L'aspra via dell'emancipazione proletaria passa attraverso la lotta di classe rivoluzionaria, la conquista del potere politico e l'instaurazione della dittatura proletaria

(«il comunista»; N° 168 ; April / Maggio 2021)

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Nella conferenza che Amadeo Bordiga tenne alla Casa del Popolo di Milano il 2 luglio 1921, nel periodo in cui la rivoluzione proletaria e il movimento comunista internazionale poggiavano sulla vittoriosa rivoluzione socialista in Russia e sull’Internazionale Comunista costituitasi nel 1919 quale guida del movimento proletario mondiale, col titolo Dall’economia capitalistica al comunismo, dopo aver tratteggiato a  grandi linee il trapasso, storicamente previsto dal marxismo «tra due epoche, due storie, due regimi», Bordiga sottolineava l’aspra via della vittoria proletaria che, dopo la violenta presa del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario e sotto la guida ferrea del suo partito di classe, doveva dedicarsi, senza smettere di combattere le forze borghesi e imperialiste nel mondo, alla trasformazione economica nel paese in cui la rivoluzione proletaria aveva vinto. Quell’aspra via della vittoria proletaria non permetteva un trapasso graduale, pacifico, come se la vittoria rivoluzionaria in un paese aprisse automaticamente la vittoria rivoluzionaria in tutti gli altri paesi. La borghesia capitalista e imperialista non si sarebbe mai data per vinta, tutt’altro. Come affermava Trotsky, più si avvicina  la morte della società del capitale, più la borghesia moltiplica le sue forze di resistenza che si basano non solo sulla struttura economica capitalistica della società che non può essere eliminata di colpo, ma anche sulla forza sociale e politica con la quale la borghesia attrae nel proprio campo e a propria difesa non solo gli strati della piccola e media borghesia, ma anche strati non indifferenti del proletariato attraverso l’opera delle forze dell’opportunismo e del collaborazionismo interclassista. Perciò la rivoluzione proletaria e comunista deve  non solo vincere nell’insurrezione, ma deve consolidare la vittoria in una ferrea e solida dittatura di classe esercitata dal partito di classe, dal partito comunista rivoluzionario al di fuori di ogni alleanza o condivisione del potere con altre forze sociali, cosa che dichiara apertamente. La dittatura proletaria non ha infatti bisogno di mimetizzarsi con false forme democratiche, come invece la dittatura borghese, perché, a differenza di quest’ultima, è l’espressione della maggioranza della popolazione.

L’obiettivo fondamentale della rivoluzione è certamente la presa del potere politico, ma per fare che cosa? Marx, Engels, Lenin hanno sostenuto con una eccezionale continuità teorica, politica e pratica, dimostrandolo materialisticamente e storicamente, che la classe proletaria, la classe dei senza riserve, la classe produttrice per eccellenza deve spezzare la macchina statale borghese, tanto più se ingannatrice come quella democratica e parlamentare, e passare alla demolizione di tutto l’apparato di difesa politica, economica e militare della società capitalistica, per poter avviare la costruzione sulle sue macerie di una società completamente nuova che non avrà più lo scopo di rispondere alle esigenze del capitale e del mercato opprimendo la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, ma alle esigenze dei bisogni della società umana, della società di specie. Bordiga, in quella conferenza del 1921, concludeva affermando che: «non vi è altra alternativa che questa lotta per la demolizione d’un mondo avversario per trarne in salvo le energie che devono costruire un mondo nuovo, oppure la morte lenta, la morte per soffocazione».

Senza fantasticare né su utopistiche città del sole germinate spontaneamente dalla putrefazione dell’attuale società capitalistica, né su illusorie prese di coscienza da parte di ogni individuo per migliorare le proprie condizioni di esistenza personali attraverso la semplice volontà di cambiarle, né su graduali vie nazionali attraverso cui, riformando poco per volta i mille ingranaggi del sistema capitalistico, giungere ad una società “più umana”, “più giusta”, “più egualitaria”, il marxismo – sulla base del materialismo storico e dialettico – ha scoperto il corso storico ineluttabile delle società divise in classi che, col capitalismo, giunge alla sua ultima possibile espressione. L’alternativa positiva al capitalismo non è una graduale attenuazione delle sue contraddizioni; questa attenuazione non è possibile poiché il contrasto tra lo sviluppo delle forze produttive e le forme di produzione in cui sono costrette non è eliminabile se non con la distruzione di queste forme di produzione. È solo con la distruzione delle forme di produzione capitalistiche, quindi dei rapporti borghesi di produzione, di scambio e di proprietà, che si apre la possibilità di eliminare le contraddizioni del capitalismo con tutte le sue nocive conseguenze sulla società, e di superare i limiti che il modo di produzione capitalistico ha creato e ricrea continuamente, nonostante il suo sviluppo, alla produzione sociale e alla vita sociale dell’uomo. Tale “liberazione” delle forze produttive non è il risultato automatico del loro intrinseco e contraddittorio sviluppo. La società si è sviluppata nella storia attraverso la lotta fra le classi nella quale, in sintesi, si esprimono da un lato la spinta progressiva dello sviluppo delle forze produttive dovute al progresso dell’economia produttiva e, dall’altro, il freno, l’ostacolo a quello stesso sviluppo, fino a giungere alla società capitalistica nella quale sono soltanto due le classi principali dallo scontro delle quali dipende il futuro della società umana: la borghesia, la classe tuttora dominante, e il proletariato, la classe tuttora dominata. E come già nel corso storico delle precedenti società divise in classi, così anche per la società capitalistica il suo sviluppo non può che portare alla massimizzazione dei contrasti di classe, allo scontro generale e finale tra la classe dominante borghese e la classe proletaria. La rivoluzione è storicamente inevitabile.

 

LA CLASSE BORGHESE HA UN TEMPO STORICO DEFINITO IL SUO DOMINIO VERRÀ SPEZZATO SOLTANTO DALLA RIVOLUZIONE PROLETARIA 

 

La borghesia è proprietaria di tutto, dei mezzi di produzione, di scambio e dell’intera produzione sociale; e tutto questo costituisce il capitale; la borghesia è quindi la massima espressione sociale del modo di produzione capitalistico. Il proletariato, che nel modo di produzione capitalistico non è proprietario di nulla, è la classe dei senza riserve, costituisce la forza lavoro da applicare ai mezzi di produzione e di scambio; di fronte al capitale rappresenta il lavoro salariato ed è, in realtà, la fonte della ricchezza sociale prodotta nel capitalismo. Lo sfruttamento del lavoro salariato consente alla borghesia di valorizzare il capitale usato per la produzione e lo scambio, cioè consente al capitale di aumentare il suo valore iniziale con l’aggiunta di un pluvalore; e questo plusvalore è generato esclusivamente dal tempo di lavoro non pagato – cioè dal pluslavoro – al proletario dato che nella giornata lavorativa solo una parte delle ore lavorate corrisponde al salario che gli serve per sopravvivere, mentre le altre ore sono tempo di lavoro regalato al capitalista; è, dunque, un valore che si trasmette nel prodotto finito, come gli altri valori del capitale fisso, ma che proviene esclusivamente dalla forza lavoro operaia di cui il capitalista si impossessa senza corrispondergli una qualsiasi forma di compensazione ulteriore. Attraverso l’appropriazione dell’intera produzione sociale che, come si sa, è destinata al mercato, la borghesia si impossessa dell’intero plusvalore. Il proletariato, quindi, oltre a subire lo sfruttamento della sua forza lavoro a fini esclusivamente mercantili, subisce anche il furto delle ore di lavoro non pagate, consegnando alla borghesia l’assoluto dominio economico, sociale e politico sulla società. E’ chiaro che solo con la sua lotta a difesa delle sue condizioni di esistenza nella società borghese, il proletariato riesce ad attenuare il peso e le conseguenze più brutali di questo sfruttamento; ma, rimanendo nell’ambito dei rapporti borghesi di produzione, di scambio e di proprietà, le sue condizioni di esistenza continuano e continueranno a dipendere esclusivamente dagli interessi della classe dominante borghese anche nelle situazioni in cui il tenore di vita del proletariato, grazie alle sue lotte e anche allo sviluppo del capitalismo stesso, si alza di livello (cosa che succede soprattutto per certi strati del proletariato e certamente per il proletariato dei paesi imperialisti che sfruttano e opprimono popoli e paesi più deboli).

