Livorno 1921. La formazione del Partito Comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale Comunista

( Supplemento 02 a «il comunista» N° 166, Gennaio 2020 / Livorno 1921, la formazione del Partito Comunista d'Italia ) 

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●  1917

L’atteggiamento del Partito di fronte alla guerra e alla pace

 

 

Nulla da rettificare

(Dall’ “Avanti!” del 23 maggio 1917; in Storia della Sinistra comunista, vol. I, p. 304)

 

 

Ogni tanto la stampa antisocialista sospende la sua musica di ispirate invettive contro di noi, per darsi a battere un altro metro: i socialisti cominciano a ravvedersi e “rettificano il tiro”. E’ chiaro che il secondo sistema è per noi più pericoloso del primo. Quelle sono calunnie che ci fanno onore, queste sono lodi che dovrebbero farci arrossire.

Se c’è qualcuno che ha la sicurezza ed il diritto di vedere gli avversari nella veste di Maddalene pentite, è il partito nostro. Se una cosa interessa ai nemici del socialismo, non è l’uccisione del socialismo, compito che ormai vedono impari alle loro forze, ma il suicidio di esso o quanto meno la sua autoevirazione.

Perciò battono la grancassa a tutti i transfughi, gonfiano ed esaltano tutte le deviazioni, compiono sforzi inverosimili per mettere in evidenza, attraverso la loro sconcia ma possente organizzazione mondiale della menzogna, non le vere manifestazioni degli organismi proletari socialisti, ma le gesta degli Hervé, dei Leda, dei Plekhanof, dei Russell che rappresentano soltanto se stessi.

Potremmo sorridere certo anche di questo ridicolo sistema di aspettare e dir prossima ogni tanto la nostra conversione, e lasciarli blaterare ed arrovellarsi nelle delusioni successive; se purtroppo questa volta le chiacchiere avversarie non avessero un appiglio in certe manifestazioni del nostro partito, avvenute per strana ironia proprio mentre le masse ritornano fiduciose a noi e riconoscono la giustezza della nostra tesi e della nostra azione.

Citiamo senza altri preamboli il Manifesto “Ai socialisti di tutti i paesi” lanciato in data 12 aprile dalla direzione del PS, dal gruppo parlamentare e dalla Confederazione del Lavoro.

“Tale, sotto il velame di una contraddizione formale apparente, il significato dello stesso intervento degli Stati Uniti d’America che, in coerenza agli scopi del primo messaggio wilsoniano, rimasto inascoltato, riaffermato nel messaggio guerresco, pur essendo determinato da necessità di difesa della grande repubblica e degli interessi borghesi ivi dominanti, si risolve tuttavia sostanzialmente in un intervento per la costrizione della guerra e per l’imposizione di una più sicura e più prossima pace... Al posto di due raggruppamenti imperialistici in contrasto, il britannico-russo e il tedesco, noi troviamo una alleanza di Stati dominati dallo spirito rinnovatore e democratico russo-americano contro un’autocrazia indebolita e svuotata, cui dovrebbe bastare un urto interiore deciso per mandarla in frantumi”.

Potremmo, per chiarire meglio il contenuto di questa “rettifica di tiro” di cui parla la stampa borghese, citare brani degli articoli di Treves e dei discorsi di Turati, ma preferiamo basarci sulle manifestazioni collettive dei dirigenti il partito, per esprimere un radicale ed aperto dissenso da esse, che sappiamo condiviso da moltissimi compagni.

Quelle affermazioni, discutibili anche in linea di fatto e dinanzi alle quali non sappiamo che cosa penseranno i compagni americani, contrari all’intervento, e i compagni russi, contrari alla prosecuzione della alleanza - e penseranno forse che i socialisti italiani in fatto di guerra combattono l’intervento del proprio paese e giustificano quello... degli altri - quelle affermazioni hanno dato motivo alle deduzioni del “Giornale d’Italia” e di altri giornali. Come si può dar torto a costoro quando il loro ragionamento ha un rigore tutto sillogistico?

