La guerra in Afghanistan, esempio del disordine mondiale generato dallo sviluppo caotico e contraddittorio del capitalismo nella sua fase imperialista

(«il comunista»; N° 169 ; Giugno / Agosto 2021)

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Sono passati vent’anni dall’11 settembre 2001, data dell’attacco alle Torri Gemelle di New York da parte di Al-Qaeda. Neanche un mese dopo, il 7 ottobre, fallite le trattative tra Washington e il governo talebano di Kabul perché gli venisse consegnato bin Laden, capo di Al-Qaeda, che si nascondeva in Afghanistan nella regione nord-orientale ai confini col Pakistan, iniziarono i bombardamenti americani e britannici a Kabul, a Qandahar – sede del leader talebano Mullah Omar – e a Jalalabad dove erano concentrati i campi di addestramento talebani. Iniziava la guerra degli Usa e della Nato contro un paese governato dai talebani accusato di proteggere il movimento jihādista più pericoloso al mondo, Al-Qaeda, protagonista di molteplici attacchi terroristici contro obiettivi americani (in Africa, nello Yemen, negli stessi Usa).

In verità, per l’imperialismo americano l’Afghanistan rappresentava un obiettivo strategico in Asia sia per frapporsi tra la Russia e la Cina, togliendo questo paese anche dall’influenza dell’Iran, sia per controllare il commercio dell’oppio e per mettere le mani sulle terre rare di cui l’Afghanistan è ricco. All’imperialismo americano e ai suoi alleati serviva un motivo per scatenare una guerra che stava preparando da tempo. E quale migliore pretesto se non quello di combattere il “terrorismo jihādista”, annientando Al-Qaeda, uccidendo bin Laden, rovesciando il governo talebano guidato dal Mullah Omar, sostenendo i ribelli afghani dell’Alleanza del Nord e imponendo un governo gradito a Washington, a Londra e a tutto l’Occidente? D’altra parte, il “terrorismo internazionale” rappresentato da varie organizzazioni e “Stati canaglia” (come venivano definiti gli Stati che non subivano la diretta influenza degli imperialisti occidentali, come l’Iran degli ayatollah, l’Iraq di Saddam Hussein, la Libia di Gheddafi, l’Afghanistan dei talebani) era diventato il leitmotiv di tutte le guerre condotte dagli imperialismi dagli anni Novanta del secolo scorso in poi. Organizzazioni e Stati che, in tempi diversi, a seconda delle convenienze contingenti, erano però stati sostenuti, finanziati, utilizzati da alcuni Stati imperialisti in contrasto con altri paesi imperialisti concorrenti, come è stato evidente per decenni nel caso Stati Uniti e Russia, o nel caso di scontri tra potenze regionali, ad esempio Arabia Saudita e Iran, o Israele e un buon numero di Stati arabi. Lo stesso sceicco saudita bin Laden era stato sostenuto dall’imperialismo americano, attraverso la Cia, nella guerra talebana contro l’invasore russo tra il 1979 e il 1989.

Osama bin Laden, in un video del 2001 pre-registrato e trasmesso dal canale tv in lingua araba del Qatar, Al Jazeera, sostenne che gli Stati Uniti in Afghanistan avrebbero fallito e poi sarebbero crollati, come era successo all’Unione Sovietica. L’esempio aveva senso, visto che l’Urss, nella sua guerra in Afghanistan dal 1979 al 1989, a sostegno di un governo ad essa sottomesso, non ebbe successo contro la guerriglia talebana e dovette alla fine ritirarsi dall’Afghanistan con la coda tra le gambe. La guerra dell’Urss in Afghanistan è stata la sua ultima azione internazionale di grande rilevanza prima che il regime capitalista fino al midollo crollasse nel 1991, dando inizio a una nuova fase di un “ordine mondiale” che, in realtà, non si definì mai in termini stabili e che costituisce ancor oggi più una fase di anteguerra mondiale piuttosto che di sistemazione mondiale. Ma questa è un’altra storia, che rimandiamo ad altra trattazione.

