Qualche lezione da tirare rispetto ai movimenti interclassisti anti-green pass e alla lotta che la classe proletaria deve mettere in campo

(«il comunista»; N° 170 ; Settembre / Novembre 2021)

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Discutendo con un nostro simpatizzante in merito alle manifestazioni di piazza contro l’obbligo vaccinale e il green pass, è emersa una critica al fatto che come partito non abbiamo appoggiato queste lotte, che egli stesso considera interclassiste, dato che – coinvolgendo anche dei proletari – potevano avere la possibilità di esprimere “elementi autenticamente classisti”; lotte che il partito un domani – “se ne avesse la forza” – dovrebbe cercare di influenzare a proprio favore.

La questione è senza dubbio importante perché queste manifestazioni – aldilà della facilità con cui possono essere infiltrate da gruppi di estrema destra come la manifestazione di Roma del 9 ottobre scorso, con l’assalto alla sede centrale della CGIL, ha dimostrato – esprimono un grande disagio sociale provocato dalla crisi economica aggravata dalla pandemia; disagio che ha colpito non solo ampi strati proletari, ma anche strati della piccola borghesia. I proletari, per tradizione, si sono abituati a manifestare e lottare sul terreno immediato, dentro e fuori dei luoghi di lavoro, in modo preventivamente organizzato nelle forme sindacali, ma di fronte ai colpi della crisi sociale si ritrovano ancora in gran parte bloccati a causa delle pratiche pluridecennali del collaborazionismo sindacale e politico; perciò difficilmente riescono ad esprimere la propria rabbia per le peggiorate condizioni di esistenza e di lavoro come singoli individui, come invece fanno i piccoloborghesi. I piccoli borghesi, infatti, essendo per condizioni sociali dei piccoli proprietari, si muovono per tradizione come singoli individui a difesa della proprietà privata e dei propri personali privilegi sociali. Essi, quando la crisi economica e sociale li colpisce mandandoli in rovina e proletarizzandoli, si mobilitano più velocemente degli operai anche se non sono particolarmente organizzati preventivamente perché si riconoscono accomunati dallo stesso interesse a non precipitare per sempre nelle condizioni proletarie. La vita dei proletari, in quanto forza lavoro salariata, dipende dal salario e il salario lo possono avere soltanto facendosi sfruttare dai capitalisti, dai padroni, da coloro che hanno in proprietà i mezzi di produzione e di distribuzione. La vita del piccolo borghese, proprietario di un esercizio commerciale, di un’attività artigianale o di un’attività di servizio, dipende dallo sfruttamento del lavoro salariato dei proletari che riesce ad impiegare; il suo “lavoro” non produce ricchezza sociale, come il lavoro salariato, ma solo ricchezza “personale”.  Pur soggetto anche alle più piccole oscillazioni del mercato, il piccolo borghese aspira sempre alla promozione sociale, a diventare medio o grande borghese, ad ingrandire la sua azienda come qualsiasi altro grande borghese, ad aumentare le sue proprietà, e combatte ogni giorno della sua vita per non anadre in rovina, per non cadere nella condizione dei proletari che lavorano sotto di lui.

Il fatto di occupare nella società capitalistica una posizione mediana fra la grande borghesia e il proletariato rende la piccola borghesia particolarmente sensibile ai cambiamenti sociali, soprattutto se questi cambiamenti vanno a toccare il suo piccolo mondo, la sua tranquilla ascesa sociale, la proprietà privata che le permette di assicurarsi una vita agiata sfruttando il lavoro altrui. Non è perciò un caso che la sua posizione sociale si sposi perfettamente con l’ideologia democratica, con i metodi e le pratiche della democrazia, poiché, grazie alle “libertà” e ai “diritti” che le leggi borghesi sanciscono in difesa della proprietà privata e della “libertà d’impresa”, la piccola borghesia si sente protetta e rassicurata. Ma quando queste “libertà”, questi “diritti” vengono sospesi o tolti, allora la piccola borghesia grida all’autoritarismo, alla “dittatura”, al dispotismo sociale e chiama alla lotta contro di essi anche il proletariato per aumentare la pressione sulla grande borghesia e sul governo perché le sue specifiche condizioni sociali vengano salvaguardate in modo da non precipitare nella rovina. La rivendicazione della “libertà” vale per la piccola borghesia come per la grande borghesia: la libertà di sfruttare il lavoro salariato per assicurarsi un guadagno, un profitto. La libertà d’impresa va a braccetto con la libertà di manifestare la propria rabbia perché la propria ditta rischia di andare in rovina; ma se le manifestazioni di questo disagio sociale continuano a bloccare strade e piazze per ore e nei giorni di maggior traffico commerciale, andando a rovinare gli affari dei negozianti delle strade e delle piazze dei centri storici delle città, allora entra in campo la fredda regola della concorrenza: gli affari dei centri storici devono essere protetti perciò ben venga il divieto di manifestare...

