Italia: equivoca alchimia delle combinazioni montecitoriali*

(«il comunista»; N° 168 ; Aprile / Maggio 2021)

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Nel giro di cinque anni, dopo la caduta del governo del “rottamatore” Renzi, la borghesia italiana si è dotata di ben tre governi, di cui i primi due sono saltati a breve giro di boa, il terzo, e finora ultimo, è ancora in piedi ma gli elementi di contrasto che hanno fatto saltare i primi due si stanno ripresentando con qualche carica esplosiva in più visto che il governo di “unità nazionale” – solo la fiamma tricolore dei Fratelli d’Italia in parlamento sta all’opposizione – ha messo insieme partiti che sono pronti a farsi lo sgambetto un giorno sì e l’altro pure. Tutti, per un verso o per l’altro, chi prima e chi dopo, e soprattutto i partiti di centro-destra, hanno richiesto a gran voce di andare alle elezioni... ma hanno continuato ad intrallazzare sottobanco per mantenere aperta la possibilità di spartirsi fette di potere governativo imbastendo coalizioni ad hoc, ma ciascuno tenendosi pronto a cambiare posizione a seconda della convenienza del momento.

Renzi e il suo governo sono caduti dopo 1024 giorni – le cronache lo segnalano come il quarto governo italiano più longevo della storia repubblicana – a causa di un tentato referendum costituzionale col quale si voleva superare il bicameralismo, ridurre i parlamentari, sopprimere il CNEL e rivedere il Titolo V della Costituzione che riguarda i rapporti tra Stato e Regioni. Su questa iniziativa multiriformatrice il governo Renzi aveva puntato tutto, ma si è rivelata un passo falso, visto che l’esito è stato totalmente negativo. In precedenza, le elezioni politiche del febbraio 2013 fecero del centro-sinistra (guidato dal PD di Bersani) il primo partito votato, ma nella ripartizione tra deputati e senatori risultò avere la maggioranza assoluta alla Camera, ma non al Senato, dove il centro destra (capeggiato da Berlusconi col suo Partito delle Libertà, poi diventato Forza Italia) aveva 116 seggi contro i 113 del  centro-sinistra. Sono state anche le elezioni nelle quali emerse come forza parlamentare consistente il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo (con 108 deputati e 54 senatori), col quale Bersani tentò un accordo per formare il governo, ma Grillo rifiutò (nel noto incontro trasmesso in streaming) e ciò provocò le dimissioni di Bersani. Il governo che si formò successivamente, su ispirazione del presidente della repubblica Napolitano, che cercava di non indire nuove elezioni, fu basato su un accordo tra il PD e il partito di Berlusconi, e l’incarico fu dato a Letta, vicesegretario del PD.

Negli stessi mesi, tra febbraio ed aprile, doveva essere votato anche il nuovo presidente della repubblica incarico per il quale concorreva Romano Prodi, con buone probabilità di riuscirci, ma che fu impallinato grazie ai famosi 101 voti contrari per la maggior parte provenienti dai partiti di centrosinistra (a dimostrazione che, finita l’epoca dei partiti condotti da forti capi riconosciuti e da segreterie politiche potenti, come all’epoca del PCI di Togliatti, le correnti che si formavano al loro interno e la loro lotta intestina, sulla base dei loro interessi particolari che non coincidevano mai con quelli generali del partito di cui facevano parte, condizionavano ogni loro passo importante). E’ la stessa epoca in cui emerge Matteo Renzi, passato nella putrefatta storia del Partito Democratico come il suo “rottamatore”, colui che si prese la briga di smontare il vecchio apparato di partito, le sue vecchie regole e ciò che legava ancora, ma solo formalmente, una parte del suo programma alla rappresentanza delle esigenze generali dei lavoratori, per trasformarlo in uno strumento della politica ritenuta di volta in volta necessaria al buon andamento dell’economia nazionale e senza condizionare il programma del partito ad obiettivi di lungo periodo, ma facendoli dipendere dalle situazioni contingenti e dai rapporti di forza parlamentare che di volta in volta si determinavano.

Nel proseguire la nostra critica riteniamo interessante ampliare il quadro generale in cui si inserisce l'attività del capitalismo nazionale e, quindi, la politica della classe dominante italiana. Nell'epoca imperialistica la politica dei governi nazionali è inevitabilmente condizionata e influenzata dalla politica dei grandi paesi imperialisti che dominano il mercato mondiale; con ciò ogni governo nazionale pur vantando una certa autonomia di azione è comunque condizionato dai rapporti più o meno stretti che intrattiene con i governi dei paesi più forti.

 

UNO SGUARDO AL PASSATO...

 

Nell’epoca in cui i grandi e medi partiti parlamentari – dalla DC al PCI, dal PSI al Partito Liberale, dal MSI al PSDI al Partito Repubblicano – andavano sgretolandosi per sopraggiunto logorìo delle loro stantìe e inefficaci argomentazioni politiche e per la necessità di cambiare il relativo personale politico non più adatto a garantire determinati risultati elettorali, l’intrallazzo, i voltafaccia, le smentite, i cambi di fronte, le spaccature, le “puganalate alla schiena” e ogni sorta di colpo basso, che un tempo avvenivano per la maggior parte nell’ombra delle manovre di corridoio, venivano sempre più alla luce del sole mostrando come ciò che interessava davvero ai partiti parlamentari era, ed è, la spartizione dei privilegi, la possibilità di mettere le mani su leve di potere grazie alle quali ottenere dei benefici per gli interessi di parte che ogni corrente politica e ogni parlamentare, rappresentandoli di volta in volta, cercava di accaparrarsi.

Il quadro idilliaco che, dopo la fine del secondo massacro imperialista mondiale, le borghesie di ogni paese vollero dipingere attraverso la tavolozza multicolore della democrazia antifascista e della ricostruzione postbellica a suon di miliardi di dollari, con la fine degli anni della grande espansione economica, decretata dalla prima grande crisi mondiale del 1975, è andato in pezzi. Le democrazie “antifasciste” si dimostravano sempre più “fascistizzate”, sempre più blindate; il corso del capitalismo, di fronte ad una concorrenza internazionale più agguerrita e a inarrestabili cicli di crisi economiche e finanziarie, aveva sempre più bisogno di spremere la forza lavoro salariata per ricavarne una produttività sempre più alta e, nello stesso tempo, di aumentare il controllo sociale con tutti i mezzi politici, sociali ed economici a disposizione. I partiti parlamentari erano tenuti ad adeguarsi alle nuove esigenze del capitalismo nazionale e alle sue relazioni internazionali all’interno del tradizionale gioco della concorrenza tra grandi gruppi di potere economico e finanziario. Inutile dire che a fronte delle nuove e più pressanti esigenze del capitalismo nazionale erano le condizioni di vita e di lavoro proletarie a soffrire di più; così, a fronte di una aristocrazia operaia costruita negli anni del boom economico e di strati operai e impiegatizi più protetti, si stavano diffondendo sempre più pratiche di maggiore flessibilità della forza lavoro che portavano ad un aumento del precariato, del lavoro saltuario attraverso l’interinale e tutte le forme di sfruttamento diretto mascherate da “lavoro autonomo” e da una massa giovanile che faceva sempre più difficoltà a trovare sbocchi di lavoro adeguati ai criteri di formazione e di studio nei quali venivano anzitempo inseriti. Tale era la difficoltà di mantenere le fette di mercato già conquistate dai settori economici e finanziari del capitalismo nazionale, che il costo del lavoro – ossia i salari dei proletari e tutte le voci di “garanzia sociale” che erano state conquistate con le lotte operaie degli anni del dopoguerra, non erano più delle “certezze durature” sulle quali le famiglie proletarie potevano prevedere un futuro sia per i genitori che per i figli, ma entravano nel girone delle incertezze alimentate sia dalla maggiore flessibilità della forza lavoro, sia dai colpi subiti dai salari e dall’occupazione. Sempre più la flessibilità della forza lavoro e la maggiore competitività delle merci prodotte si riflettevano nell’incertezza del posto di lavoro e costituivano un motivo – condiviso naturalmente dalle organizzazioni sindacali collaborazioniste – per abbattere la voce più importante del costo del lavoro da cui dipende ogni sia pur piccola quota di profitto capitalistico. 