Come si sa, Osama bin Laden, dopo essere sfuggito per anni a molteplici tentativi di assassinarlo, fu ucciso, il 2 maggio 2011, vicino a Islamabad, capitale federale del Pakistan, durante un assalto delle forze speciali americane nel compound dove si nascondeva con i suoi familiari e altri capi di Al-Qaeda. Erano passati quasi 10 anni dall’attacco alle Torri Gemelle di New York e, con la morte di bin Laden, Washington dichiarò che la fase più acuta della “guerra al terrorismo” era terminata... E’ sotto gli occhi di tutti che queste parole sono state smentite clamorosamente dalla realtà; prima la guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein, poi contro la Libia di Gheddafi, poi contro la Siria di Assad e la continuazione della guerra in Afghanistan dimostravano, da un lato, che l’imperialismo ormai non vive se non continuando la propria politica con altri mezzi, cioè i mezzi militari, e, dall’altro, che i contrasti fra le potenze imperialiste – oggi soprattutto tra Usa, Russia e Cina, alle quali si affiancano Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Canada, Spagna, Turchia, Arabia Saudita, India, Iran, Pakistan, Egitto, Israele, solo per citare quelle che, a livello internazionale e locale rappresentano reti di interessi in forte contrasto fra di loro a difesa dei quali si muovono militarmente – sono contrasti destinati ad acutizzarsi, non ad affievolirsi.

A ferragosto, dopo una rapida riconquista delle province occidentali e meridionali, i talebani sono entrati a Kabul; l’avanzata del talebani si è realizzata in corrispondenza del ritiro delle truppe americane e della Nato iniziato a maggio di quest’anno, e arrivare a Kabul è stato un gioco da ragazzi: l’esercito e la polizia afghana – sulla carta forti di 138.000 unità il primo e di 120.000 unità la seconda – comandati dal governo pro-americano di Ashraf Ghani, per la maggior parte marci e corrotti e, in parte non irrilevante, pro-talebani, non hanno praticamente opposto resistenza. Mazar-i-Sharif, l’ultima grande città del nord, si è arresa il giorno prima della caduta di Kabul. Secondo una valutazione dell’intelligence americana, riportata dal Washington Post, i talebani avrebbero Kabul in un mese e conquistarla in tre mesi. Alla prova dei fatti sono bastati solo tre giorni (1).

A maggio di quest’anno erano presenti in Afghanistan oltre 7.000 soldati della coalizione occidentale che, secondo le dichiarazioni di Biden, avrebbero lasciato l’Afghanistan, tra maggio e settembre, organizzando una ritirata coordinata con le forze militari del governo Ghani. S’è visto come questo governo si sia sciolto come neve al sole e la sicurezza mostrata da Washington nel programmare una ritirata già decisa dal governo Trump (sostenuta dal Pentagono e concordata nel febbraio 2020 con i talebani, India, Cina e Pakistan) si sia scontrata con una realtà del tutto sottovalutata a causa di una cecità politica che Washington aveva già mostrato in tutte le guerre sostenute contro i paesi arabi (Iraq, Libia, Siria sono lì a dimostrarlo). Come dire che la potenza dei muscoli, talvolta, annebbia l’intelligenza del cervello...

Alla ritirata scomposta e frettolosa delle forze militari americane, inglesi, francesi, italiane, spagnole, canadesi ecc. da Kabul, documentata da tutti i telegiornali del mondo, si è aggiunto – prevedibilissimo – l’attentato terroristico dell’Isis tra la folla assiepata ai bordi dell’aeroporto di Kabul – con quasi 200 morti, di cui 13 soldati americani, e centinaia di feriti (ma sembra che la reazione dei soldati americani che hanno sparato contro i presunti attentatori abbia contribuito a uccidere i civili). Alla ritirata militare si aggiunge così la vergognosa impreparazione in termini di sicurezza della ritirata dall’aeroporto di Kabul non solo dei militari, ma delle migliaia di afghani che inevitabilmente si sarebbero diretti all’aeroporto per scappare dal regime talebano. E dire che i vent’anni di guerra condotta dagli imperialisti occidentali in Afghanistan avrebbero dovuto, secondo le grandi proclamazioni dei caporioni di tutte le cancellerie, portare non solo la fine del terrorismo jihadista, ma anche impiantare la mitica democrazia!

