La lotta per le pensioni in Francia

(«il comunista»; N° 178 ; Giugno-Agosto 2023)

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La Francia è appena stata teatro per diversi mesi di un grande movimento di lotta contro un piano governativo di “riforma delle pensioni” (di fatto un attacco) durante il quale centinaia di migliaia o addirittura milioni di persone hanno manifestato e decine o addirittura centinaia di migliaia sono scese più volte in sciopero. Tuttavia, nonostante la sua ampiezza, il movimento è finito, ancora una volta, con un fallimento. E’ della più grande importanza comprendere le cause di questo fallimento al fine di evitare che succeda la stessa cosa nelle lotte future.

 

Nei paesi capitalisti più ricchi si è instaurato, nel corso dei decenni, un sistema più o meno importante di “protezione sociale”, essenzialmente con lo scopo di mantenere la pace sociale riducendo un po’ l’insicurezza della condizione proletaria. Questi vari benefici sociali non sono un dono dello Stato borghese; costituiscono quello che viene chiamato il “salario sociale” o il “salario differito”: una frazione del salario non versato dal padrone al suo dipendente ma che va ad alimentare questo sistema e che viene ridistribuito se necessario sotto forma di prestazioni di varie tipologie. I padroni credono sempre di pagare troppo i loro salariati e cercano costantemente di abbassare i salari; ridurre il salario differito (chiamato nel linguaggio dei datori di lavoro “contributi sociali”) è un modo relativamente semplice, e quasi indolore (nell’immediato), di abbassare il salario. Ma è un attacco fondamentalmente antiproletario che va combattuto come tale – e non come una misura “antidemocratica” che dovrebbe essere combattuta con metodi democratici e interclassisti (referendum, ricorso alle istituzioni parlamentari) in nome della “Giustizia sociale”; quest’ultima non è che un’illusione: sotto il capitalismo, fino a quando non sarà rovesciato, conta soltanto il rapporto di forze fra le classi opposte.

I borghesi sostengono che i contributi sociali ostacolano il buon andamento delle singole imprese limitandone i profitti e, inoltre, che le somme che ne derivano, essendo destinate a obiettivi sociali, quindi non produttivi (“nei minimi sociali mettiamo una quantità assurdamente smisurata di denaro” – Macron, 12/6/2018), costituiscono un handicap nella concorrenza internazionale: gravando sul saggio medio di profitto dell’economia, indeboliscono le capacità di investimento in altri settori. In periodi di crisi o difficoltà economiche i borghesi cercano di ridurre queste spese sociali e di deviarle dal loro scopo. E la spesa per le pensioni ne rappresenta una parte importante. Per questo, quasi ovunque, dalla Cina al Brasile, dalla Svezia alla Francia ecc., sono state adottate, o sono in preparazione, diverse misure per contrastare le pensioni e ridurne il peso sull’economia, in particolare attraverso l’innalzamento dell’età pensionabile: per esempio, in Svezia, dove i nuovi leader stanno lavorando per ridurre gradualmente il sistema di protezione sociale che ha reso il paese un modello di “Stato sociale”, l’età pensionabile per la pensione di base aumenterà a 67 anni nel 2026.

Secondo il COR (Comité d’Orientation des Retraites, dicembre 2022) nel 2017 la Francia era dietro all’Italia, il Paese OCSE la cui quota di PIL destinata alla spesa pensionistica (privata e pubblica) era la più elevata: rispettivamente 13,9% e 16,7% contro 11% in Germania, 11,2% in Spagna, 12,4% negli USA, 10,8% in Gran Bretagna ecc. Questo è intollerabile per i borghesi francesi!

 

Un po’ di storia

Nel 1983 il governo di sinistra PS-PCF accordò la pensione a 60 anni con 37,5 anni di contributi versati, quando dal 1945 l’età pensionabile era fissata a 65 anni. Si tratta di una vecchia richiesta operaia che era iscritta nel “programma comune del governo” nel 1974; le “110 proposte” elettorali del candidato Mitterrand prevedevano anche la pensione a 55 anni per le donne, ma questa promessa fu del tutto accantonata. A partire dalla stagione del “rigore”, nel 1983 la pensione a 60 anni diventa il bersaglio dell’amministrazione e le pensioni vengono disindicizzate dell’inflazione per diminuire la spesa padronale. In seguito si assiste ad attacchi successivi contro le pensioni da parte dei governi tanto di sinistra quanto di destra, nella linea delle “riforme” previste dal governo del socialista Rocard nel 1991. Tali riforme hanno spesso provocato movimenti di lotta di grande ampiezza, sui quali è utile soffermarsi per mettere in prospettiva il movimento attuale.