Il capitalismo funziona attraverso l’attività economica, commerciale e finanziaria divisa in aziende a sé stanti, e ciò risponde ai rapporti di proprietà borghesi imposti alla società, attraverso i quali i capitalisti si assicurano la proprietà privata dei capitali e l’appropriazione privata della produzione sociale. Le aziende hanno come unico referente il mercato, nazionale e internazionale, nel quale vendere i propri prodotti sottostando ad una lotta di concorrenza nella quale ogni azienda cerca di sopraffare la concorrente. I mezzi per “vincere” la concorrenza sono molti, a partire dai costi di produzione più bassi (sia delle materie prime, sia della forza lavoro) e dalle tecniche di produzione e di smercio più innovative, alla maggiore quantità di beni prodotti nella stessa quantità di tempo, dalle facilitazioni ottenute con le più diverse manovre per velocizzare ogni singola operazione necessaria all’attività economica intrapresa, alle risorse finanziarie necessarie ad ogni imprenditore per acquistare mezzi di produzione, materie prime e forza lavoro. E, infine, ma non meno importante, dagli agganci politici utili ad accorciare i tempi nelle autorizzazioni amministrative, ad assicurarsi appalti, ad ottenere finanziamenti, a frenare l’attività dei concorrenti nazionali o stranieri, a coprire illeciti propri e scoprire illeciti dei concorrenti e via dicendo. Il mondo capitalistico non è soltanto innovazione tecnica, scoperte rivoluzionarie di nuovi materiali e di nuovi sistemi di produzione, soluzioni tecnologiche nel campo della comunicazione, della lavorazione dei materiali, dell’automazione di tutta una serie infinita di processi lavorativi; è anche organizzazione sempre più efficace ed efficiente della forza lavoro umana sottoposta al massimo sfruttamento possibile nell’unità di tempo al fine di valorizzare sistematicamente ogni capitale e ogni sua frazione nel minor tempo possibile. Il plusvalore estorto dallo sfruttamento della forza lavoro salariata è il reale guadagno del capitalista; e a questo guadagno nessun capitalista rinuncerà mai. Perciò la classe dei capitalisti non ha alternative: per vivere deve continuare a sfruttare la forza lavoro salariata in ogni angolo del mondo, direttamente o indirettamente, e deve trovare continuamente sbocchi di mercato per piazzare e vendere le sue merci, in una lotta di concorrenza che, con lo sviluppo dello stesso capitalismo, si acutizza sempre più.

Ma il capitalismo, se da un lato spinge il proprio sistema economico organizzato per aziende a produrre quantità sempre maggiori di merci da immettere nel mercato, dall’altro lato, a mercati intasati, va incontro ciclicamente a crisi di sovrapproduzione: le merci prodotte restano invendute. Il mercato risulta essere il vero mondo del capitalismo, e in un certo senso anche il suo deus ex machina, da cui dipende il buon andamento o meno della produzione e, quindi, della vita umana. È  lo stesso mercato che mostra come nel sistema capitalistico si verifichino sprechi eccezionali di energie produttive, in termini di capitali investiti, di forza lavoro impiegata, di prodotti inutilizzabili, oltre a rendere evidente a tutti che la produzione capitalistica consiste sempre più in produzioni inutili e nocive (ma estremamente redditizie per i capitalisti in generale, non solo per gli affaristi e i criminali) contro la produzione di beni necessari alla vita di tutti gli esseri umani. Con i mercati intasati le fabbriche chiudono, si licenziano gli operai, la disoccupazione aumenta, aumenta la povertà, masse sempre più grandi non hanno di che mangiare, e gli Stati sono costretti in qualche modo a soccorrerle per evitare che le inevitabili tensioni sociali create dalle crisi sfocino in tumulti e rivolte. Il capitalismo mostra così la sua vera faccia: non riesce a soddisfare i bisogni di tutti perché deve soddisfare le esigenze dei pochi che possiedono i capitali, costi quel che costi, anche se generando sprechi, distruzioni, guerre. La sovrapproduzione, infatti, non riguarda soltanto le merci, riguarda anche quella particolare merce che è la forza lavoro salariata, il proletariato, una parte del quale non essendo utilmente sfruttata viene scartata, gettata sul lastrico, emarginata e, al pari della spazzatura, viene lasciata marcire nell’inedia, nelle baraccopoli; e quando questa forza lavoro non si dà per vinta e tenta di migrare in altre terre, in altri paesi, cercando un modo per sopravvivere, attraversando foreste, deserti, montagne o mari, essa va incontro sicuramente ad uno sfruttamento ancora più bestiale o alla repressione, alle sevizie, alla morte.

La classe borghese dominante per vivere deve succhiare il sangue alle masse proletarie sfruttate, e per continuare a vivere deve disfarsi, di volta in volta, di merci invendute e di forza lavoro in sovrappiù. Per correre più veloce nella lotta di concorrenza e nell’accaparramento di nuovi mercati si creano fattori di crisi sempre più devastanti, mentre alle masse proletarie resta la prospettiva di una morte lenta nello sfruttamento quotidiano e nella disoccupazione oppure di morte rapida nelle guerre borghesi di rapina.  

Il capitalismo ha storicamente, e da molto tempo, dimostrato di essere una società disumanizzante. Il suo mondo è il mondo della violenza, della sopraffazione, dello sfruttamento, delle sciagure, delle guerre. Non ne può fare a meno, perché soltanto così esso sopravvive a se stesso. E che la sua società non sia riformabile lo dimostrano le due guerre mondiali che hanno segnato il XX secolo, dalle quali la classe dominante borghese ha tratto ancora più forza per continuare a dominare, creando però fattori di crisi ancora più acuti di quelli che, secondo la propaganda democratica, avrebbero dovuto essere superati per lasciare il campo ad una convivenza tra Stati e popoli che doveva portare... la pace e il benessere per tutta l’umanità. E lo dimostrano tutte le guerre che le potenze imperialiste hanno scatenato direttamente o indirettamente in ogni angolo del pianeta in una lotta di concorrenza che ha preso le dimensioni della guerra permanente tra Stati.

Che cos’è, in realtà, la pace per il capitalismo imperialista? È il periodo di tregua tra una guerra e l’altra. La guerra, per la borghesia, è l’occasione per ringiovanire il capitalismo, per superare la crisi di sovrapproduzione distruggendo enormi masse di forze produttive, grazie alla quale distruzione e alla necessaria ricostruzione postbellica, rimettere in corsa la macchina produttiva capitalistica. È successo subito dopo la prima guerra imperialistica mondiale; è successo dopo la seconda guerra imperialistica mondiale, e succede dopo ogni guerra locale che c’è stata da allora in poi sebbene con risultati inferiori rispetto alla ricostruzione seguita alle grandi distruzioni della seconda guerra mondiale.

Sono forse scomparse le crisi economiche e finanziarie dal 1945 a oggi? No! Finita una crisi si è presentata la crisi successiva, e così in una tragica rincorsa fino alla crisi economica attuale che, combinatasi con la pandemia da coronavirus, ha rimesso alle strette tutte le grandi economie mondiali.  

Ma quali sono i mezzi che la borghesia usa per superare le crisi di guerra? Gli stessi che usa per superare le crisi economiche e finanziarie, come affermato dal Manifesto del 1848: «da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi», mezzi che in realtà preparano «crisi più generali e violente» che, a loro volta, tendenzialmente, preparano «la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse».