Il vaticinio di bin Laden sulla sconfitta degli Usa in Afghanistan, e sul loro successivo crollo, ha trovato in parte conferma solo nella sua ritirata dal suolo afghano. Può crollare il governo della Casa bianca a causa di questa sconfitta politica in Afghanistan? Certamente no. Sicuramente la presidenza Biden, alla sua prima sfida rilevante a livello internazionale, ha ricevuto un colpo molto forte e non è escluso che gli effetti negativi di questo colpo si facciano sentire nel prossimo futuro fino a metterlo in grandissima difficoltà di cui, naturalmente, Trump non vede l’ora per approfittare. Già altri presidenti sono stati segnati da sconfitte cocenti – basti pensare al Vietnam, o alla guerra “per procura” di 8 anni tra Iraq e Iran (tra il 1980 e il 1988) – ma questi “incidenti di percorso” non hanno provocato il presunto indebolimento dell’imperialismo americano. I presidenti passano, la straordinaria forza del capitalismo americano resta. E contro questo imperialismo soltanto un gigante sociale come il proletariato mondiale potrà combattere per vincerlo, quando si riorganizzerà sul terreno della lotta di classe e sarà guidato dal suo partito di classe internazionale.

L’imperialismo statunitense, anche se non ha più la forza di essere l’unico gendarme mondiale a difesa del capitalismo internazionale, non farà a nessuno il piacere di togliersi di mezzo a causa di una serie di sconfitte come quella – d’altra parte perfettamente annunciata – in Afghanistan. Continuerà ad agire in difesa del capitalismo mondiale, insieme e contro altri imperialismi, in guerre locali e in un’ulteriore guerra mondiale (perché è verso questa che si sta inesorabilmente procedendo), dato che la stessa struttura economica del capitalismo sviluppa crisi economiche e politiche sempre più acute e profonde, crisi  per le quali le classi borghesi che dominano in tutti i paesi non saranno mai in grado di trovare soluzioni se non preparandone altre più generali e più violente – come affermato fin dal 1848 dal Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels.   

 

Che cosa succederà d’ora in poi in Afghanistan?

Oltre 775 mila soldati statunitensi hanno combattuto in Afghanistan dal 2001. Di questi, 2.448 sono stati uccisi, insieme a quasi 4 mila contractors (mercenari) statunitensi, e 20.589 sono stati feriti in azione. Secondo l’Associated Press, al 2021 sono 47.245 i civili morti a causa dell’occupazione, ma gli attivisti per i diritti civili danno un totale più alto, cioè 100 mila afghani morti, in gran parte non combattenti, e 300 mila feriti (2). Invece il Cost of War Project della Brown University ha stimato le persone morte a causa della guerra in Afghanistan in 241 mila; tra esse oltre 2.400 membri delle forze armate Usa e almeno 71 mila civili oltre a 78 mila militari e poliziotti afghani e 84 mila combattenti dei gruppi insorgenti (cifre che non includono le morti causate da malattie, perdita di accesso al cibo, all’acqua, alle infrastrutture e ad altre conseguenze indirette della guerra) (3).

Ebbene, quanto è costata questa guerra?

