Contro una borghesia scaltra e vigliacca che infierisce su un proletariato già piegato dall’opera pluridecennale dei collaborazionisti sindacali e politici e da un peggioramento generalizzato delle condizioni di vita e di lavoro, la via d’uscita è solo nella ripresa generale della lotta di classe!

(«il comunista»; N° 171 ; Dicembre 2021 - Gennaio 2022)

 Ritorne indice

 

 

In diverse prese di posizione e in vari articoli sulla politica della classe dominante italiana rispetto alla crisi sanitaria e alla crisi economica, abbiamo messo in evidenza come i caratteri specifici della borghesia nostrana si siano confermati su tutta la linea, aldilà anche delle ultime coalizioni di governo che si sono passate di volta in volta il “testimone”, dal “Conte-I” al “Conte-II” al governo Draghi, vantatosi di essere il “governo dei migliori”.

Sulla base di caratteri comuni a tutte le borghesie del mondo, determinati dal fatto che rappresentano in ogni paese, dal più ricco e avanzato al più debole e povero, gli interessi materiali e politici dell’economia capitalistica, la borghesia italiana si è distinta fin dalla sua antica formazione come una classe scaltra e intraprendente, ma divisa, litigiosa, pronta a tradire le alleanze e i patti sottoscritti per pure convenienze contingenti, come dimostra la sua lunga storia dei traffici commerciali, a partire dalle Repubbliche marinare, e di usura, a partire dalle prime banche al mondo di Genova, Firenze, Milano. Finché il Mediterraneo rimase il bacino centrale dello sviluppo economico e commerciale di tutte le potenze euroasiatiche – ossia fino alla scoperta dell’America – i gruppi borghesi italiani legati ai commerci fra l’Oriente e l’Europa continentale governavano di fatto uno sviluppo economico caratterizzato dalle autonome città-Stato (come erano le repubbliche marinare tra le quali primeggiarono quelle di Genova, per 8 secoli, e di Venezia, per 9 secoli), uno sviluppo che rimase, anche dopo l’invasione napoleonica, estremamente ineguale tra un Nord, un Centro e un Sud dell’Italia.

«La formazione in Italia di uno Stato unitario – si legge nella tesi di partito del 1946 “La classe dominante italiana e il suo Stato nazionale” (1) – e la costituzione del potere della borghesia, pur inquadrandosi nella concezione generale di tali processi stabilita dal marxismo, presentano aspetti particolari e speciali, che soprattutto ne hanno ritardato il processo rispetto a quello presentato dalle grandi nazioni europee, dissimulando in parte la schietta manifestazione delle forze classiste. 

«Le cause sono ben note, ed anzitutto geografiche oltre che etniche e religiose. L’Italia, tanto continentale che peninsulare, ha costituito per molti secoli, dopo che la diffusione della civiltà oltre i limiti del mondo romano le aveva tolto la posizione centrale rispetto ai territori mediterranei, una via di passaggio delle forze militari dei grandi agglomerati formatisi attorno ad essa, ed un facile ponte per le invasioni e le stesse migrazioni di popoli da tutti i lati. Le varie zone del territorio furono a molte riprese occupate, organizzate e dominate da stirpi conquistatrici venute dall’Est e dall’Ovest, dal Sud e dal Nord. E nessuna di queste poté talmente rompere l’equilibrio a suo favore da costituire uno stabile regime con egemonia su tutta l’estensione del territorio. Quindi, nel periodo medievale feudale, non si gettò la base di uno Stato dinastico, aristocratico, teocratico, unitario, come avvenne negli altri grandi paesi i cui confini geografici e la cui posizione rispetto al giuoco delle forze europee meglio si prestavano a tale stabilizzazione. Influì su questo la presenza del centro della Chiesa con le sue lotte contro il prevalere eccessivo delle caste feudali e delle signorie dinastiche, e quindi si determinò la situazione correntemente definita come dipendenza dallo straniero e suddivisione in molteplici staterelli semi-autonomi».

Nella realtà storica, l’economia capitalistica, pur avendo in Italia radici fin dal Quattrocento, non era riuscita a trovare a livello politico una corrispondenza in un centro statale solido, come in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, «di cui impadronirsi per accelerare al massimo il ritmo della trasformazione sociale». Nemmeno il fatto che nelle pianure del Nord Italia si combatterono le grandi guerre europee, con l’inevitabile apporto della rivoluzione borghese francese, riuscì a generare una repubblica borghese italiana unitaria; la borghesia italiana, data la sua secolare frammentazione in tanti staterelli, pescò l’idea dell’unità nazionale dall’esterno, la elaborò ideologicamente e socialmente e la diffuse tra le classi medie in modo da potersi servire delle classi lavoratrici per realizzarla: «Ma tale realizzazione fu più che in ogni altro paese infelice e contorta, e la sua fama riposa sull’immenso uso di falsa retorica, di cui fu infarcito tutto il cammino obliquo e opportunista del sorgere dello Stato borghese italiano».

La borghesia italiana non poteva sfuggire alle condizioni storiche in cui si era formata e all’influenza decisiva dei contrasti degli Stati europei già costituitisi e più forti; di fatto, per realizare l’unità nazionale, dovette contare sullo «staterello piemontese, gonfiatosi a nazionale italiana», uno staterello che altro non era se non «un servo sciocco dei grandi poteri europei», abilmente rappresentato da un Cavour («capostipite dell’italico ruffianesimo»), e una monarchia che altro non era se non «una ditta per affittare capitani di ventura e noleggiare, a vicenda, carne da cannone a francesi, spagnoli, austriaci», insomma «al militarismo più prepotente o al miglior pagatore». Tuttavia, continua la tesi di partito citata, «il processo che condusse la dinastia e la burocrazia statale piemontesi a conquistare l’Italia, sfruttò le forze positive della classe borghese, che, attraverso le molto fortunate e per nulla gloriose guerre di indipendenza, riuscì ad attuare la sua rivoluzione sociale, spezzò i predomini feudali e clericali e, secondo la classica funzione della borghesia mondiale, seppe farsi del proletariato il più efficace alleato, e costruirgli nel nuovo regime lo sfruttamento più esoso». Dal che, la conclusione non può che essere: «L’operaio italiano fu tradizionalmente il più ricco di libertà retoriche e il più straccione del mondo».

Tutto il periodo che va dalla costituzione formale dello Stato italiano (1861) alla seconda guerra imperialista mondiale, passando per le imprese coloniali all’ombra della potenza inglese, la prima guerra imperialista mondiale 1915-18, il fascismo, la seconda guerra imperialista mondiale (1940-1945) con la sua lotta di “resistenza antifascista”, non è stato che una continua conferma dell’attitudine della borghesia italiana di inserirsi nei contrasti fra le grandi potenze europee e mondiali nel tentativo di ricavarne i maggiori vantaggi per sé col minimo sforzo. «La classe dominante italiana, riuscita nel saper intuire a tempo da che parte era il più forte cambiando audacemente di posto nei conflitti tra gli Stati esteri, coerentemente seguì questo sistema nel periodo fascista, ma, quando il sistema venne per la prima volta meno, deteminando la catastrofe, non seppe trovare altra via di uscita che un ennesimo tentativo di aggiogarsi al carro del vincitore». Nella Grande Guerra essa tradì per due volte la Triplice alleanza, prima rimanendo “neutrale” nel primo anno di guerra, poi intervenendo successivamente a fianco delle potenze in precedenza “nemiche”. Nella seconda guerra imperialista, la borghesia italiana che nel fascismo aveva trovato, da un lato, la risposta al pericolo della rivoluzione proletaria sul suolo italiano e, dall’altro, la via alla concentrazione e al monopolio ormai segnata dallo sviluppo economico capitalistico, entra in guerra nel 1940 a fianco della Germania di Hitler, convinta di poter approfittare di una vittoria militare, grazie alla straordinaria potenza economica e militare tedesca, per espandere ad Est e in Africa i suoi dominii; ma, quando nel luglio 1943 cade Mussolini e le sorti della guerra non si presentano più così favorevoli come in precedenza, essa corre a firmare un armistizio con gli Alleati e tenta di organizzare alla bell’e meglio, grazie all’opera collaborazionista dei partiti stalinisti, una “guerra partigiana” a favore delle potenze imperialistiche democratiche su cui basare una sua vantaggiosa uscita dalla guerra nonostante la sconfitta militare e la miserabile politica di tradimenti.