Ma se i mercati sono intasati provocando la crisi di sovrapproduzione, come fa la borghesia a conquistare “nuovi mercati”? È proprio la distruzione di una imponente massa di forze produttive provocata dalla crisi che apre al capitalismo, attraverso la necessaria ricostruzione, nuovi mercati e, alle potenze imperialistiche più forti la possibilità di conquistarli; certo, in una lotta di concorrenza sempre più sfrenata e in cui nuovi concorrenti emergono dallo stesso sviluppo capitalistico. In effetti il capitalismo non ha terminato di svilupparsi nel mondo con la prima, né con la seconda guerra mondiale. Anzi, più massicce sono le distruzioni durante la guerra e più occasioni di ricostruzione si creano; questo non fa automaticamente delle vecchie potenze imperialistiche le nuove potenze dominatrici del mercato perché lo sviluppo del capitalismo, pur nella sua congenita ineguaglianza, crea altri poli imperialistici che si mettono inevitabilmente in concorrenza con i vecchi.

Il caso della Germania nel XX secolo è eclatante, come il più recente caso della Cina. Questo andamento storico non fa che aumentare le tensioni determinate dalla concorrenza tra imperialismi, concorrenza giunta ad un tale livello da richiedere uno stato di guerra permanente: la continua sovraproduzione chiede una continua distruzione.

Il modo di produzione capitalistico, mentre da un lato tende a sviluppare costantemente le forze produttive, dall’altro necessariamente le deve costantemente distruggere per lasciare spazio a nuovi cicli di produzione, e questo è il suo più grande limite: lo sviluppo delle forze produttive è ciclicamente frenato dalle forme borghesi della produzione e dello scambio. E alle crisi cicliche del capitalismo seguono inesorabilmente, ad un certo punto, le crisi generali di guerra.

Questa tremenda spirale può essere fermata soltanto dalla rivoluzione proletaria, dalla rivoluzione della classe produttrice di tutta la ricchezza sociale e che rappresenta, nella sua lotta di classe contro la borghesia, il reale e illimitato sviluppo della forza produttive.

L’unica forza sociale in grado di impedire al capitalismo di continuare a dominare nella società e di sviluppare le sue distruttive contraddizioni – tutte le sue oppressioni, le sue crisi e le sue guerre – è il proletariato rivoluzionario che, alla condizione di essere guidato dal suo partito di classe e in una situazione generale di maturazione dei fattori di crisi rivoluzionaria, si lancia alla conquista del potere politico per abbattere lo Stato borghese e tutta la sovrastruttura politica, economica, culturale, religiosa che contribuisce a saldare nelle mani della classe borghese il totale potere politico ed economico.

Abbattere, spezzare, sopprimere lo Stato borghese, nella rivoluzione proletaria che ha come obiettivo immediato la costituzione del proletariato in classe dominante instaurando la sua dittatura di classe. Abbattere, spezzare, sopprimere, sono verbi utilizzati da Marx, Engels, Lenin e che la corrente della Sinistra comunista a cui noi ci riferiamo direttamente ha ribadito con intransigenza in tutti i periodi della lotta contro il riformismo turatiano, lo sciovinismo secondinternazionalista, il massimalismo serratiano, l’opportunismo frontista e democratico antifascista, il nazional-comunismo staliniano con tutte le sue varianti nazionali.

 

SULLA SOPPRESSIONE DELLO STATO E SULL’ESTINZIONE DELLO STATO NELLA SOCIETÀ SENZA CLASSI 

 

Marx, il 5 marzo 1852, scrivendo a Joseph Weydemeyer a New York (1), mette sinteticamente in risalto gli aspetti fondamentali della finalità storica della lotta fra le classi, partendo dal dato storico incontrovertibile dell’esistenza delle classi e della loro lotta reciproca: «Per quanto mi riguarda, non a me compete il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi nella società moderna e la loro lotta reciproca. Molto tempo prima di me, storiografi borghesi hanno descritto lo sviluppo storico di questa lotta delle classi ed economisti borghesi la loro anatomia economica. Ciò che io ho fatto di nuovo è stato: 1) dimostrare che l’esistenza delle classi è legata puramente a determinate fasi storiche di sviluppo della produzione; 2) che la lotta delle classi conduce necessariamente alla dittatura del proletariato; 3) che questa dittatura medesima non costituisce se non il passaggio all’abolizione di tutte le classi e a una società senza classi» (2).

In tutte le opere di Marx, di Engels, di Lenin non c’è una riga che contraddica questi 3 punti fondamentali. E non è un caso che il punto più ostico sia il secondo, quello che riguarda l’ineluttabilità della dittatura del proletariato come sbocco storico della lotta delle classi. Lenin stesso, nella lotta contro ogni forma di opportunismo, affermerà con fermezza che non è marxista chi non sostenga che la lotta di classe è lotta politica e che, attraverso la rivoluzione proletaria, deve sboccare nella dittatura di classe del proletariato. Quando si parla di classe dal punto di vista storico, e quindi rivoluzionario, si parla dell’insieme di gruppi umani formatisi nella società sulla base dello sviluppo della produzione, accomunati da interessi economici e politici generali ben precisi. Questo concetto vale ovviamente per la classe borghese, la classe ancora dominante, e vale anche per la classe proletaria sebbene il proletariato moderno non possa poggiare la sua forza sociale su un modo di produzione già avviato all’interno stesso del capitalismo, cosa che lo metterebbe nelle condizioni di rappresentare una rivoluzione economica già in atto che avrebbe bisogno solo di una rivoluzione politica per disfarsi dei vincoli sovrastrutturali che ne impediscono il libero sviluppo mondiale. Tutte le classi rivoluzionarie precedenti hanno potuto appoggiare il proprio movimento sul nuovo modo di produzione che si stava già sviluppando all’interno della vecchia società; non così per il proletariato. L’obiettivo della classe che rappresentava il nuovo modo di produzione era di svilupparlo al massimo, ma sempre sulla base della proprietà privata, abbattendo tutti gli ostacoli giuridici, amministrativi e politici che ne impedivano lo sviluppo, ma era anche quello di imporre una nuova classe dominante in una società sempre divisa in classi. E questo processo di sviluppo vale fino alla comparsa della società capitalista e alla classe borghese che ne rappresenta gli interessi generali e specifici nella sua qualità di classe dominante; una società nella quale lo sviluppo delle forze produttive ha di fatto abbattuto tutti i vincoli che limitavano lo sviluppo del mercato nazionale e internazionale. Ma è lo stesso mercato nazionale e internazionale che condanna questa società a limitare e ad interrompere lo sviluppo delle forze produttive in forza dei rapporti borghesi di produzione, di scambio e di proprietà che la dominano. La classe borghese, che rappresenta economicamente, socialmente e politicamente il dominio del capitalismo sulla società, è stata la classe rivoluzionaria nell’epoca della storica rivoluzione antifeudale, ma è diventata conservatrice e reazionaria nelle epoche successive di sviluppo della sua stessa economia. Più le forze produttive si sviluppavano, più queste premevano sui rapporti di produzione e sociali esistenti tendendo a spezzarli; e più la classe borghese dominante, per mantenere il suo dominio politico e sociale, doveva e deve reprimere le classi subalterne che oggettivamente sono spinte a ribellarsi alle condizioni di esistenza in cui sono costrette a vivere.

Il marxismo ha scoperto che lo sviluppo delle forze produttive si attua attraverso fasi storiche nelle quali si formano le classi sociali dividendosi in classi dominanti e classi dominate che entrano in lotta fra di loro in forza delle rispettive condizioni di esistenza sociale, mettendo in questo modo in discussione i rapporti sociali esistenti; e che la società capitalistica è l’ultima società divisa in classi che lo sviluppo delle forze produttive ha potuto sopportare. Dopo il capitalismo non ci può essere che la società senza classi, cioè una società che si basa sullo sviluppo delle forze produttive senza le costrizioni e i contrasti dovuti agli interessi di sopravvivenza di ciascuna classe.

