Pace sociale e guerra imperialista

Un testo di partito del 1960 in cui si espongono le posizioni invarianti del  marxismo sul grande tema dell'imperialismo sia in pace che in guerra, e che ribadiamo senza cambiare una virgola

(«il comunista»; N° 174 ; Luglio-Settembre 2022)

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PREMESSA

 

Questo testo - Paix sociale et guerre impérialiste - che riassume le posizioni del comunismo rivoluzionario sulla natura e sulle caratteristiche delle guerre nel corso dello sviluppo storico della società borghese, nonché sulla linea teorica e politica di classe che il proletariato dovrebbe seguire a questo riguardo, è apparso nella nostra rivista «programme communiste» numero 11, dell’aprile/giugno 1960, quando l'Urss stalinista era ancora in piedi con tutto il suo falso socialismo, condito con un'impossibile "coesistenza pacifica" tra briganti imperialisti.

Il testo riprendeva l’editoriale del precedente «programme communiste» del gennaio/marzo 1960, che sotto il titolo «Honte et mensonge de la détente»  (Vergogna e menzogna della distensione) criticava l’illusione di un nuovo corso pacifista del capitalismo in cui si potessero placare le tensioni e i conflitti tra gli imperialismi dominanti o in cerca di dominio. Questa illusione fu determinata dalla lunga visita di Kruscev, primo segretario del Comitato centrale del PC dell’Unione Sovietica, al suo omologo americano, il presidente Eisenhower, nel settembre 1959.

Questo editoriale ricordava quindi che: «La verità è che il capitalismo e la pace sono incompatibili e che la guerra ha le sue radici non nella volontà umana, anche se della classe dirigente, ma nelle leggi dell’economia capitalista, che nessuna volontà umana può cambiare».

Oggi, sotto il rombo dei cannoni in Ucraina e in compagnia dello spettro di una nuova guerra mondiale imperialista, queste righe, che prendono di mira tutti i discorsi borghesi del passato sulla pace o sulla coesistenza pacifica, assumono tutto il loro valore nel ricordare ai proletari di tutti i campi che l’attuale guerra in Europa orientale non è la loro, ma quella dell’imperialismo mondiale di cui fanno parte le loro nazioni «democratiche» o «neo-sovietiche», con le loro evidenti contraddizioni. I discorsi pacifisti borghesi, da ciarlatani e metafisici, di questo periodo di grande «riconciliazione» e «apertura» tra i nemici di ieri, avevano come obiettivo di fondo il disarmo politico della classe operaia e il suo allineamento alla pace sociale, che è reale.

Tuttavia, una volta superate le nebbie di questo splendido incontro magnificato, l’imperialismo ha continuato a ritmo ancora più sostenuto la sua marcia in avanti nella produzione di armi convenzionali o nucleari, sviluppando in entrambe le categorie le tecnologie più sofisticate e letali, per prepararsi alle guerre generali che sosteneva invece di poter evitare grazie al ristabilito dialogo tra le due superpotenze.

La corsa agli armamenti si è completata con la continuazione e l’estensione delle guerre contro i Paesi che cercavano di liberarsi dal giogo coloniale e anche contro quelli, borghesi e ancorati all’economia capitalista, etichettati come «delinquenti» o «terroristi», che cercavano di affermarsi localmente nei confronti e contro tutti i diktat del dominio imperialista. Queste guerre sono diventate un banco di prova di tutto questo arsenale mortale, un campo di addestramento per le strategie e le tattiche militari e un’opportunità per valutare le capacità militari dell’avversario e la sua forza nel difendere i suoi interessi imperialisti e la sua influenza a livello mondo.

È giunto il momento dei discorsi di guerra e domani i discorsi di pace torneranno in primo piano sulla scena politica e ideologica della borghesia se il proletariato non riconquisterà il terreno della lotta di classe per ergersi contro il capitalismo.

Ma questi discorsi non faranno altro che preparare il futuro a nuove guerre, fino alla guerra mondiale.

 

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Per gli statisti come per gli astrologi, per i politici come per i burocrati sindacali, il 1960 è l’anno del trionfo della pace. Ci è voluto però mezzo secolo di declino del movimento operaio perché questa pace, all’ombra della quale avvengono massacri e sfruttamento, torture e spoliazione, potesse essere proposta alle masse indebolite come «vittoria dei lavoratori».tc "Per gli statisti come per gli astrologi, per i politici come per i burocrati sindacali, il 1960 è l’anno del trionfo della pace. Ci è voluto però mezzo secolo di declino del movimento operaio perché questa pace, all’ombra della quale avvengono massacri e sfruttamento, torture e spoliazione, potesse essere proposta alle masse indebolite come «vittoria dei lavoratori»."

In passato, l’azione operaia contro la guerra era inseparabile dalla richiesta sociale di emancipazione. Il rifiuto del «supremo sacrificio» sull’altare della patria non era altro che la logica estensione del rifiuto dello sfruttamento economico. Gli operai, che non accettavano che la spoliazione della forza lavoro dovesse essere riconosciuta come naturale ed eterna, rifiutarono allo stesso modo di ammettere che le guerre del capitalismo fossero legittime e sacre. Meglio ancora, si ripromettevano, se la borghesia avesse commesso la follia di appiccare l’incendio bellico ai quattro angoli dell’Europa, di soffocarlo subito nel sangue della rivoluzione sociale.