Secondo il progetto “Cost of War” (4), in vent’anni gli Usa hanno speso complessivamente 2.261 miliardi di dollari, ai quali vanno aggiunti 443 miliardi di dollari per l’aumento del bilancio del Pentagono in sostegno della guerra, 296 miliardi per la cura dei veterani, 59 miliardi in fondi messi a disposizione dal dipartitmento di Stato e 530 miliardi di copertura degli interessi sui prestiti necessari a finanziare i 20 anni di presenza in Afghanistan. Insomma, per gli Usa si è trattato di una delle guerre più costose della storia: 3.589 miliardi di dollari. Ma anche per l’Italia i costi sono stati enormi: 8,7 miliardi di euro il costo definitivo della presenza militare italiana in Afghanistan (compresi 840 milioni di contributi diretti alle Forze armate afghane) (5). Nel 2001 i soldati italiani che facevano parte della coalizione nella guerra in Afghanistan (ISAF) erano 350, per poi aumentare progressivamente negli anni fino a raggiungere, nel 2011, i 4.250, riducendosi poi a 1.000 nel 2021 (6). Si è trattato anche per l’imperialismo italiano del conflitto più lungo a cui ha partecipato, e della guerra più costosa. D’altra parte, le ambizioni imperialiste italiane sono sempre state alte, sebbene in posizione subalterna agli Usa, e non potevano essere sostenute se non con una spesa militare molto forte. Nel 2021, infatti, la spesa militare italiana è pari a 24,97 miliardi di euro, con una crescita dell’8% rispetto al 2020, e addirittura del 15,7% rispetto al 2019 (7). A che serve spendere tanti miliardi di euro e di dollari in guerre che, di fatto, non cambiano l’ordine mondiale se non superficialmente e certamente non diffondono democrazia e diritti civili, come pretendono i governi occidentali? Serve ad ogni potenza imperialista per confermare la propria presenza nel quadro internazionale, all’industria degli armamenti e alle industrie collegate che risultano essere sistematicamente un punto forte della crescita economica di ogni paese, a testare nuove armi, nuove tecniche militari, nuove strategie e a mettere in pratica le innovazioni tecnologiche che nel corso degli anni si susseguono l’una all’altra e a “fare esperienza”, come affermano da sempre generali e politici borghesi. Serve ad ogni potenza imperialista per prepararsi alla guerra successiva alla quale, per ragioni politiche, economiche e militari, inevitabilmente parteciperà.

Che faranno una volta rientrati, i soldati che hanno partecipato alla guerra in Afghanistan? Verranno dispiegati su altre destinazioni... tranne quelli seriamente ammalati che, come successo durante la guerra in Kosovo nel 1999, furono contaminati dall’uranio impoverito utilizzato nelle bombe “democratiche” in quella guerra. Su sollecitazione di Washington, l’Italia dislocherà una parte dei suoi soldati e mezzi militari in Iraq dove è già presente da quasi vent’anni nella cosiddetta Nato Mission Iraq; ad oggi è presente con 1.100 militari, 270 mezzi terrestri e 12 aerei, schierati tra la base di Erbil (Kurdistan iracheno) e quella di Baghdad, ma la sua presenza verrà incrementata in modo consistente anche perché è stata designata a comandare la missione militare. Nel frattempo le truppe statunitensi, che nell’agosto 2020 contavano su 8 mila unità, verranno ridimensionate a 2.500 e impegnate soprattutto a raccogliere informazioni nel paese (8). Ma intanto si accumulano esperienze da applicare alle missioni militari esistenti (l’Italia ha un’importante presenza militare anche in Libano e nel Kosovo) e per le prossime guerre...

