A proposito del proletariato come “Quarto Stato”

(«il comunista»; N° 173 ; Aprile-Giugno 2022)

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E’ stato dato molto risalto recentemente al grande quadro di Giuseppe Pellizza da Volpedo, intitolato “Quarto stato”, che il comune di Milano ha prestato al comune di Firenze per una esposizione di due mesi nella città artistico-turistica per eccellenza. E così, dal Museo del Novecento di Milano il dipinto è stato trasferito al Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio perché venga esposto per due mesi. E’ ormai assodato, d’altra parte, che il riformismo “socialista”, l’opportunismo più in generale e, infine, il riformismo borghese, hanno adottato all’unisono questo quadro come il simbolo della classe lavoratrice e della sua richiesta pacifica di diritti. Questo quadro, su cui Pellizza ha lavorato dal 1898 al 1901, e aldilà delle intenzioni del pittore, è diventato nel tempo sempre più il dipinto-manifesto della pace sociale. Raffigura una manifestazione di lavoratori che avanzano, a mani nude, completamente “disarmati” – non c’è l’ombra né di una falce né di un martello – che il pittore Pellizza da Volpedo, dopo essersi immerso negli scritti di Jean Jaurés sulla Rivoluzione francese e dopo che a Milano i soldati del generale Bava Beccaris spararono contro donne, uomini, vecchi e bambini che avevano preso parte ai moti contro l’aumento del costo del pane, volle intitolare “Quarto Stato”. Come se nella società capitalistica non ci fossero le classi, ma ancora gli “stati”: dopo la nobiltà e il clero e dopo la borghesia (“terzo stato”), il “quarto stato” – il popolo lavoratore – chiedeva di essere riconosciuto come tale...

 

Ma la borghesia rivoluzionaria, dalla Rivoluzione francese in poi, ha proceduto ad abolire gli stati feudali coi loro specifici privilegi e limiti. Parlare di “quarto stato” è parlare dei tempi del feudalesimo, quando il feudalesimo stava per crollare sotto la potente pressione dello sviluppo delle forze produttive e la rivoluzione delle classi borghese, proletaria e contadina.

Concludendo il suo scritto Miseria della filosofia (Risposta alla Filosofia della miseria, di Proudhon, del 1847), e ribadendo che la società borghese è una società divisa in classi, Marx scrive:

«Una classe oppressa è la condizione vitale di ogni società fondata sull’antagonismo delle classi. L’affrancamento della classe oppressa implica dunque di necessità la creazione di una società nuova. Perché la classe oppressa possa affrancarsi, bisogna che le forze produttive già acquisite e i rapporti sociali esistenti non possano più esistere le une a fianco degli altri. Di tutti gli strumenti di produzione, la più grande forza produttiva è la classe rivoluzionaria stessa. L’organizzazione degli elementi rivoluzionari come classe presuppone l’esistenza di tutte le forze produttive che potevano generarsi nel seno della società antica.

«Ciò vuol dire forse che dopo la caduta dell’antica società ci sarà una nuova dominazione di classe, riassumendosi in un nuovo potere politico? No.

«La condizione dell’affrancamento della classe lavoratrice è l’abolizione di tutte le classi, come la condizione dell’affrancamento del “terzo stato”, dell’ordine borghese fu l’abolizione di tutti gli stati e di tutti gli ordini.

«La classe lavoratrice sostituirà, nel corso dello sviluppo, all’antica società civile un’associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo, e non vi sarà più potere politico propriamente detto, poiché il potere politico è precisamente il compendio ufficiale dell’antagonismo nella società civile.

«Nell’attesa, l’antagonismo tra il proletariato e la borghesia è una lotta di classe contro classe, lotta che, portata alla sua più alta espressione, è una rivoluzione totale».

 

Engels, in una nota all’edizione tedesca del 1885 di questo scritto di Marx, fa una importate precisazione relativamente alla parola stati usata in questo caso da Marx: «Stati qui nel senso storico di stati dello Stato feudale. Stati con privilegi determinati e limitati. La rivoluzione della borghesia abolì gli stati insieme ai loro privilegi. La società borghese non conosce più che classi. La designazione del proletariato quale “quarto stato” era perciò in assoluta contraddizione con la storia».

La precisazione di Engels è quanto mai utile per comprendere come l’opportunismo social-comunista, prima, e resistenzial-collaborazionista, poi, ha cancellato la tradizione classista delle lotte operaie con un’attitudine pacifista, legalitaria e collaborazionista. Ma l’opportunismo non è soltanto la tendenza politica dichiaratamente collaborazionista e legalitaria; può essere anche mascherato da un certo sinistrismo della frase, come diceva Lenin, che di base accetta le categorie borghesi solo che le riveste con parole “rivoluzionarie”, o anche quello mascherato da un certo ultimatismo – come, negli anni Cinquanta del secolo scorso, era rappresentato dal gruppo francese Socialisme ou Barbarie – che vedeva nella burocrazia (la famosa nomenclatura russa) una nuova classe sociale. All’epoca si colse questa palese confusione tra i concetti di ordine e di classe come l’occasione per fare chiarezza, e per  definire dal punto di vista marxista la differenza tra “stati”, intesi appunto, come spiegava Engels, come partizioni sociali con determinati privilegi.