Da allora, la classe dominante italiana ha continuato a suonare la canzone della “resistenza antifascista” da cui sarebbe nata la “Costituzione più bella del mondo”, al fine di mascherare in qualche modo la sua condizione di vassallaggio rispetto alle potenze atlantiche, e agli Stati Uniti in particolare, e di turlupinare per l’ennesima volta il proletariato chiamato a suon di repressioni, stragi e sfruttamento intensivo a “ricostruire” il paese distrutto dalla guerra. Una canzone che, ad ogni crisi economica e sociale che si ripresenta inesorabilmente nel corso dello sviluppo capitalistico, recita i classici e oramai logori versi dell’«unità nazionale», della «coesione nazionale», della «patria da difendere» e della «collaborazione fra le classi».

 

*        *        *

 

In tutta la sua storia, la borghesia italiana non si è mai sottratta ai compiti fondamentali assunti dalla classe borghese: sottoporre il proprio proletariato allo sfruttamento salariale necessario per garantire i suoi profitti, reprimerlo “democraticamente” con la forza dello Stato ad ogni suo sussulto di classe, in una parola: dominare sul territorio nazionale con pugno di ferro in guanto di velluto, non importa se con politiche dipendenti dall’esterno o con politiche generate esclusivamente dalla propria specifica storia.

Il proletariato italiano, sia dell’industria sia della campagna, ha anch’esso una storia a cui rifarsi; una storia di scioperi, di ribellioni, di organizzazione dei suoi interessi economici e una storia politica di un movimento che, nei flussi e riflussi delle sue lotte, non si è limitato ad esprimere il classico tradunionismo laburista e il riformismo socialdemocratico, ma, con la formazione del suo partito di classe, il Partito Comunista d’Italia, si è portato fino all’altezza storica del movimento comunista internazionale che alla guida aveva il partito bolscevico di Lenin e che negli anni del primo dopoguerra fece tremare il mondo borghese.

La storia delle lotte fra le classi non è mai stata lineare, non è mai stata caratterizzata da un andamento graduale e progressivo che dai primi e locali conflitti economici tra operai e padroni si elevava pian piano a livello più generale e politico fino a porsi sul piano del potere politico statale. La lotta fra le classi non poteva che seguire l’andamento ineguale e anarchico dello sviluppo economico capitalistico e dei suoi riflessi sociali e politici con punte di innovazione industriale particolarmente avanzate in tessuti economici e sociali che rimanevano per la gran parte arretrati, specie nelle campagne. Nel corso dei decenni di sviluppo capitalistico, come era già avvenuto in Francia, in Gran Bretagna, in Germania, anche in Italia cominciarono ad attecchire le idee politiche del socialismo che si distinguevano per la definizione non solo dei caratteri della società moderna borghese e capitalistica, ma anche per aver definito il proletariato moderno come la classe rivoluzionaria per eccellenza proprio per le sue caratteristiche economico-sociali determinate dai rapporti borghesi di produzione e di proprietà; come la classe sociale che nel corso storico delle sue lotte aveva dimostrato di essere non solo l’unica classe realmente produttrice, ma anche l’unica classe che, sovvertendo con la sua lotta rivoluzionaria totalmente i rapporti di produzione e di proprietà borghesi, faceva fare alla società umana il salto storico dalla lunga serie di società divise in classi alla società senza classi, alla società comunista, alla società di specie. E questo, al di là della “coscienza” che la massa proletaria stessa potesse avere di questa sua caratteristica specifica, una “coscienza di classe” che giunse in un ben determinato svolto storico – a metà dell’Ottocento, con il Manifesto del partito comunista di Marx-Engels – quando i principali fattori economici, sociali, politici e militari resero mature, come scrive Lenin, «le tre più importanti correnti di idee del secolo XIX, proprie dei tre paesi più progrediti dell’umanità: la filosofia classica tedesca, l’economia politica classica inglese e il socialismo francese, in rapporto con le dottrine rivoluzionarie francesi in generale» (2), mature per essere perfezionate e superate da un unico sistema scientifico di concezioni e di dottrina che, dal 1848, chiamiamo marxismo.

Nei decenni successivi, e in particolare dopo la formidabile e tragica esperienza della Comune di Parigi (1871), i movimenti del proletariato e del comunismo si svilupparono a tal punto, nonostante la sconfitta della Comune e il fallimento della II Internazionale di fronte alla guerra imperialista del 1914-18, che nella Russia zarista i movimenti del proletariato e dei contadini poveri, spinti ineluttabilmente alla rivoluzione antizarista e antiborghese in piena guerra imperialista, incontrarono la magnifica guida del partito bolscevico di Lenin e la vittoria dell’Ottobre 1917, con l’instaurazione della dittatura di classe del proletariato, che irradiò in tutta Europa e nel mondo la via luminosa della rivoluzione proletaria internazionale.

Allo svolto storico particolare del 1848-50 europeo, in cui nacque e si definì monoliticamente la dottrina marxista del comunismo rivoluzionario seguì un altro svolto storico nel 1917-1921 russo ed europeo insieme, in cui il marxismo trovò la sua prima realizzazione concreta, sebbene solo nella vasta area euro-asiatica in cui si congiungevano storicamente due grandi rivoluzioni, la rivoluzione borghese capitalistica e la rivoluzione proletaria comunista. In terra di Russia, alla fine, vinse economicamente la rivoluzione borghese e capitalistica, mentre la rivoluzione proletaria e comunista, innestata dalla rivoluzione in Russia a livello europeo e internazionale, resistette per dieci anni sul baluardo politico marxista finché, alla fine, fu sconfitta soprattutto dall’opera traditrice dei partiti comunisti degenerati che trovarono nello stalinismo la loro espressione più completa. Ciò diede alle forze della conservazione borghese un ulteriore ed enorme vantaggio sulle forze del proletariato che, in seguito alla degenerazione dei suoi partiti, fu costretto a piegarsi per ulteriori decenni non solo alle esigenze dello sviluppo imperialistico del capitalismo, ma anche ad una collaborazione con le classi nemiche – la borghesia e la piccola borghesia – sulla base della quale i proletariati di ogni paese sono stati asserviti, e lo sono tuttora, alle rispettive borghesie nazionali.