Questa fiera risoluzione e questo solenne impegno dei sindacati e dei partiti operai risalgono a cinquant’anni fa. Lo scenario oggi è ben diverso: dirigenti «comunisti» che, in nome della pace, abbandonano perfino le rivendicazioni più elementari dei lavoratori; capi di stato pseudo-socialisti che si congratulano con i magnati della finanza e i trafficanti d’armi; dirigenti sindacali per i quali la minaccia della guerra, anziché giustificare la rivolta sociale, costituisce, al contrario, un’importante ragione per rinunciarvi; uomini e partiti, infine, che non solo hanno sostituito l’agitazione, gli scioperi, la lotta di classe con «campagne di raccolta firme» sotto il segno della «colomba», implorando servilmente una pace di miseria, ma per di più propagandano nel proletariato la versione più volgare, più ipocrita e più falsa della causa delle guerre: la versione borghese. L’ignoranza delle masse, l’avidità dei potenti, l’ambizione dei capi di Stato o, peggio ancora, la reciproca incomprensione dei popoli divisi da presunti regimi sociali differenti: questa la spiegazione della guerra e dei rischi di guerra che viene propinata congiuntamente tanto dalla propaganda russa quanto da quella americana, da Krusciov come da Eisenhower. Spiegazione ripresa, da parte loro,  da democratici e reazionari, «socialisti» e «comunisti» al ritmo vertiginoso delle rotative e nel rumore assordante delle radio…

 

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Fin dall’inizio del movimento proletario, i marxisti non hanno mai smesso di battersi contro questa «spiegazione». Riprendendo la famosa frase di Clausewitz: «la guerra è la politica che continua con altri mezzi», hanno chiaramente espresso alla borghesia capitalista che, in quanto rivoluzionari e strenui avversari di ogni sfruttamento, non avrebbero mai dimenticato di fronte ad alcuna guerra, qualunque fosse la sua motivazione immediata, che l’unica causa delle guerre moderne risiede nella forma di produzione mercantile-capitalista. Perché una guerra scoppi, sia portata a termine e si risolva con un consolidamento di questa società, occorre che qualunque altro conflitto diverso da quello dei protagonisti militari venga accantonato. È quindi incompatibile con la lotta di classe che deve prima essere imbavagliata. Se questo risultato è stato raggiunto, se il proletariato si è lasciato coinvolgere dalle «ragioni» fornite a favore della sacra unione, se questi partiti hanno accettato il principio di un interesse superiore a quello della rivoluzione operaia (diritto, civiltà, patria e democrazia ecc.), a quel punto poco importa, per le classi sfruttate, quale Stato uscirà vittorioso dal conflitto: in ogni caso, è il capitalismo che ha vinto. Per questo il vero partito proletario non si definisce sulla base della sua posizione di fronte alla guerra o alla pace in generale, ma di fronte al capitalismo, il quale ben si concilia e si adatta tanto all’uno quanto all’altro di questi due volti, ugualmente odiosi e altrettanto infami, della dominazione borghese.

 

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Considerando che ci sono state guerre necessarie e progressiste – vedremo come e perché –, la grande questione che si pone è di decidere se guerre di questo genere, che il proletariato deve sostenere con tutte le forze e non condannare, siano ancor oggi possibili. Diciamo subito, per prendere le distanze dall’opportunismo che ha infettato due intere Internazionali, che né la prima guerra mondiale del 1914-18, né la seconda del 1939-45 possono essere, in alcun modo,  classificate in questa categoria. Questi formidabili sconvolgimenti, che mobilitarono enormi masse sociali negli eserciti regolari o nelle file dei «partigiani», non furono che sordidi conflitti tra potenze capitaliste che si contendevano la forza lavoro da sfruttare, le risorse naturali da depredare, i mercati da dominare. Questi abominevoli macelli, furono perpetrati da Stati militari armati fino ai denti solo per consacrare la vittoria della più rapace forma di sfruttamento capitalista, la cui roccaforte non risiedeva né nel militarismo prussiano né nell’hitlerismo fascista, ma nel cuore della coalizione democratica dominata dalla forza anglo-americana.