 

I talebani, che la nutritissima coalizione occidentale capeggiata dagli Usa non è riuscita a piegare, riuniscono i vari capitribù sotto una maggioranza di etnia pashtun, sostenuta dal Pakistan e dall’Iran, e  tenteranno, come in precedenza dopo la ritirata dei russi, di governare le province orientali e meridionali dove sono già radicati, e cercheranno di sconfiggere la resistenza degli afghani di entia tagika/utzbeka che formano l’Alleanza del Nord su cui, ovviamente, gli americani e i loro alleati, continueranno a contare. Inevitabilmente, come in tutta la storia dell’Afghanistan, le tribù che si sono unite contro un nemico comune, una volta terminata la guerra, inizieranno a scontrarsi fra di loro non solo per accaparrarsi i profitti provenienti dal commercio dell’oppio (di cui l’Afghanistan è il primo produttore al mondo), ma anche per trarre profitti dalle concessioni minerarie che inevitabilmente saranno costretti a negoziare con le potenze che hanno da tempo mostrato fortissimi interessi per le terre rare che abbondano nel paese, ma di cui l’inesistente struttura industriale dell’economia afghana e la mancanza di un’infrastruttura adeguata rendono impossibe lo sfruttamento da parte talebana. E qui entrano in scena Cina, India, Russia, Turchia che per vent’anni sono state alla finestra a osservare come procedeva la guerra americano-europea in Afghanistan, in attesa di approfittare di una sconfitta che già diversi anni fa era prevedibile.

Sul terreno, la guerra in Afghanistan lascia una crisi economica che aggrava ulteriormente le condizioni di vita delle masse contadine e proletarie afghane, rendendole ancor più soggette ai potentati locali rappresentati soprattutto da borghesi usurai, speculatori, proprietari terrieri, trafficanti d’oppio e di profughi, capi religiosi e ricchi privilegiati che, di volta in volta si dispongono ad allearsi con la potenza imperialista che più conviene, o a far la guerra contro l’invasore straniero o “nazionale” per impossessarsi di un territorio che non è mai diventato una nazione nel senso borghese del termine.

L’Afghanistan è un paese da sempre multietnico che, nelle stime del 2018, contava più di 31 milioni di abitanti, anche se recentemente altre statistiche parlano addirittura di 40 milioni di abitanti; in ogni caso è suddiviso in diversi gruppi etnici: tra il 40 e il 42% pashtun (concentrati soprattutto nelle province del sud, sud-est e sud-ovest, ma con diverse enclavi nel nord e nel nord-ovest), intorno al 27% tagiki (prevalentemente concentrati nel nord e nell’ovest), 9% circa hazari (di confessione sciita, concentrati nelle province centrali del paese), 9% circa utzbeki (di confessione sunnita, concentrati nel nord, a ridosso del confine con il Turkmenistan; è la principale etnia di area culturale turca, come la minoranza turcomanna) e poi beluci e altri; di religione musulmana, per l’85% sunniti e il 14% sciiti. E, come succede in tutti i paesi, soprattutto quelli arretrati capitalisticamente, le etnie in quanto tali non assicurano un’unità “nazionale”, ma a loro volta si suddividono in ulteriori gruppi che si distinguono dal punto di vista sia linguistico che culturale e, soprattutto, per tradizioni economico-comunitarie locali conservate nel tempo grazie a una morfologia del territorio fatta di alte montagne e di valli che separano fisicamente i gruppi umani stabilitisi nelle varie province.