La società per cui lotta il proletariato moderno, la società senza classi, è una società che si basa sulla più ampia e razionale produzione sociale data dallo sviluppo armonico delle forze produttive dopo aver abolito sia la proprietà privata dei mezzi di produzione sia l’appropriazione privata della produzione sociale; essa potrà apparire soltanto dopo aver distrutto tutti i rapporti borghesi di produzione e di proprietà che soffocano lo sviluppo delle forze produttive: lo Stato politico, il lavoro salariato, il sistema mercantile con tutto il suo corredo di capitale, scambi commerciali, denaro, e ogni forma di oppressione che da questo sistema deriva.

Ma questa società non si crea per germinazione spontanea dalla società capitalistica, né innestando sul suo tronco socio-economico una diversa distribuzione della ricchezza sociale lasciando intatti i rapporti di proprietà, di produzione e di scambio che, in realtà, costituiscono proprio gli ostacoli allo sviluppo delle forze produttive. Ostacoli economici, sociali e politici che devono essere distrutti e per la quale distruzione la stessa società capitalistica ha provveduto a formare la forza sociale che se ne farà carico: il proletariato, la classe dei senza riserve, portatrice storicamente della lotta per la società senza classi. La classe proletaria è senza riserve nel regime borghese perché è la borghesia ad avere la proprietà di tutti i mezzi di produzione e della produzione stessa; ma la condizione di senza riserve in regime di produzione sociale – come è la produzione capitalistica – predispone dialetticamente alla negazione della proprietà privata dei mezzi di produzione e della produzione sociale, sostituendola con la loro proprietà collettiva, ossia sociale in tutto e per tutto, cosa che permetterà a ciascun membro della società senza classe di contribuire alla produzione e al lavoro sociali, secondo le sue capacità, e di avere dalla società secondo i suoi bisogni. Di fatto, la grande novità rispetto alla società capitalistica, è che nessuno potrà appropriarsi del lavoro altrui (e in questo si legga l’abolizione del lavoro salariato, quindi sia dei capitalisti che comprano la forza lavoro sia dei proletari che la devono vendere), né dei mezzi di produzione (terra compresa); scomparirà perciò l’obbligo dei senza riserve, per vivere, di vendere la propria forza lavoro a un qualsiasi proprietario di mezzi di produzione e di scambio, a un qualsiasi proprietario di capitale. Perciò anche il capitale, col suo corollario di merci e di denaro, non servirà più a nessuno perché non ci sarà più appropriazione privata dei prodotti, non esisterà più sfruttamento del lavoro altrui da pagare con salario, non ci saranno più merci (valori di scambio) da vendere e da comprare, ma solo prodotti (valori d’uso) necessari alla vita sociale della specie umana, e quindi non ci saranno più mercato, concorrenza, banche con relative sopraffazioni e guerre. La società senza classi, cioè il comunismo, è l’obiettivo storico della lotta di classe del proletariato che si svolge attraverso la rivoluzione per la conquista del potere politico e l’instaurazione della sua dittatura di classe. Lotta che si basa sulla condizione materiale del proletariato in quanto classe salariata, ma che non è in grado di svolgersi nell’intero arco storico fino al suo obiettivo finale se non sotto la guida del suo partito di classe. Di fatto, il proletariato, pur costituendo la grandissima maggioranza nella società borghese, non possiede nulla, non può trarre la sua forza da una sua, privata proprietà economica come fece la borghesia sotto il feudalesimo. Il proletariato è nudo, ma ha dalla sua parte la forza del numero. Essendo prima di tutto classe per il capitale – esiste infatti soltanto come forza lavoro salariata, perciò la sua vita dipende in tutto e per tutto dal capitalista che se la compra – la sua forza numerica può essere usata a vantaggio dei capitalisti, e dunque della classe dominante borghese, oppure a vantaggio di se stesso in quanto classe storica (diventando classe per sé) che ha obiettivi completamente opposti a quelli dei capitalisti e che il marxismo ha definito come obiettivi comunisti. Anche la sua lotta, non solo politica ma anche economica, può volgere o a favore dei capitalisti o a favore dei proletari. Di esempi la storia ne ha dati a bizzeffe.

Il problema è che la borghesia ha tutto l’interesse ad approfittare della condizione di inferiorità in cui costringe a vivere le masse proletarie per influenzarle ideologicamente nello stesso modo usato dalla chiesa: i preti propagandano la resurrezione delle anime dopo la morte, condizionando la loro destinazione, se in Paradiso o all’Inferno, secondo la vita trascorsa su questa terra vissuta all’insegna della rassegnazione alla “volontà di Dio” o meno; i borghesi propagandano il “riscatto sociale” per migliorare le condizioni in cui si è nati in questa società, attraverso la volontà individuale e il rispetto delle regole sociali già esistenti, basando ogni possibile “cambiamento” (individuale o sociale) sulla semplice espressione del proprio pensiero e della propria volontà nella speranza di incontrare la fortuna e non la sfortuna. Preti e borghesi si dividono i compiti: i preti si dedicano al conforto degli sfruttati, dei poveri, dei derelitti, convincendoli che la loro misera vita su questa terra verrà compensata nella beatitudine del regno dei Cieli; i borghesi, sfruttando il dominio sociale della loro classe, si dedicano ai propri interessi, ai propri affari, a propri profitti e, rivolgendosi ai proletari, siano poveri o derelitti, dicono che la strada per “migliorare” le condizioni sfortunate in cui sono nati e in cui vivono sta solo nelle loro mani, nelle loro ambizioni personali e naturalmente... nella fortuna. In entrambi i casi, i proletari devono solo sperare nel buon Dio o nella dea Fortuna...

La borghesia, avendo avuto bisogno storicamente della forza d’urto proletaria per abbattere i poteri feudali e tutti i loro apparati politici e amministrativi, e per diventare classe dominante, ha dovuto costruire un’ideologia che, almeno a parole e nei concetti generali, desse al proletariato, che non poteva che combattere a favore della borghesia nel periodo della rivoluzione antifeudale, la sensazione di ottenere qualcosa anche per sé. Lo ha “liberato” dalla servitù personale e dai vincoli del feudo per renderlo schiavo del lavoro salariato La democrazia repubblicana al posto dell’odiata autocrazia nobiliare ha svolto il suo compito coniando i suoi nuovi simboli: libertà, uguaglianza, fraternità, simboli che si sposarono senza troppa fatica anche con l’ideologia religiosa che si adeguò alla nuova divisione in classi della società. Ma, con la “libertà” borghese, la lotta fra le classi non è scomparsa; si è ridotta sempre più allo scontro tra la borghesia e il proletariato, che divennero le due classi principali della società capitalistica. Ed è infatti nella lotta tra queste due classi che si determina la possibilità per la borghesia di mantenere il suo potere e di continuare a vivere sfruttando il lavoro salariato e, per il proletariato, lottando contro la concorrenza fra operai che la borghesia alimenta costantemente, di emanciparsi dalla schiavitù salariale abbattendo il potere politico borghese e trasformando l’economia esistente in economia socialista. «La condizione più importante per l’esistenza e per il dominio della classe borghese – afferma ancora il  Manifesto di Marx-Engels – è l’accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la moltiplicazione del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro. Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo, fa subentrare all’isolamento degli operai risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria, risultante dall’associazione. Con lo sviluppo della grande industria, dunque, vien tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili». Nella prospettiva storica della lotta di classe e rivoluzionaria del proletariato, che non si realizza nel corso di un tentativo rivoluzionario, ma nel corso di vari tentativi in cui maturino le condizioni oggettive e soggettive della rivoluzione proletaria a livello mondiale, l’emancipazione dal lavoro salariato apre la strada all’emancipazione dell’intera umanità da ogni sorta di oppressione, proprio perché la società a cui la vittoria del proletariato mondiale porterà sarà la società senza classi, in cui non esisterà più la classe che produce tutta la ricchezza, ma non possiede nulla, e la classe che si appropria tutta la ricchezza sociale prodotta sulla base dello sfruttamento del lavoro della classe produttrice. E’ una prospettiva che passa inevitabilmente per la via rivoluzionaria e la costituzione del proletariato in classe dominante.