La condanna delle due guerre mondiali, il cui carattere imperialista non può, a nostro avviso, essere contestato in buona fede, non ci impedisce, però, di ammettere che ci sono state e ci sono ancora guerre legittime. Qui, infatti, i marxisti si distinguono molto nettamente dai pacifisti, che non hanno solo il torto di essere «piagnucolosi», impotenti e senza risonanza, ma quello di agire su un piano ideologico di non violenza che implica l’accettazione della vere cause della guerra moderna, cioè l’esistenza della società capitalista. Questo li porta sempre a raccogliersi in ultima istanza nell’uno o nell’altro dei campi militari contrapposti, come molti di loro hanno fatto durante l’ultima guerra optando per un larvato filo-hitlerismo o diventando «autentici combattenti della resistenza», oppure ad allungare la lista di uno sterile martirologio che lo Stato borghese, nei paesi anglosassoni, si preoccupa addirittura di ufficializzare legalizzando una certa «obiezione di coscienza». Il marxismo, al contrario, studia ogni conflitto militare, non secondo astratti e vuoti principi di umanità, ma esaminandone la portata e le conseguenze dal punto di vista degli interessi del proletariato, cioè del socialismo. Però il socialismo non solo è estraneo ai valori classici della società borghese: libertà, democrazia, integrità nazionale, ma deve distruggerli, altrimenti non esisterà mai. La libertà è sempre e solo quella dei ricchi e dei potenti. La democrazia è solo un livellamento illusorio, l’abolizione di privilegi anacronistici che scompaiono solo per cedere il passo ai privilegi mille volte più esorbitanti del capitale. L’integrità nazionale non è altro che la salvaguardia del quadro sociale e storico che garantisce questi privilegi. In poche parole, questi principi ideologici, questa struttura dell’economia, del diritto e dell’amministrazione civile, che ciascuna delle ultime due guerre ha affermato di voler difendere fino all’ultimo respiro, interessano, in realtà, solo alla classe borghese, quindi al nemico diretto dei lavoratori (o del proletariato).

Vi fu, tuttavia, un’intera fase storica, relativamente lunga, durante la quale il proletariato fu direttamente interessato al trionfo della borghesia sulle vecchie classi aristocratiche, e in cui il suo partito, l’«Associazione Internazionale dei Lavoratori», auspicò apertamente il sostegno operaio in ogni lotta per il rovesciamento dell’assolutismo monarchico, la conquista delle libertà borghesi, la costituzione o la difesa delle unità nazionali. Per questa tattica c’erano due principali ragioni, una economica e sociale, l’altra politica e storica. Da una parte, il socialismo è impossibile senza lo sviluppo massiccio, su scala mondiale, dell’unica classe capace di realizzarlo: il proletariato. Non c’è proletariato senza capitalismo; non c’è capitalismo senza una rivoluzione borghese che «liberi» la forza lavoro stretta nei rapporti dei diritti personali o nell’organizzazione corporativa. Dall’altra parte, è solo sotto il regime democratico, con lo sviluppo dell’attività politica caratteristica delle società moderne, che gli interessi antagonisti del proletariato e della borghesia si scontrano con assoluta chiarezza.

Senza dilungarci qui sulle condizioni che il partito proletario ha posto per un sostegno momentaneo (su scala storica, ovviamente) alle rivoluzioni borghesi e ai movimenti di unificazione nazionale, precisiamo subito che l’obiettivo di instaurare forme capitalistiche di produzione e di corrispondente struttura politica non è mai stato, per i marxisti, un fine, ma una tappa che bisognava superare, non per addormentarsi nello pseudo-paradiso della «democrazia»,  †ma al contrario per affrettarne la distruzione. Questo sostegno ai movimenti nazionali e democratici borghesi scompare non appena si realizza questa fase, non appena i paesi in cui si è manifestata entrano definitivamente a far parte del modo di produzione capitalistico. Per questa ragione, e dopo la terribile e omicida esperienza della criminalità borghese subita da proletari inglesi, tedeschi e francesi, il sostegno ai movimenti e alle guerre nazionali si spense nei fiumi di sangue della Comune di Parigi nel 1871, dopodiché ogni «fronte comune » tra borghesia e proletariato nell’Europa capitalista occidentale diviene un tradimento della causa rivoluzionaria e socialista. Marx lo spiegò chiaramente in uno dei suoi pamphlet più brillanti: il massacro dei Comunardi parigini ha segnato, per questa parte del mondo, la definitiva eliminazione di ogni guerra necessaria e progressista. Questa linea di demarcazione della storia, che riproduce fedelmente il vero programma comunista, non è una deduzione puramente teorica, è l’espressione di un grande fatto storico: all’imperativo politico della difesa dei confini nazionali, «ultimo atto di eroismo di cui la vecchia società è capace», la borghesia rinunciò deliberatamente fin dal 1871, mettendo al primo posto la difesa dei suoi privilegi di classe, non esitando a trattare con il capo degli eserciti nemici, come allora fece Thiers con Bismarck, per potersi rivoltare contro il proprio proletariato. Quest’ultimo, che ha sostenuto il movimento di unificazione nazionale solo per poter sviluppare le proprie forze di classe grazie alla generalizzazione delle forze produttive capitaliste, non soppianta in questo compito la borghesia dopo che il capitalismo si è instaurato e quando ormai deve essere abbattuto.

Del resto, la rinuncia della borghesia ad essere classe rivoluzionaria è accentuata e successivamente smascherata con il fenomeno centrale del XX secolo: l’imperialismo. La borghesia si guarderà bene, ovviamente, dall’ammettere che le sue guerre non sono ormai altro che guerre di rapina e di conquista. Per nasconderne gli scopi, continuerà a invocare la difesa del sacro suolo della patria e delle conquiste sociali che ha ottenuto un secolo prima e che da allora non ha smesso di calpestare. Ma questi saranno solo vili pretesti per violare il suolo non meno sacro di altre patrie, per imporre loro il proprio giogo, o con una brutalità militare che eguaglia e supera quella delle truppe delle vecchie monarchie, o con l’ipocrita dominio economico del grande capitale che, non accontentandosi più di dominare sulla vecchia Europa, porta ora le sue devastazioni sugli altri continenti, riduce in schiavitù intere popolazioni, saccheggia le ricchezze naturali dell’Africa e dell’Asia, nelle sue colonie.