Con la pandemia, indiscutibilmente tutti i settori del piccolo commercio, del turismo, della ristorazione, del divertimento, dello sport, del tempo libero, del trasporto privato, ha subito una notevole batosta. Ed è sulla spinta di questi mancati guadagni che questi strati di piccoloborghesi si sono mobilitati, dando occasione ai partiti che li rappresentano elettoralmente di cavalcare il loro movimento per ottenere dal governo della grande borghesia aiuti in denaro e in facilitazioni burocratiche (sussidi, bonus, dilazione delle scadenze nei pagamenti delle tasse e dei mutui ecc.) che vadano a compensare le restrizioni e le limitazioni delle famose “libertà” decretate con il pretesto della pandemia di Covid-19. Il tutto, ovviamente, all’insegna della ripresa economica che il governo di “unità nazionale”, oggi targato Draghi, come ieri Monti o Ciampi, considera talmente vitale da giustificare ogni misura autoritaria che ha preso e che intende ancora prendere.

Ebbene, sono in ogni caso da diversi mesi che le manifestazioni contro il green pass costituiscono le notizie principali dei media; migliaia e migliaia di persone si mobilitano ogni sabato in tutte le grandi città, e questo muoversi continuo costituisce un’attrazione e una fascinazione anche tra gli operai, come ha dimostrato lo sciopero dei portuali di Trieste. Ma, proprio perchè si tratta di movimenti interclassisti, questi movimenti non favoriscono il movimento di classe del proletariato; in realtà gli impedisce di sorgere.

 

Tornando alla critica da cui abbiamo preso le mosse, sottolineiamo che il punto centrale è: può una lotta interclassista – perciò interamente influenzata, organizzata e diretta, dalla visione e dalle posizioni piccoloborghesi – esprimere elementi “autenticamente classisti”?

Il partito da sempre ha negato questa possibilità; ha opposto alle lotte interclassiste, cioè influenzate, organizzate e dirette dalla piccola borghesia, rivendicazioni, organizzazione e visione esclusivamente classiste. Lo ha fatto fin dai tempi della Sinistra comunista a partire dalla lotta contro il culturalismo e contro il riformismo, continuando nella stessa direzione contro le teorie disarmiste e neutraliste di fronte alla prima guerra mondiale e, successivamente, contro il fronte unico politico voluto dalla Terza Internazionale e nella lotta contro il fascismo, per poi riprendere il filo della continuità storica, teorica e politica del comunismo rivoluzionario, spezzato dallo stalinismo per imprigionare il proletariato nella lotta antifascista a favore del ripristino della democrazia borghese.

Non a caso il partito parlava della piccola borghesia come la “bestia nera” del proletariato. La sua vicinanza sociale con il proletariato mette la piccola borghesia nelle condizioni di influenzare – per conto della grande borghesia – le masse proletarie illudendole di poter migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro – nell’immediato e nel futuro – senza dover rivoluzionare da cima a fondo l’intera società capitalistica, ma attraverso la lotta democratica, la lotta che rivendica la democrazia tutte le volte che la grande borghesia la calpesta, la lotta per ripristinare la democrazia tutte le volte che la grande borghesia la cancella dal suo orizzonte politico per svelare il suo vero volto dittatoriale.