È contro questo depauperamento delle masse proletarie, in particolare, delle masse operaie delle grandi fabbriche che hanno rappresentato sempre la punta di lancia delle lotte sindacali, contro un dispotismo di fabbrica che stava via via aumentando a tutti i livelli, contro le azioni repressive con cui lo Stato interveniva negli scioperi, contro le azioni terroristiche di marca fascista e contro l’acquiescenza  e il collaborazionismo dei sindacati e dei partiti sedicentemente “operai”, che si sono formati i primi gruppi del terrorismo cosiddetto “rosso”, operanti dapprima all’interno delle grandi fabbriche e poi sviluppatisi come vere e proprie organizzazioni della lotta armata. La stagione di questo terrorismo – con cui alcuni strati della piccola borghesia tentavano di rispondere alla loro inevitabile rovina sociale dovuta alle crisi economiche colpendo alcuni rappresentanti del potere con l’intento di sostenere delle riforme che rimediassero al loro lento declino, appoggiando le loro azioni sulla forza sociale rappresentata dal proletariato industriale a cui si rivolgevano – in parte rispondeva e in parte si incrociava con la stagione del terrorismo “nero” con cui altri strati della piccola borghesia, al servizio degli interessi di fazioni borghesi direttamente, sebbene occultamente, in concorrenza con le fazioni borghesi democratiche, attaccavano la “pace sociale”, perseguita da queste ultime, per forzare la situazione politica a proprio vantaggio attraverso il massimo disordine sociale che potenzialmente potevano provocare: le stragi di innocenti (Piazza Fontana a Milano, Piazza della Loggia  a Brescia, l’Italicus, la stazione di Bologna, per citare le più note). Mentre il terrorismo brigatista colpiva personaggi ben precisi che rappresentavano un potere antioperaio, rivendicandoli apertamente, con l’obiettivo di spaventare i capitalisti e i loro rappresentanti politici, il terrorismo nero era semplicemente stragista, e di nascosto colpiva la massa per spaventarla e prepararla a piegarsi ad un ordine politico parafascista. Quel che non comprendevano i terroristi “neri” era il fatto che la democrazia imperialista, la nuova democrazia blindata, era in realtà più che sufficiente a perseguire lo scopo principale dei poteri borghesi: quello di piegare il proletariato alle nuove e più urgenti esigenze del capitalismo nazionale, accettando maggiori sacrifici, risultato per il quale la grande borghesia aveva investito anni e capitali nell’edificazione di apparati democratici di ogni sorta dando alle organizzazione sindacali e politiche del collaborazionismo interclassista il compito di farli funzionare allo scopo di imprigionare nelle loro reti le masse proletarie, togliendo loro il terreno in cui la forza sociale che oggettivamente rappresentano avrebbe potuto – e potrà un domani – diventare una forza cinetica, e infettando e deviando ogni tentativo proletario di riorganizzarsi in modo indipendente anche solo dagli interessi immediati borghesi. Quel che non comprendevano i terroristi “rossi” era il fatto che il loro richiamarsi alla resistenza partigiana di antifascista memoria, e al Pci di quell’epoca considerandolo il “vero” rappresentante degli interessi generali dei lavoratori, non corrispondeva ad un ricollegamento alla rivoluzione proletaria, perché quella “resistenza” e quel Pci erano stati in realtà lo strumento politico e armato della riorganizzazione borghese della società secondo gli interessi superiori degli imperialismi più forti – all’epoca gli Stati Uniti d’America e la Russia di Stalin – interessi la cui difesa migliore era data dal superamento dell’esperienza di potere dichiaratamente dittatoriale e fascista e dall’instaurazione di una democrazia che contenesse sempre la formale ideologia del suffragio universale e della sovranità popolare, ma che nei fatti superasse la sua fase liberale non più adeguata allo stadio avanzato dell’imperialismo capitalistico per accedere ad una forma di reale centralizzazione la cui mascheratura democratica serviva per ingannare il popolo e, in particolare, il proletariato.

 

...NEL CONTESTO INTERNAZIONALE

 

In tutto il periodo successivo alla ricostruzione postbellica, all’espansione economica del capitalismo dei paesi industrializzati avanzati e al contemporaneo sviluppo capitalistico dei paesi extraeuropei, in precedenza arretrati ma potenzialmente utili a diventare nuovi mercati di sbocco, si è determinata e radicata la necessità da parte delle vecchie potenze europee di costruire un’alleanza attraverso la quale opporre un argine all’invasione e alla predominanza dell’imperialismo americano, argine che serviva ad ogni Stato a conquistare prima o poi un certa quota di autonomia nei rapporti commerciali e finanziari con il resto del mondo, ma facendo del territorio europeo-occidentale, culla storica del capitalismo e del colonialismo, un mercato privilegiato e protetto nei confronti, da un lato, degli Stati Uniti e, dall’altro, della Russia sotto il cui tallone erano finiti i paesi dell’Europa dell’Est mentre manteneva ancora un’influenza preponderante nell’Estremo Oriente. Il Mercato Comune Europeo e, successivamente, l’Unione Europea – all’interno della quale si è costituita l’area della moneta unica, l’euro – sono le tappe con cui le potenze europee hanno cercato di costituirsi in una sorta di ente unitario che fosse in grado di fronteggiare non solo economicamente, ma anche politicamente (e quindi militarmente), le potenze imperialiste extra-europee, Stati Uniti, Russia, Giappone alle quali si è aggiunta negli ultimi vent’anni la Cina.

Il quadro delle zone di influenza imperialistica, con il crollo dell’URSS, è totalmente cambiato. Non solo è crollato quello che abbiamo chiamato a suo tempo il «condominio russo-americano sul mondo», rimasto attivo per più di un trentennio dalla fine della seconda guerra imperialistica; ma il crollo dell’URSS, anticipato da una serie di strappi nei paesi sottoposti alla sua influenza – l’Ungheria, la Cecoslovacchia, la Polonia, la Cina – ha inevitabilmente aperto una nuova fase nel corso del capitalismo mondiale: la fase in cui il nuovo ordine mondiale stabilito dai vincitori della seconda guerra imperialistica è stato messo in discussione prima di tutto dallo sviluppo capitalistico mondiale e dal contemporaneo sviluppo dei contrasti economico-finanziari e politico-commerciali tra le maggiori potenze e, in aggiunta, dall’intervento nel quadro dei contrasti interimperialisti tradizionali (Usa-Russia, col codazzo dei paesi da loro dominati) di altri poli imperialistici di primaria importanza. E' il caso di Giappone e Germania, le due potenze che sono state sconfitte militarmente nella guerra del 1939-45, ma che economicamente ricostruirono nel giro di un ventennio una loro forza autonoma tanto da competere economicamente e commercialmente a livello mondiale con le potenze vincitrici dell’ultima guerra mondiale, gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia.  La Russia, da parte sua, continuava a rappresentare una potenza militare di grandissima importanza, ma economicamente dipendeva sempre più dal mercato internazionale nel quale veniva surclassata dalle vecchie potenze imperialiste alle quali, dagli anni Novanta del secolo scorso, si è aggiunta la Cina. Il disordine mondiale provocato dal crollo dell’URSS e del condomio russo-americano sul mondo non è stato superato; anzi, si è ancor più complicato per la serie interminabile di guerre locali, soprattutto in Medio Oriente, nei Balcani, in Asia centrale, e nelle varie zone dell’Africa (Corno d’Africa, Nord-Africa, Africa sub-sahariana), con le quali i diversi imperialismi hanno cercato, ma non hanno ancora raggiunto, una “sistemazione” a loro gradita. Questo disordine mondiale è destinato a proseguire nel tempo, fino a quando una nuova e più potente crisi economico-finanziaria non farà saltare la relativa non belligeranza che esiste ancora fra le potenze imperialiste maggiori. In tutti questi anni, gli imperialismi hanno continuato a combattersi per interposti Stati; nelle centinaia di guerre locali non si sono mai affrontati direttamente, pur essendo coinvolti politicamente, militarmente ed economicamente. Ma è nella natura dello sviluppo del capitalismo e delle sue crisi che, ad un certo punto, da parte di uno e dell’altro polo imperialistico, per non soffocare in una sovraproduzione insopportabile, parta l’iniziativa di contrasto anche militare contro i principali concorrenti, e allora sarà nuovamente la guerra mondiale.

E’ in un quadro di questo genere, sebbene riassunto a grandissime linee, che si muove ogni paese, la cui politica interna non può essere separata dalla politica estera. I governi, infatti, non possono non essere condizionati dalla capacità produttiva e finanziaria del loro capitalismo nazionale e non possono staccarsi dalla circolazione finanziaria internazionale da cui prelevano i capitali necessari alle loro politiche interne, elevando inevitabilmente sempre più la propria esposizione debitoria nei confronti degli Stati e degli istituti bancari che dominano sul mercato mondiale. In questo senso, mentre i capitalismi nazionali sono tenuti a fare i propri interessi nazionali a detrimento degli interessi nazionali degli altri paesi, i proletari di ogni paese dovrebbero invece essere spinti a immedesimarsi negli interessi dei proletari di tutti gli altri paesi proprio per non essere soffocati da una concorrenza tra proletari attraverso la quale subiscono il dominio non solo della borghesia di casa propria, ma anche delle borghesie dei paesi stranieri. Se i borghesi sono tra di loro stranieri e concorrenti, per ovvi interessi capitalistici basati sui rapporti di proprietà privata e di appropriazione privata della produzione sociale, difesi strenuamente all’interno dei propri confini aziendali e patrii, i proletari tra di loro hanno interessi che superano i confini borghesi, aziendali o patrii che siano, e che richiedono una solidarietà di classe che soltanto in quanto proletari possono esercitare al di là di ogni azienda, di ogni settore economico, di ogni “patria”, di ogni “nazione”, di ogni continente, perché non hanno alcuna proprietà privata da difendere e, tanto meno, rapporti di produzione e di scambio esistenti che le borghesie hanno creato al solo scopo di sfruttare al massimo possibile la loro forza lavoro.