Aldilà della gigantesca fanfaronata di un “socialismo reale” che con il crollo dell’Urss sarebbe stato cancellato dalla faccia della terra – il socialismo, secondo il marxismo, non poteva e non può essere “costruito” economicamente in un paese solo, anche se capitalisticamente avanzato, ma può cominciare a vedere la luce soltanto a livello internazionale in un gruppo di paesi capitalistici avanzati – alla borghesia è sempre convenuto presentare al proletariato un “volto” buono e un “volto” cattivo della propria società, ha sempre giocato sulla falsa antitesi totalitarismo/democrazia: se democratica, mobilitando il proprio proletariato contro le forme politiche del “totalitarismo”, della “dittatura”, del “fascismo”; se totalitaria, mobilitando il proprio proletariato contro la plutocrazia, contro le forti diseguaglianze sociali, contro l’insicurezza della vita e del lavoro causata dalla sete di profitto dei grandi trust. Ma, buono o cattivo che sia il “volto” della propria società, i suoi caratteri economico-sociali fondamentali non cambiano mai: là dove esiste capitale e lavoro salariato, esiste capitalismo, esiste dominio della classe borghese sulla classe proletaria, persistono i rapporti di produzione e di proprietà borghesi, qualsiasi etichetta venga data alla società e allo Stato. I politicanti borghesi possono raccontare in tutte le salse la storiella del capitalismo dal volto umano, di un capitalismo che può essere piegato ad una più equa distribuzione della ricchezza e dei profitti tra le diverse classi sociali, di un potere borghese che di fronte ad una situazione di crisi può sospendere i meccanismi economici che portano tutta la ricchezza sociale dal lato della grande borghesia e tutta la miseria sociale dal lato del proletariato, dei lavoratori salariati. E’ ormai noto a tutti che durante le crisi i miliardari aumentano di numero, le grandi multinazionali aumentano il loro potere sui mercati internazionali, i grandi Stati imperialisti rafforzano la propria potenza schiacciando ancor più sotto di sé gli Stati più deboli.

Il capitalismo, nonostante quel che viene propagandato dalla Chiesa e dai governanti usi al politicantismo, non conosce nemmeno una briciola della cosiddetta umanità, semplicemente perché è un sistema economico e sociale che per imporsi e svilupparsi a livello mondiale ha dovuto, e deve continuamente, violentare qualsiasi aspetto della vita sociale. Il salario, per i proletari, è l’unica fonte di sostentamento in questa società, e lo percepiscono solo a patto di accettare le condizioni di lavoro dettate dai capitalisti, o dallo Stato dei capitalisti. Ma il capitalismo non è mai stato in grado di assicurare a tutti, nessuno escluso, un lavoro grazie al quale percepire un salario; perciò, fin dall’inizio, fin dalle prime vaste e rivoluzionarie espropriazioni dei contadini per trasformarli in proletari e dalla rovina delle botteghe artigianali, il capitalismo ha imposto a una massa sempre più numerosa di proletari la condizione sociale del salariato, che consiste nel dover lavorare per i capitalisti secondo le leggi e le regole da loro dettate nelle loro industrie, nei loro magazzini, nei loro mezzi di comunicazione, creando al tempo stesso una massa di disoccupati perché nel conto economico dello sfruttamento del lavoro salariato non c’è mai posto “per tutti”. Al capitale-fisso (macchinari, materie prime ecc.) deve corrispondere un capitale-salari che vada a coprire esclusivamente i costi che la forza lavoro deve sostenere giornalmente per poter tornare ogni giorno a farsi sfruttare in fabbrica. Ma il tempo di lavoro giornaliero che il capitalista pretende dal lavoratore è tendenzialmente sempre molto più lungo di quello coperto dal salario effettivamente percepito. Perciò il capitalista, sfruttando il più possibile ogni singola unità di forza lavoro, ottiene dal lavoratore salariato due valori distinti: un valore effettivamente corrispondente al tempo di lavoro giornaliero che serve per ricostituire le forze del lavoratore, e un valore, che il marxismo ha definito plusvalore, che corriponde al tempo di lavoro giornaliero che non è coperto dal salario, che non viene pagato. Dato che il capitalismo produce merci che devono essere poi vendute nei mercati, dalla vendita di tali merci il capitalista incassa una quota di denaro che comprende sia il valore delle quote di capitale fisso e di capitale-salari previste all’inizio del ciclo produttivo, sia il plusvalore derivato dal tempo di lavoro non pagato ad ogni singola unità di forza lavoro. Sta in questo meccanismo il mistero del guadagno del capitalista, del suo profitto. Più le tecniche produttive si perfezionano e si trasferiscono nei diversi processi di produzione e di distribuzione, più il tempo di lavoro non pagato al lavoratore aumenta nella giornata classica di 8 ore, più si conferma l’estorsione del plusvalore ad ogni lavoratore salariato.

Il capitalismo va però incontro periodicamente a crisi di tipo economico, finanziario, monetario, politico, militare, determinate da una combinazione di fattori tutti insiti nel modo di produzione capitalistico – ossia nella produzione di merci – e che possono essere sintetizzati nella generale anarchia della produzione per aziende e nella concorrenza sempre più sfrenata tra capitalisti; una concorrenza che si alza sempre più di livello nella misura in cui si sviluppano sempre più le concentrazioni capitalistiche e la loro difesa da parte degli Stati nazionali. La guerra di concorrenza sui mercati inevitabilmente si trasforma, prima o poi, in guerra guerreggiata. Perciò la politica delle classi dominanti borghesi si prolunga in una politica militare, una politica fatta con mezzi militari come sosteneva il famoso von Clausewitz.

Di fronte alle sue crisi, non lo ripeteremo mai abbastanza, con quali mezzi il capitalismo cerca di superarle se non con quelli che, già nel Manifesto del 1848, Marx ed Engels avevano individuato: «da un lato con la distruzione coatta di una massa di forze produttive, dall’altro con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi». Dunque, «con la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse» (3).

Per lungo tempo, e ancora oggi, ci sono tendenze politiche che si definiscono rivoluzionarie e marxiste che sostengono che il capitalismo, in virtù della sua congenita e secolare decadenza, crollerà proprio grazie alle sue crisi le quali, raggiungendo un livello generale e violento intollerabile dalla società, offriranno oggettivamente al proletariato la possibilità della classica spallata senza bisogno di elevare la propria lotta a lotta rivoluzionaria per la conquista del potere politico e senza bisogno, perciò, di una lunga preparazione pratica, ideologica e politica alla rivoluzione che solo il partito di classe, il partito comunista rivoluzionario, può e potrà guidare. Tutta la storia delle società divise in classi che si sono susseguite fino alla società capitalistica e borghese insegna che i modi di produzione che stanno alla loro base, proprio in virtù del loro sviluppo economico e sociale, ad un certo punto non sono più in grado di controllare quello sviluppo poiché le nuove forme produttive, più moderne e più sviluppate, formano nuove classi sociali che entrano inevitabilmente in conflitto con le classi dominanti, tendendo a rivoluzionare politicamente la società nella quale è già in corso lo sviluppo di un nuovo modo di produzione. E’ successo per la società schiavistica, per la società feudale, per la società borghese capitalistica. Ma ogni salto storico da una società di classe all’altra, più moderna e sviluppata, ha messo in movimento le classi sociali che oggettivamente erano portatrici del nuovo modo di produzione, e questo movimento non era e non è che la lotta fra le classi. Come scrive Engels nel 1884 (4), «secondo la concezione materialistica, il movente essenziale e decisivo al quale ubbidisce l’umanità consiste nella produzione e riproduzione della vita immediata, la quale, a sua volta, ha un duplice aspetto. Da un lato la produzione dei mezzi di esistenza, di tutto ciò che serve alla nutrizione, all’abbigliamento, all’abitazione, e degli attrezzi di lavoro di cui gli uomini necessitano; dall’altro la procreazione degli uomini stessi, la continuazione della specie». Ebbene, nel lungo e contraddittorio sviluppo delle società umane, è dimostrato ampiamente che la divisione in classi non è esistita sempre, come non è esistito sempre lo Stato. E’ lo sviluppo sociale ed economico, oltre che politico, che, ad un certo punto, ha necessariamente scisso la società in classi e questa scissione ha fatto dello Stato una necessità. Ed è lo sviluppo sociale ed economico generale rappresentato dal capitalismo che porta il grado di sviluppo della produzione ad un livello per cui «non soltanto l’esistenza di queste classi ha cessato di essere una necessità, ma nel quale essa diventa un ostacolo positivo alla produzione». In questo senso il capitalismo rappresenta storicamente l’ultima società divisa in classi, proprio perché, come dimostrato dal Capitale di Marx e da tutta la letteratura marxista, il modo di produzione capitalistico ha generato mezzi di produzione e di scambio così potenti da determinare costantemente «la rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni di produzione», quindi «contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio» (5).