E’ da quando il marxismo si è imposto storicamente come l’unica teoria rivoluzionaria dell’era moderna, basata sulle contraddizioni congenite al capitalismo e alla sua società e sul movimento antagonista di classe del proletariato – “unica classe rivoluzionaria della società attuale” – che i comunisti hanno dovuto ingaggiare una lotta senza tregua, non solo contro l’ideologia dominante della classe dominante borghese e contro il suo dominio politico ed economico, ma anche contro tutte le teorie e le posizioni piccoloborghesi che, pur partendo dalla critica delle contraddizioni della società capitalistica, hanno sempre proposto “soluzioni” e “tattiche” democratiche, riformiste, collaborazioniste, perché sono quelle che la piccola borghesia ritiene, da un lato, favorevoli a conservare e migliorare la sua posizione sociale (all’ombra del grande capitale) e, dall’altro, utili, a proprio vantaggio, al coinvolgimento della forza sociale rappresentata dal proletariato (che è la forza sociale che storicamente ha dimostrato di avere obiettivi che vanno aldilà della società capitalistica e la volontà di perseguirli).

La piccola borghesia ha imparato anch’essa una lezione dalla storia delle lotte fra le classi: ha capito (attraverso il 1848, il 1871, il 1917, per citare le date storiche più significative) che può approfittare del movimento proletario che si oppone con la forza – ieri contro l’assolutismo monarchico, poi contro i governi della grande borghesia – per imporsi come classe dirigente, al posto della grande borghesia, e soddisfare le proprie ambizioni economiche, sociali e politiche, poggiando necessariamente sulle stesse basi economiche del capitalismo su cui la grande borghesia ha eretto il suo potere politico. Storicamente, prima della grande borghesia, cioè della borghesia che concentra grandi capitali e grande potere politico che da quella concentrazione deriva, è la piccola borghesia (dunque l’artigianato urbano, i mercanti, gli usurai, i banchieri) a rappresentare la trasformazione economica della società attraverso appunto il progresso economico (con gli opifici, gli arsenali, le prime manifatture ecc.); è da questo strato sociale che si forma la grande borghesia che, d’altra parte, accorpa in sé anche i grandi proprietari terrieri che provengono dalla nobiltà ormai in decadenza. Lo stesso sviluppo capitalistico, del tutto ineguale, e per nulla pacifico e graduale (soprattutto in seguito alla scoperta dell’America e alle scoperte scientifiche e tecniche) divide i borghesi in una grande borghesia che detiene i grandi capitali concentrati, la media  e la piccola borghesia. Ma, essendo una mezza classe, cioè una classe sociale che oscilla costantemente, per la sua posizione economica e sociale nella società capitalistica, tra la grande borghesia e il proletariato – le due classi decisive della società moderna – la piccola borghesia (che accorpa le mezze classi benestanti urbane e rurali) con i piedi è radicata nel modo di produzione capitalistico, ma con la testa sta nel mondo delle illusioni riformiste per le quali è anche disposta, in determinate situazioni, ad imbracciare le armi pur di difendere la sua posizione mediana tra le classi.

L’interclassismo non caratterizza la grande borghesia, che nella realtà già domina sulla società, ma la piccola borghesia che si illude di poter dominare sulla società o di poter condividere il potere con la grande borghesia grazie all’appoggio delle masse proletarie alle sue ambizioni.

Entrambe vivono esclusivamente sullo sfruttamento del lavoro salariato; entrambe hanno interesse a conservare il modo di produzione capitalistico che consente loro di vivere e prosperare sulle spalle delle masse proletarie; entrambe temono che le masse proletarie si riconoscano come forza sociale e politica del tutto indipendente da loro; entrambe, sulla scorta della storia della lotta fra le classi e delle rivoluzioni, hanno imparato a temere che il proletariato si costituisca in classe indipendente – dunque in partito di classe, dunque in movimento di classe e rivoluzionario che non può che essere marxista – e perciò hanno imparato a deviare la spinta di lotta delle masse proletarie (usando tutti i mezzi a disposizione grazie al potere dominante borghese, quindi la scuola, la chiesa, l’associazionismo, il sindacalismo, il parlamentarismo ecc.) dal terreno di classe, su cui oggettivamente le masse proletarie sono spinte a lottare, al terreno interclassista, quindi su un terreno nel quale la vittoria borghese è assicurata perché il proletariato viene indirizzato a rinunciare alla lotta classista e ad abbracciare la causa della conservazione sociale.

