Sull'occupazione delle fabbriche del 1920

(«il comunista»; N° 167 ; Gennaio / Marzo 2021)

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Tra i rapporti tenuti alla riunione generale di partito del maggio 1978, uno riguardava la Storia della Sinistra comunista. Questo lavoro, iniziato quando ancora era vivo Amadeo Bordiga, proseguiva di riunione in riunione con lo stesso metodo di ricerca e con il contributo di molti compagni. Erano già usciti i primi due volumi (nel 1964 il primo volume, nel 1972 il secondo, che coprivano il periodo che va dalle sue origini al secondo congreso dell’Internazionale Comunista. Il terzo volume era dedicato al periodo che andava dal II al III congresso dell’Internazionale Comunista, ossia dal settembre 1920 al giugno 1921; doveva occuparsi quindi della formazione delle sezioni nazionali dell’I.C., in particolare in Germania e in Francia e, naturalmente, in Italia, e dei movimenti di lotta del proletariato tra cui spiccava il movimento dell’occupazione delle fabbriche.

Il rapporto alla riunione generale citata si incentrò esattamente sull’occupazione delle fabbriche, tema molto complesso sul quale, all’epoca, emersero valutazioni ben precise del gruppo comunista che faceva riferimento a «Il Soviet» di Napoli, come emerse chiaramente l’incapacità del gruppo dell’«Ordine Nuovo» di Torino di dare un indirizzo chiaramente antiriformista e antimassimalista al movimento dell’occupazione delle fabbriche; si misero in rilievo, in particolare, i punti fondamentali che caratterizzavano la valutazione della nostra corrente, espressa dal Soviet, e riassunti nel resoconto pubblicato ne “il programma comunista” n. 12, del 10 giugno 1978, che qui riprendiamo.

 

 

1. Contrariamente all’interpretazione allora corrente dell’Internazionale, il movimento [dell’occupazione delle fabbriche] cadde in un periodo non di avanzata, ma di riflusso delle lotte di classe in Italia, dopo il tumultuoso 1919 con i suoi moti contro il carovita e il grande sciopero dei metallurgici, e dopo i loro strascichi nella prima metà del 1920 (prime occupazioni spontanee di fabbriche in Liguria e Piemonte, sciopero delle lancette, fatti di Ancona), come basterebbero a dimostrarlo il suo andamento pacifico, mai accompagnato da scontri di strada, la facilità con cui il governo Giolitti poté riassorbirlo, e la coincidenza non certo casuale tra la sua fine e l’inizio dell’offensiva gfascista, basata sul riconoscimento non della froza ma della debolezza dell’avversario.

 

2. Iniziato non da una spinta “spontanea” delle masse, ma dall’organizzazione sindacale riformista, il movimento, indubbiamente grandioso come mobilitazione in massa di proletari, non sfuggì però mai al suo congtrollo, e la destra del PSI, politica e sindacale, poté svolgervi senza constrasto il suo ruolo; il che dimostra come la sottovalutazione serratiana, al II congresso dell’IC e in seguito, del peso e della consistenza del turatismo rispecchiasse una visione distorta della realtà e, nello stesso tempo, come fosse illusorio, allora e poi, il tentativo di “recupero” del massimalismo compiuto da Mosca malgrado e contro la nosrtra recisa opposziione: se si voleva una prova schiacciante della funzione di copertura del riformismo svolta dai massimalisti, essa era lì, in tutto il discorso dell’«occupazione delle fabbriche» e nel suo snodamento finale.

 

3. Apertosi sul terreno di rivendicazioni salariali e normative, e di discussioni tra le diverse organizzazioni sindacali e il padronato circa la possibilità di soddisfarle, il movimento prese prima l’aspetto dell’«ostruzionismo» decretato dalla FIOM in risposta al rifiuto degli industriali di concedere il benché minimo miglioramento economico in tema di salario, cottimo, indennità di licenziamento, straordinario, ferie retribuite ecc., e dopo che la stessa FIOM aveva accettato di porsi sul terreno del calcolo dei profitti e delle perdite delle aziende e della «compatibilità» fra richieste salariali e bilanci aziendali e nazionali; solo poi, non per iniziativa dei sindacati, ma in seguito alla serrata di alcune grandi aziende, si trasformò in occupazione della fabbriche. Ma già durante le trattative con la «controparte», e fin dai primi giorni di occupazione, apparve chiaro che la destra riformista alla guida della CGL puntava alla soluzione – per essa «rivoluzionaria» – del controllo sindacale sulle aziende, demagogicamente sbandierato come avvio alla socializzazione dei mezzi di produzione e al pacifico trapasso ad una nuova economia. Tutti i grossi calibri del riformismo, a cominciare da Turati, si lanciarono in teorizzazioni di questa «conquista rivoluzionaria», la sola, la vera la non dettata dalla barbara Mosca; e, nella fitta successione di contatti pubblici e nascosti col governo (la documentazione di questo «retroscena» è stasta nel rapporto particolarmente ampia, e nomn certo per gusto della cronaca), furono essi a presentare a Giolitti su un piatto d’argento la chiave per condurre a buon fine, e nel modo più pacifico, l’agitazione.