Il messaggio di Wilson per la pace equivale ai principi di Zimmerwald (premessa prima). L’intervento di Wilson ha gli stessi scopi del suo messaggio di pace (premessa seconda). Anche gli zimmerwaldisti devono dunque “intervenire” come Wilson, e rendersi solidali con la guerra dell’Intesa (conclusione).

Sì, il manifesto dei nostri organi direttivi dichiara il fallimento della guerra, ma poi entra in certe considerazioni contingenti che sboccano nella conclusione opposta. E questa è la conseguenza della... “union sacrée” nel partito, che ci dà di queste manifestazioni in cui compagni di opposte opinioni e tendenze investono ognuno il proprio concetto, con qual vantaggio per la chiarezza e per la preparazione del proletariato agli eventi è facile vedere.

Ed è per lo meno curioso che, dopo la fiera campagna sulla neutralità o l’intervento e l’aspro dibattito tra la tesi internazionalista che vedeva nella guerra la conseguenza delle rivalità imperialistiche borghesi, e la tesi socialpatriota che vi scorgeva l’urto tra la democrazia borghese e il militarismo autocratico - e dopo che le cose sono andate come sono andate - si debba ancora da parte nostra dare pretesto agli avversari di dire che noi cominciamo a dar ragione a loro!

Ci sembra così evidente la contraddizione tra i concetti del manifesto in questione e le buone direttivi socialiste, che - anche per necessità di spazio e per altre ovvie ragioni - condenseremo in poche argomentazioni sommarie il nostro modo di intendere il valore storico degli ultimi avvenimenti americani e russi, richiamandoci a cose più volte dette su queste colonne.

Il militarismo quale si è manifestato in questa guerra è un prodotto modernissimo del regime borghese capitalistico e si concilia con le più progredite democrazie come con la più sviluppata ossatura economica industriale, mentre contrasta con gli istituti economici sociali e politici antecedenti allo stadio capitalistico. Infatti il militarismo di altre epoche storiche, come le invasioni barbariche, le guerre dell’epoca feudale e delle monarchie autocratiche, ha caratteristiche del tutto diverse.

Dobbiamo entrare nel processo storico borghese per rintracciare le “condizioni” del militarismo quale esso ci si manifesta in questa guerra: nel campo tecnico occorre uno sviluppo grandioso dei mezzi di produzione industriali e una padronanza completa dei processi e cicli di trasformazione delle materie prime; nel campo economico è condizione della guerra moderna una grande potenza finanziaria dello Stato ed una vasta rete di proventi tributari; nel campo amministrativo un’organizzazione burocratica indispensabile per reclutare e mobilizzare l’esercito, per disciplinare gli approvvigionamenti e i consumi e portare a un massimo di attività la macchina statale; nel campo politico infine un regime di democrazia, ossia - nel significato storico dell’espressione - di illusoria libertà delle masse, perché esse accettino il peso enorme della guerra e credano questa imposta da interessi collettivi della nazione.

Questa ultima considerazione trova il suo appoggio nel fatto che la coscrizione militare e gli eserciti permanenti sono stati stabilmente introdotti dopo i rivolgimenti democratici - in Francia dalla Convenzione nel ’93 - mentre l’intensificazione degli armamenti in tutti i paesi d’Europa era accompagnata dalla concessione di riforme democratiche atte a rendere accettabili alle masse i nuovi pesi. D’altra parte se confrontiamo l’ascensione delle cifre dei bilanci militari con quelle che sono indice dello sviluppo industriale e commerciale del capitalismo riscontriamo universali analogie.

Il militarismo non è dunque l’avanzo d’altri tempi ma il prodotto dei tempi nuovi, è figlio del capitalismo e della sua caratteristica forma politica, la democrazia.

Per queste ragioni noi superiamo e rigettiamo la tesi del duello tra democrazia e militarismo e non abbiamo preferenze per uno dei gruppi di Stati in conflitto.

Gli Stati in guerra non si battono per la bandiera delle ideologie sociali e filosofiche che prevalgono nell’uno o nell’altro, e questo intuirono bene i socialisti italiani nella guerra di Libia.