Il capitalismo, come detto, è colpito periodicamente da crisi, economiche, commerciali, finanziarie, sociali, ma queste crisi, rispetto a tutte le società di classe precedenti, hanno una caratteristica peculiare, sono infatti crisi di sovraproduzione: si producono più merci di quante i mercati riescono ad assorbire. All’improvviso, come scrive il Manifesto di Marx-Engels, la società piomba in «uno stato di momentanea barbarie, sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza, l’industria, il commercio sembrano distrutti» (6). A questo proposito basta ricordare le crisi del Novecento, da quella che portò alla prima guerra imperialista mondiale, alla crisi del 1929-32, alla seconda guerra imperialista mondiale e alle crisi che si sono rincorse per tutto il periodo successivo fino alla crisi generale e mondiale del 1975, e poi ancora a quelle del 1987, del 2002, del 2008 e l’ultima del 2019-2020 che i media internazionali hanno addossato alla crisi santitaria provocata dalla pandemia del Sars-CoV2, ma che in realtà stava già maturando sotto la cenere. Ad ogni crisi la borghesia si ritrova a rimediare in qualche modo coi soliti mezzi finanziari (aumentando l’indebitamento delle aziende e degli Stati), con la falcidia di posti di lavoro (aumentando la disoccupazione assoluta e precarizzando sempre più il lavoro), con lo spostamento delle conseguenze più negative della crisi nei paesi della periferia degli imperialismi, aumentando in essi la disoccupazione, la miseria, l’insicurezza assoluta della vita costringendo masse sempre più numerose a fuggire dai propri paesi per riparare nei paesi più ricchi a qualsiasi costo, e per centinaia di migliaia di loro sempre più spesso a costo della vita. Il capitalismo è sempre più caratterizzato da situazioni di crisi, tanto che il suo corso di sviluppo è ormai segnato più dai periodi di crisi che dai dai periodi di prosperità.

 

*        *        *

 

Questi ultimi due anni di crisi pandemica dimostrano quanto la classe dominante borghese di ogni paese, e in particolare dei paesi imperialisti, sia stata priva di ogni reale capacità, e volontà, di affrontare la pandemia con mezzi efficaci, non diciamo di prevenirla – cosa che assolutamente non sarà mai in grado di fare – ma almeno di contenerla e di impedire che la crisi sanitaria aggravasse la crisi economica. Anzi, l’atteggiamento delle borghesie dei paesi più ricchi è stato il classico atteggiamento del mercante che cerca di approfittare delle difficoltà dei mercanti concorrenti; a cominciare dalla Cina, dove l’epidemia da coronavirus è scoppiata, per toccare poi i paesi europei, gli Stati Uniti, il Giappone, il Brasile e via via tutti gli altri paesi.

Che una pandemia di questo genere si sarebbe ripresentata, sono gli stessi borghesi ad ammetterlo, fin dalla prima comparsa dell’epidemia Sars-CoV nel 2003. Abbiamo già documentato le ricerche e i progetti che istituzioni internazionali, quali, ad esempio, la Fondazione Bill & Melinda Gates – il maggior gruppo privato che finanzia l’OMS – avevano avviato da tempo (come d’altra parte avevano già fatto in precedenza per esempio rispetto l’HIV), secondo i quali una pandemia di questa gravità avrebbe messo in ginocchio molti paesi al pari di una guerra mondiale (avevano addirittura previsto ben 65 milioni di morti in 18 mesi!!!) (7). Come si adoperano nel prevedere lo scatenamento di una guerra mondiale, ipotizzando alleanze, nemici, armamenti adeguati, cambi di strategie ecc., così i borghesi ipotizzano le probabili conseguenze delle crisi economiche, finanziarie, politiche, sociali, militari perché sanno ormai che queste crisi prima o poi scoppieranno. La loro intelligenza si muove su determinazioni materiali che in realtà non governano, e che li sorprende costantemente, ma che – in assenza della lotta di classe sferrata dall’unica forza sociale che può mettere in pericolo il loro potere e il loro dominio, cioè dal proletariato – offrono loro il tempo per assorbire il colpo e adottare tutte le drastiche misure che ritengono necessarie per superare il periodo di crisi. Ma, come già detto più volte, le crisi si ripresentano periodicamente, inesorabilmente, sempre più gravi, sempre più vaste; e le loro cause profonde non cambiano mai: è sempre un problema di sovraproduzione, di mercati che non assorbono più in tempi rapidi la quantità iperfolle di merci che viene prodotta e che spingono le grandi concentrazioni capitalistiche e gli Stati che ne difendono gli interessi ad aumentare la pressione economica, politica e militare sugli Stati e sulle economie più deboli in una guerra di concorrenza che ha per obiettivo la conquista di nuovi mercati e lo sfruttamento intensivo dei vecchi mercati fino a quando questa guerra di concorrenza si trasforma in guerra guerreggiata. Una guerra di concorrenza che ha, inoltre, anche l’obiettivo di piegare i proletari a condizioni di esistenza e di lavoro sempre più pesanti per poterne estorcere con sicurezza e in tempi rapidi quelle quote di plusvalore che consentono all’economia capitalistica di risalire dalla crisi e riprendere i ritmi vorticosi di valorizzazione del capitale.

La pandemia di SarsCoV2, con le sue catastrofiche conseguenze, dimostra non solo che il capitalismo attende queste conseguenze come un’occasione d’oro per mascherare la sua crisi di sovraproduzione, ma anche che la politica adottata dalle classi dominanti borghesi ha come obiettivo principale un controllo sociale più rigido.