Anche le vicende che riguardano la tenuta o meno dei governi borghesi vanno inquadrate non solo nelle storiche e tradizionali pratiche politiche ed economiche nazionali, ma anche nel quadro dei rapporti internazionali che ogni borghesia nazionale intrattiene o è costretta ad intrattenere.

 

ORIGINI E SVILUPPO DEL CAPITALISMO ITALIANO

 

«Il capitalismo italiano – scrivevamo nel 1946 (1) – strutturalmente debole ai suoi inizi, ma apparso sulla scena storica nella fase aurea di ascesa del capitalismo internazionale, non solo ha potuto svilupparsi rapidamente per la pressione esterna dell’evoluzione internazionale capitalistica e per l’intervento di larghissimi apporti finanziari esteri (parallelo del resto all’intervento diplomatico, politico, militare nel processo di formazione dello Stato nazionale e delle cosiddette guerre di “indipendenza”) ma ha sfruttato magnificamente le “debolezze organiche” della struttura economica nazionale per impiantare su un terreno relativamente vergine (dal punto di vista delle esperienze storiche) il più raffinato regime di sfruttamento capitalistico. Il capitalismo italiano ha beneficiato di un’evoluzione internazionale dell’economia borghese che presentava già i caratteri, definiti più tardi dai teorici marxisti dell’imperialismo, della fase di ascesa del capitale finanziario con relativa tendenza all’esportazione dei capitali ed al loro impiego nei paesi ad economia precapitalistica; ha beneficiato della penuria non già di capitali in senso generico, ma di capitali in senso specifico – cioè della ritrosia dei detentori di beni mobili al loro investimento nell’industria – per pompare capitali allo Stato e all’alta banca, divenuti da allora, per un gioco complesso che non val qui la pena di esaminare in dettaglio, i tramiti necessari fra risparmiatore e industriale; ha giocato sull’interesse dei grandi proprietari terrieri del sud – i famosi feudatari che, nel pensiero di qualcuno, dovrebbero aver rappresentato una remora allo sviluppo dell’economia italiana in senso capitalistico – per imporre un sistema di protezionismi doganali parimenti nocivo agli interessi della piccola industria e a quelli della piccola proprietà contadina; si è avvantaggiato di un’enorme riserva di mano d’opera agricola a buon mercato per realizzare profitti supplementari con l’erogazione di mercedi estremamente basse, e dell’esistenza di un mercato semicoloniale nel Sud per distruggervi le sopravviventi industrie artigiane e assoggettarle in regime di monopolio al Nord; infine, non essendo costretto a spezzare le resistenze tradizionali di interessi precostituiti nell’ambito stesso dell’economia capitalistica, ha raggiunto quasi di colpo le forme estreme del capitalismo finanziario, con la stretta connessione fra industria, banche e Stato, con l’impianto di giganteschi complessi industriali, di cartelli, di monopoli e di trust, con l’assoggettamento di tutta la politica finanziaria e doganale agli interessi della grande industria e, da ultimo, con l’esperimento fascista della totale dipendenza dello Stato dal grande capitale (protezionismo, corporativismo, autarchia, economia di guerra)».

In un certo senso si può dire che il capitalismo italiano – proprio per la combinazione dei fattori di sviluppo del capitalismo internazionale sintetizzati nel brano ora citato – è “nato adulto”. Proprio per questa ragione, come si afferma poco oltre nell’articolo citato:

«Se il fascismo ha fatto la sua prima apparizione in Italia non è un caso. Allo stesso modo che la catena internazionale del capitalismo tende a spezzarsi nel suo anello più debole (e l’Italia, dopo la Russia, è stata nell’altro dopoguerra ai limiti di questa rottura), è su questo anello debole che l’aborto della rivoluzione proletaria evoca necessariamente l’esperimento fascista. Il quale, dal punto di vista della struttura economica come da quello della struttura politica, non solo non rappresenta in Italia una frattura di tradizione, ma è la manifestazione ultima di un processo storico di cui è facile ritrovare le origini nel ritmo di formazione dello Stato nazionale. In definitiva,  il capitalismo che vive succhiando alle mammelle dello Stato e che lo domina è lo stesso capitalismo di Crispi, di Magliani, di Giolitti e di Mussolini: il capitalismo delle forniture navali alla siderurgia nascente, del salvataggio statale delle banche nell’ultimo decennio del secolo scorso, nel primo dopoguerra, nella grande crisi del 1931; il capitalismo dell’inestricabile connubio fra grande industria ed alta finanza e del tradizionale matrimonio fra interessi grandi-industriali del nord e interessi grandi-terrieri del sud, prima, durante e dopo il fascismo; il capitalismo, infine, dei bassi salari e dei profiti di monopolio del regime democratico prefascista come del regime fascista postdemocratico. Ed è, d’altra parte, il capitalismo che l’evoluzione storica postula sul terreno internazionale e che, non pago di aver servito di esempio ad esperimenti perfettamente identici in campo politico come in campo economico, sopravvive ora nella prassi dei grandi Stati vincitori del... fascismo».

Criticando nettamente tutte le posizioni politiche secondo le quali il fascismo avrebbe rappresentato un passo “indietro” nella storia, giustificando così la guerra “antifascista” delle potenze imperialistiche “democratiche” al fine di restaurare la democrazia senza la quale, secondo il Pci stalinista di allora, non si sarebbe potuto avanzare nella lotta per l’emancipazione del proletariato..., qui si afferma che il fascismo era invece l’espressione del massimo sviluppo della concentrazione economica del capitalismo; l’Italia rappresentava all’epoca, insieme alla Russia, l’anello debole della catena capitalistica internazionale, ed era perciò più esposta al pericolo della rivoluzione proletaria visto che la grande industria aveva creato consistenti masse di operai di fabbrica, mentre nelle campagne a fianco dei piccoli contadini si era formato un consistente bracciantato proletario. Se dal punto di vista economico il fascismo rappresentava la punta più avanzata dello sviluppo capitalistico, dal punto di vista sociale e politico il fascismo rappresentò l’ultima risposta della grande borghesia al pericolo della rivoluzione proletaria, dopo che l’opportunismo socialdemocratico e massimalista aveva sabotato e disorganizzato le masse proletarie nei due anni successivi alla fine della prima guerra mondiale, dando così tempo alla borghesia di riorganizzarsi e di individuare nel fascismo non solo le forze repressive antiproletarie ma anche la forza politica che prenderà in mano la direzione dello Stato levandola da quelle del tutto inefficaci dei democratici liberali.

Il capitalismo italiano nacque “adulto” e costituì una base economica sulla quale la borghesia fece gli esperimenti politici sia nella versione della democrazia liberale sia nella versione fascista, entrambi volti a facilitare lo sviluppo del capitalismo e, contemporaneamente, a influenzare e controllare un proletariato che si stava volgendo, nonostante le influenze socialdemocratiche e anarchiche, verso la lotta politica di classe per la conquista del potere politico. Le vicende della guerra 1914-1918, contro la quale già vi erano stati forti movimenti proletari prima e durante la guerra, avevano indebolito la presa politica borghese sul proletariato italiano, mentre la vittoriosa rivoluzione d’Ottobre 1917 in Russia costituiva per i proletari di tutti i paesi un esempio da imitare anche se si era verificato in un paese economicamente arretrato. Nel Partito socialista, fin dal 1911-1912 (ossia dalla guerra di Libia in poi), si andava formando la corrente marxista di sinistra che si scontrava non solo con i sindacalisti-rivoluzionari ma anche con i riformisti, e che con la guerra mondiale 1914-18 precisò sempre più le proprie posizioni intransigenti che si riveleranno del tutto allineate alle posizioni che prese il partito bolscevico di Lenin sia rispetto alla guerra imperialista sia rispetto alla teoria marxista in generale. In questo senso era più che giustificata la posizione che Bordiga assunse nel secondo dopoguerra quando affermò che il comunismo in Italia nacque “adulto”, contestando quindi la critica fatta da Lenin alla corrente di sinistra comunista del PSI per il suo astensionismo di fronte alle elezioni parlamentari (svolto nelle Tesi della Frazione Comunista del Psi, 1920) (2), come fosse una posizione da “estremismo infantile” paragonabile ai tribunisti olandesi o ai “comunisti di sinistra” tedeschi che in gran parte confluiranno poi nel KAPD.

In realtà, come abbiamo dimostrato cento volte, con Lenin eravamo pienamente d’accordo sul fatto che il parlamento andasse distrutto, solo che per Lenin, nella fase storica che si stava attraversando, era opportuno applicare da parte del partito di classe la tattica del “parlamentarismo rivoluzionario” con l’obiettivo di distruggerlo “da dentro” dimostrando ai proletari che credevano ancora nella democrazia parlamentare che l’istituto parlamentare era un inganno e non era attraverso di esso che avrebbe potuto giungere alla conquista del potere politico, ma attraverso la rivoluzione; il dissenso, quindi, era esclusivamente sulla tattica del “parlamentarismo rivoluzionario” con la quale, in forza della tradizione democratica nei paesi dell’occidente capitalistico, non era certo che si potesse non cadere nella tattica semplicemente parlamentare distogliendo forze e deviando il partito e il proletariato dalla preparazione rivoluzionaria, primeggiando la preparazione elettorale. Inutile dire che il monito della Sinistra comunista d’Italia, purtroppo, colse perfettamente ciò che avvenne successivamente.