 

I compiti del partito di classe

 

Il partito di classe proletario, per il quale lavoriamo e che noi vogliamo essere sebbene oggi in embrione, ha il dovere di lottare contro ogni rivendicazione, ogni esigenza, ogni obiettivo economico, sociale, politico di segno non solo borghese in senso stretto, ma anche interclassista. Dopo il disastro storico sintetizzato nella vittoria dello stalinismo e ribadito per decenni, attraverso la seconda guerra imperialista e il secondo dopoguerra e tutto il periodo che giunge fino a noi, proprio attraverso l’espressione massima dell’interclassismo – la collaborazione tra le classi, istituzionalizzata dal fascismo ed ereditata dalla democrazia post-fascista –, il partito di classe non potrà mai ricostituirsi, rafforzarsi e prepararsi alla ripresa del movimento di classe del proletariato, se non si difendono intransigentemente tutte – nessuna esclusa – le posizioni sia programmatiche che politiche e tattiche ribadite dal bilancio della controrivoluzione prodotto dal nostro partito di ieri.

Anche in campo sindacale, e quindi sul terreno immediato della lotta proletaria di classe, sarebbe un grave errore cedere all’illusione di poter trarre da un movimento interclassista – con il pretesto che mobilita masse popolari nelle piazze, e quindi anche proletari – quell’ossigeno classista che manca ancora alle lotte operaie di oggi. Come ieri rispetto ai movimenti studenteschi del Sessantotto, ai movimenti antinucleari e pacifisti, ai movimenti femministi, ai movimenti ambientalisti ed ecologisti, così oggi rispetto ai movimenti dei gillet gialli o quelli contro il riscaldamento climatico o anti-vaccini: il compito principale che ci siamo assunti è stato ed è di distinguerci nettamente dalle posizioni democratiche e interclassiste di questi movimenti, puntando là dove era possibile, e dove il partito poteva distinguersi anche con prese di posizione nette e inequivocabili, a parole e nei fatti, alle rivendicazioni specificamente operaie su cui far leva perché la spinta di lotta dei proletari sia indirizzata verso la riorganizzazione indipendente di classe, in difesa esclusiva, anche elementare, delle condizioni di esistenza e di lavoro delle masse proletarie e per la ripresa della lotta classista.

Nello stesso tempo abbiamo anche un altro compito, che non è certamente secondario: quello di rafforzare l’intransigenza delle posizioni di partito anche nei militanti di partito affinché non si facciano affascinare dalle mobilitazioni piccoloborghesi di migliaia e decine di migliaia di persone improntate all’interclassismo. Se le nostre forze reali ci avessero consentito di intervenire, dall’esterno ovviamente, nelle manifestazioni dei no-vax e no-green-pass, come invece ieri nelle manifestazioni dei gillet gialli, o come più indietro nel tempo nelle manifestazioni sessantottine o antinucleari ecc., avremmo portato la nostra voce, diffuso la nostra stampa e le nostre prese di posizione sapendo perfettamente che il nostro intervento non doveva illudersi di influenzare quel movimento per quel che era, ma aveva lo scopo di raggiungere i proletari attirati in quelle manifestazioni perché avessero la possibilità di conoscere la posizione di classe che diffondevamo.

 

Come dicevamo, mentre i piccoli borghesi riempivano le piazze con le loro manifestazioni contro l’obbligo vaccinale e il green pass, i proletari stentavano e stentano tuttora a distinguere la propria lotta in questo campo con un acarattere decisamente classista . E anche quando vi sono episodi di lotta contro l’obbligo del green pass per accedere ai luoghi di lavoro, essi rimangono isolati, sconosciuti e i media si guardano bene dal diffonderli. La notorietà che la lotta al porto di Trieste ha conquistato è stato perché là c’era il pericolo che la lotta dei portuali bloccasse davvero il porto più importante d’Italia per il rifornimento energetico; ma ci ha pensato, oggettivamente s’intende, il movimento interclassista no-vax e no-green-pass a depotenziare lo sciopero fin dalle sue prime battute.

