborazione tra le classi, dall’interclassismo che uccide ogni possibile difesa reale delle condizioni di vita e di lavoro proletarie. Se non sono i proletari a difendere direttamente i propri interessi immediati non lo farà certo la classe dominante borghese, visto che il suo interesse è principalmente quello di sfruttarli il più possibile, fino all’ultima goccia di sudore e di sangue. Tanto meno lo faranno le forze del collaborazionismo interclassista che si vestono da “difensori” degli interessi dei lavoratori, ma a condizione di difendere gli interessi dell’economia capitalistica. L’atteggiamento dei collaborazionisti verso i capitalisti è un atteggiamento pietistico, perciò inevitabilmente perdente, e quando sventolano una qualche “vittoria” lo fanno su risultati di una lotta operaia che loro stessi hanno cercato e cercano di evitare, di una lotta che sistematicamente isolano, boicottano, denigrano, tale è il loro attaccamento al buon andamento economico delle aziende e dell’economia nazionale.   

Far la fame e morire per l’azienda?, per l’economia nazionale?, per il proprio padrone? Nemmeno gli schiavi dell’antica Roma morivano per i padroni, erano i padroni che difendevano la vita dei propri schiavi perché li consideravano una proprietà preziosa. Il borghese capitalista ha “liberato” lo schiavo e il servo della gleba dai vincoli personali che li legavano come proprietà ai padroni e ai signori feudali, ma per collocarli in un’altra schiavitù, quella salariale: ha reso “libera” la forza lavoro incorporata in ogni singolo contadino o artigiano (dopo averlo espropriato dei suoi mezzi di lavoro) obbligandoli a vivere alla sola condizione di venderla al capitalista. Il cerchio della vita del moderno schiavo salariato si apre e si chiude nella compra-vendita della forza lavoro.

L’unico vero e rivoluzionario passo avanti nella storia fatto dalla società borghese è stato quello di sviluppare enormemente le forze produttive grazie al lavoro associato nelle fabbriche, ma lo ha dovuto imprigionare nelle forme di produzione capitalistiche, portando il mercantilismo all’ennesima potenza. E’ da questo imprigionamento che i proletari, le forze produttive vive della società, devono liberarsi e per farlo devono far leva sull’antagonismo di classe che li oppone alla borghesia, sull’organizzazione di classe della loro lotta, riconoscendosi come gli unici portatori – proprio perché classe senza riserve, senza proprietà e senza mezzi propri per sopravvivere – di un’organizzazione sociale superiore che sappia utilizzare e sviluppare le forze produttive a beneficio dell’intera società e non a beneficio del mercato e del capitale.

 


 

(1)   Cfr K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XXIII, La legge generale dell’accumulazione capitalistica, UTET, Torino 1974, p. 801; le successive citazioni sono alle pp. 802, 820, 821.

(2)   Cfr. www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/ covid- miliardari- sempre- piu- ricchi- pandemia- soldi- bezos/5flec2f6-115c-11eb-99ad-021205b8ee1e-va.shtml. Fonte dei dati: American for Tax Fairness (ATF) e Institute for Policy Studies (IPS).

(3)   Cfr. Ibidem. Fonte: elaborazione “Corriere della sera” su dati Forbes, alla chiusura di Borsa di venerdì 16 ottobre.

(4)   Ibidem. anche www.investireoggi.it / economia/ diventare- milionari-10-dollari-alla-volta-la-teoria-della-formica

(5)   Oxfam (Oxford committee for Famine Relief), è una ong britannica costituitasi nel 1942, per portare cibo alle donne e ai bambini greci stremati dalla guerra. Nelle più importanti crisi del mondo si occupa di “portare aiuto” alle popolazioni più colpite, ma si occupa anche di ricerche e studi, diventando una “esperta mondiale”, relativamente ai temi di sviluppo. E’ presente con la propria organizzazione in oltre 90 paesi del mondo e si dedica soprattutto in progetti in ambito rurale, e di portare acqua e servizi sanitari nelle emergenze. I dati utilizati sono riferiti al 2017.

(6)   Cfr. www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/covid..., cit.

(7)   Cfr. www.investireoggi.it/ economia/ diventare-milionari-10-dollari-alla-volta-la-teoria-della-formica, cit.

(8)   Cfr. www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/covid..., cit.

(9)   Ibidem.

(10) Cfr. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, Opere, vol. 22, Ed. Riuniti . Roma 1966, p. 266.

(11) Ibidem, p. 276.

(12) Cfr. www.nogeoingegneria.com/effetti/politicaeconomia/rockfeller-rivoluzione-definitiva-rivoluzione-finale/

(13) Cfr. I dati sono ricavati dal British Medical Journal, riportati da www.inveneta.it/articoli/ecco-come-bill-gates-e-diventato-padrone-delloms/ .

(14) Cfr. www.repubblica.it/economia/2017/06/02/news/bill_gates_oms-166804494/

(15) Cfr. www.inveneta.it, cit.

(16) Cfr. www.cdt.ch/mondo/la-profezia-di-bill-gates-sul-coronavirus-LI2468683? _sid= NdAbioX7

(17) Cfr. “La Stampa”, 24.10.2020, “La Svizzera sceglie. Rianimazione negata agli anziani malati”.

(18) Cfr. “il fatto quotidiano”, 25.03.2020.

(19) Cfr. htpps : // gisanddata .maps. arcgis. com/apps/  opsdashboard/  index. html #/ dba7594740fd 4029 9423467b48e9ecf6

(20) Cfr. “il fatto quotidiano”, 19.10.2020. Gig economy: significa lavoro temporaneo, occasionale, a chiamata, il contrario dei lavori stabili, continuativi.

(21) Cfr. F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, raccolta di alcuni capitoli tratti dall’Antidühring stesa dallo stesso Engels nel 1882. Le citazioni sono riprese dall’opuscoletto con lo stesso titolo, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 76-101.

(22) Cfr. F. Engels, 1891, Introduzione a Lavoro salariato e capitale, di K. Marx, Editori Riuniti, Roma, 1971, p. 25.

(23) Cfr. “il fatto quotidiano”, 25.03.2020

 

 

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