La rivoluzione proletaria e l’instaurazione della dittatura di classe del proletariato hanno fini completamente diversi da tutte le rivoluzioni avvenute in precedenza. Nelle società precedenti la proprietà privata e lo Stato non venivano aboliti; cambiavano le classi che, salite al potere, ne traevano il maggior vantaggio e li usavano per opprimere le classi inferiori, che sono sempre state la maggioranza, adattando lo Stato ai propri interessi di classe (3), mentre la proprietà privata passava, attraverso l’espropriazione violenta, dalle vecchie classi dominanti alla nuova classe dominante. «Tutte le classi che si sono finora conquistato il potere – scrive il Manifesto hanno cercato di garantire la posizione di vita già acquisita, assoggettando l’intera società alle condizioni della loro acquisizione», e tutti i movimenti sociali precedenti «sono stati movimenti di minoranze, o avvenuti nell’interesse di minoranze». Lo Stato non è che «l’organo del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe da parte di un’altra; è la creazione di un “ordine” che legalizzza e consolida questa oppressione moderando il conflitto fra le classi» (Lenin, Stato e rivoluzione); è dunque «il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi. Lo Stato appare là, nel momento e in quanto, dove, quando e nella misura in cui gli antagonismi di classe non possono essere oggettivamente conciliati. E, per converso, l’esistenza dello Stato prova che gli antagonismi di classe sono inconciliabili» (Ibidem). Ciò vale anche per lo Stato proletario che sostituirà lo Stato borghese in tutto il periodo di transizione dal capitalismo al socialismo – dunque il lungo periodo della dittatura proletaria e della rivoluzione proletaria internazionale –, sebbene la direzione storica in cui va il movimento del proletariato rivoluzionario sia quella di una società senza classi, e perciò senza Stato, dunque senza l’organo di oppressione di una classe da parte di un’altra.

Lo Stato è non solo l’amministrazione centralizzata degli interessi della classe dominante, ma è, grazie alla sua forza militare, il difensore armato di questi interessi. Lo Stato non è un organismo neutro, ma di dominio di classe. Nella società capitalistica è il difensore armato degli interessi della classe dominante borghese. Perciò la rivoluzione proletaria non può servirsi dello Stato borghese per instaurare il proprio dominio di classe; deve spezzare questa macchina, questo enorme edificio del potere borghese centralizzato che esprime la dittatura di classe della borghesia sostituendolo con lo Stato proletario, con la dittatura di classe del proletariato. La transizione dalla società capitalistica alla società socialista e, alla società pienamente comunista, non avviene per decreto, non si attua il giorno dopo l’insurrezione rivoluzionaria vittoriosa come hanno sempre fantasticato gli anarchici. Questa transizione è un processo di trasformazione lungo, contrastato, violento e internazionale; la classe borghese non cederà mai il potere che ha conquistato e che mantiene da più di due secoli. La storia delle lotte fra le classi ha dimostrato che il passaggio dalla vecchia alla nuova società non è né graduale, né lineare, né tantomeno pacifico; e che le rivoluzioni proletarie che dal 1848 si sono presentate all’orizzonte sono state tutte tentativi finora non coronati da successo, ma indicanti chiaramente che l’attuale società borghese non è in grado di risolvere una volta per tutte i conflitti di classe che le sue stesse contraddizioni e crisi generano costantemente. Resta confermato senza alcun dubbio che l’unica classe rivoluzionaria della società moderna è il proletariato, la classe dei lavoratori salariati, la classe che si è dotata, attraverso la lotta fra le classi, di una teoria scientifica – il marxismo – che è quanto di meglio l’umanità ha creato durante il XIX secolo, superando ogni loro limite: la filosofia tedesca, l’economia politica inglese e il socialismo francese (Lenin, Tre fonti e tre parti integranti del marxismo); cosa che nessun’altra teoria borghese ha potuto smentire.  

E’ evidente che le finalità storiche della borghesia e del proletariato sono del tutto opposte – la borghesia instaura una nuova società divisa in classi, e quindi ha bisogno di uno Stato supercentralizzato per mantenerla in vita; il proletariato combatte qualsiasi società divisa in classi, e quindi anche lo Stato che la rappresenta –; è perciò naturale che Lenin, riprendendo Engels (Antidühring) sulla questione dell’estinzione dello Stato, insista sul concetto dell’estinzione dello Stato e non della sua abolizione. Lenin riprende, infatti, un passo dall’Antidühring intendendo chiarire come le parole di Engels venivano (e vengono) abitualmente falsificate alla maniera opportunista. Il passo è un po’ lungo, ma i lettori capiranno la necessità di non tranciarlo, ed è questo:

«Il proletariato si impadronisce del potere dello Stato e anzitutto trasforma i mezzi di produzione in proprietà dello Stato. Ma così sopprime se stesso come proletariato, sopprime ogni differenza di classe e ogni antagonismo di classe e sopprime anche lo Stato come Stato. La società esistita sinora muoventesi sul piano degli antagonismi di classe, aveva necessità dello Stato, cioè di un’organizzazione della classe sfruttatrice in ogni periodo, per conservare le condizioni esterne della sua produzione e quindi specialmente per tenere con la forza la classe sfruttata nelle condizioni di oppressione date dal modo vigente della produzione (schiavitù, servitù della gleba, servitù feudale, lavoro salariato). Lo Stato era il rappresentante ufficiale di tutta la società, la sua sintesi in un corpo visibile, ma lo era in quanto era lo Stato di quella classe che per il suo tempo rappresentava, essa stessa, tutta quanta la società: nell’antichità era lo Stato dei cittadini padroni di schiavi, nel medioevo lo Stato della nobiltà feudale, nel nostro tempo lo Stato della borghesia. Ma, diventando alla fine effettivamente il rappresentante di tutta la società, si rende, esso stesso, superfluo. Non appena non ci sono più classi sociali da mantenere nell’oppressione, non appena con l’eliminazione del dominio di classe e della lotta per l’esistenza individuale fondata sull’anarchia della produzione sinora esistente, saranno eliminati anche le collisioni e gli eccessi che sorgono da tutto ciò, non ci sarà da reprimere più niente di ciò che rendeva necessaria una forza repressiva particolare, uno Stato. Il primo atto con cui lo Stato si presenta realmente come rappresentante di tutta la società, cioè la presa di possesso di tutti i mezzi di produzione in nome della società, è ad un tempo l’ultimo suo atto indipendente in quanto Stato. L’intervento di una forza statale nei rapporti sociali diventa superfluo successivamente in ogni campo e poi viene meno da se stesso. Al posto del governo sulle persone appare l’amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi. Lo Stato non viene “abolito”; esso si estingue» (4) [i neretti sono nostri]. 

Ebbene, Lenin chiarisce un aspetto decisivo contenuto nel citato passo di Engels per comprendere la dinamica della rivoluzione proletaria: «il proletariato, impadronendosi del potere, sopprime con ciò lo Stato in quanto Stato», ma dicendo questo Engels parla di soppressione dello Stato della borghesia, «mentre ciò ch’egli dice sull’estinzione dello Stato riguarda i resti dello Stato proletario che sussisteranno dopo la rivoluzione socialista» (5). Lo Stato è una forza repressiva particolare (Engels) con la quale la borghesia (un pugno di ricchi) reprime milioni di lavoratori; è chiaro che per sopprimere una forza repressiva particolare di questo tipo il proletariato deve usare una sua forza repressiva particolare, appunto la dittatura del proletariato, grazie alla quale soltanto riesce a prendere possesso dei mezzi di produzione in nome della società strappandoli dalle mani della proprietà privata. È così che lo Stato borghese viene sostituito dallo Stato proletario, ossia da una forza repressiva particolare che deve reprimere la resistenza e i tentativi di restaurazione della borghesia, della minoranza della società. Lo Stato proletario che il proletariato instaura nel periodo della sua dittatura di classe, se non viene sconfitto e quindi soppresso dalla restaurazione borghese – come è successo con la Comune di Parigi nel 1871 e con la Comune di Pietrogrado nel 1917-26 –, avendo come compito storico «la presa di possesso di tutti i mezzi di produzione in nome della società», e quindi di distruggere i rapporti borghesi di produzione, di scambio e di proprietà e avviare la trasformazione dell’economia capitalista in economia socialista, tende a diventare superfluo proprio grazie alla distruzione dei rapporti sociali borghesi, superando la divisione sociale del lavoro e avviando in questo modo l’intera società a superare l’era del «governo sulle persone», caratteristica delle società divise in classi, per entrare nell’era dell’«amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi», caratteristica soltanto della società senza classi.

Come è possibile giungere ad un tale traguardo?

E’ proprio l’alto grado di sviluppo della produzione a cui è giunto il capitalismo a formare le basi economiche per la trasformazione socialista. Ma questo stesso sviluppo capitalistico della produzione impedisce, ad un certo punto, di svilupparsi ulteriormente a causa delle crisi di sovraproduzione a cui il modo di produzione capitalistico va ciclicamente e inesorabilmente incontro. Tutto il sistema, come afferma Engels, di «appropriazione dei mezzi di produzione e dei prodotti, e perciò del potere politico, del monopolio della cultura e della direzione spirituale da parte di una particolare classe della società non solo è diventato superfluo, ma è diventato anche economicamente, politicamente e intellettualmente un ostacolo allo sviluppo» (6). L’impotenza di questo sistema è evidente ad ogni crisi. Continua Engels: «La forza di espansione dei mezzi di produzione strappa i legami che ad essi sono imposti dal modo di produzione capitalistico. La loro liberazione da questi legami è la sola condizione preliminare di uno sviluppo ininterrotto e costantemente accelerato delle forze produttive, e quindi di un incremento praticamente illimitato della produzione stessa».

Perciò l’appropriazione non più privata, ma sociale dei mezzi di produzione e dei prodotti «elimina non solo l’ostacolo artificiale oggi esistente della produzione, ma anche la vera e propria completa distruzione di forze produttive e di prodotti, che al presente è l’immancabile compagna della produzione e che raggiunge il suo punto culminante nelle crisi. L’appropriazione sociale, eliminando l’insensato sciupìo del lusso delle classi oggi dominanti e dei loro rappresentanti politici, libera inoltre a vantaggio della collettività una massa di mezzi di produzione e di prodotti. La possibilità di assicurare, per mezzo della produzione sociale, a tutti i membri della collettività una esistenza che non solo sia completamente sufficiente dal punto di vista materiale e diventi ogni giorno più ricca, ma che garantisca loro lo sviluppo e l’esercizio completamente liberi delle loro facoltà fisiche e spirituali: questa possibilità esiste ora per la prima volta, ma esiste» (7). Engels lo scrive nel 1878, trent’anni dopo il Manifesto del partito comunista, e sette anni dopo il primo esempio di dittatura proletaria con la Comune di Parigi; la stessa possibilità esiste tanto più oggi, non solo perché già tentata con la rivoluzione d’Ottobre 1917 e con la fondazione dell’Internazionale Comunista, ma perché, pur nella loro sconfitta, e nell’incessante sviluppo del capitalismo a livello mondiale, anche i fattori di crisi della società capitalistica sono incessantemente aumentati dimostrando ancor di più l’impotenza congenita di questa società a risolvere le proprie contraddizioni, riportando la soluzione della grande questione storica sul tererno dell’aperta lotta fra le classi.

 

SCAVA, SCAVA, VECCHIA TALPA...

 

Lo sviluppo del capitalismo porta necessariamente alla creazione del proletariato anche nei paesi ai margini delle grandi rotte commerciali, nei paesi arretrati dal punto di vista capitalistico per mancanza soprattutto della grande industria, ma sviluppati a sufficienza perché in essi, a fianco della popolazione contadina e artigianale, si sia sviluppato un proletariato. A differenza dei contadini proprietari di un fazzoletto di terra, anche piccolo, perciò di un mezzo di produzione da cui poter trarre un misero sostentamento, i proletari sono senza riserve, senza proprietà: producono tutta la ricchezza sociale, ma non sono proprietari di nulla, né dei mezzi di produzione né dei prodotti per vivere che sono obbligati ad andare ad acquistare al mercato. I borghesi direbbero che sono “titolari” della loro forza di lavoro, e naturalmente “liberi” di venderla a un qualsiasi capitalista, come ogni capitalista è “libero” di comprarla o no, di impiegarla per un certo periodo di tempo o di licenziarla se l’attività economica in cui l’ha impiegata non risulta sufficientemente redditizia. La libertà del proletario non è la stessa libertà del capitalista; queste due “libertà” non hanno lo stesso peso e non portano allo stesso risultato: il proletario per sopravvivere è obbligato a vendere la sua forza lavoro al capitalista, a sottostare quindi al regime salariale e a subire tutte le conseguenze del dominio economico, politico e sociale del capitalismo; il capitalista non è obbligato a vendere la sua potenziale forza lavoro, non vive dovendo venderla ma comprandola e sfruttandola da una posizione di forza perché il dominio sociale della sua classe (che si esprime nella proprietà privata dei mezzi di produzione e nell’appropriazione privata della produzione sociale, difesi dallo Stato borghese) lo pone nelle condizioni di comprarla al costo più basso possibile sfruttandola il più possibile.

Ciò non toglie che la propaganda ideologica della borghesia sulla libertà, e naturalmente sull’uguaglianza e sulla fraternità, abbia illuso e illuda ancora le masse proletarie di poter partecipare alla gestione politica della società attraverso la democrazia e le sue istituzioni grazie alle quali i proletari avrebbero la possibilità di incidere sulle decisioni che ogni governo, nazionale e locale, deve prendere, piegando, almeno una parte di quelle decisioni, a favore delle proprie condizioni di esistenza. In realtà, ogni piccolo miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita i proletari lo devono soprattutto alla loro lotta, in particolare quando la loro lotta danneggia seriamente gli interessi aziendali o quando mettono in pericolo interessi capitalistici più generali, se non addirittura il potere politico. Ma la storia stessa della lotta fra le classi dimostra che i miglioramenti economici e sociali ottenuti non sono mai duraturi nella loro consistenza economica come nella loro attuazione formale; prima o poi possono essere inapplicati oppure cancellati parzialmente o totalmente, a seconda dei rapporti di forza tra le classi e a seconda degli interessi contingenti della classe borghese dominante. Il dominio politico della borghesia le permette di difendere con le leggi e con la forza dello Stato la sua posizione dominante e oppressiva, e le permette, se a vantaggio dei suoi interessi più generali – in particolare in presenza di crisi acute della sua economia – di cancellare o di modificare le concessioni fatte al proletariato. 