Quanto all’obbligo vaccinale, esso è stato varato in agosto per i lavoratori della sanità e poi, in settembre, per quelli della scuola. Se vi sono state reazioni da parte di questi lavoratori sono state, per quel che ne sappiamo, del tutto individuali; non ci sono stati tentativi di sciopero, per quel che ne sappiamo. L’unica cosa che avveniva in alcuni ospedali, in particolare nei primi mesi dello scorso anno, quando mancavano i dispotivi di protezione individuale per medici, infermieri e operatori sanitari vari, erano le proteste per ottenerli e di cui i media hanno dato ampio risalto, per poi tacere completamente. D’altra parte, si è saputo molto dopo che, sebbene fosse in vigore l’obbligo vaccinale, molti sanitari non vaccinati non venivano in verità perseguiti (le Regioni si comportavano in modo del tutto differente una dall’altra, aldilà del decreto legge “nazionale”): la mancanza cronica di personale negli ospedali, le scarsa disponibilità di fondi per vaccini e tamponi, erano motivi, non detti, perché le direzioni degli ospedali lasciassero passare il tempo senza denunciare salvo poi farlo, e non dappertutto, quando la pressione dei ricoveri per covid sugli ospedali è diminuita di molto e quando l’obbligo vaccinale (attraverso l’obbligo del green-pass) è divenuto una cosa generale per tutti i lavoratori. La situazione perciò si presentava, come ormai da decenni, come una rassegnazione generalizzata favorita dalla campagna terroristica lanciata dal governo fin dallo scorso anno nei confronti di tutti coloro che potevano essere contagiati e contagianti; in particolare il personale sanitario, sotto una pressione eccezionale vissuta materialmente con le centinaia di migliaia di ricoverati e con decine di migliaia di decessi, si è sentito investito di una missione dalla quale era difficile, se non impossibile, staccarsi per avanzare proprie rivendicazioni specifiche.

La reazione di lotta dei portuali di Trieste, di cui gli stessi media non hanno potuto tacere, ha effettivamente sollevato il problema della sospensione dal lavoro e dal salario che altri gruppi di lavoratori non sono riusciti a sollevare in precedenza. E’ la dimostrazione che i proletari non rispondono dappertutto e allo stesso modo agli attacchi della borghesia; la stessa cosa succede anche a noi che siamo proletari e che, come partito, cerchiamo di lanciare al proletariato indicazioni, obiettivi, metodi e mezzi di lotta per la sua riorganizzazione indipendente e per la ripresa generale della lotta classista. Questo particolare lavoro lo dobbiamo fare su tutti i piani che coinvolgono il proletariato, ma facendo leva, secondo le nostre effettive possibilità e capacità, sulle reazioni che i proletari manifestano in pratica nella loro resistenza ed opposizione agli attacchi dei capitalisti. Ciò non esclude che il partito, dalle indicazioni di carattere generale propagandate costantemente debba poi sollecitare i proletari a lottare con metodi e mezzi di classe sul terreno della difesa delle loro condizioni immediate di esistenza e di lavoro; ma questa sollecitazione, perché non rimanga una frase dal sapore rivoluzionario, potrà farla nella misura in cui gruppi non esigui di proletari si saranno realmente riorganizzati sulle basi classiste e saranno disponibili a lottare sul terreno classista. Il partito, infatti, non è un costruttore di organizzazioni sindacali classiste, non è un preparatore del terreno classista su cui il proletarito dovrà battersi contro i borghesi. Il partito rappresenta soprattutto il futuro della lotta di classe del proletariato, non l’iniziatore della lotta proletaria classista. Ed è grazie a questa sua caratteristica speciale – che lo differenzia da qualsiasi altro partito politico – che il partito di classe sarà l’unica guida della rivoluzione proletaria e la guida della dittatura di classe instaurata. Da qui a quel momento storico il partito interviene in particolare verso il proletariato e nel proletariato affinché le sue spinte oggettive a lottare contro le condizioni salariali in cui è costretto prendano la direzione di classe e non la direzione interclassista.

Non a caso nella nostra manchette “Distingue il nostro partito” abbiamo scritto che “la dura opera del restauro della dottrina marxista e dell’organo rivoluzionario per eccellenza, il partito di classe” deve avvenire “a contatto con la classe operaia e la sua lotta di resistenza quotidiana alla pressione e all’oppressione capitalistiche e borghesi”; che il partito sostiene “ogni lotta proletaria che rompa la pace sociale e la disciplina del collaborazionismo interclassista” e “ogni sforzo di riorganizzazione classista del proletariato sul terreno dell’associazionismo economico nella prospettiva della ripresa su vasta scala della lotta di classe”...