 

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Ma questo sfruttamento imperialista, nonostante i ritardi e le contraddizioni, svolge suo malgrado un notevole ruolo rivoluzionario, in quanto risveglia alla vita politica moderna popolazioni fino ad allora chiuse a qualunque massiccio movimento di emancipazione sociale. E questo fenomeno ha il risultato di sottoporre tutti i «valori» ideologici borghesi a un curioso capovolgimento che arriva proprio a confermare l’analisi marxista e la sua prospettiva rivoluzionaria. Le popolazioni coloniali sottomesse reclamano a loro volta i diritti politici che rivendicavano un secolo fa i popoli d’Europa? La borghesia democratica risponde con calunnie e violente repressioni: l’indipendenza dei popoli dell’Asia e dell’Africa è solo un sogno utopico strumentalizzato da «agitatori» pagati. La sacrosanta libertà del lavoro, che aveva procurato al capitalismo europeo il suo esercito industriale di salariati affamati, si rivolta contro lo sfruttamento coloniale privato di una forza lavoro che abbandona i latifondi o l’industria delle cités-champignons (1)? La borghesia bianca risponde con la coercizione, il lavoro obbligatorio o sanzioni che il nativo non può pagare e che lo condanna ai lavori forzati sulla terra del colono. I popoli colonizzati decidono infine di rivendicare la sovranità nazionale, come i popoli d’Europa un tempo ridotti in schiavitù dalle dinastie? Questa è solo una ribellione selvaggia, un attacco «all’integrità del territorio». La borghesia scrive così col sangue e con le armi la propria definizione, rigorosamente conforme a quella data dal «Manifesto comunista»: la libertà consiste nello sfruttare tutta la forza lavoro, per amore o per forza, la nazione è il terreno di questo sfruttamento, e lo Stato nazionale è lo strumento di oppressione che la garantisce.

Ma per il proletariato internazionale, classe rivoluzionaria e universale, che intende liberare l’umanità da ogni sfruttamento e da ogni schiavitù, quando i popoli soggiogati dall’imperialismo arrivano a prendere le armi, le loro guerre non sono forse necessarie e progressiste? Non è legittimo ribellarsi a un sistema che raddoppia lo sfruttamento economico con l’oppressione razziale e, peggio ancora, rafforza il primo consacrando la seconda? Un’intera generazione di socialisti riformisti l’ha ignorato, limitandosi a rivendicare l’uguaglianza di diritti tra gli indigeni sfruttati e i «cittadini» della metropoli,  mascherando così il sordido rovescio della parola d’ordine «salvaguardare la pace», all’ombra della quale ogni giorno si commettono migliaia di ignominie che non hanno nulla da invidiare a quelle che sono moneta corrente in tempo di guerra. Mentre le grandi potenze finanziarie e industriali dell’Occidente smembravano gli altri continenti, trapiantando intere popolazioni e riducendole in schiavitù usando alternativamente il bastone e l’incenso dei missionari, in effetti, era propriola pace che regnava nelle metropoli satolle dove una borghesia insolente e sciocca esibiva il suo lusso davanti agli occhi di un proletariato affamato tradito dai suoi leader ma che conservava ancora abbastanza il senso di solidarietà internazionale per opporsi al brigantaggio colonialista. Che già a quell’epoca la rivolta dei popoli di colore fosse, anche se infruttuosa, socialmente giustificata, che rispondesse a una necessità storica, appare oggi in modo chiaro, quando i paesi ancora ieri assoggettati arrivano finalmente, nonostante le vicissitudini e i tradimenti, alla sovranità nazionale. Quest’ultima non è certo la fine delle loro miserie sociali, né l’obiettivo supremo che le borghesie autoctone, come quelle d’Europa di due secoli fa, vorrebbero assegnare alla rivolta popolare, ma che, creando e sviluppando nuovi capitalismi, crea e sviluppa nuovi eserciti di proletari per il socialismo. Se questo movimento avesse avuto la stessa portata quarant’anni fa, se all’appello del proletariato d’Europa, risvegliato dalla rivoluzione russa di Ottobre, avesse risposto la sollevazione in massa dei milioni di sfruttati dell’Asia e dell’Africa, certamente l’imperialismo avrebbe perso la partita, il capitalismo non avrebbe potuto resistere all’assalto proletario, la controrivoluzione staliniana non sarebbe avvenuta e il socialismo avrebbe già liberato almeno l’antico continente e le sue colonie.