 

4. La potenza della destra riformista non solo nella CGL, ma nel PSI, e l’incapacità della direzione massimalista di sottrarsi al suo costante ricatto trovano drammatica espressione nelle due riunioni di quelli che sono stati chiamati molto retoricamente «gli Stati Generali del movimento operaio» del 4-5 e 10-12 settembre, a Milano, quando D’Aragona, appoggiato dai maggiori rappresnetanti della destra, parlamentari e non, non ebbe difficioltà a superare le resistenze sia della «base», e sia soprattutto degli organi dirigenti del Partito, e  ad avocare a sé la responsabilità del movimento per condurlo al traguardo ormai ben definito del «controllo» sancito per legge (una legge, d’altra parte, che non vedrà mai la luce).

 

5. La decisa «rimonta» riformista, già profilatasi al termine dello sciopero delle lancette in aprile e al congresso di Genova della FIOM in giugno, fu parallela a un netto declino del «consiglismo» ordinovista, cosicché l’occupazione delle fabbriche vide il gruppo dell’Ordine Nuovo non solo nell’incapacità di dare un indirizzo al movimento (che si continua a ritenere da esso ispirato, contro ogni prova in contrario), ma nella necessità di prenderne le distanze per non incoraggiarne le illusioni. Non si deve dimenticare che l’occupazione delle fabbriche avvenne dopo la violenta polemica Tasca-Gramsci e la rottura avvenuta fra quest’ultimo e i suoi compagni di corrente, in luglio, in seno alla sezione socialista torinese: e va detto che è proprio in questo periodo che i frutti della lunga polemica della sinistra astensionista vennero a maturazione portando la maggioranza degli ordinovisti a spostare la loro attenzione dalla questione dei consigli alla questione del partito, e rendersi conto (non discutiamo qui fino a che punto e con quale profondità di convinzione) dell’importanza centrale di quest’ultima. Sarà Togliatti, il 10 settembre, a mettere in guardia gli «Stati Generali» contro decisioni affrettate in mancanza di una preparazione politica e militare della classe operaia. Sarà l’esperienza di quei giorni a gettare un ponte fra gli ordinovisti e Livorno.

 

6. L’epilogo dell’occupazione, anzi il stesso decorso, mettono in evidenza la collusione fra il riformismo «operaio» e il riformismo borghese incarnato da Giolitti; questi non muoverà un dito per opporre la forza dello Stato al movimento, nella chiara consapevolezza di avere nella destra socialista e confederale il più sicuro garante dell’ordine, e nella facile previsione che, chiuso nel perimetro delle aziende, la classe operaia avrebbe fatto necessariamente la fine dei «reclusi volontari»: sarebbe stata costretta a cedere per asfissia.

Così avvenne infatti, malgrado resistenze non da poco in diversi settori del proletariato; ma, di fronte alla villenza delle tensioni sociali il «sogno» giolittiano di una ripetizione del connubio liberl-socialista antebellico ebbe breve vita e si trascinò dietro anchje quello turatiano di «rifare l’Italia» nel senso di un «placido tramonto» del regime borghese. Così, a conferma delle nostre tesi, il riformismo salvò nell’immediato la democrazia e preparò a breve scadenza il letto al fascismo, al quale intanto osannavano come espressione finalmente avveratasi di una «sana reazione della borghesia» gli Albertini, gli Amendola, gli Einuadi e gli altri santoni del liberalismo, che durante l’occupazione delle fabbriche avevano gridato al pericolo rosso drammaticamente incombente e deprecato l’«inerzia» di Giolitti (anche lui schieratosi nel 1922-23 con Mussolini). Anche sotto questo aspetto, il periodo dell’occupazione delle fabbriche costituisce un banco di prova della giustezza dell’analisi della Sinistra, che nel rapporto è stata ulteriormente suffragata dal richiamo agli articoli del Soviet sulla questione del «controllo operaio» in antitesi alle teorizzazioni riformiste e massimaliste e in parziale dissenso con alcune formulazioni troppo schematiche della stessa Internazionale.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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