Sottolineiamo “a contatto” appositamente, perché non si cada nell’errore secondo il quale il partito di classe si deve formare nel proletariato, come se dovesse essere il proletariato, in quanto classe per il capitale, a dare origine al partito. Partito di classe e classe proletaria sono due cose nettamente distinte e la loro fusione può avvenire solo dialetticamente grazie allo sviluppo storico della lotta fra le classi, sviluppo che ad un certo grado di antagonismo fra borghesia e proletariato, pone il proletariato – che le sue stesse condizioni materiali di vita e di lavoro spinge a lottare contro la borghesia e il sistema sociale capitalistico – nella situazione di rompere necessariamente la pace sociale e la collaborazione interclassista, riconoscendosi come forza sociale decisiva per il cambiamento generale della società e giunge a riconoscere il partito come la guida della sua azione, del suo movimento rivoluzionario. Ma è una forza sociale che non si guida da sola: o è guidata dal partito di classe, o è guidata dalla borghesia e dai suoi alleati (i famosi luogotenenti della borghesia in seno al proletariato, gli opportunisti, i collaborazionisti); o diventa classe per sé, quindi classe rivoluzionaria, o rimane classe per il capitale, quindi classe conservatrice.

A differenza della classe del proletariato (che nasce con la borghesia e con il suo sviluppo, ossia con lo sviluppo del capitale), il partito di classe nasce (nel 1848 con il Manifesto di Marx-Engels) come partito rivoluzionario sulla base della teoria marxista che, come scrive, Lenin nel 1913 nel suo opuscolo di propaganda “Tre fonti e tre parti integranti del marxismo”: «è onnipotente perché è giusta. Essa è completa e armonica, e dà agli uomini una concezione integrale del mondo, che non può conciliarsi con nessuna superstizione, con nessuna reazione, con nessuna difesa dell’oppressione borghese. Il marxismo è il successore legittimo di tutto ciò che l’umanità ha creato di meglio durante il secolo XIX: la filosofia tedesca, l’economia politica inglese e il socialismo francese». Il marxismo, con la teoria del comunismo, ha superato tutti i limiti del meglio che l’umanità, sviluppatasi nelle società divise in classi e nelle lotte fra le classi, ha creato durante il secolo XIX ed ha unito dialetticamente in un’unica teoria i risultati della filosofia tedesca, dell’economia politica inglese e del socialismo francese, portando il socialismo dall’utopia alla scienza. Sono cose che molti nsotri lettori hanno senza dubbio letto e che fanno parte del bagaglio di conoscenza del comunismo rivoluzionario, ma che vogliamo sempre evidenziare perché ciò che insegna la borghesia attraverso la sua ideologia, la sua cultura, la sua “scienza” è di mettere al centro della vita sociale l’individuo, la persona col suo cervello, con la sua “libertà di scelta”, mettendolo in concorrenza con tutti gli altri individui anche quando li associa nel lavoro salariato. Ecco il tallone d’Achille della borghesia: «La condizione più importante per l’esistenza e per il dominio della classe borghese è l’accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la moltiplicazione del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro. Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo, fa subentrare all’isolamento degli operai risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria, risultante dall’associazione. Con lo sviluppo della grande industria, dunque, viene tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si approppria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili» (Manifesto).

A distanza di oltre centosettant’anni dalla pubblicazione del Manifesto di Marx-Engels, i proletari, i futuri seppellitori della borghesia non sono ancora riusciti a seppellirla. Le date ricordate sopra (il 1848, il 1871, il 1917), cioè le date in cui la rivoluzione del proletariato ha confermato la giustezza della teoria marxista, con la quale si è scientificamente tracciato il percorso storico dello sviluppo delle lotte fra le classi, della formazione del partito di classe e lo sviluppo della rivoluzione proletaria a livello mondiale, sono riferite ai tentativi rivoluzionari della classe proletaria che la borghesia è riuscita finora a sconfiggere. Li ha sconfitti con gli stessi mezzi che usa per sconfiggere, temporaneamente, le crisi economiche e sociali della sua società: «mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse». Le due guerre imperialiste mondiali avvenute finora, la serie interminabile di guerre locali, le crisi di sovraproduzione che si susseguono ogni 5/6 anni e che tendenzialmente durano per lungo tempo con conseguenze che aggravano sempre di più la condizione generale e mondiale del proletariato (cercando di separare sempre più, mettendoli in concorrenza estrema, i proletari dei paesi capitalistici avanzati dal resto dei paesi del mondo dai quali – non per caso – da trent’anni è iniziata una migrazione continua di masse sempre più numerose verso i paesi più ricchi), le misure sempre più autoritarie e dispotiche che i governi borghesi prendono nei confronti dei propri proletariati, sono lì a dimostrare che le parole del Manifesto hanno un’attualità eccezionale: sono anche questi mezzi per superare le crisi borghesi che prepararno crisi ancor più generali e violente e che, nello stesso tempo, diminuiscono i mezzi per prevenire le crisi stesse.