 

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Qui conviene fare riferimento a una formula fondamentale di Lenin, quella che gli impostori di Mosca hanno dovuto falsificare e stravolgere con il massimo accanimento per poter continuare impunemente a rivendicare il marxismo e il comunismo mentre ne infrangevano i principi aderendo alla più ignobile e inaccettabile delle guerre. Lenin chiamava guerra giusta ogni guerra diretta contro lo sfruttamento dei paesi arretrati o colonizzati dalle potenze imperialiste e ogni rivolta armata diretta contro dinastie o potenze di natura feudale che, complici e punti di appoggio per la riduzione in schiavitù di questi paesi da parte del capitale europeo, ne ritardava lo sviluppo economico e ne manteneva le forme barbare e anacronistiche (2). Chiamava ,al contrario, guerra ingiusta qualsiasi conflitto derivante dalla competizione tra potenze capitalistiche e dalla concorrenza per una nuova spartizione dei territori dominati dal capitalismo, sia mediante la coercizione militare alleata nel mantenimento delle vecchie forme dispotiche locali, sia mediante la stretta rete di interessi finanziari. Questa classificazione si opponeva risolutamente ai concetti borghesi di «legittima difesa» e «primo aggressore». Essa poneva in primo piano il carattere generale della guerra appena esplosa: una guerra imperialista tra « schiavisti per il rafforzamento della schiavitù delle colonie», «per una più “giusta” ripartizione e con un ulteriore e più “concorde” sfruttamento di esse» (3). È possibile ed è inevitabile che in simili guerre le nazioni dell’uno o dell’altro campo militare che si fronteggiano si trovino realmente schiavizzate e occupate dalle truppe dell’altro belligerante. Ma ciò non cambia affatto il carattere generale della guerra e non autorizza a considerarla «giusta» o «difensiva». La guerra del 1914-18, spiegava Lenin, fu imperialista perché, in realtà, non si trattava né della particolare sorte del territorio nazionale propriamente detto degli uni o degli altri belligeranti, né della loro sovranità nazionale, ma del loro bottino coloniale, dell’ampiezza dei rispettivi campi di oppressione e sfruttamento. Si trattava, per gli imperialismi ricchi e satolli, di conservare il frutto delle loro rapine coloniali e, per gli imperialismi giovani e ancora mal serviti, di strapparglielo. E «non è compito dei socialisti aiutare il brigante più giovane e più forte [la Germania] a depredare i briganti più vecchi e più nutriti» (4). A coloro che invocavano l’invasione del Belgio nel 1914 per giustificare la loro adesione alla sacra unione patriottica, Lenin rispondeva che era vero che il suolo del Belgio era stato violato dall’esercito tedesco, ma che in queste condizioni, cioè nelle condizioni di una guerra imperialista, «è impossibile aiutare il Belgio se non contribuendo a soffocare l’Austria o la Turchia» (5). E aggiungeva: «Che cosa c’entra in questo la “difesa della patria”»? Questa patria che può essere difesa solo schiacciando altre patrie, vale a dire non dei soli paesi belligeranti, ma anche dei paesi oppressi, dei quali gli imperialismi rivali si contendono il dominio proprio attraverso la guerra.

È ben vero che la propaganda guerrafondaia e sciovinista della borghesia è rafforzata dalle conseguenze stesse del disastro che ha provocato: le popolazioni occupate militarmente e alle prese con le mille miserie e vessazioni che ne derivano sono inevitabilmente inclini a dimenticare le responsabilità dei loro stessi leader nella guerra e il carattere di sfruttamento e oppressione di classe del potere dello Stato che li chiama a lottare contro l’invasore. Ciò costituisce un motivo in più per i rivoluzionari per denunciare con forza il carattere storico e sociale dell’olocausto che l’intero proletariato internazionale subisce. «Chi giustifica – concludeva Lenin – la partecipazione all’attuale guerra, eterna l’oppressione imperialista delle nazioni. Chi consiglia di sfruttare le attuali difficoltà dei governi ai fini della lotta per la rivoluzione sociale, difende realmente la libertà di tutte le nazioni, raggiungibile solo col socialismo» (6).

 

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La guerra del 1914-18 fu quindi una guerra imperialista: il capitalismo tedesco, entrato nell’arena internazionale troppo tardi per avere delle colonie, puntava a quelle dei suoi vicini; l’Inghilterra vedeva in lui un pericoloso rivale che s’infiltrava all’interno dei suoi mercati e che doveva essere abbattuto; la Francia, sebbene in parte guarita dalla sua sete di vendetta dopo il 1870, aveva letteralmente spinto in guerra il traballante edificio dello zarismo che le doveva 10 miliardi di franchi-oro e poteva liberarsi da questo debito solo prendendo di mira le spoglie dell’Impero Ottomano sull’orlo della rovina.

Ma accadde qualcosa di diverso con la guerra del 1939-45? Non è affatto difficile riconoscervi delle identiche cause economiche, le uniche che contano nel sistema di produzione fondato sulla ricerca del profitto. Tra vincitori e vinti nella prima guerra mondiale, il Trattato di Versailles aveva sancito una «divisione del mondo» che, con le sue estorsioni e le sue assurdità, costituiva una vera sfida a qualsiasi prospettiva di tregua duratura tra imperialismi esacerbati. La Germania di Hitler, proprio come quella di Guglielmo II, all’interno della sua struttura nazionale soffocava e pretendeva il suo «spazio vitale». Per isolarla e controllarla, la Francia e l’Inghilterra avevano tessuto attorno ad essa una rete di alleanze che inevitabilmente le portava a difendere le frontiere degli Stati confinanti con il Terzo Reich dato che quest’ultimo, tanto per soddisfare il suo bisogno di espansione economica quanto per salvaguardare la sua stabilità sociale, non avrebbe più esitato a violare le clausole del trattato del 1918. Questa occasione si presentò a proposito della situazione dei «sudeti», minoranza tedesca in Cecoslovacchia. Ma non si trattò che di un pretesto: da vent’anni si assisteva a uno schieramento politico e militare che non lasciava dubbi sulle intenzioni delle opposte coalizioni i cui Stati, ugualmente lanciati, anche se a livelli diversi, nella produzione di armi e strumenti di guerra, ugualmente decisi, seppure per motivi opposti – gli uni volendo preservare, gli altri conquistare – a precipitare le masse sociali in una seconda carneficina mondiale, si preparavano ad affrontare una nuova spartizione del mondo tra imperialismi ben pasciuti e imperialismi affamati.