La borghesia italiana, dunque, si rivolse alle forze socialiste del riformismo e dell’opportunismo per imbrigliare il proletariato, indebolirlo e sviarlo dal terreno della lotta di classe, per poi dare il colpo di grazia al movimento rivoluzionario e al Partito comunista d’Italia, nel frattempo costituitosi col benestare dell’I.C. Si apriva così il ventennio fascista, ossia del governo apertamente dittatoriale della borghesia, un esempio, come detto, che sarà seguito, e perfezionato, dalla Germania nazionalsocialista. La Germania – una volta vinta nella guerra mondiale e una volta che la socialdemocrazia degli Scheidemann e dei Noske, degli Ebert e dei Kautsky aveva sconfitto ogni tentativo del proletariato a mobilitarsi in modo organizzato e decisamente orientato alla conquista rivoluzionaria del potere, massacrando i capi dell’unico partito, lo Spartacus Bund di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht – non rappresentava più all’immediato un pericolo per gli imperialismi vincitori. Lo diventerà, comunque, vent’anni dopo, risollevatasi economicamente grazie alla massima concentrazione capitalistica e ai monopoli dello Stato e al coinvolgimento del proletariato in rapporti di collaborazione interclassista (sulla scorta dell’esempio già attuato dal fascismo attraverso la politica degli ammortizzatori sociali) molto efficaci.

Mentre l’Italia col fascismo, da anello debole del capitalismo internazionale, ristabiliva una sua forza imperialistica con cui fare i conti vista anche la sua posizione geografica strategica nel Mediterraneo, la Germania si ripresentò sullo scenario internazionale come una potenza di prima grandezza, in grado di misurarsi con ognuna delle altre grandi potenze imperialistiche. Una potenza che non poteva accettare, da parte delle potenze avversarie – Inghilterra e Francia anche in qualità di grandi potenze coloniali, e Stati Uniti d’America in qualità di grande potenza finanziaria –, la limitazione dei mercati europei, asiatici, africani nei quali aveva già allungato, fin dalla fine dell’Ottocento, i suoi artigli.

Ma in tutto questo sviluppo del capitalismo finanziario – il vero vettore imperialistico – e degli inevitabili contrasti tra le diverse potenze, i proletari ormai più volte sconfitti sono stati recintati nuovamente nell’aziendismo e nel nazionalismo, e si sono lasciati rintanare nell’individualismo, esprimendo nella loro lotta di sopravvivenza, questa sì a bassissima intensità, la speranza che fattori oggettivi, e quindi esterni alla loro classe, esterni alle tradizioni di classe che caratterizzarono le precedenti generazioni degli anni Venti del secolo scorso, li mettessero al riparo dalla disoccupazione, dalla fame, dalla miseria.

Ma quei fattori oggettivi non erano, in realtà, che gli obiettivi della borghesia nazionale in concorrenza sempre più acuta con le borghesie straniere: il buon andamento dell’economia aziendale, la crescita economica del paese, la più forte competitività delle merci prodotte, insomma il miglior funzionamento dell’economia capitalistica che, in sostanza, si riduce, come in ogni paese, alla sistematica valorizzazione del capitale che si ottiene esclusivamente attraverso lo sfruttamento quotidiano del lavoro salariato.

 

CHE COSA AVVELENA IL PROLETARIATO? LA COLLABORAZIONE FRA LE CLASSI

 

Una cosa la democrazia post-fascista ha ereditato dal fascismo, e messo in pratica attraverso tutte le sue istituzioni: la politica della collaborazione fra le classi; l’ha non solo standardizzata, ma l’ha istituzionalizzata attraverso il parlamento a cui partecipano, o ambiscono a partecipare, anche i partiti che si proclamano “operai” e attraverso l’integrazione dei sindacati operai nello Stato. La collaborazione tra le classi e gli istituti che la applicano sono le armi che la moderna borghesia imperialistica ha usato e usa non solo per impedire ai proletari di organizzarsi in modo indipendente in quanto salariati, ma per organizzare con precise metodiche la concorrenza tra proletari, frammentando la massa proletaria in settori, categorie, tipologie di lavoro e tipologie di contratti, sapendo ormai per esperienza che, finché i proletari non riusciranno a sconfiggere questo cancro dal loro corpo sociale, essi non riusciranno a riconquistare l’unico terreno su cui possono riconoscersi come forza sociale unificata e scatenare la lotta di classe contro il loro vero nemico, sotto ogni cielo: la borghesia di casa propria, innanzitutto, e le classi borghesi di ogni altro paese che – come hanno dimostrato nella storia passata – pur facendosi sistematicamente la guerra in campo commerciale, politico e militare, sono sempre in grado di unirsi contro il movimento proletario rivoluzionario.

La collaborazione interclassista illude i proletari anche sul piano della concorrenza fra di loro: viene fatto loro credere che collaborando con i padroni e con lo Stato la concorrenza tra di loro si attenui e che, se continua ancora a sussistere, è solo sul piano della “professionalità” e della “specializzazione” individuali di fronte alle quali ogni lavoratore sarebbe “libero” di accedere grazie ad un impegno personale per una formazione utile a “mettersi alla pari” con le innovazioni tecniche, le nuove tecnologie e le nuove organizzazioni del lavoro. In pratica, ad ogni lavoratore salariato viene fatta balenare l’idea che se vuole essere pagato di più degli altri, accedere ad un livello professionale più alto, avere più possibilità di trovare un posto di lavoro meglio pagato, in sostanza “fare carriera” all’interno dell’azienda in cui lavora o farsi assumere da altre aziende per un lavoro “più adeguato” alla sua specializzazione, deve occupare buona parte del suo tempo libero per la formazione professionale. E così, oltre alle ore di lavoro giornaliere che deve dare al padrone – non importa se privato o pubblico – ogni salariato viene spinto ad occupare altre ore giornaliere del suo “tempo libero” per una formazione professionale che serve esclusivamente per rispondere alle esigenze di competitività e di produttività delle aziende capitalistiche. E i lavoratori che sono stati licenziati, gettati nella condizione di disoccupati, di precari o costretti al lavoro nero, il loro “tempo libero” come lo impiegano? Per la maggior parte cercando un lavoro, magari saltuario, magari in nero, in genere malpagato e costretti a fare una concorrenza oggettivamente spietata ad altri lavoratori, accettando salari molto più bassi per molte più ore giornaliere di lavoro e lavorando spessissimo senza le misure di sicurezza necessarie, senza protezioni individuali, in condizioni di pericolo permanente, rischiando l’infortunio e la morte.

La collaborazione fra le classi non risolve nessuno di questi problemi; caso mai li aggrava perché impedisce ai lavoratori salariati di unire le proprie forze in difesa dei più deboli, dei peggio pagati, dei licenziati, dei disoccupati. La collaborazione interclassista si attua ad ogni livello di interesse della borghesia, a partire dalla singola azienda, per portarsi a livello del settore economico a cui appartiene su su a livello delle istituzioni pubbliche locali fino allo Stato. Ma il sistema economico capitalistico alla base funziona per aziende che si fanno concorrenza sul mercato ed è naturale che ogni azienda tratti i propri lavoratori come fossero “di proprietà”, ma non nel senso di proprietà privata (perciò non li difende come il proprietario di schiavi nell’antica Roma difendeva i propri schiavi), ma nel senso di una merce comprata sul mercato del lavoro di cui disporre a proprio piacimento: se funziona per gli scopi per i quali è stata comprata, bene, se non funziona o se risulta eccedente all’economia generale dell’azienda viene semplicemente scartata. La forza lavoro salariata è una merce particolare: da un lato subisce gli stessi criteri di una qualsiasi altra merce il cui valore è determinato dal suo valore di scambio (impiego della forza lavoro in un’azienda contro salario), dall’altro, a differenza di ogni altra merce, non viene rivenduta ad altri, magari ad un prezzo più basso come si fa con prodotti ed oggetti usati; la forza lavoro di cui l’azienda non sa più cosa farsene perché non la può più sfruttare come nei cicli produttivi precedenti, vuoi perché un numero inferiore di salariati riesce a dare risultati economici pari se non superiori rispetto ai risultati precedenti o semplicemente perché i costi di produzione – tra cui il monte salari – devono essere ridotti, pena una perdita nelle vendite e perciò nei profitti, è una forza lavoro da scartare, di cui l’azienda deve disfarsi. In realtà, i lavoratori salariati, cioè i proprietari fisici della forza lavoro (che nel capitalismo sono i venditori della propria merce, della propria forza lavoro), se non riescono a piazzarla presso un padrone sono essi stessi che devono cercare un altro padrone e altri ancora ogni volta che perdono il posto di lavoro; e se non trovano lavoro sono costretti all’abbrutimento della disoccupazione, dell’emarginazione, della miseria e della fame.