Lo sforzo che noi facciamo o va verso la costituzione del partito di classe, del partito compatto e potente di domani, tenendo uniti dialetticamente i diversi campi di attività del partito: teorico-programmatico, politico, tattico e organizzativo, oppure si perde nelle elucubrazioni più o meno intellettuali su come “avviare” e “accelerare” la ripresa della lotta di classe, su come compensare la mancanza di lotta classista cavalcando le lotte interclassiste con l’illusione di fregare l’avversario borghese e piccoloborghese. Il partito ha già attraversato nei decenni trascorsi momenti e periodi di crisi in cui l’illusione di “accelerare” la ripresa della lotta di classe si era materializzata attraverso un attivismo forsennato verso il proletariato (come se le masse proletarie fossero pronte alla ripresa di classe e rivoluzionaria, mentre il partito era in “ritardo” nell’attività di influenza su di esse), o attraverso un altrettanto forsennato attivismo verso i movimenti interclassisti che attiravano i proletari sul loro terreno, a differenza del partito.

Abbiamo superato quelle crisi sempre con lo stesso metodo: fare un bilancio politico basato sulle fondamenta marxiste restaurate dal lungo lavoro a carattere di partito che abbiamo compiuto dagli anni del secondo dopoguerra in poi, e lavorare per riconquistare la capacità di fare valutazioni delle situazioni storiche, dei movimenti sociali e dei partiti politici, sulla linea di continuità con la Sinistra comunista d’Italia. Abbiamo superato anche l’ultima e disastrosa crisi del 1982-84 applicando lo stesso metodo e, soprattutto, diventando ancora più intransigenti rispetto a tutte le posizioni e i movimenti che hanno un denominatore comune: intossicare ancor più il proletariato con l’ideologia e le pratiche della democrazia borghese, a cominciare dalla droga più micidiale: l’interclassismo, la collaborazione fra le classi.

Siamo troppo intransigenti?, troppo duri? Non approfittiamo delle occasioni che ci sarebbero offerte dalle manifestazioni interclassiste attuali per diventare più forti, per attirare a noi qualche elemento in più?

Ritenere questa tattica come quella giusta è porsi, anche se inconsapevolmente, completamente fuori dalla linea del partito e dal bilancio delle dolorosissime esperienze storiche che il movimento comunista rivoluzionario ha fatto negli anni cruciali dal 1913-14 al 1926. Vorrebbe dire gettare alle ortiche tutto il lavoro di restaurazione teorica e di ricostituzione del partito di classe svolto dalla Sinistra comunista dal 1946 in poi. Le crisi che hanno attraversato il partito dal quell’epoca in avanti ci hanno insegnato che l’intransigenza non solo teorica e politica, ma anche tattica e organizzativa è un bene estremamente prezioso; non la mettiamo da parte per rincorrere illusori risultati immediati, né la consideriamo come una caratteristcia d’altri tempi da abbandonare per inventarci altre tattiche ritenute più “performanti”, più “produttive” di risultati immediati. Non siamo noi ad aver “scelto” di lavorare sui tempi lunghi, sono le vicende storiche legate alle rivoluzioni e, soprattutto, alle controrivoluzioni che dettano il ritmo e il tempo della ripresa della lotta classista del proletariato. Noi, che ci consideriamo il nucleo del partito comunista internazionale di domani, non dobbiamo cedere all’impazienza, tanto meno dobbiamo cadere nell’idea che o la rivoluzione avviene nel corso della nostra vita individuale, oppure, se questo non succede, è perché non abbiamo approfittato delle cosidette occasioni che le crisi della società ci offrono continuamente; come se la ripresa della lotta di classe e la rivoluzione dipendessero soltanto dall’attivismo del partito di classe.