 

IL CASO DELL’ITALIA È EMBLEMATICO

 

Le misure di confinamento e di restrizioni prese di volta in volta, rincorrendo lo sviluppo dei contagi, non hanno mai avuto realmente l’obiettivo di salvaguardare la salute della popolazione, ma quello di contenere le possibili rivolte da parte dei proletari offerti al contagio, alla malattia e alla morte proprio grazie alla mancanza assoluta di prevenzione e alla mancanza di tempestività nella sanificazione degli ambienti di lavoro, alla mancanza di dispositivi di protezione individuali e, soprattutto, alla mancanza di strutture sanitarie adeguate a far fronte ad una pandemia, d’altra parte prevista dagli scienziati stessi. La distruzione della medicina territoriale e i drastici tagli alla sanità pubblica a favore della sanità privata, perseguiti da decenni, non potevano che dare i risultati catastrofici che hanno segnato tutto il 2020 e tutto il 2021, e che ancor oggi, di fronte alle continue mutazioni del coronavirus Sars, dimostrano l’inefficacia di una sistema sanitario che non è fondato sulla prevenzione, ma sugli interventi di emergenza. Il capitalismo attende l’emergenza, la desidera, la provoca, perché nell’emergenza ci guadagnano più sicuramente e più rapidamente le filiere economiche e politiche che fondano sulle malattie i loro successi. Non è infatti un caso che di fronte ad un’epidemia virale come la Sars-CoV2 tutte le borghesie imperialiste abbiano puntato fin dall’inizio sui vaccini. E non è un caso che l’industria dei vaccini sia una delle più floride industrie farmaceutiche che esistano, in quanto, da un lato, rispondono alla necessità da parte dei poteri statali di ogni paese di rassicurare la popolazione, e il proletariato in particolare, sul fatto che lo Stato si occupi della salute pubblica e che interverrà il più rapidamente possibile per “sconfiggere” il virus nemico; dall’altro lato, rispondono all’obiettivo di aumentare in tempi rapidi i propri profitti dato il sicuro acquisto di gigantesche dosi di vaccini da parte degli Stati. Più l’epidemia si espande nei paesi e nel mondo, più cresce la domanda di “cura”; meno la cura può contare su un sistema di prevenzione, proprio perché non esiste, meno può contare su un sistema ospedaliero pubblico adeguato ad affrontare una pandemia, e più i poteri borghesi puntano alla soluzione vaccinale, come se questa fosse l’unica “cura” efficace, l’unico rimedio, l’unica soluzione.

La produzione e la distribuzione capitalistica viaggiano a velocità sempre più alta, e contenere i costi di produzione e di distribuzione per battere la concorrenza è diventata la pratica a cui nessuna azienda può sfuggire. Produrre velocemente secondo le richieste del mercato; produrre le quantità che si presuppongono necessarie per incassare i profitti desiderati; distribuire i prodotti nei tempi concordati e più velocemente dei concorrenti. Ma la produzione capitalistica ha una caratteristica generale: va oltre l’effettiva possibilità di essere interamente assorbita dai mercati, perciò ogni azienda si ingegna perché la propria produzione, battendo la concorrenza, venga venduta. Si intrecciano così manipolazioni commerciali e burocratiche, contenimento dei costi sia a livello di materiali scadenti rispetto a quelli qualitativamente più adeguati, sia a livello di impiego di manodopera (sempre più precaria, malpagata o in nero). E in questa turbinosa situazione concorrenziale, nella quale i colpi bassi la vincono sugli scambi commerciali cosiddetti legali, emergono i grandi gruppi, le grandi concentrazioni capitalistiche, le grandi holding, ossia quei potenti poli finanziari che condizionano pesantemente sia i mercati che gli Stati. Nel caso della pandemia di Sars-CoV2, l’enorme richiesta di vaccini provocata dalla rapida diffusione dei contagi ha superato di gran lunga la capacità, in tempi brevi, dell’industria farmaceutica di soddisfarla; perdipiù, i brevetti per la loro produzione sono saldamente in mano alle maggiori industrie farmaceutiche e nessuno Stato ha avuto la forza per togliere dalle loro mani questo monopolio. Anzi, i contratti che sono stati redatti e sottoscritti per la fornitura dei vaccini, sono secretati, la loro trasparenza non esiste e tutti gli Stati che hanno potuto acquistare a caro prezzo le dosi di vaccino ritenute necessarie alla propria campagna vaccinale hanno dovuto sottomettersi al capitale privato, come d’altra parte in tutte le grandi crisi economiche; basti pensare al denaro pubblico che è stato usato per salvare fior fior di banche nella crisi del 2008-2012. 

La vicenda dei vaccini anti-Covid dimostra una volta di più come la società borghese dipenda non solo dal capitale genericamente inteso, ma dal capitale finanziario in particolare. Per qualsiasi ricerca scientifica sono necessari ingenti capitali, sia in strutture e macchinari che in uomini, in relazioni tra ricercatori sparsi in tutto il mondo e in periodici test; e, in genere, sono necessari tempi lunghi soprattuto se la ricerca, in questo caso medica, si occupa di virus o batteri sconosciuti. E questi capitali per la ricerca non sono in mano agli Stati, ma alle grandi compagnie farmaceutiche, le quali, non essendo enti benefattori, ma aziende capitalistiche, investono soltanto se hanno un ritorno in termini di profitti.

In situazione di emergenza, quindi, gli Stati dispongono tutta una serie di misure che facilitano e velocizzano la somministrazione di servizi che sono ritenuti essenziali per affrontare l’emergenza. Succede di fronte ai terremoti, alle alluvioni, agli incendi, ovvio che succeda anche di fronte ad una epidemia; si aprono così le porte alle Big Pharma che hanno in mano il vero potere. In situazioni di emergenza salta inevitabilmente tutta una serie di passaggi burocratici perché il tempo non diventi un ostacolo; e così tutta una serie di controlli preventivi e successivi sui servizi e sui prodotti da utilizzare viene ridotta se non cancellata perché... di tempo non ce n’è, bisogna fare in fretta... Una volta che il virus è stato fatto circolare in tutto il mondo, l’apprendista stregone borghese non sa più come fermarlo, come riuscire a controllarlo e allora non può che utilizzare mezzi del tutto inadeguati e incapaci sia di fermarlo che di controllarlo. Il tempo che per i profitti capitalistici non deve risultare un ostacolo... diventa un elemento sconosciuto quanto il virus.

In questa pandemia si sono così sommate sia l’inefficienza del sistema sanitario pubblico, sia l’impreparazione generalizzata di fronte ad una situazione di questa gravità, sia l’impossibilità da parte dello Stato di ristabilire in tempi rapidi una medicina territoriale ormai distrutta e di riattrezzare in tempi rapidi una sanità pubblica smantellata da tempo. Quale soluzione trovare rapidamente? Confinamenti, lockdown, restrizioni di ogni genere per la popolazione in generale, ma salvando l’attività economica detta “essenziale”, tutte misure che, in una società in cui le relazioni commerciali e personali viaggiano alla velocità della luce, sono in realtà inefficaci; si attende il miracolo: il vaccino!, col quale risolvere tutti i problemi...

Lo dicono gli stessi scienziati borghesi: per trovare un vaccino efficace ci vogliono anni di ricerca, test su decine di migliaia di persone, rimesse a punto periodiche. Il che vuol dire che il tempo non gioca a favore del vaccino, tanto più che i virus hanno una caratteristica: mutano e, a seconda del virus, le mutazioni possono essere molteplici e anche molto letali perché devono superare di volta in volta i diversi ostacoli frapposti dall’organismo vivente di cui è ospite. Infatti, non è detto che, trovato un vaccino, questo risolva il problema; anzi, spesso il virus muta proprio per poter scavalcare gli ostacoli posti dal vaccino.