 

- Nell’autunno del 1995, il neoeletto governo Chirac annunciò un progetto (noto come “piano Juppé”) per l’abolizione dei “regimi pensionistici speciali” precedentemente concessi a determinate categorie strategiche di lavoratori (ferrovie, energia elettrica ecc.), un aumento del numero di annualità contributive necessarie nella Pubblica Amministrazione per andare in pensione (come realizzato per il settore privato nel 1993 senza che ciò avesse suscitato alcuna reazione sindacale, nonostante la riforma Balladur avesse ridotto le pensioni in media del 6%), contemporaneamente a una riforma della previdenza sociale e una “riforma” della SNCF [le ferrovie] che prevedeva l’eliminazione di decine di migliaia di posti di lavoro per i ferrovieri. Per quanto duro, il piano Juppé è stato sostenuto dalla direzione della CFDT e del Partito socialista. Esso ha provocato una reazione importante: massicce manifestazioni (con un picco a dicembre di oltre 2 milioni di manifestanti in tutto il paese) e soprattutto un duro sciopero delle ferrovie e dei trasporti parigini: 3 settimane di sciopero con occupazione delle principali stazioni e blocco del traffico ferroviario, massicce delegazioni di ferrovieri in sciopero per coinvolgere altre società come le Poste ecc. Il movimento influenzò anche il settore della scuola, dell’elettricità ecc. Alla fine il governo fu costretto a ritirare il progetto di abolire i regimi speciali e riformare la SNCF e i sindacati riuscirono a fermare il movimento, anche se rimase l’imposta sulla previdenza sociale. I ferrovieri in sciopero si opposero all’arresto del movimento chiedendo il completo ritiro del “piano Juppé”, ma resistettero solo pochi giorni.

 

- Nella primavera del 2003 venne costituita l’Intersindacale, raggruppante la maggior parte dei sindacati, per incanalare l’opposizione contro una nuova riforma (piano Fillon) il cui punto centrale era l’aumento del numero di annualità contributive, sotto forma di “giornate d’azione isolate” (saranno 5 in tutto) ma che hanno visto la partecipazione di diverse centinaia di migliaia di persone. Nel frattempo, la CFDT raggiunse un accordo con il governo e si ritirò dal movimento, mentre la CGT riusciva a bloccare gli scioperi alla SNCF. Il motore del movimento era allora l’Educazione Nazionale, con scioperi che sarebbero durati diverse settimane, in alcuni casi fino a 3 mesi!, mentre molti scioperanti chiedevano invano ai sindacati di indire uno sciopero generale.

 

- Nel 2010, il governo Sarkozy-Fillon lanciò il suo progetto per seppellire definitivamente la pensione a 60 anni. L’Intersindacale in quell’occasione riprese la tattica delle ripetute giornate d’azione: a partire da marzo queste furono 14; riunirono più volte ben oltre un milione di persone da settembre (anche secondo i dati della polizia); i giovani (soprattutto gli studenti dei licei) aderirono in maniera massiccia al movimento, mentre gli scioperi rinnovabili andavano estendendosi ad alcuni settori (trasporti ferroviari, raffinerie, netturbini, camionisti ecc.). Ma dopo il voto della legge che, tra l’altro, riduceva l’età pensionabile a 62 anni, l’Intersindacale fermò il movimento facendo esaurire gli scioperi, dopo aver organizzato un’ultima giornata di “azione-sepoltura” un sabato (quindi senza sciopero).

 

- Nell’inverno 2019-2020, un potente movimento rispose al progetto di riforma delle pensioni del governo Macron; il suo motore fu lo sciopero rinnovabile alla SNCF e nei trasporti parigini che durò 49 giorni, ma che  progressivamente si indebolì e divenne minoritario a causa del suo isolamento; a differenza del 1995, le stazioni non vennero mai occupate e i picchetti risultarono inefficaci, il che significa che il traffico ferroviario non venne mai completamente bloccato; mentre i picchetti riguardanti gli autobus parigini furono impediti dall’intervento della polizia. L’Intersindacale (a cui non partecipò la CFDT, più o meno d’accordo con la riforma del governo) in realtà lasciò esaurire questo sciopero, continuando a proclamare ripetute giornate d’azione (9 in tutto), con numeri di partecipanti importanti, ma in costante calo, dopo la prima giornata che vide la partecipazione di quasi un milione di manifestanti. Il motore della lotta divenne anche allora l’Educazione Nazionale.

Alla fine, fu lo scoppio della pandemia a porre fine al movimento ormai moribondo (e, contemporaneamente, alla riforma).

Una caratteristica interessante di questo movimento è stata la presenza di numerose strutture “interprofessionali” (già comparse timidamente nel 2010) che tendevano ad organizzare la lotta alla base. Queste strutture corrispondevano ad un’esigenza ampiamente sentita di andare oltre i limiti dell’azione sindacale, A questo proposito possiamo citare il coordinamento degli scioperanti della SNCF e della RATP a Parigi e le “AG interpro” (Assemblee Generali Interprofessionali) in diverse città. A Tolosa è stata istituita una “AG comune” per organizzare le azioni nell’agglomerato centralizzando le AG locali o settoriali. Ma queste varie strutture, guidate appunto da gruppi di estrema sinistra, limitavano la loro azione ad assecondare l’Intersindacale (a Tolosa ci è stato detto che il ruolo dell’AG non era quello di mobilitare i lavoratori, perché erano i sindacati a doverlo fare!). Il “coordinamento nazionale” – nato morto – ha solo pensato di fare pressione sull’Intersindacale perché adottasse una tattica più combattiva...

 

- Nel 2016, la stessa tattica dei sindacati fu impiegata anche durante il movimento contro la legge El Khomri (o “legge del lavoro”) del governo Valls che rimetteva in discussione certi articoli del Codice del lavoro: 10 giornate d’azione, da marzo a giugno, mentre nel mese di maggio scoppiavano degli scioperi a ripetizione fra i camionisti, alla SNCF, nei porti e nelle raffinerie. La repressione poliziesca dei manifestanti fu particolarmente pesante, grazie allo stato d’emergenza imposto dopo gli attentati islamisti e i numerosi scontri con la comparsa dei “black blocks”. La sede della CFDT (che non partecipava al movimento di sciopero) venne attaccata da un centinaio di persone col passamontagna, che urlavano lo slogan: “avete finito di tradire”. La legge sarà comunque adottata grazie all’articolo 49.3.

 

2006: esempio contrario? I manifestanti di oggi evocano spesso l’esempio del 2006, in cui una legge già votata fu di fatto abrogata sotto la pressione delle manifestazioni di strada. Questo precedente è effettivamente da evidenziare, ma bisogna comprendere bene quel che è accaduto a quell’epoca.

Rispondendo ai desiderata del padronato, il governo Villepin si era fissato l’obiettivo di precarizzare i lavoratori (Parisot, allora presidente del  Movimento delle imprese di Francia, MEDEF, affermò: “L’amore, la vita sono precari, perché il lavoro non dovrebbe esserlo?”). Nell’estate 2005 il governo instaurò il “contratto per le nuove assunzioni” (CNE) che tendeva di fatto a sopprimere i CDI, senza alcuna reazione da parte dei sindacati che si limitarono a delle inutili azioni legali. Su questo slancio il governo annunciò, nel febbraio 2006, un progetto di legge contro i giovani, chiamato “Eguali possibilità”, la cui misura più importante era il “contratto di prima assunzione” (CPE), che prevedeva, fra le altre cose, un salario più basso e uno stato di precarietà per i minori di 26 anni. La mobilitazione degli studenti e dei liceali contro questo progetto, diretta da un “coordinamento studentesco nazionale” fu molto importante (più di 80 università in sciopero) e diede vita a grandi manifestazioni. Il coordinamento chiese il ritiro non solo del CPE, ma di tutta la legge e del CNE insieme ad altre rivendicazioni anti-precarietà come la regolarizzazione dei sans-papiers ed altre più corporativiste. Di fronte a questo grande movimento incontrollato, le grandi centrali sindacali entrarono in ballo, facendo appello a delle giornate d’azione caratterizzate da massicce manifestazioni: in questo modo riuscirono a prendere il controllo e la direzione del movimento. Ciò permise al governo – preoccupato dei rischi per la pace sociale nel momento in cui le rivolte delle periferie risalivano a soli pochi mesi e in cui i servizi della polizia segnalavano il rischio di un nuovo incendio nei quartieri popolari – di dichiarare che non c’erano le condizioni per l’applicazione del CPE. I sindacati, visibilmente complici, decretarono allora la fine del movimento, sebbene le altre rivendicazioni non fossero per nulla soddisfatte...