Molti sono i fattori oggettivi e soggettivi che vanno a formare storicamente, e internazionalmente, una situazione rivoluzionaria e il partito di classe deve essere capace e pronto a valutarli per quelli che sono e a leggere in tempo quei rari casi della storia in cui quei fattori coincidono dialetticamente in modo favorevole alla rivoluzione proletaria. L’esempio di Lenin nell’ottobre 1917, quando sollecitava il partito boscevico a sferrare l’attacco insurrezionale approfittando di quei due/tre giorni in cui tutto poteva andare in modo positivo per la rivoluzione o tutto poteva trasformarsi in una situazione completamente negativa, è emblematico; come è stata emblematica la tattica imposta da Lenin nel luglio 1917, per impedire al proletariato di abboccare alle provocazioni del governo Kerenski, nella situazione generale in cui il proletariato era sì spinto all’insurrezione ma non ancora preparato e organizzato dal partito bolscevico per trarre dall’insurrezione rivoluzionaria il massimo di risultati.   

Quel che dobbiamo fare oggi, inoltre, è rafforzare la piccola compagine di partito attuale sulle fondamenta e sulle posizioni capaci di affrontare gli attacchi e i terremoti sociali di oggi e di domani senza cedere alle lusinghe di strade più facili per diventare il partito della rivoluzione di domani. Se per fare questo non cogliamo questa o quell’occasione, tra le mille che la società capitalistica oggettivamente ci offre ogni giorno, pazienza; l’importante è che quelle che cogliamo ci diano la possibilità di confermare la linea politica del partito, di ribadire la continuità teorico-politica dell’attività di partito, perché è grazie a quella linea e a questa continuità che il partito sarà in grado domani, quando il proletariato inizierà nuovamente a battersi sul terreno di classe, non solo di dare indicazioni di lotta classsita, non solo di fare la sua critica, non solo di contribuire alla riorganizzazione di classe sul terreno immediato dei proletari che rompono decisamente con la collaborazione fra le classi portando i bilanci delle lotte operaie del passato, ma anche di influenzare la direzione della lotta proletaria e di parepararsi e preparare il proletariato alla rivoluzione.

Gli ambiti nei quali è chiesta oggettivamente l’attenzione del partito sono sia teorici che politici, sia economici che ideologici, sia tattici che organizzativi e riguardano sia il partito in quanto compagine di militanti rivoluzionari, sia il proletariato nello sforzo che deve e dovrà fare per riorganizzarsi sul terreno della difesa classista dei suoi interessi immediati nella prospettiva di abbracciare la visione della lotta rivoluzionaria per l’abbattimento della borghesia e l’istaurazione della dittatura proletaria sulla strada per il socialismo e il comunismo. Nulla è scontato; sappiamo – e non è una questione semplicemente di numero di compagni e di loro presenza capillare – di non poter intervenire in ogni situazione e con immediatezza nelle più diverse situazioni in cui i proletari, sempre più divisi e isolati gli uni dagli altri e sempre in concorrenza fra di loro, potrebbero avere bisogno delle indicazioni di classe che il partito è in grado di dare. L’importante, per noi, è di dare sempre, prima di tutto, il contesto generale in cui avvengono determinati fatti, e poi far discendere dalla valutazione di questo contesto la critica, l’orientamento generale e le eventuali indicazioni di lotta; non il contrario.

La certezza delle nostre posizioni e delle nostre valutazioni sta nel patrimonio dottrinario, storico e di bilancio che il partito ha già fatto e che noi dobbiamo costantemente ribadire alla luce di tutti i fatti “nuovi” che la società borghese presenta. Patrimonio dottrinario, storico e di bilancio che è interamente pubblico e a cui tutti coloro che sono interessati per davvero possono rifarsi. Quel che è certo, ed è nostro compito specifico – proprio perché proveniamo dal movimento della sinistra comunista che ha restaurato le basi teoriche del marxismo e riorganizzato il partito di classe – è che ogni posizione che prendiamo deve discendere dall’impostazione e dalla valutazione che il partito ha già definito, senza farsi abbacinare da situazioni pretese “nuove” e “impreviste” che spingono a cercare nuove tattiche e nuove giustificazioni.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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