Ma la borghesia non può aspettare i tempi lunghi della ricerca scientifica, né può investire capitali in ricerche che non assicurino profitti in tempi brevi; tanto meno può attrezzare un sistema sanitario in grado di far fronte non solo ad un’appendicite o a un intervento a cuore aperto, ma anche a malattie virali più o meno sconosciute che si possono presentare una volta ogni dieci, vent’anni. Perciò, la sua soluzione è quella di imbastire una vasta campagna vaccinale, meglio se anticipata da una potente campagna di paura contro il coronavirus (quel “nemico invisibile e sconosciuto”), con la quale “rassicurare” la popolazione in genere e il proletariato in particolare. Ma la resistenza da parte della popolazione alla vaccinazione generalizzata – in verità una resistenza prevista dai poteri borghesi – provocata da una diffidenza non episodica verso la sanità pubblica, ha consigliato ai poteri borghesi, fin dall’inizio, di non rendere la vaccinazione obbligatoria per legge, cosa che in situazione di grave emergenza il potere borghese prevede anche nella sua Costituzione. Ma la democrazia ha i suoi canoni e fino a quando la borghesia riesce ad ottenere dalle illusioni democratiche un consenso da parte della maggioranza della popolazione, e un sostegno da parte del proletariato, non ha ragione di cancellarla per svelare il suo vero volto dittatoriale; le basta applicare l’autoritarismo, giustificandolo con l’emergenza, in questo caso sanitaria... l’obbligo vaccinale può sempre essere adottato in tempi successivi se le misure prese fino a quel momento non hanno prodotto il risultato cercato. Ed infatti, a tappe successive, partendo naturalmente dal colpire con l’obbligo del green pass tutti i lavoratori, la borghesia è arrivata a imporre la vaccinazione anche a tutti coloro che hanno compiuto i 50 anni, misura che dal punto di vista sanitario non ha alcun senso, in attesa eventualmente di espandere la fascia d’età a coloro che di anni ne hanno 40, 30... 

Il cambio di governo, col testimone che passa dall’”avvocato del popolo” all’ex governatore della Banca d’Italia ed ex presidente della BCE, Mario Draghi, è stato in qualche modo un cambio di registro nel tentativo di dare al paese un governo di “unità nazionale”. La classe dominante borghese, che aveva sostenuto in precedenza i governi basati su coalizioni che vedevano come perno centrale il M5S, il partito che nelle elezioni del 2018 aveva avuto più voti di tutti, ma non abbastanza per governare da solo (il Conte I, M5S + Lega, e successivamente il Conte II, M5S + PD + Italia Viva), di fronte ad una crisi economica che si stava aggravando a causa della pandemia di Covid-19, e in vista della gestione dei fondi europei per combatterla (più di 200 miliardi di euro tra prestiti ed erogazioni a fondo perduto), non si fidava più di un governo i cui partiti non erano in grado di assicurare una gestione che desse forte priorità alla ripresa economica unitamente a un controllo delle masse proletarie che sarebbero state colpite certamente nelle loro condizioni di esistenza e di lavoro. E così, la classe borghese, attraverso la sua diretta pressione economica e sociale e le sue ramificazioni politiche e parlamentari, ha spinto perché si costituisse un governo allo stesso tempo rassicurante rispetto alle sue attese e gradito a livello internazionale, e particolarmente in Europa. Come già in precedenza Carlo Azeglio Ciampi, e poi Mario Monti, così è stato il caso di Mario Draghi: ex banchieri, non legati specificamente ad alcun partito, sensibilissimi alle richieste del capitalismo finanziario e accolti con grande rispetto nelle istituzioni economiche e finanziarie internazionali. Per di più, Mario Draghi, in quanto ex presidente della BCE, ruolo nel quale dimostrò di difendere l’euro e l’economia europea con grande determinazione (come disse a suo tempo: “a tutti i costi”), appariva proprio “l’uomo giusto al momento giusto”.

Ma siamo in Italia, e una reale coesione governativa tra partiti che per principio si fanno lo sgambetto a vicenda e che spesso agiscono contemporaneamente come partiti “di governo” e partiti “diopposizione”, anche sotto un “uomo di polso” come Draghi, costringe il governo a viaggiare sul filo del rasoio tra le lotte interne tra i partiti di governo, la pressione delle istituzioni finanziarie che pretendono di essere rassicurate sui progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza e la necessità di un controllo sociale più stretto. Di fatto, nel giro di 10 mesi i partiti della coalizione sono passati da una coesione di facciata e da una unanimità forzata ad una lotta sottobanco per avvantaggiarsi elettoralmente non solo rispetto ai miliardi dei fondi europei del Pnrr da destinare a questa o a quella categoria o settore, ma anche in vista della fine della legislatura e dell’elezione del nuovo presidente della repubblica.

Ciò non toglie che il governo Draghi abbia in realtà proseguito, con più carisma e più forza, la politica varata dai precedenti governi Conte rispetto alla pandemia e al controllo sociale. Dal 13 febbraio 2021, giorno del suo insediamento ufficiale, al 31 dicembre 2021, Draghi ha convocato 54 Consigli dei ministri e varato 109 provvedimenti legislativi in gran parte sotto forma di decreto. Ciò significa che per la maggior parte delle decisioni governative non c’è stato coinvolgimento del parlamento. Se ci fosse stato bisogno di un’ulteriore dimostrazione che il parlamentarismo è solo una foglia di fico, eccola. Le diverse misure adottate, che hanno cercato di non giungere ai lockdown, si sono ammucchiate e frazionate continuamente, inseguendo l’altalena dei contagi e dei ricoveri in terapia intensiva, andando a svantaggiare ora determinati settori, ora altri, nel tentativo di soddisfare le richieste che i vari partiti ponevano sul tavolo sulla base del proprio interesse e come ricatto per concedere il proprio consenso a richieste di altri. Il tutto sotto una continua forzatura nella campagna vaccinale – non a caso sottoposta al comando di un generale della logistica – che ha toccato un primo apice nell’obbligo del lasciapassare vaccinale per tutti i lavoratori del pubblico e del privato, pena la sospensione dal posto di lavoro e dal salario; e che ha toccato proprio in questi giorni un’altra vetta, nell’obbligo del lasciapassare vaccinale (o super green pass, o green pass rafforzato) per tutti i cittadini dai 50 anni in su. La discriminazione, del tutto illogica e assurda rispetto all’efficacia sanitaria, punta evidentemente ad un altro obiettivo: piegare i proletari, e attraverso di loro la popolazione intera, a misure che in futuro diverranno ancora più drastiche, ancora più autoritarie, e che non si limiteranno al quadro sanitario, ma potranno riguardare qualsiasi altro aspetto della vita sociale.

Che interesse ha la classe dominante borghese a calpestare la sua stessa Costituzione, perdipiù attraverso decreti e non seguendo gli iter parlamentari previsti, Costituzione che, tra l’altro, nega la possibilità di imporre determinate cure sanitarie se il paziente è contrario? E’ evidente che sta puntando ad altri obiettivi, che non sono soltanto di ordine economico immediato, ma nel futuro di controllo sociale. Infatti, le prossime crisi economiche e finanziarie saranno sicuramente più devastanti di quelle passate e il potere borghese vuole addestrare il proprio proletariato ad una collaborazione forzata, visto che la collaborazione democratica sta logorandosi sempre più. La sempre più bassa partecipazione alle elezioni, in un paese come l’Italia che nei decenni dal dopoguerra in poi ha avuto sempre una partecipazione piuttosto alta, è uno dei segnali che impensieriscono la classe dominante; essa immagina che in situazioni di crisi sociali più gravi di quelle già passate, non avrà più a disposizione tutte le risorse finanziarie che le hanno consentito finora di sovvenzionare gli ammortizzatori sociali con i quali tacitare i loro bisogni più impellenti, e non avrà più al suo fianco forti partiti operai borghesi come sono stati i partiti stalinisti e nazionalcomunisti, capaci di imbrigliare le masse proletarie nelle illusioni democratiche e nella convinta collaborazione fra le classi.