Possiamo constatare che nel corso di tutti questi anni i diversi movimenti di lotta che abbiamo passato in rassegna, benché massicci, si sono sempre scontrati con lo stesso ostacolo: il sabotaggio da parte delle grandi organizzazioni sindacali in difesa della pace sociale, metre il parziale successo del 2006 si spiega con la paura dei borghesi che si andasse incontro a un incontrollabile crescendo delle tensioni sociali. Nel 2023 l’ostacolo era lo stesso, ma la paura era sparita...

 

Il movimento del 2023

Una delle misure avanzate da Macron durante la sua campagna elettorale è stata quella di riprendere in mano la riforma delle pensioni, alzando l’età pensionabile a 65 anni, ma alla fine il progetto manterrà l’età di 64 anni. Contro questo progetto si è ricostituita un’Intersindacale con la partecipazione della CFDT: durante il suo Congresso del giugno 2022, la sua dirigenza, che voleva candidarsi come interlocutore privilegiato del governo, era pronta ad accettare lo spostamento dell’età pensionabile, ma ha dovuto rinunciare di fronte a un’opposizione molto forte.

L’Intersindacale ha indetto quindi una “giornata di azione” il 19 gennaio per protestare contro il progetto. Contrariamente a quanto previsto dal governo e dai sindacati, la partecipazione è stata massiccia, raggiungendo o superando immediatamente i record raggiunti nel 1995 e nel 2010 in tutto il paese per diverse settimane o mesi. Inoltre, l’opposizione al progetto e il sostegno al movimento sono stati e sono rimasti molto forti per tutto il periodo. Ciò ha costretto l’Intersindacale a riprendere la sua tattica delle ripetute “giornate d’azione” – ce ne sono state una decina –, naturalmente “radicalizzando” le sue parole, in particolare chiedendo il ritiro del progetto, rivendicazione che non aveva voluto avanzare all’inizio.

Su pressione dei lavoratori, ha addirittura chiesto il “blocco” del paese il 7 marzo, ovviamente senza organizzare nulla in tal senso, ma lasciando la possibilità ad alcuni settori di avviare scioperi rinnovabili se l’avessero voluto. Quando la polizia e la magistratura hanno attaccato gli scioperanti (con requisizioni e dispersione dei picchetti nelle raffinerie), si è limitata a proteste platoniche e ad azioni legali; e si è data da fare per mantenere pacifiche le manifestazioni (ricevendo per questo le congratulazioni del governo), senza far nulla per opporsi alla repressione poliziesca dei manifestanti quando questo carattere pacifico ha cominciato ad essere messo in discussione. In generale, essa regolava la mobilitazione sull’andamento dell’attività parlamentare, facendo sperare ai proletari un voto favorevole dei deputati contro la legge, poi del Consiglio costituzionale, poi la possibilità di un referendum: basandosi sulle illusioni democratiche, ha usato tutti gli artifici del sistema parlamentare per escludere ogni prospettiva di un vero confronto di classe con il governo.

 

Gli scioperi

Le “giornate d’azione” non sono giorni di sciopero generale (parola, questa, mai pronunciata dai sindacati): numerosi lavoratori, se potevano, prendevano un giorno o mezza giornata di ferie. Ma per alcuni (istruzione, amministrazioni varie ecc.) corrispondevano a un vero e proprio sciopero; alcuni settori hanno conosciuto diversi giorni di sciopero di fila, o anche scioperi rinnovabili di durata maggiore. Questo è stato in particolare il caso dei netturbini parigini, dei lavoratori delle raffinerie, degli impiegati portuali e dei trasporti parigini, dei ferrovieri – settori che tradizionalmente si mostrano combattivi.

Una parola va detta a proposito degli scioperi dell’elettricità (EDF) e del gas (Engie, ex GDF). Si tratta di un ambiente molto “aristocratico”: buoni salari, buone condizioni di lavoro, vantaggi vari; il Comitato aziendale di EDF è il più ricco di Francia; grande azienda nell’azienda con 5000 dipendenti, costituisce una vera e propria fucina di opportunismo. Il lavoro più duro è affidato a ditte in subappalto che non godono affatto delle stesse condizioni, salariali e altro. Non ci si aspetterebbe di vedere una forte combattività lì; eppure i sindacati annunciano tassi di scioperanti durante le giornate d’azione superiori a quelli del 2019 (oltre il 40% di tutto il personale, compresi quindi i quadri d’azienda, dato confermato dalla stessa direzione a metà marzo); soprattutto si sono verificati casi di blackout “selvaggi” in diverse città, azioni non rivendicate (ovviamente!) dai sindacati. “Volendo, si potevano (...) causare dei blackout. Evidentemente non è questa la parola d’ordine. Noi siamo dei professionisti e sappiamo quali gravi conseguenze comporterebbero” (dichiarazione del dirigente della CGT-Energie a Reporterre, gennaio 2020)...