In ogni Stato vi sono classi e tendenze che rispondono a diversi gradi di sviluppo storico, ma la guerra tra gli Stati è condizionata dalla cessazione del dissidio interno, unico terreno su cui potrebbe svolgersi un rivolgimento sociale.

Gli Stati in guerra per noi sono unità della stessa specie. Se una cosa possiamo dire con sicurezza, è che fanno meglio la guerra gli Stati più moderni, industriali, borghesi, democratici.

Dunque l’efficienza militare della Germania noi non la ricolleghiamo alle sopravvivenza di istituti medioevali e feudali, bensì a quanto essa ha di più moderno, capitalistico e “democratico.” Ha subito questa tesi una smentita dagli avvenimenti? Tutt’altro.

Il paese rivelatosi meno adatto alla guerra, quello che per primo si è spezzato, è stata la Russia, a cui mancavano o dilettavano tutte quelle condizioni che abbiamo accennate: tecnica industriale, economia capitalistica, burocrazia moderna, democrazia politica.

E lo Stato che più freddamente ha calcolato le sue convenienze quelle della sua classe capitalistica - nella neutralità prima e poi nella guerra, è stata appunto la democratica ed evoluta repubblica delle stelle.

Noi riconosciamo che questi concetti meriterebbero più lungo svolgimento. Ma non ci sembra possibile che socialisti, di quelli che non hanno ceduto agli allettamenti guerrafondai, impostino su altre basi la loro critica della situazione, e prendano sul serio il roboante frasario sotto cui si ammantano le ciniche manifestazioni del regime capitalistico, interpretino la rivoluzione russa secondo le falsificazioni della stampa avversaria e valorizzino le affermazioni wilsoniane campate su di una vuota ideologia umanitaria-mazziniana, anziché sventrare col bisturi della critica marxista i fenomeni importantissimi che caratterizzano l’attuale storia del colosso capitalistico d’oltre Atlantico, ed i grandiosi rapporti sociali nella nuova Russia, ove il terzo stato rappresenterà ben altra parte che nella Francia dell’89.

Sappiamo bene che quei nostri compagni che si preoccupano troppo dell’impressione che gli atteggiamenti nostri ridestano nella platea avversaria - occupata dalla claque prezzolata - non possono soffrire l’accusa di schematici, dogmatici, ciechi e così via. E ammettiamo che si sottoponga a continuo esame critico il nostro concetto ideologico, in relazione agli avvenimenti che si susseguono. Ci pare che questo esame ritorni a conforto oggi più che mai della nostra convinzione - che non è e non vuol essere fede cieca in formule fisse.

Ma queste revisioni e rettifiche diventano perniciose e deplorevoli quando si riducono a sostituire al poderoso spirito critico e svisceratone della verità di cui è materiato il socialismo marxistico, le balordaggini poco più che ginnasiali che formano il credo della gente ben pensante e l’ossatura del senso comune fasciato di mille strati di pregiudizio.

Perché allora il proletariato socialista, dopo essersi strappate le bende secolari che gli impedivano la visione della realtà, si lascerebbe applicare gli occhiali colorati attraverso i quali guardano e giudicano coloro che sono aggiogati dal giogo dei loro stipendi al carro dell’ordine vigente: e seguiterebbe a mangiare paglia per fieno come quel tal bue dagli occhiali verdi.

Affermiamo dunque senza esitare che gli ultimi avvenimenti non ci inducono a modificare le nostre concezioni in rapporto alla guerra e la nostra intransigenza dinanzi alle finalità di essa, che nell’uno o nell’altro campo sono avverse alle idealità socialiste e all’interesse delle classi lavoratrici.

Se qualche cosa urge nell’ora che volge è una maggiore saldezza di propositi e di azioni. Pessimo sintomo è dunque il blaterare della stampa avversa intorno ai nostri ravvedimenti! Auguriamoci che l’ulteriore contegno del movimento nostro sia tale da smentire e deludere queste equivoche manovre. Ma prima di indignarci contro la spiegabile tendenziosità avversaria nello sfruttare ai suoi fini certe manifestazioni, pensiamo a pretendere dai dirigenti nostri una direttiva più sicura e più socialista.

Ne è tempo.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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