La classe borghese si sta dunque preparando ad avviare direttamente la collaborazione di classe, forzando il proletariato ad accettarla, ricattandolo in ogni aspetto della sua vita quotidiana. E non le importa affatto di essere criticata perché colpisce le libertà individuali, i diritti sanciti dalle sue stesse leggi, perché non coinvolge i sindacati nelle decisioni che riguardano il mercato della forza lavoro. I partiti operai borghesi e gli stessi sindacati, in più di ottant’anni di collaborazione di classe, si sono logorati a tal punto da non poter più garantire alla borghesia, come un tempo, il controllo da parte loro delle masse proletarie. Questi veri e propri aguzzini del proletariato che, a differenza dalla polizia, non usano l’aperta repressione e le armi (specialità per il momento ancora lasciata alle forze dell’ordine), ma usano i loro privilegi per gestire gli accordi contrattuali sulle teste dei loro iscritti, i passaggi di categoria, gli spostamenti, la cassa integrazione, i licenziamenti ecc. ecc., si sono dedicati sempre più a difendere i piccoli privilegi che li accomunano all’aristocrazia operaia, agli strati operai meglio pagati e più collaborativi con i padroni, i più sensibili a difendere l’azienda, la sua competitività sul mercato e il suo buon andamento, perché in essa si identificano vendendo anima e corpo al padrone. Non per caso, le categorie proletarie più maltrattate, più precarie, più ai margini delle grandi fabbriche sono abbandonate dai grandi sindacati alla loro sorte; è il caso degli operai di molte medie e piccole aziende, degli operai della logistica, dei riders, dei braccianti, dei dipendenti delle aziende legate al turismo e alla ristorazione. Ma sono gruppi operai che sfuggono a un controllo organizzato da parte delle istituzioni sindacali e politiche tradizionali, e che possono fare da miccia, un domani, a rivolte di piazza, non solo perché provengono in parte dall’immigrazione, ma perché sono più giovani e, tendenzialmente, più ribelli.

Ebbene, se da un lato le crisi economiche hanno via via eliminato posti di lavoro che apparivano duraturi e intoccabili, anche nel settore pubblico, dall’altro hanno consentito ai capitalisti di sostituire gradatamente la massa operaia più anziana – e più legata a diritti acquisiti attraverso le lotte di un tempo – con una massa più giovane ma più inesperta e meno legata alle grandi lotte degli anni Sessanta e Settanta. L’eliminazione dai posti di lavoro degli operai più anziani, invitandoli a lasciare il lavoro prima dell’età pensionabile tramite degli incentivi, se da un lato è stata accolta da questi operai come un’occasione fortunata dopo una vita passata a sputar sudore e sangue, dall’altro sta togliendo alle giovani leve l’opportunità di avere fianco a fianco un punto di riferimento in fabbrica, per esperienza di lotta e per conoscenza dei diritti acquisiti grazie a quelle lotte. Un punto di riferimento che potrebbe non mancare, in realtà, se l’organizzazione sindacale fosse un’organizzazione di classe, se fosse effettivamente un’organizzazione di difesa degli interessi proletari al di sopra dell’età, del sesso, della nazionalità, della specializzazione, del grado di istruzione. Ai giovani proletari, di fatto, l’opera combinata dei capitalisti e dei sindacalisti collaborazionisti ha tranciato il legame, per quanto pallido e tenue, che ancora esisteva con la massa operaia più anziana. Il ricatto lavorativo appena emanato per decreto dal governo Draghi contro i lavoratori non vaccinati dai 50 anni in su va oggettivamente in questa stessa direzione: non soltanto discriminando i non vaccinati dai vaccinati, ma colpendo quella massa di lavoratori tra i quali è maggiore il numero dei diffidenti verso la medicina ufficiale e, quindi, anche dei vaccini

Il 2020 era passato gettando l’economia italiana in forte recessione dalla quale la borghesia intendeva risalire in tempi più veloci possibile. Una volta avuti a disposizione i nuovi vaccini anti-Covid, i governi europei hanno avviato una vasta campagna vaccinale dando alla propria popolazione e soprattutto al proprio proletariato l’illusione che grazie a innovativi e miracolosi vaccini il Covid sarebbe stato sconfitto. AstraZeneca, Pfizer e poi Moderna diventarono in pochissime settimane i simboli della “rinascita”; venivano considerati “la” soluzione, garantendo la vittoria nella battaglia contro il coronavurus, salvo poi assistere all’eliminazione dall’orizzonte dei vaccini di AstraZeneca e di Johnson&Johnson senza tante spiegazioni…

 

IL VACCINO AL DI SOPRA DI TUTTO!

 

Non siamo mai stati integralisti no-vax, non avrebbe senso; ma da sempre il marxismo sa leggere le dinamiche oggettive del capitalismo e quindi sappiamo che la reale prevenzione contro la grandissima parte delle malattie virali non sta nel fabbricare di volta in volta un vaccino ad hoc – questo, in realtà, è quel che interessa al capitale – ma nel non distruggere l’ambiente animale e naturale in cui i virus vivono e si diffondono: la deforestazione, la cementificazione, la distruzione sistematica degli ecosistemi spingono milioni di virus, parassiti che l’uomo conosce solo in parte, dal loro ambiente e dagli animali-ospiti al salto di specie, cosicché giungono all’uomo, infettandolo e, nei casi più gravi, uccidendolo. L’uomo dell’età capitalistica degenera fisicamente, organicamente, mentalmente, così come degenera il sistema sociale stesso, e questa sua degenerazione comporta un costante depotenziamento del suo sistema immunitario naturale generatosi nelle migliaia di anni di sua esistenza sulla terra. L’inquinamento dell’aria, dell’acqua, del suolo che il capitalismo sta portando a livelli altissimi – e lo sta facendo esclusivamente per interessi economici di parte – si combina con una vita sociale costringe milioni di esseri umani ad ammassarsi in città sempre più simili a formicai, in condizioni igienicamente disastrate, sottoponendoli per la maggior parte (e questi sono i proletari) ad uno sfruttamento delle loro forze fisiche e nervose tale da renderli inevitabilmente suscettibili ad ogni sorta di malattia. Un’umanità malata è una pacchia per gli interessi delle aziende capitalistiche che si occupano di farmaci, e in un certo senso è una pacchia anche per i poteri politici borghesi perché un proletariato fisicamente debilitato è più esposto alla pressione economica e sociale che lo vuole piegato alle esigenze del mercato e non della vita umana.

Naturalmente la borghesia non può fare a meno della classe dei lavoratori salariati dal cui sfruttamento intensivo trae tutti i suoi vantaggi economici, sociali e politici. Perciò è interessata a far sì che le malattie non annientino completamente le masse proletarie; come d’altra parte è interessata a non annientare completamente i soldati nelle sue guerre. Chi lavorerebbe sennò per lei? Chi si farebbe ammazzare sennò per lei?   