Nei paesi imperialisti e, in parte, nei paesi capitalisti mediamente avanzati, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, le borghesie, per evitare di trovarsi di fronte a situazioni in cui i propri proletari, sulla base della loro lotta di difesa economica, potessero tornare ad organizzarsi in modo indipendente sul terreno dell’aperta lotta di classe, hanno adottato il sistema degli ammortizzatori sociali con il quale hanno cercato e tuttora cercano di tacitare i bisogni elementari di sopravvivenza di una parte almeno della massa proletaria. L’obiettivo è evidente: è quello di attenuare le tensioni sociali soprattutto nei periodi di crisi economica. Che questo sistema, in generale, funzioni ancora lo dimostra il fatto che le masse proletarie dei paesi capitalisti più avanzati possono ancora contare almeno su alcuni ammortizzatori sociali, il ché, da decenni, ha contribuito a farle piegare alle esigenze dell’economia capitalistica e ad essere influenzate ancora pesantemente dalle forze sindacali e politiche dell’opportunismo che, come affermava Lenin, non sono altro che i luogotenenti della borghesia nelle file proletarie a difesa della conservazione sociale. Oltre a rincitrullire i proletari dal punto di vista ideologico e politico, queste forze riescono ancora a far loro credere che lo sfruttamento capitalistico della loro forza lavoro sia un fatto “naturale”, e sia comunque il prezzo da pagare per la civiltà moderna, per la civiltà industriale, per la salvaguardia della democrazia, insomma per non ripiombare nella “barbarie”.

Nella società borghese, nella società dove tutto è merce, perfino l’aria che si respira, il rischio del capitalista è di fare investimenti che non comportino il guadagno previsto, il rischio del proletario è di non trovare un capitalista che lo sfrutti o di trovarlo, magari saltuariamente, e solo se si accontenta di un misero salario. Entrambi rischiano, certo, ognuno nella propria sfera sociale; il capitalista rischia di non poter ottenere i profitti preventivati, il proletario rischia di morire di fame, di farsi stritolare dal macchinario al quale è adetto, di rimanere intossicato per la vita e morire dopo anni di malattia o in una guerra che non ha mai voluto. Entrambi, in effetti, sono costretti a dipendere dal mercato, da questa entità al di sopra di tutti come una divinità che ciecamente decide la sorte di ogni essere umano, ma che privilegia soltanto coloro che hanno in proprietà dei capitali, non importa se sotto forma di immobili, di mezzi di produzione e di distribuzione, di denaro, di azioni societarie o se provenienti da furti e da corruzioni. Al mercato, alla fin fine, non interessa se chi maneggia capitali è proprietario di azienda o se è intermediario tra la produzione e lo scambio, se ha ereditato proprietà e capitali accumulati dallo sfruttamento della forza lavoro di generazioni precedenti o se ha messo le mani su un malloppo sottratto ad altri: al mercato interessa che i capitali circolino, che le merci si trasformino in denaro e che il denaro venga investito in qualsiasi attività che produca profitto. Il mercato è l’arena in cui si svolge la lotta di concorrenza tra borghesi, tra aziende, tra Stati e, nell’era della grande industria, delle società per azioni, delle transazioni internazionali facilitate dalle innovazioni tecnologiche, nella cosiddetta globalizzazione. Allo sviluppo del capitalismo anche nei paesi economicamente arretrati fa da contraltare lo sviluppo dei fattori di crisi anche in quei paesi. I cicli di crisi tendenzialmente diventano sempre più vicini. Se ai tempi di Marx ed Engels, nei paesi capitalisti allora sviluppati erano di circa dieci-dodici anni, oggi, in un’epoca in cui i paesi capitalisti sviluppati sono molti di più – e quindi la concorrenza internazionale fra di loro si è enormemente acutizzata – i cicli di crisi si sono praticamente dimezzati. Non tutte le crisi, ovviamente, hanno dimensioni mondiali. Ma la concorrenza internazionale fra i paesi imperialisti più forti scarica le sue tensioni sui paesi più deboli, precipitandoli in crisi permanenti che si concentrano in determinate zone – le famose “zone delle tempeste” – come il Medio Oriente, l’America centrale, il Nord Africa, il Corno d’Africa, l’Africa centrale, il Sud-Est asiatico. Crisi che inevitabilmente, ad un certo punto, non possono non scatenarsi nel cuore del capitalismo mondiale che un tempo era soltanto l’Europa, ma dal secolo scorso ha interessato anche l’America del Nord e, oggi più di ieri, l’Estremo Oriente cino-indo-giapponese.

Lo sviluppo del capitalismo non ha fatto altro che proletarizzare miliardi di esseri umani. In questo senso, esso ha continuato a togliere «di sotto i piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti», perciò aumentando la massa dei suoi futuri seppellitori. Si capisce, quindi, di quanta paura possa incutere alla borghesia anche soltanto l’idea che si ripresenti al suo orizzonte la rivoluzione del proletariato. Si capisce perché essa investa enormi risorse nel controllo sociale delle masse proletarie attraverso la scuola, la stampa, la tv, i social network, le chiese, le associazioni sportive e, naturalmente, last but not least, lo Stato e tutti i suoi apparati di repressione e di influenza politica tra cui primeggia il parlamento.

Se fosse vera la storiella che attraverso la democrazia, e attraverso lo Stato che dovrebbe essere super partes rispetto alle classi sociali in lotta fra di loro, i conflitti sociali si dovrebbero sanare e si raggiungerebbe la tanto propagandata uguaglianza sociale, la borghesia non si darebbe tanto da fare per poter reprimere, e possibilmente prevenire, ogni movimento proletario di classe che accenni ad esprimersi e ad organizzarsi. È  ben vero, e dalla sua ha la dimostrazione di decenni di successo, che il sistema democratico finora è riuscito a deviare, ingannare, imprigionare, debilitare le forze proletarie spinte oggettivamente a lottare contro condizioni di esistenza insopportabili e contro un potere economico e politico che non riesce a risolvere nessuna delle grandi contraddizioni che caratterizzano questa società.

La borghesia sa che la difesa economica da parte del proletariato ha bisogno di organizzarsi, e che questa organizzazione – come del resto la stessa lotta immediata e politica del proletariato – può prendere due strade: o quella di classe, cioè contrapposta frontalmente agli interessi capitalistici e borghesi, o quella conciliatoria, rifomista, collaborazionista, cioè indirizzata alla collaborazione di classe sottomettendo gli interessi proletari alle esigenze primarie dell’economia capitalistica. Quanto agli interessi di ordine politico vale lo stesso quadro: anche l’organizzazione politica dei proletari, quindi il partito politico, può prendere due strade: o quella di classe, o quella del riformismo, della collaborazione fra le classi. E per quante differenze si possano esprimere tra un partito e l’altro, sia sul terreno della lotta di classe, sia sul terreno della collaborazione di classe – e in un paese capitalistico avanzato queste differenze possono essere molte sia in un campo che nell’altro perché corrispondono alla frammentazione di interessi di gruppi e strati in cui si diversifica la società capitalistica sviluppata – la borghesia farà, come ha fatto e fa sistematicamente, di tutto perché il proletariato non possa sfuggire alla sua influenza anche nel caso in cui si costituisca organizzativamente in modo indipendente. E’ già successo in tutti gli svolti storici in cui il movimento rivoluzionario del proletariato si è presentato al suo appuntamento con la storia, nel 1848, nel 1871, nel 1914-18, nel 1917 russo, nel 1919 tedesco, nel 1927 cinese, nel 1939-45 e negli anni successivi, in particolare nel lungo periodo in cui le lotte anticoloniali potevano rimettere all’ordine del giorno anche la riorganizzazione di classe del proletariato dei paesi imperialisti. In tutti questi svolti la borghesia ha potuto contare su alleati di primaria importanza per la conservazione e la difesa del suo potere: le forze opportuniste, il variegato spettro di forze che dal rifornismo di destra e dal centrismo kautskiano andavano fino al rivoluzionarismo inconcludente degli anarchici e al rivoluzionarismo  parolaio dei massimalisti.

Ma tutte queste straordinarie bocche di fuoco non erano sufficienti a tranquillizzare la classe borghese dominante; ci voleva una politica opportunista che non poggiasse soltanto sugli interessi economici immediati della classe proletaria e sulla democrazia parlamentare – terreni questi mai abbandonati dalla borghesia e dall’opportunismo, se non in periodi di aperta dittatura borghese, come il fascismo e le dittature militari dovuti a crisi sociali di particolare profondità – ma che estendesse la sua influenza in campo politico direttamente dal terreno rivoluzionario.