Non a caso nel Manifesto del partito comunista, Marx ed Engels, dopo aver affermato che «il proletariato, con lo sviluppo dell’industria, non solo si moltiplica; viene addensato in masse più grandi, la sua forza cresce, ed esso la sente di più», sottolinea che lo sviluppo storico del capitalismo determina necessariamente una situazione di questo tipo: «Gli interessi, le condizioni di esistenza all’interno del proletariato si vanno sempre più agguagliando man mano che le macchine cancellano le differenze del lavoro e fanno discendere quasi dappertutto il salario a un livello ugualmente basso». Ma lo sviluppo del capitalismo provoca «la crescente concorrenza dei borghesi fra di loro e le crisi commerciali che ne derivano rendono sempre più oscillante il salario degli operai: l’incessante e sempre più rapido sviluppo del perfezionamento delle macchine rende sempre più incerto il complesso della loro esistenza; le collisioni fra il singolo operaio e il singolo borghese assumono sempre più il carattere di collisioni di due classi» (3). Qual è la differenza tra il 1848 e il 2021? Che nel 2021 lo sviluppo del capitalismo è andato crescendo, come è cresciuta la concorrenza fra borghesi e si sono verificate crisi commerciali e finanziarie sempre più acute – gettando ciclicamente la società nelle crisi di sovraproduzione e, conseguentemente, in una temporanea barbarie (il Manifesto scrive: «la società si trova all’improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l’industria e il commercio sembrano distrutti») – e le sommosse, le collisioni fra la classe proletaria e la classe borghese non sono più circoscritte ad alcuni paesi capitalisti molto sviluppati, ma riguardano ormai il mondo intero.

Finora il proletariato ha tratto delle lezioni fondamentali soltanto da alcuni e particolari svolti storici nei quali ha dimostrato di essere l’unica forza sociale in grado di affrontare la classe borghese dominante sull’unico terreno nel quale si decidono le sorti della stessa società mondiale: il terreno della lotta di classe, ossia della lotta per la conquista del potere politico e, quindi, dell’instaurazione della dittatura del proletariato dopo aver distrutto la dittatura della classe borghese che, nel suo Stato, concentra la sua forza politica e militare.

Ogni borghesia è ovviamente interessata ad evitare che il proletariato da classe per il capitale diventi classe per sé, cioè diventi la classe rivoluzionaria con compiti suoi specifici, indipendenti e tesi a distruggere il capitalismo come sistema economico e la società borghese come il mondo che dipende esclusivamente dal capitalismo.

Ecco, quindi, che ogni sovrastruttura politica che sia in grado di imprigionare, deviare, indebolire, asservire la classe proletaria al capitalismo, e quindi alla classe borghese, è un’arma che la borghesia usa per vincere i conflitti sociali contro il proletariato.

La Sinistra comunista d’Italia, sulla linea di Marx, Engels, Lenin, ha continuato a lottare contro quella che è diventata nell’epoca moderna l’arma borghese più efficace contro il proletariato: la democrazia, e la democrazia parlamentare in particolare. E’ un’arma che ha già mostrato l’usura del tempo, in particolare nei periodi in cui la crisi di sovraproduzione capitalistica aveva già condotto la maggioranza dei paesi capitalisti sviluppati alla guerra imperialista mondiale, ma, dopo la sconfitta della rivoluzione proletaria in Russia e nel mondo ad opera delle forze molto tenaci dell’opportunismo, la borghesia imperialista è riuscita a vivificare nuovamente la democrazia attraverso un gioco politico molto abile: opponendo il regime democratico parlamentare al regime fascista, figli entrambi di Mr Capitale e Miss Borghesia, il primo col compito di velare la reale dittatura economica del capitalismo e, quindi, la dittatura politica della borghesia, il secondo col compito di dare il colpo di grazia al proletariato che aveva imboccato la via rivoluzionaria, ma che è stato tradito e vinto dai suoi rappresentanti socialdemocratici, filoborghesi e massacratori di proletari.

L’Italia è stata il paese in cui, prima di altri, la borghesia ha avuto l’occasione di svelare le sue diverse facce: la monarchico-costituzionale, la democratico-liberale, la fascista, la democratica post-fascista. Sempre in cerca di protezione presso una potenza imperialista più forte – la Francia napoleonica, l’Austria asburgica, l’Inghilterra colonialista, la Germania hitleriana, l’America dei Truman e degli Eisenhower – saltando dall’una all’altra a seconda delle convenienze ritenute più utili agli interessi capitalistici nazionali.

Non è stato un caso che per ben due volte, sia rispetto alla prima guerra mondiale, sia rispetto alla seconda, la borghesia italiana abbia voltato le spalle al paese con cui aveva formalmente sottoscritto un’Alleanza che prevedeva il reciproco convolgimento in guerra, volgendo i propri servizi ai nemici di ieri.

 

SIAMO ANCORA IN PIENA CONTRORIVOLUZIONE

 

Tutti i governi borghesi, dal secondo dopoguerra in poi, hanno adottato la politica della collaborazione fra le classi, siano stati governi di centro, di centro-sinistra o di centro-destra, e questo dimostra come la classe borghese, se è spinta in economia alla concentrazione capitalistica e al predominio del capitalismo finanziario sul capitalismo industriale, agrario o commerciale, è altrettanto spinta in politica alla centralizzazione e a eliminare, di fatto, il “libero gioco” dei partiti pur mantenendo, tutte le volte che si sia dimostrata l’efficacia nel controllo sociale e nell’influenza sul proletariato, la “competizione elettorale parlamentare” tra decine o centinaia di partiti e partitini, come in Italia, o soltanto tra alcuni grandi partiti come negli Stati Uniti o in Gran Bretagna.

La concorrenza dei capitalismi nazionali sul mercato internazionale ha sviluppato inevitabilmente la concorrenza tra imperialismi e, nella misura in cui il periodo della “ricostruzione postbellica” ha permesso il rafforzamento degli imperialismi vincitori della guerra e la rinascita degli imperialismi vinti, ma non eliminati, ha portato ad alzare sempre più le tensioni interimperialiste. Infatti, nell’ultimo quarantennio, ogni governo borghese – direttamente coinvolto o meno – ha partecipato agli scontri di guerra che si sono svolti nelle più diverse regioni del mondo. E per sostenere sia la concorrenza commerciale tra capitalismi nazionali sia l’impegno militare negli scontri tra Stati, ogni governo ha bisogno di poter contare sulla coesione nazionale, per ottenere la quale non è sufficiente gridare al nemico aggressore, o alla difesa degli interessi economici del paese, ma è necessario che il proletariato si pieghi interamente alle esigenze capitalistiche nazionali col minimo di proteste e di opposizione. In determinati paesi, come in Russia, (dove al falso “socialismo reale” si è sovrapposta una falsa democrazia parlamentare) o in Cina (dove sussiste ancora il tragico inganno di un potere politico in mano ad un partito che continua a chiamarsi “comunista”, ma che è da sempre il più forte partito nazionalista e imperialista che la storia della Cina abbia potuto esprimere), la repressione degli oppositori fa parte dell’abituale metodo di controllo sociale; in altri paesi, ogni accenno ad un cambio di politica indirizzato verso il sistema democratico alla “occidentale” è contrastato da colpi di Stati, più o meno eclatanti (Egitto, Myanmar, Ciad ecc.), e in altri ancora la democrazia vantata come esempio per il mondo – tanto da essere il leit motiv della guerra portata nei diversi continenti, come nel caso degli Stati Uniti d’America – viene bellamente sfregiata e calpestata dalle stesse frazioni borghesi che si contendono ogni quattro anni il potere politico. Ebbene, che valore ideologico e politico può avere per il proletariato la democrazia borghese che dal secondo dopoguerra in poi domina in gran parte dei paesi capitalistici avanzati?

Le borghesie di questi paesi investono enormi capitali per mantenere in piedi sovrastrutture politiche, amministrative, burocratiche attraverso le quali tenere le masse proletarie nelle condizioni di dipendere totalmente da esse non solo ideologicamente, ma concretamente, nella vita quotidiana per ogni minima esigenza; sono quindi i fatti materiali, di pura sopravvivenza quotidiana, quelli che determinano l’accettazione di un sistema politico che alimenta continuamente l’illusione che attraverso gli stessi mezzi politici della democrazia che la borghesia usa per opprimere e massacrare le masse proletarie si possano cambiare le condizioni di vita generali in loro favore. Questa illusione poggia su fatti materiali che non sono soltanto il ricatto economico dei padroni e la repressione poliziesca dello Stato; sono anche le concessioni che i capitalisti a la loro organizzazione politica hanno attuato per tacitare i bisogni elementari delle masse che, nei paesi capitalisti avanzati conosciamo come “ammortizzatori sociali”. Non a caso gli stessi borghesi li hanno chiamati ammortizzatori: il loro scopo è infatti quello di attenuare le tensioni sociali che inevitabilmente il sistema economico e sociale capitalistico genera costantemente. Questi ammortizzatori sociali vengono adottati non tanto per cambiare in meglio progressivamente le condizioni sociali di vita e di lavoro delle masse proletarie, ma per impedire ai proletari di riconoscere nello Stato borghese e nel sistema economico capitalistico il vero ostacolo alla loro emancipazione di classe. I proletari vengono spinti ad accettare il dominio politico e sociale della classe borghese grazie alle politiche sociali con le quali la classe dominante tenta di rimediare alle sofferenze e al peggioramento inevitabile che lo sviluppo capitalistico provoca sulle condizioni di vita e di lavoro proletarie. La democrazia borghese permette ai proletari di protestare, di organizzarsi, di lottare, di scioperare a sostegno delle proprie rivendicazioni, ma sempre ed esclusivamente nel quadro delle leggi che la borghesia ha fissato – salvo fissare, a seconda della situazione sociale, ulteriori limitazioni all’esercizio dei famosissimi “diritti” – e che le consente di reprimere tutti i proletari che, sulla spinta della lotta per difendere le proprie rivendicazioni, vanno oltre la legalità imposta.