Una simile soluzione delle contraddizioni capitaliste non sarebbe stata possibile, ancora una volta, senza il concorso dei partiti «operai», traditori della rivoluzione e del socialismo; e, di nuovo, essa ha dovuto mascherare le sue reali cause e i suoi veri obiettivi sotto un potente pretesto ideologico. Come si è detto, nella prima guerra mondiale il pretesto fu quello del diritto e della civiltà contro il militarismo prussiano. La seconda fu giustificata come difesa della libertà e della democrazia contro il fascismo. Ma prima di smentire questa argomentazione, tanto falsa quanto efficace, dobbiamo ricordare che il carattere imperialista della guerra del 1939-45 fu riconosciuto, almeno per un certo tempo, da coloro che sarebbero diventati i nuovi «oltranzisti»: i falsi comunisti dei partiti diretti da Mosca.

Infatti, sebbene fosse diventato, a partire dal Fronte popolare del 1936, l’artefice più risoluto di una politica nazionale di fermezza e di armamento contro la «minaccia hitleriana», sebbene avesse usato tutta la sua influenza sulle masse operaie per incitarle a sacrificare a questa politica tutte le loro richieste immediate, il partito stalinista non esitò, nel settembre 1939, a denunciare il conflitto appena scoppiato come una macchinazione della City di Londra che mirava, oltre che alla Germania di Hitler, alla Russia dei Soviet. Mantenne questo atteggiamento finché la Russia ebbe un legame con Hitler per la spartizione della Polonia e lo abbandonò solo quando quest’ultimo, rivoltandosi contro il suo alleato, lanciò le sue divisioni di panzer nella grande pianura russa. Per i «comunisti» agli ordini di Mosca, non c’era ombra di dubbio che la guerra stesse tornando a essere una guerra «giusta» e legittima e che il dovere più imperioso dei proletari fosse quello di dare la propria vita per una nuova difesa della civiltà, questa volta contro la «barbarie nazista».

Basterebbe già questa breve sintesi per dimostrare che questi caratteri della seconda guerra imperialista non hanno nulla in comune con i criteri di Lenin sopra ricordati, e che tale guerra è stata puramente e semplicemente modellata sugli interessi nazionali e capitalisti dagli impostori del Cremlino. Ma ci sono state persone, accaniti oppositori del regime di Stalin e che si ritenevano fedeli all’ortodossia leninista, che pensavano però che la presenza di uno Stato «operaio» nel conflitto ne modificasse il significato storico e sociale. In realtà, lo Stato russo aveva già cessato di essere proletario: le tappe della sua evoluzione sulla via della degenerazione capitalista si riflettono fedelmente nella politica dei partiti «comunisti» d’Europa, nelle loro alleanze con i partiti opportunisti della socialdemocrazia e con autentici partiti borghesi, così come nella diplomazia russa che, per bocca di Stalin, approvò la «difesa nazionale» del governo Laval e, nella persona del «delegato» Dimitrov, fece il suo ingresso nella Società delle Nazioni, la «caverna dei briganti» del capitalismo, secondo Lenin. Ma anche se fosse stato lecito ritenere che lo Stato russo, alla dichiarazione di guerra, non avesse ancora consumato del tutto la sua involuzione verso la forma capitalista, il solo fatto di aderire al conflitto e chiamare il proletariato mondiale a mobilitarsi in un campo o in un altro, invece di chiamarlo alla rivolta contro la propria borghesia, basterebbe, seguendo strettamente lo schema di Lenin, per dimostrare che aveva perso le sue ultime vestigia socialiste e proletarie.

In effetti, se trasponiamo semplicemente Lenin, era impossibile aiutare – non solo il Belgio – ma la Cecoslovacchia, la Polonia, la Francia e tutti i paesi occupati dall’esercito tedesco, se non aiutando gli Alleati, l’Inghilterra e gli Stati Uniti, in particolare, a strangolare le colonie e i paesi che essi sfruttavano. È talmente vero che la Russia, per poter entrare nella coalizione antifascista, ha dovuto procedere alla liquidazione dell’Internazionale, cioè a consegnare ogni sua sezione alla propria borghesia, a ordinare al partito indù di cessare ogni attività anti-inglese, a sciogliere il partito americano, mentre i suoi seguaci francesi non avevano aspettato la guerra per «favorire lo strangolamento», nel 1937, dell’Etoile Nord-Africaine di Messali, vietata dal governo del Fronte popolare e calunniata come «fascista» dagli uomini di Thorez.

Ma, si potrà dire, resta in piedi la questione dei «regimi politici» la cui posta in gioco era la guerra. Il trionfo della democrazia e la sconfitta del fascismo, non conterebbero nulla? In base ai criteri sopra esposti, secondo i quali una guerra può essere approvata dal proletariato solo se rappresenta una lotta contro forme sociali arretrate, l’antitesi tra fascismo e democrazia è inaccettabile perché si tratta di due forme di governo egualmente borghesi e capitaliste. Per di più, non è reale. È ben vero che la parola d’ordine antifascista deve il suo successo presso le masse lavoratrici al fatto che il fascismo fu davvero una reazione controrivoluzionaria della borghesia di fronte alla minaccia proletaria. Ma una vera lotta operaia contro il fascismo non poteva essere che una lotta tra le classi e non tra gli Stati, che avevano tutti raggiunto il modo di produzione capitalistico, tutti asserviti ai disegni del capitale. Infatti, quando il fascismo era più di una parola e uno spauracchio capace di accelerare la sacra unione, quando il fascismo italiano o tedesco procedeva a schiacciare le organizzazioni operaie e a sterminare i loro militanti, tutte le borghesie del mondo, apertamente o ipocritamente, erano solidali con esso. Quando i governi borghesi si impadronirono dell’argomento antifascista sviluppato dall’opportunismo operaio, non fu altro che un pretesto per giustificare la guerra imperialista. Ma se il fascismo rappresenta storicamente una forma politica di capitalismo, se esteriorizza gli aspetti profondi dell’accentramento economico e strutturale di questo regime, se si segnala per l’estensione inaudita della violenza sociale, dell’arbitrarietà poliziesca, del controllo della vita privata degli individui, allora è certo che è stato lui e non la democrazia a vincere la guerra, e che gli odiosi metodi che l’hitlerismo, non senza una certa macabra grandezza, ha generalizzato, sono stati i governi della Liberazione ad esserne gli eredi allo stesso titolo dei volgari “eccessi» americani.

Una guerra, come abbiamo già detto, non si caratterizza per le bandiere ideologiche che sventola, ma per le sue cause oggettive, che sono sempre legate, in un sistema di produzione mercantile-capitalista, agli interessi delle classi dominanti. «La guerra imperialista – diceva Lenin – non cessa di essere imperialista quando i ciarlatani e i parolai, o i filistei piccolo-borghesi lanciano una “parola d’ordine sacra”, ma quando la classe che conduce questa guerra imperialista e le è legata da milioni di fili (o corde) risulta infatti essere rovesciata e sostituita al potere dalla classe veramente rivoluzionaria, il proletariato. Non c’è altro modo per staccarsi da una guerra imperialista, così come da una pace di rapina imperialista».

 

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La guerra per la libertà e l’indipendenza nazionale ha un contenuto sociale reale quando anche l’obiettivo economico che le corrisponde ha una realtà, come era il caso nell’Europa precapitalista, come lo è ancora per i paesi colonizzati dell’Asia o dell’Africa. Là, come qui in passato, libertà significa emancipazione dalle vecchie servitù e avvento delle moderne forme di lavoro associato, unità nazionale, sviluppo del mercato interno e crescita delle forze produttive. Il carattere sociale di una guerra si deduce sempre dal carattere delle contraddizioni economiche che l’hanno provocata. Nella fase del pieno capitalismo, non sono più le forze nuove di un giovane sistema di produzione alle prese con una sovrastruttura statale anacronistica a determinare i conflitti militari tra le grandi potenze, ma la concorrenza tra due gruppi di monopoli all’interno dello stesso sistema di produzione. Se ne esce o vi si sfugge, come diceva Lenin, solo attraverso una rivoluzione. Di conseguenza, l’alternativa «guerra o pace», alla quale l’opportunismo operaio, complice del capitalismo, vorrebbe subordinare l’atteggiamento e l’azione delle masse operaie, è quindi doppiamente falsa. Da un lato, perché la pace non può essere che il temporaneo aggiustamento delle contraddizioni la cui esplosione è la causa dei conflitti militari, o, in altre parole, perché dalla pace capitalista, non può, senza lotta di classe, uscire altro che la guerra imperialista. Dall’altro, perché non si può «evitare la guerra» se non attraverso la rivoluzione, a cui l’ideologia pacifista, che comporta la pace sociale, necessariamente volta le spalle.