Marx, in un suo famoso articolo del 1848 (La borghesia e la controrivoluzione) (8), ribadì che «il nostro terreno non è il terreno del diritto; è il terreno della rivoluzione. Il governo, da parte sua, ha infine abbandonato l’ipocrisia del terreno legale; si è posto sul terreno rivoluzionario; giacché anche il terreno controrivoluzionario è rivoluzionario». È  la stessa borghesia a gettare la maschera democratica quando il proletariato scende sul terreno rivoluzionario, il terreno della lotta di classe, della lotta per la conquista del potere politico. E’ lo stesso concetto sottolineato da Lenin, nel febbraio 1917 e ancor più nettamente nell’ottobre 1917; e da Bordiga di fronte al fascismo, quando brandiva l’intransigenza marxista per orientare il proletariato ad abbandonare il terreno parlamentare, il terreno del diritto, il terreno della legalità, come stava facendo la borghesia, e a sfidarla sul terreno rivoluzionario perché le squadre fasciste non erano che l’avanguardia della controrivoluzione borghese che elevava lo scontro tra borghesia e proletariato al più alto livello dello scontro politico, la conquista del potere politico, che era nello stesso tempo terreno contorivoluzionario e rivoluzionario.

Ebbene, la controrivoluzione borghese, dopo essere stata battuta in campo militare dall’Armata Rossa in tre anni di guerra civile, approfittò sia delle enormi difficoltà del proletariato europeo ad imboccare decisamente la via rivoluzionaria a causa dei pregiudizi legalitari e democratici ancora radicati nelle sue attitudini e nelle sue pratiche, sia delle difficoltà economiche reali di una Russia sovietica che doveva forzatamente scendere a compromessi con i capitalisti disposti ad intrattenere relazioni economiche con essa, per insinuarsi, sotto le sembianze del rivoluzionarismo a parole e conservatorismo nei fatti, nell’Internazionale Comunista e nel partito bolscevico che la dirigeva, infettandoli con i virus chiamati frontismo, immediatismo, economicismo, nazionalismo, sciovinismo.

La sconfitta della rivoluzione d’Ottobre, e dell’Internazionale Comunista come partito comunista mondiale, fu dovuta soprattutto ad un processo degenerativo interno che, come un cancro, debilitò e, infine, uccise il partito comunista di Lenin e, con lui, il movimento comunista mondiale. Le conseguenze di questa sconfitta sono state e sono molto più pesanti per il proletariato mondiale e per il movimento comunista internazionale di quanto non fosse stata una sconfitta dovuta ad uno scontro militare nel quale il partito comunista, pur battuto, avesse tenuto ferma la bussola sullo zenit rivoluzionario, grazie alla quale avrebbe potuto riprendere la sua lotta senza dover restaurare da cima a fondo la dottrina marxista che la controrivoluzione staliniana – borghese a tutti gli effetti – ha falsificato, distorto e distrutto. Ma per quanto potente sia la stata la controrivoluzione, essa non poteva risolvere le più profonde contraddizioni del sistema economico capitalistico che, sviluppandosi, non fa che riproporre alla scala più alta la grande alternativa storica: o guerra borghese o rivoluzione, o dittatura borghese o dittatura proletaria. Ed è in questa prospettiva che la corrente della Sinistra comunista d’Italia ha continuato a lavorare nonostante la dura sconfitta della rivoluzione degli anni Venti del secolo scorso e l’insuccesso che dovette registrare negli anni dal 1920 al 1926  rispetto ai suoi ammonimenti non solo sulla questione del parlamentarismo, ma anche su questioni politiche fondamentali come il fronte unico politico, il governo operaio, l’accettazione nell’Internazionale di partiti cosiddetti “simpatizzanti” ecc.; ed ha profuso tutte le sue forze alla restaurazione della dottrina marxista – senza teoria rivoluzionaria non ci sarà mai un movimento rivoluzionario – e alla ricostituzione del partito comunista internazionalista e internazionale.

Oggi siamo ancora in piena controrivoluzione e il proletariato subisce gli effetti di una depressione sul piano politico ed economico senza eguali. Ma le condizioni di esistenza della borghesia dipendono sempre più dalle condizioni di esistenza del proletariato che, oltre un certo limite di sfruttamento, di miseria, di fame e di morte, sarà spinto inesorabilmente a sollevarsi e ad accettare la sfida sul terreno controrivoluzionario che è, come giustamente precisò Marx, anche terreno rivoluzionario. Forse i tempi di un sommovimento tellurico sociale che dai paesi della periferia dell’imperialismo si trasmette ai paesi imperialisti maggiori non sono poi a distanza siderale.

 


 

(1) Joseph Weydemeyer (1816-1866), esponente del movimento operaio tedesco e americano; partecipò alla rivoluzione del 1848-49 in Germania dopo essere stato tenente d’artiglieria nell’esercito prussiano; fece parte della Lega dei Comunisti nel 1850 e nel 1851; dopo essere stato responsabile della rivista Neue Deutsche Zeitung, emigrò in America dove prese parte alla guerra civile americana in qualità di colonnello nell’esercito nordista. Propagandò il marxismo, insieme ad Adolf Cluss, anch’egli membro della Lega dei comunisti a Magonza, ed emigrato poi in America. Entrambi ebbero una fitta corrispondenza con Marx ed Engels.

(2) Cfr. Marx a Weydemeyer, 5 marzo 1852, in Opere complete, vol. XXXIX, Ed. Riuniti, p. 537.

(3) Marx, nel suo Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, ripreso da Lenin nello Stato e rivoluzione, a proposito dello Stato, e dopo aver esaminato tutti gli aspetti che portarono al colpo di Stato di Luigi Bonaparte, scrive: «La prima Rivoluzione francese, a cui si poneva il compito di spezzare tutti i poteri indipendenti di carattere locale, territoriale, cittadino e provinciale, al fine di creare l’unità borghese della nazione, dovette necessariamente sviluppare ciò che la monarchia assoluta aveva incominciato: l’accentramento e in pari tempo dovette sviluppare l’ampiezza, gli attributi e gli strumenti del potere governativo. Napoleone portò alla perfezione questo meccanismo dello Stato. La monarchia legittima e la monarchia di luglio non vi aggiunsero nulla, eccetto una più grande divisione del lavoro, che si sviluppava nella stessa misura in cui la divisione del lavoro nell’interno della società borghese creava nuovi gruppi di interessi, e quindi nuovo materiale per l’amministrazione dello Stato. Ogni interesse comune fu subito staccato dalla società, e contrapposto ad essa come interesse generale, più alto, strappato all’iniziativa individuale dei membri della società e trasformato in oggetto di attività del governo, a partire dai ponti, dagli edifici scolastici e dai beni comunali del più piccolo villaggio, sino alle ferrovie, al patrimonio nazionale e all’Università di Francia. La repubblica parlamentare, infine, si vide costretta a rafforzare, nella sua lotta contro la rivoluzione, assieme alle misure di repressione, gli strumenti e la centralizzazione del potere dello Stato. Tutti i rivolgimenti politici non fecero che perfezionare questa macchina, invece di spezzarla. I partiti che successivamente lottarono per il potere considerarono il possesso di questo enorme edificio dello Stato come il bottino principale del vincitore», Editori Riuniti, 1964, p. 206-7.

(4) Cfr. F. Engels, Antidühring, Edizioni Rinascita, Roma 1950, p. 305.

(5) Cfr. Lenin, Stato e rivoluzione, Editori Riuniti, Roma 1981, p. 73.

(6) Cfr. F. Engels, Antidühring, cit., p. 307.

(7) Ibidem.

(8) Cfr. K. Marx, La borghesia e la controrivoluzione, Neue Rheinische Zeitung, n. 165, 10 dicembre 1848, in Marx-Engels, Il Quarantotto, La Nuova Italia, Firenze 1970, p.153.

 

 

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