Come in tutte queste lotte, da decenni, a mobilitarsi sono stati soprattutto i lavoratori della Pubblica Amministrazione (con la notevole eccezione delle raffinerie e, in parte, dei camionisti di alcune grandi aziende di trasporto); ad esempio, a Parigi i netturbini delle aziende private non hanno scioperato come i loro colleghi comunali. Inoltre, in settori della Funzione Pubblica come le Poste, dove c’era comunque una certa tradizione di lotta, il numero degli scioperanti è stato molto basso. I lavoratori delle maggiori concentrazioni industriali (automobilistico, aeronautico, siderurgico ecc.) e di quelle piccole sono rimasti generalmente ai margini del movimento, anche se in vari luoghi sono scoppiati scioperi locali (ad esempio, lo sciopero di quasi 3 mesi delle lavoratrici della VertBaudet di Lille, dove la polizia è intervenuta facendo evacuare il picchetto). Ciò si spiega in parte con la maggiore difficoltà di scioperare nelle fabbriche e nelle aziende private, dove il “dispotismo padronale” è più forte; ma anche e soprattutto perché il problema più urgente per i proletari del settore privato come di quello pubblico è il salario.

Prima dell’inizio del movimento, ci sono stati, in autunno, diversi scioperi su questo tema, tra cui in particolare uno sciopero di diverse migliaia di lavoratori alla Peugeot (Stellantis), scioperi nelle raffinerie e nei depositi di petrolio e 3 settimane di sciopero in 11 centrali nucleari su 18 (per un aumento di 200 euro al mese per tutti). Ma naturalmente i sindacati si sono guardati bene dal proporre piattaforme rivendicative che mettessero al primo posto gli aumenti salariali; le uniche richieste erano, infatti, il ritiro del progetto e poi della legge sulle pensioni.

 

Un altro punto da rilevare è il numero relativamente basso di strutture interprofessionali che sono state istituite rispetto al 2019. Sembra che molte di queste AG interprofessionali non siano altro che casse di risonanza di alcuni sindacati (SUD, sindacati degli insegnanti).

Anche quando non è così, come a Marsiglia, queste AG si inseriscono “naturalmente” nell’orientamento dell’Intersindacale.

Una “rete per lo sciopero generale” avviata da un gruppo trotskista per riunire strutture interprofessionali al fine di spingere l’Intersindacale ad andare in questa direzione (obiettivo assurdo) è stata un fallimento. In altri articoli facciamo una critica più dettagliata di certi gruppi detti di “estrema sinistra”. Questi si sono accontentati, per lo più, di seguire l’orientamento dell’Intersindacale, accontentandosi, al limite, di una timida critica; questo codismo si spiega a causa della loro crescente integrazione nella burocrazia sindacale. Qui ci preme occuparci, in particolare, di due punti che sovente sono presenti nei loro discorsi di fronte al movimento.

 

Crisi politica?

Certi gruppi di “estrema sinistra” non hanno esitato a parlare di una crisi politica (o addirittura di una situazione “pre-rivoluzionaria”!) che metterebbe a repentaglio la sopravvivenza del governo o delle istituzioni della Quinta Repubblica, in particolare grazie alle difficoltà parlamentari del governo; avendo solo una maggioranza relativa, il governo è obbligato a fare accordi con i deputati di destra (Les Républicains). È successo anche questa volta: il disegno di legge era stato redatto con i repubblicani del Senato. Ma una parte dei deputati repubblicani rifiutò questo accordo; per non rischiare lo sberleffo di un voto negativo, il governo ha deciso di adottare la legge senza voto (articolo 49.3 della Costituzione) con grande scandalo di chi, fiducioso nelle istituzioni parlamentari, aveva sperato in un voto contro questo progetto di legge e che ha denunciato come un’azione “antidemocratica”.