La via d’uscita per i proletari da questa situazione è certamente ardua e per niente semplice. Come fare a superare decenni di rincoglionimento democratico e collaborazionista per prendere finalmente in mano le sorti della propria vita, della propria lotta? Abituati per generazioni a pensare come la pensano i padroni, come propagandano i politicanti di ogni risma e come praticano tutte le istituzioni esistenti, cosa possono fare i proletari per sottrarsi a questa formidabile pressione economica, sociale, politica, culturale e religiosa i cui attori sono presenti dappertutto e occupano qualsiasi aspetto della vita sociale?

L’istinto, d’altronde condizionato dalla vita sociale che si conduce, porta a ridurre tutti i problemi della vita alla sfera individuale, dunque anche il problema della lotta contro condizioni di esistenza e di lavoro intollerabili. E’ inevitabile, è un fatto materiale. Ma la vita sociale che il capitalismo non può cancellare, anche perché è dal lavoro associato che trae i maggiori vantaggi, prima o poi mette i proletari – individui che il capitalismo accomuna nelle condizioni generali di lavoratori salariati, sfruttati in quanto appunto salariati, senza riserve – nelle condizioni di solidarizzare gli uni con gli altri perché ognuno vede nell’altro se stesso, vede lo stesso tipo di condizione schiavista, e riconosce in questa comunanza di condizione sociale la base di una solidarietà semplice, tra schiavi, una solidarietà che unisce nella lotta e che fa da base all’organizzazione di una lotta che ponga obiettivi altrettanto semplici: migliori condizioni di lavoro, migliori condizioni di esistenza, salari più alti, meno ore di lavoro giornaliere.

La lotta operaia, dopo essere stata lacerata e stravolta dall’opportunismo e dal collaborazionismo interclassista per decenni, deve necessariamente tornare alle origini, in un certo senso deve tornare alle sue primitive manifestazioni di intolleranza rispetto alle condizioni di sfruttamento che si fanno sempre più pesanti.

Nel Manifesto del 1848, Marx ed Engels affermano che, con lo sviluppo dell’industria, il proletariato non solo si moltiplica ma viene addensato in masse sempre più grandi, nelle fabbriche; e le condizioni di esistenza all’interno del proletariato si fanno sempre più simili man mano che le macchine (oggi diremmo la tecnologia) cancellano le differenze del lavoro e quasi dappertutto fanno diminuire sempre più il salario , ad un livello egualmente basso per masse sempre più numerose di proletari. Il salario diventa sempre più oscillante, precario, insicuro, soprattutto in periodi di crisi capitalistiche. Da un lato il macchinismo si sviluppa perfezionandosi sempre più, dall’altro l’operaio precipita in condizioni di esistenza sempre più precarie. Il problema che si pone, perciò, è quello di sopravvivere. E allora due istinti spingono alla lotta l’operaio: l’istinto alla sopravvivenza e l’istinto ad associare alla propria lotta gli altri operai che si riconoscono nelle stesse condizioni di esistenza. Terreno primitivo, dicevamo, nel quale le sconfitte del movimento proletario e comunista degli anni Venti del secolo scorso e i decenni di vittoria controrivoluzionaria hanno respinto le masse proletarie di oggi scollegandole da quel filo storico su cui è stata tracciata la via dell’emancipazione del proletariato dal lavoro salariato, dalla schiavitù salariale. Un filo storico che le rare forze sopravvissute alla baldanzosa vittoria della controrivoluzione mentengono ancora vivo, nella tradizione della Sinistra comunista d’Italia, certe che il capitalismo, nelle sue più forti contraddizioni, non lavora soltanto per mantenersi in vita il più a lungo possibile, ma genera costantemente, proprio in forza del suo sviluppo industriale, masse proletarie sempre più numerose, in tutti i continenti.

Se non saranno i proletari inglesi o americani a scendere per primi sul terreno della lotta di classe, come non lo sono stati nei primi anni Venti del secolo scorso, ma è stato il proletariato russo in un paese arretrato e in gran parte contadino, e se non saranno domani i proletari tedeschi o francesi o italiani– che nella storia hanno dato esempi formidabili di lotta rivoluzionaria – a riprendere in mano il testimone della lotta di classe proletaria per guidare il movimento proletario internazionale verso il grande obiettivo del socialismo e del comunismo, saranno magari i più giovani proletari africani o asiatici a giocare il ruolo che giocò il proletariato russo. Oggi più di ieri, l’internazionalizzazione del capitalismo non ha aperto i confini soltanto al capitale, alle relazioni commerciali, industriali e politiche tra le borghesie dei diversi paesi, ma li ha aperti anche ai proletari di ogni paese, di ogni nazionalità. Se è vero che una scossa nella Borsa di Shangai si ripercuote con grande velocità a Washington, a Londra o a Francoforte, è anche vero che uno scossone proletario in India, in Sudafrica o in Iran si può ripercuotere con grande velocità nel continente europeo o americano. La scintilla della lotta di classe può scoppiare in Kazakistan come in Nigeria, in Bangladesh come in Turchia, o tornare a scuotere i poteri borghesi in Germania come in Italia. Sappiamo che l’incendio rivoluzionario non scoppia per caso, ma in forza dei fattori contraddittori generati economicamente e socialmente dallo stesso capitalismo e rispetto ai quali sono venuti a maturazione i fattori politici e soggettivi della lotta di classe proletaria. La comune di Parigi del 1871, la  Comune di Pietrogrado del 1917, la Comune di Shangai del 1927 non sono stati episodi avulsi dalla storia dello sviluppo del capitalismo e della lotta fra le classi. Hanno segnato delle fasi ben precise sul corso di questo sviluppo, al di là della distanza di anni fra l’una e l’altra e fra loro e il tempo presente.

Noi lavoriamo in vista delle prossime scintille di lotta classista e del prossimo incendio rivoluzionario con le stesse certezze con cui lottarono i proletari di Parigi, di Pietrogrado, di Shangai, nella stessa prospettiva e con la stessa intransigenza teorica che distinse i grandi marxisti di ieri, Marx, Engels, Lenin, e ci permettiamo di aggiungere ai grandi rivoluzionari russi che, con Lenin, formarono il partito bolscevico nel formidabile disegno della rivoluzione internazionale, anche Bordiga che nell’Occidente supersviluppato, democratico e fascista al contempo, seppe tenere la barra marxista ferma sulla rotta della stessa rivoluzione internazionale

 


 

(1) Vedi La classe dominante italiana e il suo Stato nazionale, “Prometeo” n. 2, agosto 1946, consultabile nel sito www.pcint.org.

(2) Cfr. Lenin, Karl Marx, 1914, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 14. 

(3) Cfr. Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, 1848, G. Einaudi Editore, Torino 162, § Borghesi e proletari, p. 108.

(4) Vedi Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Prefazione alla prima edizione del 1884, Fasani editore, Milano 1945, p. 13. Anche Edizioni lotta comunista, F. Engels, Scritti maggio 1883-dicembre 1889, Milano 2014, p. 29.

(5) Cfr. Marx-Engels, Manifesto, cit. p. 107.

(6) Ibidem, pp. 107-108.

(7) Cfr. il comunista, n. 166, dicembre 2020, e n. 167, genn-marzo 2021.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice