Su che cosa si fonda la certezza del socialismo

(«il comunista»; N° 176 ; Gennaio-Febbraio 2022)

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«I mistici medioevali che sognavano del regno millenario che si avvicinava, avevano già la coscienza dell’ingiustizia degli antagonismi delle classi. Alla soglia della storia moderna, trecentocinquanta anni fa, Thomas Münzer lo proclamò alto nel mondo (1). Nella rivoluzione borghese inglese, nella francese risuona lo stesso grido e... si spegne. E se oggi lo stesso grido che invoca l’abolizione degli antagonismi e delle differenze delle classi e che sino al 1830 lasciava fredde le classi lavoratrici e sofferenti, se oggi questo grido trova un’eco in milioni di voci, se conquista un paese dopo l’altro e precisamente nello stesso ordine e con la stessa intensità con cui nei singoli paesi si sviluppa la grande industria, se nel tempo di una generazione umana ha acquistato una poteza tale da potere affrontare tutte le potenze riunite contro di esso ed essere certo della vittoria in un prossimo futuro: da dove viene tutto ciò?

«Dal fatto che la grande industria moderna ha creato da una parte un proletariato, una classe che per la prima volta nella storia può porre l’esigenza dell’abolizione non di questa o di quella particolare organizzazione di classe, o di questo o quel privilegio particolare di classe, ma delle classi in generale, e che è messa nella condizione di dover fare trionfare tale esigenza sotto pena di sprofondare nella condizioni del coolie cinese (2). E dal fatto che la stessa grande industria, dall’altra parte, ha creato nella borghesia una classe che possiede il monopolio di tutti gli strumenti di produzione e i mezzi di sussistenza, ma che, in ogni periodo di ascesa  vertiginosa e in ogni crisi che lo segue, dimostra di essere incapace di dominare ancora in avvenire le forze produttive che, crescendo, sono sfuggite al suo potere; una classe sotto la cui guida la società corre verso la rovina, come una locomotiva il cui macchinista è troppo debole per aprire le valvole di sicurezza che si sono bloccate. In altri termini proviene dal fatto che sia le forze produttive create dal moderno modo di produzione capitalistico, sia anche il sistema di distribuzione dei beni da esso creato, sono caduti in flagrante contraddizione con quello stesso modo di produzione e precisamente in tal grado che, a meno che tutta la società moderna non debba andare in rovina, deve aver luogo un rivoluzionamento del modo di produzione e di distribuzione che elimini tutte le differenze di classe. Su questo fatto materiale, tangibile, che, in una forma più o meno chiara, ma con necessità inarrestabile, si impone alla mente dei proletari sfruttati, su questo fatto e non sulle idee che questo o quel filosofo in pantofole hanno del giusto e dell’ingiusto, si fonda la certezza di vittoria del socialismo moderno»

(F.Engels, AntiDühring (1878), seconda parte, “Economia politica”, Edizioni Rinascita, Roma 1956, pp. 173-174)

 


 

(1) Tommaso Münzer, di cui Engels parla nel suo La guerra dei contadini in Germania (1525), era a capo dell’opposizione più netta, plebea e proletaria, alla Chiesa di Roma e ai regnanti tedeschi ad essa alleati, proclamando la necessità di battersi contro le disuguaglianze, i privilegi delle classi ricche, clero di Roma compreso, e di insorgere con la violenza per abbattere i loro poteri.

(2) Coolies cinesi, venivano chiamati così i lavoratori cinesi ridotti in schiavitù e impiegati normalmente in lavori durissimi e su giornate di lavoro che arrivavano anche a 20 ore. Il termine inglese proviene dall’indi Kuli, che significa “lavoro duro”. Nell’Ottocento, a migliaia i coolies cinesi venivano deportati in una vera e propria tratta, come quella dei neri africani. Degli studi hanno ipotizzato che anche il cosiddetto “eroe dei due mondi”, Giuseppe Garibaldi, fu un “negriero”, nel suo peregrinare per il mondo dopo la sconfitta della Repubblica romana, trasportando i coolies cinesi a Cuba nei suoi viaggi  tra il 1852 e 1853 quando, al comando del brigantino “Carmen”, trasportava guano, rame e grano tra Perù, Cina e Australia (vedi la Repubblica, 4 marzo 1998).

 

 

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