Va ricordato che tutte le costituzioni borghesi sono scritte in modo da facilitare l’azione dell’esecutivo statale e noin per esprimere la “sovranità popolare”; il “popolo” è composto da più classi con interessi differenti e opposti, perciò questa sovranità popolare non è che una finzione che serve a camuffare la sovranità della classe dominante: la crisi è stata, in effetti, essenzialmente la crisi delle illusioni sulla democrazia borghese, illusioni condivide e diffuse anche da un bel numero di pseudo-rivoluzionari. Ma sempre smentite e sempre rinascenti, queste illusioni hanno la pelle dura perché sono alimentate costantemente da tutte le forze e le istituzioni borghesi...

 

Il mito dello sciopero generale

Nel 1995 lo slogan preferito dei manifestanti era “Tutti insieme!”; nel 2006 il coordinamento studentesco lanciò un appello allo sciopero egenerale; nel 2003 gli scioperanti in corteo gridavano “sciopero generale” ecc. E’ naturale che i proletari, coscienti della forza del numero e della capacità potenziale di mettere l’economia capitalista in blocco, aspirino ad uno sciopero generale. Basandosi su questa più che legittima aspirazione molti gruppi di “estrema sinistra” fanno dello sciopero generale l’arma decisiva che permetterebbe di ottenere le rivendicazioni dei lavoratori.

In realtà non è così; il successo di uno sciopero generale come di ogni sciopero dipende innanzitutto dall’orientamento e dagli obiettivi di coloro che lo dirigono: si tratta dei veri interessi, di classe, dei proletari o degli interessi e degli obiettivi interclassisti e nazionali, cioè democratici?

L’esempio di Maggio-giugno 1968 dimostra che una direzione collaborazionista è sinonimo di sabotaggio della lotta. Vi fu allota lo sciopero generale più importante del movimento operaio in Francia (e in Europa): da 8 a 10 milioni di scioperanti, decine di migliaia di aziende occupate, anche le più piccole, un movimento che è durato due mesi... e ciononostante i suoi risultati furono minimi, ben al di sotto che nel giugno 1936 in cui gli scioperi erano stati molto meno numerosi; la settimana di 40 ore conquistata nel 1936 e soppressa nella preparazione della guerra non è mai stata ristabilita; le disposizioni di Sicurezza sociale per la soppressione delle queli i sindacati avevano promosso ben 2 scioperi generali nel 1967 non sono mai state toccate; la pnsione a 60 non è stata ottenuta ecc. Gli aumenti salariali ottenuti vengono mangiati dall’inflazione qualche mese dopo. Il formidabile rapporto di forze stabilito  nelle aziende di fronte ai padroni non si traduce al tavole nelle trattative, perché i sedicenti “rappresentanti dei lavoratori”, i responsabili sindacali, da buoni riformisti sono in reaòltà innanzitutto i difensori degli interessi del capitalismo francese prima di esserlo dei lavoratori. E quando gli operai di Billancourt rigettarono gli accordi di Grenelle, non poterono fare nient’altro che sperare in nuove trattative condotte dai soliti sindacalisti per dei miglioramenti marginali. Domani uno sciopero generale lasciato nelle mano di organizzazioni che sabotano le lotte non potrà che essere un aborto.

 

In conclusione

Nuove lotte attendono i lavoratori, comprese quelle sulle pensioni, in Francia come ion altri paesi. Questo giro d’orizzonte permette di comprendere che ciò che è decisivo nelle lotte, non è il numero dei parteciopanti in sé, ma il fatto che la lotta, grande o piccola, sia condotta sotto indicazioni di classe, cioè per la difesa esclusiva degli interessi proletari, e con metodi e mezzi classsiti e, quindi, da un’organizzazione indipendente, in rottura con gli indirizzi interclassisti delle organizzazioni politiche e sindacali che praticano il collaborazionismo con la borgehsia e il suo Stato.

Nuove lotte sono inevitabili prima o poi. Ma il movimento attuale ha testimoniato anche le persistenti difficoltà dei proletari ad apprendere le lezioni dalle loro lotte per potersi emancipare dal dominio degli indirizzi collaborazionisti delle grandi organizzazioni sindacali; queste stanno ancora riuscendo senza troppe difficoltà, aiutate da un’”estrema sinistra” codista, a controllare anche i movimenti sociali più importanti. Questo dominio senza dubbio non sarà eterno; ma i fatti dimostrano che ci vorranno molte più lotte perché i proletari trovino la forza di rompere con esso, di trovare la via della lotta di classe e del raggruppamento attorno al partito di classe rivoluzionario.

 

29/05/2023

 

 

Partito Comunista Internazionale

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