L’Afghanistan rappresenta in ogni caso una posizione strategica nell’Asia centrale, e la sua conquista, da secoli, era già obiettivo delle potenze coloniali, come la Russia, la Persia, l’India e, soprattutto, l’Inghilterra che già si era impossessata della grande India a metà dell’Ottocento (all’epoca l’India comprendeva anche i territori degli attuali Pakistan, Bangladesh e Birmania). Sono noti i contrasti storici tra Russia e Inghilterra proprio in merito all’Afghanistan, ma è noto anche il fatto che gli afghani, popolo guerriero che ha sempre combattuto gli invasori stranieri, non sono mai stati domati da alcuna potenza coloniale. L’invasione russa del 1979 intendeva stabilizzare il governo afghano pro-Mosca che si era formato, ma dopo dieci anni Mosca dovette mollare l’osso, come dovettero fare gli inglesi dopo ben tre guerre anglo-afghane tra la metà dell’800 e il 1919; e così è successo ora agli Stati Uniti e alla grande coalizione occidentale costruita per piegare i talebani. Dal 1920 in avanti l’Afghanistan ha conosciuto fasi di una certa stabilità politica, cambi di regime e colpi di Stato. Nel 1973 si arrivò alla repubblica dell’Afghanistan, ma nel 1978 il PDPA (Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan, legatissimo a Mosca) attuò un sanguinoso colpo di Stato grazie al quale l’Afghanistan diventò un paese amico dell’Urss, mantenendo però una certa indipendenza. In verità, per farsi sostenere dalla popolazione contadina che è sempre stata la stragrande maggioranza del paese, il PDPA ridistribuì le terre a 200 mila famiglie contadine, abrogò l’usura e la decima dovuta dai braccianti ai latifondisti, calmierò i prezzi dei beni primari, legalizzò i sindacati e rese statali i servizi sociali. Inoltre vietò i matrimoni forzati e il burqa, mise al bando i tribunali tribali, avviò una campagna di alfabetizzazione e di scolarizzazione di massa, costruì scuole e cliniche mediche nelle zone rurali. E tutto ciò fu esaltato dai trotskisti dell’epoca che videro in queste riforme la “costruzione del socialismo” anche in Afghanistan, giustificando l’invasione sovietica del 1979 perché, a loro dire, difendeva il socialismo afghano... non solo contro gli Stati Uniti, ma anche contro le gerarchie religiose islamiche che, vistesi tagliate le decime e abrogata l’usura, di cui erano beneficiarie, passarono all’opposizione armata, fomentando la jiād (guerra santa) dei mujaheddin (combattenti della guerra santa) “contro il regime dei comunisti atei senza Dio”.

Che in Afghanistan non si trattasse di “costruzione del socialismo” per noi era assodato, e ciò valeva sia per la Russia che per qualsiasi altro paese del cosiddetto “campo socialista”; si trattava di riforme che un governo borghese nazionalista doveva prima o poi attuare se voleva “modernizzare” il paese e metterlo nelle condizioni di farsi penetrare dal capitalismo più sviluppato che chiedeva l’eliminazione di tutta quella serie di vincoli feudali e di legami tribali che non permettevano la più ampia circolazione dei capitali e, quindi, di accumulare i sovraprofitti che potevano essere generati proprio dal supersfruttamento dei contadini e dei proletari afghani; tanto più che, attraverso l’Urss, iniziò una modernizzazione delle infrastrutture economiche legate in particolare alle miniere di minerali rari e ai giacimenti di gas naturale, cosa che ingolosì anche gli Usa che iniziarono proprio nel 1979 a fornire i mujaheddin di armi e di aiuti economici, passando attraverso il Pakistan e il commercio clandestino dell’oppio afghano (alla faccia della lotta contro la produzione e la diffusione della droga). Dalla presidenza Reagan in poi gli Stati Uniti misero l’Afghanistan al centro dei loro obiettivi politici e militari in Asia, sebbene portati avanti dai mujaheddin (elevati per l’occasione a “combattenti per la libertà”) che ricevevano, al contempo, anche aiuti finanziari e organizzativi da parte di Osama bin Laden, che nel frattempo aveva organizzato il movimento Al-Qaeda sia per la lotta di resistenza antirussa sia come movimento fondamentalista islamico dal respiro mondiale. Con l’andare del tempo, come è successo e succede in tutti i paesi dove gli imperialisti intervengono militarmente, le alleanze si disfano per ricomporsi in altro modo e così gli amici di ieri diventano i nemici di oggi, e viceversa.