Più il capitalismo invecchia, si gonfia, si ipertrofizza, più le sue dinamiche interne sono imperiose e spietate, maggiori sono i rischi di guerra. Più si sviluppano i mezzi tecnici di produzione, più i tentativi di accordo tra gli Stati per limitare l’applicazione di questi mezzi alla preparazione bellica sono utopistici, e più criminale è la propaganda «operaia», «comunista», che vi aggiunge fiducia. Contrariamente alla stupida convinzione che la terribile minaccia della distruzione atomica dell’umanità avrebbe fatto arretrare i capi di Stato, tale parossistica ricerca della perfezione quantitativa e qualitativa dei mezzi di distruzione implica un enorme aumento della parte improduttiva dell’economia, e della massa di prodotti sottratti al mercato, luogo sempre più preponderante della «guerra» nel seno della «pace». Lo scoppio di un conflitto sarà tanto più rapido e terribile quanto la quantità di lavoro incorporata nei congegni bellici e sprecata nella ricerca per fini distruttivi sarà stata considerevole. I marxisti non possono nascondere questa verità alla classe operaia: se il movimento proletario non rinasce, se non trova la forza di contendere la direzione della società alle classi capitaliste prima dello scoppio della guerra atomica, nulla potrà fermarla, né gli accordi tra capi di Stato, né le proteste individuali o di massa, niente se non la difficile ripresa della lotta per la distruzione dei poteri esistenti. Di volta in volta, la propaganda ufficiale proclama la necessità di «armarsi» per evitare la guerra o l’urgenza di «mettersi d’accordo» per ridurre gli armamenti allo scopo di scongiurarla. In realtà, i governi non sono i padroni né della guerra né della pace. Sono solo i padroni, con la complicità degli opportunisti, della pace sociale, cioè dei vari mezzi che consentono loro di vietare al proletariato di imporre la propria soluzione. Guerra e pace non sono strade diverse, sono due stazioni lungo la stessa strada, quella della conservazione sociale e della perpetuazione del capitalismo che le masse sociali, come un convoglio cieco, seguono ancora docilmente, ingannate dai loro capi, arrivando fino ad applaudire coloro che li indirizzano verso la sinistra meta. Le uniche due strade veramente opposte sono quella del capitalismo e quella della rivoluzione socialista. Non sono parallele e non si affiancano mai.

Solo una volta nella storia c’è stata una «biforcazione» che collegava l’una all’altra. È accaduto verso la fine della prima guerra mondiale e durante la rivoluzione russa. Poiché il proletariato aveva preso il potere in un grande paese, poiché il movimento operaio, tradito dalla sua direzione, poteva riprendersi e abbandonare la politica dell’unione sacra in cui l’opportunismo dei socialdemocratici lo aveva deviato, i comunisti hanno potuto lanciare la parola d’ordine della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Ma oggi, che il movimento comunista è sprofondato in modo ancora più ignominioso del suo predecessore, e che il potere di coercizione, politico, ideologico degli apparati statali si è decuplicato, è la rivoluzione che dovrà prevenire il lancio dei primi missili teleguidati, pena una lunga e terribile battuta d’arresto, non solo del movimento proletario ma dell’intera società. Per paralizzare i seminatori di morte, per bloccare a terra i congegni super-perfezionati di distruzione, per fermare la macchina infernale che la borghesia, come l’apprendista stregone, può scatenare, il proletariato può contare solo sulla propria azione e su se stesso. La brutale percezione dell’unica e vera realtà è la prima condizione del risveglio proletario. Non è affatto scoraggiante o disfattista, perché è da questa che dipende l’aggregazione delle formidabili fonti di energia che ancora nascondono le masse operaie. Divise e sbandate, esse non ne sospettano più nemmeno l’esistenza, ma le ritroveranno trionfalmente quando avranno ritrovato la loro unità e la loro organizzazione di classe.

 


 

(1) Cité-champignons: locuzione francese con cui si indica un grande quartiere (detto anche città) sorto rapidamente ai margini delle città esistenti da tempo, allo scopo di ospitare masse di lavoratori salariati da sfruttare nelle fabbriche vicine. Si tratta di città costituite da lunghi blocchi di edifici, più o meno tutti uguali, e con pochissimi servizi, sorti come funghi, soprattutto nel secondo dopoguerra, in vista di una frenetica ricostruzione postbellica. In Italia sono state chiamate città-dormitorio.

(2) L’opuscolo Il socialismo e la guerra (Edizioni Rinascita, Roma 1949) raccoglie articoli scritti nel 1915 da Lenin e formula questa posizione in un modo che non lascia spazio ad ambiguità: «Il periodo 1789-1871 ha lasciato tracce e ricordi rivoluzionari profondi. Fino all’abolizione del feudalesimo, dell’assolutismo e dell’oppressione straniera, non si poteva parlare di sviluppo della lotta proletaria per il socialismo. Quando parlavano di legittimità della guerra “difensiva”, a proposito delle guerre di tale epoca, i socialisti si riferivano appunto sempre a quei risultati che conducevano alla rivoluzione contro il medievo e contro la servitù della gleba. Per guerra “difensiva” i socialisti hanno sempre inteso una guerra “giusta” in questo senso (una volta G. Liebknecht si espresse appunto così) [ Lenin allude all’atteggiamento di G. Liebknecht al congresso della socialdemocrazia tedesca di Erfurt nel 1891, NdR]. Soltanto in questo senso i socialisti hanno riconosciuto e riconoscono oggi la legittimità, il carattere progressivo e giusto della “difesa della patria”o della guerra “difensiva”. Per esempio, se domani il Marocco dichiarasse guerra alla Francia, l’India all’Inghilterra, la Persia o la Cina alla Russia, queste sarebbero guerre “giuste”, delle guerre “difensive”, indipendentemente da chi avesse attaccato per primo, e ogni socialista simpatizzerebbe per la vittoria degli Stati oppressi, soggetti e privi di diritti, contro le “grandi” potenze schiaviste che opprimono e depredano.» (Pag. 13).

(3) Ibidem, p. 17.

(4) Ibidem, p. 17.

(5) Ibidem, p. 20.

(6) Ibidem, p. 20.

 

 

Partito comunista internazionale

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