 

Nel “filo del tempo” del 1953, intitolato Danza di Fantocci, dalla Coscienza alla Cultura, Amadeo Bordiga scrive:

«La parola classe che il marxismo ha fatto propria è la stessa in tutte le lingue moderne: latine, tedesche, slave. Come entità sociale-storica è il marxismo che la ha originalmente introdotta, sebbene fosse adoperata anche prima. La parola è latina in origine, ma è da rilevare che classis era per i Romani la flotta, la squadra navale da guerra: il concetto è dunque di un insieme di unità che agiscono insieme, vanno nella stessa direzione, affrontano lo stesso nemico. Essenza del concetto è dunque il movimento e il combattimento, non (come in una assonanza del tutto... burocratica) la classificazione, che ha nel seguito assunto in senso statico (...). Classe dunque indica non diversa pagina del registro di censimento, ma moto storico, lotta, programma storico. Classe che deve ancora trovare il suo programma è frase vuota di senso. Il programma determina la classe. (...)

  «Ordine invece è una partizione della società che vorrebbe conservarla immobile e garantita contro le rivoluzioni. In grado diversissimo le partizioni sociali che la storia ha presentato sono suscettibili di lasciar prorompere lotte di classe. Marx spiega perché le società asiatiche sono ostinatamente immutabili: lo stesso modo locale e spesso ancora “comunista” di produzione non genera contrasto tra forze produttive e schema sociale. Di qui la gigantesca importanza, se in Persia, in India, in Indocina, in Cina, il contrapporsi delle classi è scattato.

«Gli ordini della società medioevale ad un certo punto non resistettero alla trasformazione in classi: navigazione, commercio, manifattura, scoperte meccaniche, fecero il miracolo.

«Ordine in francese si dice, ricordammo, “état”, colla stessa parola che indica lo Stato politico centrale, che in fondo nel primo feudalesimo è appena delineato e si riduce alla corte militare dell’imperatore o re. (...) Gli ordini erano allora tre, secondo l’organamento feudale. Primo ordine, premier état, la nobiltà, chiusa in un gruppo ereditario di famiglie e di titoli araldici; secondo ordine, deuxième état, il clero, secondo l’organismo gerarchico della chiesa cattolica; troisième état, terzo ordine, fu detta la borghesia, che in effetti non partecipava al potere, pure essendo rappresentata negli “stati generali”, ossia nella assemblea nazionale degli ordini, corpo non legislativo e tanto meno esecutivo, ma appena consultivo del re e del suo governo: tali borghesi erano allora mercanti, finanzieri, funzionari. (...) Quando il modesto e poco decorativo terzo ordine diventò la possente e rivoluzionaria classe capitalista si disse: cosa è il terzo Stato? Nulla. Cosa vuole essere? Tutto!

«Ma poiché coi capitalisti veniva sulla scena una nuova classe, i lavoratori delle manifatture (male non sarà dire anche che gli artigiani liberi non erano un ordine costituito, ma si organizzavano in corporazioni di mestiere, e solo le professioni liberali avevano un posto nel terzo Stato), piacque nel tempo che può dirsi romantico del movimento operaio parlare non della nuova classe rivoluzionaria nella società borghese ma di un nuovo ordine, di un quarto Stato. (...)

«La borghesia moderna sarebbe un ordine mascherato sotto l’abolizione degli ordini e non  resterebbe che opporle un giustiziere; come l’ordine borghese, il terzo Stato, ha spazzati via quelli nobiliari e chiesastici, così il quarto Stato spazzerà l’ordine dei padroni di impresa. Ridotta la ricetta a questo, restano avulse tutte le parole di fiamma con cui il Maestro descrive l’epopea della borghesia durante dieci secoli, in cui si rivela classe, abbatte non dati ordini, ma il sistema degli ordini; e restano avulse tutte le pagine della massima opera di Marx in cui viene sulla scena questa forza sociale, non più legata come le precedenti a gruppi di persone e a tipi personali di dipendenza, il Capitale. Borghesia non suona ordine, ma rischio», il rischio d’impresa, il rischio del commerciante, il rischio del capitalista e dell’azionista di Borsa.... Un rischio che la borghesia accetta perché è la classe dominante, la classe che non solo è proprietaria di tutti i mezzi di produzione e di distribuzione, della terra e del sottosuolo e che ha esteso la sua “proprietà” anche ai mari e ai cieli disegnandovi i confini secondo le frontiere delle proprie nazioni, dei propri Stati, ma soprattutto perché si appropria l’intera produzione, l’intera ricchezza risultante dall’impiego delle forze produttive, dall’impiego della forza lavoro salariata.

Parlare quindi del proletariato come fosse un ordine, una partizione sociale, un “quarto stato” e non come una classe intesa marxisticamente, con un suo compito storico, un suo programma, una sua ben definta rotta da seguire in quanto unica classe rivoluzionaria della società moderna, significa non solo falsare un dato storico ineluttabile – l’antagonismo tra la classe proletaria e la classe borghese, irrisolvibile all’interno della società capitalistica – ma deviare completamente il proletariato dalla sua lotta storica contro la borghesia, dal suo fine storico della società senza classi, della società di specie, del comunismo, fine verso il quale si è diretto storicamente lo stesso sviluppo delle forze produttive, scontrandosi sistematicamente contro le forme della produzione capitalistica, contro i rapporti di produzione e sociali borghesi. Un fine che non può essere raggiunto se non attraverso un lungo periodo di sconvolgimenti sociali e di rivoluzioni nel quale la classe proletaria, guidata dal partito di classe a livello internazionale, abbatterà il potere delle classi borghesi per instaurare, contro la dittatura del capitale, delle merci, del denaro, in parole povere della borghesia, la sua dittatura di classe come unico mezzo per intervenire nei rapporti di produzione e sociali, quindi nel modo di produzione capitalistico che ha da lungo tempo svolto il suo progressista compito storico rispetto al modo di produzione feudale ed asiatico e che, persistendo, non fa che ribadire la sua trasformazione in un sistema reazionario e antisociale.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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