Dalla sconfitta della Russia in avanti, l’Afghanistan ha conosciuto capovolgimenti continui di regime, fino ad arrivare al Movimento degli studenti islamici (i talebani) sotto la guida del mullah pashtun Mohammed Omar a cui gli Usa affidarono il tentativo di conquistare il controllo del paese per sottrarlo così ad ogni anche minima influenza residua russa. Nel 1998 i talebani, organizzati in un vero e proprio esercito grazie al Pakistan, armati dagli Stati Uniti e finanziati dall’Arabia Saudita, e dopo aver preso Kabul nel settembre 1996, giunsero a controllare il 90% del paese, salvo la famosa valle del Panshir dove si erano concentrati – e lo sono tuttora – gli antitalebani di etnia tagika, guidati da Massoud che formerà l’Alleanza del Nord. Ma i talebani sono fondamentalisti islamici quanto Al-Qaeda e consentirono a bin Laden di installare nel loro territorio la base per la sua rete terroristica. E questo sarà il nodo che gli Usa vorranno sciogliere dopo l’attacco alle Torri Gemelle di New York, organizzato e attuato da Al-Qaeda, nel settembre 2001. A vent’anni da quella data, gli Usa quel nodo non sono riusciti a scioglierlo, aldilà di aver fatto fuori bin Laden, e i piccoli talebani possono cantare vittoria per aver “sconfitto”, alla fine, anche il gigante Usa.

Il 31 agosto è stata la data concordata fra i talebani e gli Usa per il ritiro dall’Afghanistan di tutte le forze armate della coalizione occidentale, ed è ciò che sta avvenendo: i talebani hanno dettato, nei fatti, le condizioni per la “fine della guerra americana”. Ora, si possono dedicare ai contrasti interni, non solo contro gli afghani di etnia tagika di Massoud, ma anche al loro interno perché inevitabilmente riemergeranno rivalità e contrasti nella gestione del potere politico ed economico.

 

Gli strascichi della guerra americana dei vent’anni saranno sul piano politico e militare una rinnovata lotta fra i diversi clan che vogliono dominare sull’Afghanistan, con una guerra interborghese che, tendenzialmente, non finirà mai anche se ci sarà qualche periodo in cui una sorta di tregua tra le varie fazioni farà sperare i benpensanti europei e americani in una pace duratura, sostenuta dagli aiuti “umanitari” ai profughi, dagli investimenti di capitali e dalla minaccia costante di intervento militare – vero e proprio terrorismo di Stato da parte dei paesi imperialisti – contro i “terroristi fondamentalisti islamici” (Isis o qualsiasi altro movimento) presenti nel paese.

La massa dei contadini, che rappresenta la base reale della popolazione attiva afghana, costretta per sopravvivere a dividersi tra la coltivazione di papaveri da oppio, della canapa e la coltivazione dei prodotti agricoli di base per la sussitenza, sarà ancora più sfruttata e piegata ai soprusi dei ceti borghesi che da questo sfruttamento continueranno a ricavare potere e ricchezza; la massa proletaria e sottoproletaria che vive nelle città e nei villaggi minerari non avrà altro futuro se non quello di sopravvivere ai margini dell’agricoltura e del commercio visto che una buona parte delle fabbriche è stata distrutta dalla guerra.

E’ evidente che dalla situazione in cui sono precipitati il proletariato e il contadiname povero afghano, ancora fortemente influenzati e organizzati dai clan tribali e dai mullah islamici, non c’è da aspettarsi, perlomeno in tempi brevi, un’insurrezione rivoluzionaria, fosse anche soltanto di tipo borghese nazionalista. La pressione imperialista esercitata anche in un paese come l’Afghanistan, complica enormemente il compito anche agli stessi borghesi nazionalisti afghani, figuriamoci ai proletari che soffrono, come la grande maggioranza dei contadini, di povertà e analfabetismo.

Ciò non toglie che la prospettiva generale del comunismo rivoluzionario, ribadita con forza da Lenin nelle tesi sull’autodecisione dei popoli – dunque sulla prioritaria lotta proletaria contro ogni oppressione nazionale –, abbia ancora una sua validità nonostante lo sviluppo dell’imperialismo molto più ampio di quanto non fosse nel decennio della prima guerra mondiale e del primo dopoguerra. Potremmo dire, prendendo a prestito la posizione di Marx ed Engels nei confronti della Russia zarista, campione indiscusso della reazione mondiale dell’epoca: ben venga qualsiasi colpo alla reazione rappresentata oggi dal supercampione dell’imperialismo mondiale, gli Stati Uniti d’America. E il compito primo della lotta contro l’imperialismo americano è del proletariato statunitense: i proletari, prima di tutto, devono combattere contro la borghesia di casa propria, tanto più se opprime altre nazioni, altri popoli. E lo stesso atteggiamento deve valere per i proletari d’Europa, visto che le borghesie imperialiste europee, ormai dalla seconda guerra mondiale in poi, condividono strettamente il potere imperialista nel mondo, pur contrastandosi senza tregua politicamente, economicamente e militarmente. E che dire dei proletari russi, che per più di 60 anni sono stati ingannati da un falso socialismo finché con il crollo dell’Urss nel 1990 si sono ritrovati a fare i conti con un dominio borghese e capitalistico che si svelava in tutta la sua crudezza; o dei proletari cinesi che ancor oggi vengono ingannati e oppressi da un partito “comunista” che altro non è se non la mano politica di un capitalismo particolarmente aggressivo che sta prendendo il posto che aveva la Russia di Stalin dopo la seconda guerra mondiale nella funzione di gendarme del capitalismo internazionale?

La sorte del proletariato afghano, come quella dei proletari di tutti i paesi in cui le potenze imperialiste hanno portato guerra, distruzione e miseria, è legata a filo doppio alla ripresa della lotta di classe nei paesi capitalistici avanzati. Può apparire un’utopia, ma la ripresa della lotta di classe non dipende da un ideale che viaggia da una mente a un’altra, né dalla volontà di un partito o di un movimento politico che si forma dal basso; sarà il risultato di una serie di fattori di crisi, economici, sociali e politici che colpiranno inevitabilmente i paesi capitalistici più avanzati, sconvolgendo ogni equilibrio, ogni pace, ogni potere borghese, terremotando dalla viscere più profonde l’apparente apatia di masse gigantesche che la stessa modernizzazione dell’economia capitalistica e delle sue relazioni internazionali metterà in movimento, propagando un incendio sociale che – non importa da dove scoppierà – si diffonderà inesorabilmente in tutto il mondo. In tutto questo svolgimento storico, non di mesi ma di anni, il partito di classe, per embrionale che sia – come noi lo siamo – dovrà svilupparsi e collegarsi strettamente al proletariato più cosciente e organizzato, cosa che potrà fare alla sola condizione di mantenere intransigentemente la rotta programmatica e politica che la Sinistra comunista d’Italia ha saputo restaurare dopo la tremenda sconfitta della rivoluzione d’Ottobre e della rivoluzione mondiale dovuta alla controrivoluzione borghese che, nello specifico, prese il nome di stalinana.

 

30 agosto 2021

   


 

(1) Cfr. https://www.wired.it/attualità/politica/2021/08/16/talebani-afghanistan-kabul-conquista?refresh_ce=

(2) Cfr. https://www.micromega.net/afghanistan-sconfitta-annunciata-tariq-ali/  

(3) Cfr. https://www.liex.org/2021/06/09/una-guerra-miliardaria-per.non-cambiare-nulla/

(4)  Ibidem.

(5) Cfr. https://milex.or/2021/08/13/8-miliardi-700-milioni-costo-definitivo-presenza-militare-afghanistan/

(6)  Ibidem.

(7) Cfr. https://milex.org/2021/05/20/facciamo-luce-sullinfluenza-dellindustria-militare/

(8) Cfr. https://www.affarinternazionali.it/2021/03/litalia-alla-guida-della-missione-nato-in-iraq/ , 26.3.2021.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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