La democrazia ha consentito ai partiti politici che si riferivano e si riferiscono al proletariato di accedere alle istituzioni attraverso le quali viene amministrato il potere politico: dal parlamento, ai comuni, alle province, alle regioni. La borghesia, in questo modo, ha convogliato tutta la “lotta politica” alla “conquista” di un municipio, di una provincia, di una regione o di un posto nel parlamento. Ed è in questo quadro istituzionale che la borghesia ha interesse a mantenere la lotta politica; essa tenta, infatti, e finora ci sta riuscendo, di trasformare la lotta fra le classi che storicamente si esprime al di fuori delle istituzioni borghesi, in una lotta all’interno delle sue istituzioni. E il motivo è semplice: in questo modo controlla molto meglio il proletariato, politicamente, organizzativamente e ideologicamente. Le leve del vero potere della borghesia stanno nelle mani della grande industria, dei grandi trust, della rete di interessi nazionali e internazionali delle grandi società per azioni, che muovono miliardi di miliardi di capitali con i quali sviluppare questo o quel settore economico o strozzarlo, questo o quel paese o schiacciarlo. Che le istituzioni democratiche non siano altro che una maschera con la quale si copre il vero volto del capitalismo è ormai talmente evidente – basta guardare che cosa avviene nei paesi in cui vengono scatenate guerre tra fazioni borghesi al solo scopo di mettere le mani su pozzi petroliferi, su tratti di mare, su miniere o foreste e su luoghi strategici di comunicazione – che non dovrebbero più ispirare alcuna fiducia alle grandi masse. E invece...

La stessa lotta dei partiti che si contendono il governo del paese ha dimostrato costantemente che le promesse elettorali fatte alle masse per strappar loro un voto non si trasformano quasi mai in un risultato concreto. Ma l’abitudine a credere che il cambiamento della situazione dipenda dal voto di ogni singolo individuo e dalla somma di questi voti individuali è talmente radicata da rinnovare questa illusione ogni volta che si ripresenta la tornata elettorale. Soltanto un terremoto sociale  provocato da condizioni economiche insostenibili per le masse proletarie può rappresentare il terreno favorevole su cui si può sviluppare la ripresa della lotta di classe, la ripresa cioè di una lotta che il proletariato riconosca come la lotta in difesa esclusiva delle sue condizioni di esistenza, di una lotta che il proletariato scatena organizzandosi in modo completamente indipendente dagli apparati e dalle istituzioni borghesi, di una lotta con la quale il proletariato si reimpossessa delle tradizioni di classe che già nei secoli scorsi lo hanno caratterizzato come l’unica classe rivoluzionaria di questa società, di una lotta che non può non incrociare l’azione del partito di classe che, rappresentando il movimento rivoluzionario futuro della classe proletaria, agisce nel presente apportando al proletariato le esperienze e le lezioni del passato guidandone il movimento verso il suo futuro di classe. Che questa situazione non sia presente nè si possa prevedere come una realtà nel giro di qualche anno, è evidente. Ma le crisi economiche e politiche che stanno colpendo la società capitalistica da decenni e che continueranno ad aggraversi nel futuro prossimo, portano l’intera società, a livello internazionale, ad uno sbocco di guerra che, inevitabilmente, dalla situazione di guerre locali come l’attuale evolverà verso la guerra imperialista mondiale. Allora il proletariato, in ogni paese direttamente o indirettamente coinvolto, dovrà schierarsi: o contro la guerra imperialista e, quindi, per la rivoluzione – come già nel 1914-18 – o per la guerra in sostegno della propria borghesia contro le borghesie straniere e, quindi – come già nel 1939-1945 – per la vittoria dell’imperialismo che altra funzione non ha se non quella di reiterare l’asservimento dei paesi vinti ai paesi vincitori e l’asservimento delle masse proletarie alla propria borghesia dominante, non importa se vinta o vincitrice nella guerra.

Il partito di classe del proletariato – e noi dalla fine della seconda guerra imperialista mondiale lavoriamo per la sua ricostituzione salda teoricamente e forte politicamente – ha e avrà il compito di preparare il proletariato, e i suoi gruppi d’avanguardia soprattutto, a quello scontro epocale per la cui preparazione non serviranno particolari espedienti né organizzativi, né tattici, né politici. Già le esperienze della Comune di Parigi del 1871, della Rivoluzione russa del 1917 e dell’Internazionale Comunista del 1919-1920 hanno fornito la conferma della teoria marxista e delle sue previsioni; come, d’altra parte, le molteplici sconfitte del proletariato in questo lungo arco di tempo hanno fornito sufficienti prove per comprendere le caratteristiche delle diverse tendenze opportuniste che hanno contribuito a quelle sconfitte. Le lezioni delle controrivoluzioni, come recita un nostro testo del 1951 che faceva parte del lungo lavoro di restaurazione della teoria marxista dopo il disastro dello stalinismo, sono altrettanto decisive, se non di più, delle lezioni delle rivoluzioni.

Non ci nascondiamo perciò che la controrivoluzione borghese non solo ha vinto fin dalla metà degli anni Venti del secolo scorso, distruggendo il partito bolscevico di Lenin e l’Internazionale Comunista, ma ha prolungato la sua vittoria in tutti questi decenni. Il pericolo che il dominio borghese ha corso tra il 1917 russo, il 1919-20 europeo e il 1927 cinese, è stato talmente elevato da spingere la classe borghese a moltiplicare le proprie forze di resistenza e di restaurazione contando non soltanto sulle proprie forze direttamente borghesi, ma anche sulle forze dell’opportunismo che, con la prima guerra imperialista mondiale avevano già dato prova di sé (soprattutto col riformismo bernsteiniano e socialdemocratico e il centrismo kautskiano) e che avevano dimostrato quanto fossero indispensabili alle borghesie nazionali per irreggimentare i proletari nelle truppe di guerra attraverso il fallimento della Seconda Internazionale e il rinnegamento della politica rivoluzionaria proletaria col voto ai crediti di guerra da parte di tutti i partiti ad essa aderenti (salvo il partito bolscevico, le correnti di sinistra del partito tedesco e il partito socialista italiano). La vittoria bolscevica in Russia, i tentativi rivoluzionari in Ungheria, in Germania, in Polonia e le tensioni rivoluzionarie in Italia e in Serbia, hanno scosso le borghesie di tutti i paesi, tanto da mettere – nel famoso “biennio rosso” 1919-1920 – la propria salvezza nelle mani, innanzitutto, dei partiti socialdemocratici e poi, dopo che il proletariato è stato confuso, deviato e massacrato, nelle mani o dei moderni Thiers o del fascismo.

Le lezioni dalle sconfitte non le ha tirate soltanto il partito marxista, le ha tirate anche la borghesia dominante, e questo non va sottovalutato mai. Ciò dimostra, una volta di più, che tra le classi principali di questa società non vi è soltanto lotta, ma guerra; e che, quando il proletariato, guidato dal suo partito di classe, accetta di scendere sul terreno dello scontro di classe con la borghesia è in grado di trasformare la guerra borghese in guerra di classe, in guerra civile. E’ successo a Parigi, è successo a Pietrogrado, a Shangai e Canton: ne siamo usciti con una sconfitta? Sì, ma non è stata storicamente definitiva; ed è la stessa borghesia, lo stesso suo potere, la stessa sua economia a ripresentare sulla scena mondiale gli stessi fattori di crisi economica e sociale, gli stessi fattori oggettivi che riporteranno la classe del proletariato e la classe della borghesia alla guerra di classe nella quale l’obiettivo non potrà che essere lo stesso descritto nel Manifesto del partito comunista di Marx-Engels nel 1848: «Essa [la borghesia] produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili». Siamo dei visionari? Siamo degli utopisti incalliti? NO, siamo marxisti, e ragioniamo non in termini di durata media della vita individuale, ma in termini storici. Se non è stata la generazione proletaria del tempo di Marx ed Engels, o quella del tempo di Lenin o quella del Partito comunista d’Italia del 1921 e della corrente di sinistra che l’ha fondato e diretto e che, succesivamente, dal 1945 in poi, ha ripreso il lavoro di restaurazione del marxismno e di ricostituzione dell’organo rivoluzionario per eccellenza, il partito di classe, o le generazioni successive che ci hanno portato al 2021, sono le generazioni di questo XXI secolo che hanno e avranno il compito di riprendere il filo del tempo rimettendo all’ordine del giorno la rivoluzione proletaria a livello internazionale attraverso la quale attuare l’emancipazione del proletariato e di tutta l’umanità dal giogo del modo di produzione capitalistico e del potere borghese che si fonda sulla proprietà privata e sull’appropriazione privata della produzione sociale.

 

GOVERNO CONTE-1, GOVERNO CONTE-2, GOVERNO DRAGHI... E POI?

 

Dopo le elezioni del 2013 che portarono al governo Letta, poi Renzi, e poi Gentiloni (tutti del PD), ci sono state le elezioni del 2018 che hanno portato al governo la nuova organizzazione politica definitasi Movimento 5 Stelle (M5S, campione dell’antipolitica, intesa come anti-casta, anti-partitocrazia). La presenza del M5S non ha significato la fine delle alchimie montecitoriali; si sono susseguiti una serie di giochi che apparentemente hanno aperto in Italia una nuova stagione politica, una stagione che, per la prima volta da quando esiste il regime democratico repubblicano, sembrava stravolgere, con l’apertura delle porte del parlamento e del governo a forze politiche non inquadrate nelle classiche organizzazioni di partito, il quadro politico generale generando quello che è stato più volte vantato come il cambiamento. Niente di più falso.

In realtà, il M5S, nel momento stesso in cui ha messo piede a Montecitorio e a Palazzo Madama, ha dovuto accettare di comportarsi come i vecchi partiti parlamentari: le stesse regole, le stesse logiche, le stesse manovre di corridoio, gli stessi incontri segreti. Aldilà del vezzo di mostrare la sua caratteristica fondamentale di una “democrazia diretta” – che consisterebbe nel fatto che i capi politici fanno quello che la “base” decide e, visto che siamo nell’epoca della osannata dittatura di internet, lo decide attraverso il voto on line (i vecchi congressi dei partiti con tanto di delegati da tutte le sezioni? roba vecchia, antidiluviana...), come se il voto on line, come il voto cartaceo, non fosse esposto a possibili brogli da parte dei gestori della piattaforma sulla quale i voti vengono registrati – il M5S, non avendo una maggioranza parlamentare assoluta che gli avrebbe permesso di formare il governo solo con i propri uomini (come un tempo succedeva alla DC), ed essendo il partito con più deputati e senatori degli altri, ha da subito mostrato che il metodo dell’accordo che vige tra aziende concorrenti ma interessate, almeno per un tratto di strada, ad allearsi contro gli altri concorrenti, era il metodo da seguire anche per la formazione del governo. L’alleato, o gli alleati, non dovevano necessariamente condividere il grosso del proprio programma; bastava sottoscrivere da parte dei contraenti un contratto nel quale ci si impegnava reciprocamente a lavorare insieme per determinati obiettivi, e solo per quelli. In un primo tempo sembrava a portata di mano l’alleanza col PD di Bersani, poi invece l’alleanza la fece con la Lega di Salvini, la quale, pur di andare al governo e accaparrarsi alcuni ministeri era disposta a soprassedere sulla Padania, sul Nord contro il Sud, sull’Europa ecc. Ma questo accordo è durato poco più di 15 mesi, con un presidente del consiglio (Conte, formalmente non appartenente ad alcun partito) imposto dal M5S, con ben due vicepresidenti (Salvini della Lega e Di Maio del M5S) che si sono presi l’icarico di controllare da vicino il presidente, e con Salvini anche Ministro dell’Interno e Di Maio anche Ministro del Lavoro. L’accordo è saltato, come era prevedibile, non per contrasti di principio, ma per interessi contrastanti sia elettorali che di potere, il che rientra nella logica dei partiti borghesi che rappresentano ognuno interessi economici, finanziari e politici di frazioni borghesi ben precise; nello specifico la Lega rappresenta soprattutto gli interessi della piccola e media borghesia lombardo-veneta e il M5S rappresenta gli interessi della piccola e media borghesia soprattutto del Sud. Infatti i maggiori serbatoi di voti dell’uno e dell’altro corrispondono alle rispettive regioni.

Saltato il primo governo Conte (M5S+Lega Nord e alcuni partitini politicamente insignificanti, ma utili per il numero di deputati e senatori che sommavano), le prospettate elezioni vengono dribblate perché il M5S, su istigazione del presidente della repubblica, si mette d’accordo con i partiti di cosiddetta sinistra, PD+Italia Viva+Leu ed altri 10 partitini della stessa area; e così nasce il governo Conte-2. Nel settembre 2019 però Renzi si stacca dal PD e fonda il suo partito, Italia Viva, che si definisce liberale, riformista, ovviamente antisovranista e antipopulista, portandosi appresso ben 27 deputati e 16 senatori rubacchiandoli soprattutto al PD, ma alcuni anche al M5S e a Forza Italia, formando così una squadra piuttosto compatta di “rottamatori” pronta ad erodere l’alleanza di governo alla quale si è appena associata (e questo succede in tutto il 2020), in vista di un nuovo governo nel quale avere più possibilità di mettere le mani sulla gestione dei soldi. Naturalmente, come ormai succede da sempre, ma negli ultimi trent’anni più di frequente, gli eletti se ne fottono degli elettori visto che si fanno eleggere per un partito e poi se ne vanno in un altro partito, in un altro gruppo o ne fondano uno di sana pianta, mantenendo i soldi e i privilegi in quanto “parlamentari”.

Ma anche il governo Conte-2 ha vita breve, dura infatti 17 mesi e mezzo circa, e nel febbraio 2021 inevitabilmente cade.  Ovviamente anche tra i partiti che formano questo governo si erano sviluppate tensioni di ogni tipo e soprattutto dopo che Conte – in pieno periodo di pandemia da coronavirus – aveva ottenuto dall’Unione Europea una parte cospicua dei soldi messi a disposizione degli Stati che più erano stati colpiti dal Sars-CoV-2: più di 200 miliardi di euro. Se nel governo Conte-1 è stata la Lega di Salvini ad innescare la crisi, nel Conte-2 è Italia Viva di Renzi che si mette di traverso. Tutti i partiti di governo, e tutti i partiti di opposizione bramano di poter gestire quel notevole malloppo per soddisfare gli interessi delle proprie fazioni borghesi, e Italia Viva non si tira in disparte, anzi, approfitta del peso che ha in parlamento (ma non nell’elettorato), assolutamente necessario perché il governo rimanga in piedi, per svolgere una serie di manovre aggiranti in modo da provocare la caduta del governo Conte-2 ed uscirne ancora con la possibilità di partecipare ad un successivo governo per il quale è stato fatto il nome di Draghi, l’ex presidente della BCE, ex governatore della Banca d’Italia, ex direttore strategico per l’area europea della Goldman Sachs, una delle più grandi banche d'affari del mondo. Inutile dire che è stato uno dei maggiori promotori della privatizzazione delle aziende a partecipazione statale come IRI, Telecom, ENI, ENEL, Comit ecc. e, durante la presidenza della BCE, è stato tra i fautori della strenua difesa dell’euro avviando dal 2015, per fronteggiare le conseguenze della crisi  finanziaria scoppiata nel 2007-2008, la politica del cosiddetto Quantitative easing, ossia il massiccio acquisto da parte della BCE di titoli di Stato e anche privati a suon di decine di miliardi al mese, politica che è stata attuata da marzo 2015 a ottobre 2018, il che dà anche la misura della grave crisi in cui erano precipitate le grandi economie d’Europa.

La legislatura (la XVIII dall’inizio della vita repubblicana) poteva perciò terminare, vista la seconda crisi di governo, ma pur di evitare le elezioni – alle quali pare fosse interessata solo la destra e, in particolare, Fratelli d’Italia – i partiti parlamentari si convinsero che conveniva a tutti sostenere un governo “di unità nazionale” se un personaggio del calibro di Mario Draghi avesse accettato di guidare il terzo governo di questa legislatura. Sembrava cosa già decisa, probabilmente nelle segrete stanze come di solito avviene quando i rappresentanti della grande borghesia hanno bisogno di togliersi da situazioni molto critiche. Detto fatto: Draghi accetta l’incarico dal presidente Mattarella dopo aver ricevuto l'ok quasi dall’intero arco parlamentare. E così nasce un governo appoggiato da tutti i partiti, con tutto il bagaglio dei loro contrasti – meno Fratelli d’Italia. M5S, PD, Lega, Italia Viva, Forza Italia e quasi tutto il seguito di partiti di centro, di destra e di sinistra, tutti assieme appassionatamente, siedono allo stesso banchetto; ognuno ambisce a indirizzare riforme e soldi verso soluzioni che accontentino i propri elettori, ognuno ambisce a ritagliarsi una fettina di potere nel decidere dovre andranno a soldi dell’ormai famoso Recovery Plan, ognuno tenta di rafforzare le proprie posizioni a scapito dei nemici-alleati. Le combinazioni montecitoriali possono essere moltissime, a seconda della questione affrontata, ma è certo che in questa “unità nazionale”, nella quale i partiti si riconoscono a parole ma non nei fatti, le vere leve del comando stanno nelle mani – come sempre – dei potentati industriali e finanziari che stanno fuori dal parlamento, ma che lo manovrano secondo i loro interessi reali. Soprattutto in un periodo in cui, come quello che stiamo attraversando da una trentina d’anni, le crisi economiche e finanziarie si ripetono con una certa frequenza,  un governo non è mai buono per tutte le stagioni. Così anche il governo Draghi, nonostante il grande consenso che Draghi raccoglie internazionalmente dai grandi centri di potere bancario e finanziario, è un governo a scadenza. Poi si ripeteranno le elezioni, ci saranno vecchi e nuovi partiti che si scorneranno per ottenere un voto in più, e si formeranno altri governi che difficilmente dureranno un’intera legislatura... La situazione del proletariato, terminata la stagione dei “ristori” e dei “sostegni”, per quel che sono serviti, è destinata comunque a peggiorare anche se la borghesia non mancherà di privilegiare in qualche modo gli strati operai più specializzati (la famosa aristocrazia operaia) perché attraverso di loro sa che può estendere la propria influenza conservatrice e reazionaria al resto del proletariato. E’ d’altra parte una situazione in cui insisteranno sempre più le masse di migranti che fuggono da situazioni ben peggiori di quelle che si vivono in Europa, e che porteranno con sé il bisogno estremo di sopravvivere accettando qualsiasi condizioni di vita e di lavoro, ma, nello stesso tempo, uno spirito combattivo che li ha spinti e li spingerà ad affrontare viaggi pericolosissimi, incarceramenti, torture e vessazioni di ogni tipo. Uno spirito combattivo che nei paesi opulenti d’Europa e d’America i proletari autoctoni hanno in gran parte perso, adagiandosi su un tenore di vita sicuramente migliore di quello esitente nei paesi arretrati e su abitudini di vita sociale determinate dall’illusione che la democrazia borghese e i diritti previsti dalle leggi democratiche siano qualcosa di acquisito e permanente e che, se temporaneamente si perdono, si possono riconquistare con i mezzi democratici e pacifici che le stesse leggi borghesi prevedono.

La pandemia di Covid-19 ha messo in ginocchio tutte le economie del mondo, e ha rivelato, ad esempio per l’Italia, un’enorme impreparazione da parte dei poteri pubblici nell’affrontarla e nel limintarne gli effetti mortali e disastrosi; ha però messo in rilievo un altro aspetto, non secondario, della gestione sociale da parte della borghesia dominante: quello di dover combinare un accresciuto controllo sociale delle masse proletarie con una distribuzione massiccia di “ristori” e di “sostegni”, aumentando il debito pubblico in modo esagerato andando chiaramente contro le politiche di austerity e di limitazioni del debito pubblico che hanno caratterizzato i governi negli ultimi trent’anni. I sacrifici imposti in tanti anni alla classe proletaria dove hanno portato? A condizioni di vita migliori? No. Sono stati chiesti e imposti per il bene dell’ecopnomia nazionale, per il bene dell’economia di ogni azienda, per salvare posti di lavoro e, quindi, salari. Ma i posti di lavoro sono saltati così come i salari, mentre i profitti delle grandi aziende non hanno fatto che aumentare.

Come mai la borghesia dominante si è decisa oggi ad allargare i cordoni della borsa? Non certo per venire incontro alle reali esigenze di vita delle masse proletarie, tanto meno per attenuare in modo deciso le diseguaglianze sociale, e meno ancora per “dare lavoro a tutti” e soprattutto “ai giovani”. La disoccupazione non è sparita, anzi si è aggravata; la povertà non si è attenuata, anzi si è diffusa ancor di più; la precarieta del lavoro non è diminuita, anzi sta diventando la normalità per le giovani generazioni; gli infortuni sul lavoro e i morti sul lavoro sono una costante e ogni anno dimostrano che i capitalisti non hanno alcuna intenzione di rinunciare ai loro profitti, delegando allo Stato la gestione di tutto ciò che “non funziona”, al parlamento l’emanazione di leggi che, a parole, affrontino le disparità, le sofferenze, i disagi e alla chiesa il conforto delle masse povere e impoverite affinché spengano la rabbia che queste condizioni provocano e si rimettano alla clemenza di un dio che tutto sa e che tutto vede... ma non fa assolutamete niente...

Oggi la borghesia dominante, sulla scorta degli anni di crisi profonde che hanno portato alla guerra mondiale, si sta dando nuovamente il compito di prepararsi ad uno scontro interimperialista che da commerciale e finanziario diventerà militare e per il quale avrà bisogno di un proletariato che risponda alle esigenze e ai sacrifici, ben più pesanti, di una guerra guerreggiata. Avrà bisogno di un proletariato che condivida le ragioni della sua guerra, di un proletariato che si faccia irreggimentare e inviare sui fronti di guerra certo di lasciare sul campo milioni di morti. Quando i proletari di alcune fabbriche, durante gli scioperi in piena pandemia lo scorso anno, hanno gridato: Non siamo carne da macello!, avevano visto giusto non solo per quel che succedeva in quel frangente in cui venivano obbligati ad andare al lavoro senza protezioni e senza alcuna misura di sicurezza sanitaria, ma anche per il futuro perché in fondo sanno che prima o poi saranno triturati negli ingranaggi di una guerra che non vogliono, ma per la quale tutte le forze di conservazione di questa società stanno lavorando da tempo.

La crisi sanitaria dovuta alla pandemia di Sars-CoV-2 è stata ed è un terreno sul quale la borghesia nazionale (in Italia come in ogni altro paese) ha iniziato ad esprimere la sua capacità, la sua preparazione, e i suoi limiti, ad affrontare contrasti interimperialisti ben più drammatici, come quelli che sboccheranno nella terza guerra mondiale. Ebbene, è la stessa borghesia che amplia l’orizzonte nel quale il proletariato è e sarà sempre più obbligato a lottare: l’orizzonte più generale, l’orizzonte politico, nel quale la lotta economica di difesa immediata si combina sempre più con la lotta politica contro lo Stato, contro le forze di conservazione sociale, contro ovviamente i padroni ma anche contro tutte le forze del collaborazionismo interclassista che, nella realtà quotidiana, sono costantemente presenti a fianco dei proletari, nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole, negli ospedali, nei trasporti, ovunque.

I proletari dovranno guardare con coraggio la realtà della loro situazione non tanto individuale, quanto sociale, di classe. La borghesia ha timore non dei proletari singoli, e nemmeno dei proletari intruppati nelle organizzazioni sindacali e politiche del collaborazionismo interclassista, ma dei proletari che esprimono forza sociale in quanto classe a sé stante, indipendente, orgogliosa di rappresentare un futuro che va oltre la società capitalista, la società che usa e spreca la forza lavoro al solo scopo di accumulare ricchezza in mani private, la società che per rimanere ancora in piedi deve distruggere continuamente mezzi di produzione, prodotti e forza lavoro umana.

Non sarà certo la pandemia di Covid-19 a mettere in ginocchio per davvero il potere borghese, e non saranno nemmeno le guerre di rapina che la borghesia continua a scatenare in tutti i continenti a mettere in difficoltà il capitalismo come modo di produzione e come potere economico e politico. Da questi eventi la borghesia, come classe generale, se non vengono utilizzati dal proletariato rivoluzionario, trae un rafforzamento del proprio potere. L’unica forza che metterà con le spalle al muro la classe dominante borghese è il proletariato organizzato nei suoi organismi economici di classe e guidato dal suo partito di classe, in grado quindi di esprimere realmente una forza rivoluzionaria che si batte sul terreno su cui la stessa borghesia conduce la sua “guerra di classe”: il terreno dello scontro fra le classi in cui l’obiettivo centrale è il potere politico, non l’azienda da gestire come operai, non il pezzo di terra da coltivare in proprio, tanto meno il parlamento che non è altro che un mulino di parole. E’ già avvenuto in passato, tornerà a riproporsi nel momento in cui il proletariato si riconoscerà come classe rivoluzionaria, come l’unica classe che può cambiare il mondo cominciando la sua rivoluzione anche in un solo paese, anche il meno avanzato capitalisticamente come successe nel 1917 in Russia. Come affermava Marx nel 1848, ripetiamolo, anche il terreno contro-rivoluzionario è terreno rivoluzionario, perché la borghesia non può fare a meno dello sfruttamento del proletariato e perché il proletariato, oltre un certo limite, non intende più subire quello sfruttamento.  

 


 

* Nel titolo abbiamo ripreso una perfetta descrizione che fece Amadeo Bordiga nel 1920, in occasione della caduta del governo Nitti, delle manovre dei partiti presenti nel Parlamento volte a mantenere in qualche modo alta “la maschera della dittatura borghese”, mirando a criticare un’ulteriore “tappa degenerativa del massimalismo parlamentare”, in un periodo in cui era all’ordine del giorno la lotta rivoluzionaria del proletariato per “seppellire la carogna della democrazia parlamentare”, un periodo che prima o poi tornerà. (Vedi La commedia parlamentare, A.B. Il Soviet, n. 14, 16 maggio 1920).

 

(1) Cfr. La “mancata rivoluzione borghese” in Italia, Prometeo, n. 1, luglio 1946.

(2) Cfr. Tesi della Frazione Comunista Astensionista del PSI, maggio 1920, “In difesa della continuità del programma comunista”, edizioni il programma comunista, Milano, giugno 1970.

(3) Cfr. Marx-Engels, Il Manifesto del partito comunista, ed. G. Einaudi, Torino 1962, pp. 111-112.

 

 

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