La pace imperialista è l’altra faccia della guerra imperialista

Che cosa insegna la guerra russo-ucraina

(«il comunista»; N° 186 ; Marzo-Aprile 2025)

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TORNA DI MODA L’AMERICA FIRST

 

Nel n. 184 di dicembre 2024 di questo giornale, a proposito di Guerra russo-ucraina: pace imperialista all’orizzonte..., scrivevamo:

«Non si sa quando la guerra russo-ucraina si fermerà per lasciare lo spazio a una pace, che non potrà essere che imperialista, cioè una pace che non risolverà i motivi profondi del conflitto scoppiato fin dal 2014 in Crimea e nel Donbass. Una pace che sospenderà per un certo periodo questo particolare conflitto ma che non sarà risolutiva, rimescolando le carte e gli interessi “locali” in vista di contrasti ben più decisivi in quadranti ben più ampi e mondiali. La pace imperialista non è che un periodo di tregua tra un conflitto armato che si spegne e un conflitto armato che si riaccende. La storia del capitalismo imperialista non ha fatto altro che dimostrare che le borghesie dominanti dei paesi economicamente e finanziariamente più forti non sono in grado di eliminare dal loro futuro la guerra guerreggiata».

Mentre l’America di Trump e la Russia di Putin, al terzo anno di guerra in Ucraina, hanno deciso di parlarsi per negoziare la fine di questa guerra, e Zelensky (pretendendo continue forniture di armi sempre più efficaci per colpire «al cuore» la Russia, miliardi di dollari e di euro per mantenere in vita un esercito ormai al limite nonostante la diserzione sia diventata un fenomeno generale e la legge marziale non faccia più paura come all’inizio della guerra) dopo aver fatto ultimamente mille piroette tra il continuare la guerra «fino alla vittoria» e la disponibilità a «negoziare la pace», che cosa è successo della «certezza» che l’Unione Europea aveva nel piegare la Russia sia con la serie a mitraglia di sanzioni economiche, sia fornendo armi sempre più sofisticate a Kiev perché continuasse a battersi contro la Russia anche a costo di dissanguarsi in tutti i sensi, dal punto di vista economico, politico e militare? Ormai gli stessi media internazionali hanno dovuto ammettere che le sanzioni alla Russia hanno avuto un effetto negativo più sui paesi europei che sulla Russia, oltre ad avere avvantaggiato gli Stati Uniti sia nel commercio del gas naturale che nelle forniture di armamenti.

L’Unione Europea, esclusa da ogni coinvolgimento nelle trattative dirette Trump-Putin sull’Ucraina, si è trovata così in mezzo al guado. Per di più, la politica militare di Trump in campo Nato prevede, e non è una novità, un progressivo sganciamento del consistente impegno finanziario di Washington verso la «difesa» dell’Europa (finora gli USA garantivano più della metà degli impegni finanziari, di armamento, di intelligence, di difesa aerea ecc. della Nato), il che ha ovviamente scoperto il punto debole della cosiddetta «sicurezza europea».

Ultimamente, dopo aver preteso dai paesi membri della Nato di alzare, ciascuno, la percentuale di investimenti negli armamenti addirittura fino al 5% del proprio PIL in modo da diminuire notevolmente l’impegno americano, Trump si è spinto a definire gli europei dei parassiti, dei profittatori della generosa protezione americana per la loro sicurezza militare, considerando tale situazione ormai insopportabile. Secondo la visione di Trump, e della sua Amministrazione, Zelensky non ha fatto tutto quel che era necessario per non giungere allo scontro di guerra con la Russia e ha avuto la colpa di trascinarla per tre anni, accusando anche Biden e l’Unione Europea di averla sostenuta per tutto questo tempo costringendo gli Stati Uniti a investire miliardi di dollari e sguarnire in parte i propri arsenali senza una ragione solida rispetto agli interessi vitali americani.Interessi che hanno sempre una priorità a livello mondiale, non certo limitabili al «caso Ucraina» se non per i riflessi che ha avuto e ha sul piano dello scacchiere internazionale sia nei confronti della Russia e dell’Europa sia, soprattutto, anche se non appare ancora in primo piano, nei confronti del vero avversario globale dell’America, la Cina.  

Lanciando la nuova politica di disimpegno dalla guerra in Ucraina, Trump persegue degli obiettivi molto più vitali per gli interessi americani nel mondo: 1) rimettere in riga i paesi europei per quanto concerne gli investimenti Nato, costringendoli a impegnarsi direttamente al proprio riarmo; 2) riprendere i contatti con la Russia in modo da diminuire la pericolosa tensione anti-russa prodotta dalla presidenza Biden e scoraggiare i paesi europei dall’escalation guerraiola grazie alla quale hanno ottenuto ciò che all’America non sta bene, e cioè un’alleanza più stretta tra Russia e Cina; 3) rimettere sul tavolo dei rapporti con i paesi dell’Unione Europea il problema dell’intercambio commerciale all’insegna dell’America First per rovesciare il rapporto troppo sfavorevole per gli USA; 4) insistere nella priorità politica e strategica del quadrante Indo-Pacifico nel quale si giocherà una partita decisiva sia in termini di supremazia imperialistica mondiale tra Stati Uniti e Cina (perciò Washington è interessata a sganciare la Russia dalla Cina), sia in termini di rafforzamento politico-economico-militare del blocco USA-Giappone-Filippine nel quale attirare l’Australia; 5) quanto all’Ucraina, vista la sua dipendenza totale da ciò gli USA potranno ottenere dalla Russia in termini di cessate il fuoco e fine della guerra, Washington intende rientrare il più rapidamente possibile dagli investimenti finanziari e militari concessi finora a Kiev ottenendo un notevole “rimborso” in termini di risorse minerarie (non solo le terre rare) e di infrastrutture; 6) inoltre, essendo l’iniziativa per un accordo di pace con la Russia esclusivamente americana, l’Amministrazione Trump intende approfittare dei contrasti infra-europei – che, a livello più o meno alto, in verità, esistono da sempre – e delle difficoltà economiche reali che molti paesi europei hanno in fatto di riarmo, per declassare l’Europa a terzo o a quarto attore, a seconda delle questioni pratiche da affrontare, come ad esempio gli investimenti per la ricostruzione postbellica in Ucraina, l’eventuale forza militare di interposizione in Ucraina o nei paesi limitrofi che Londra e Parigi hanno proposto, ecc. 

In questo quadro, gli USA mettono l’Unione Europea in secondo piano e non perché il suo mercato e le sue forze imperialistiche abbiano perso interesse per gli Stati Uniti, ma perché l’organizzazione dei paesi europei nell’Unione Europea, rispetto al quadro internazionale che si sta avviando verso la terza guerra mondiale, presenta l’handicap, mai risolto, di essere un aggregato di paesi in costante concorrenza tra di loro, al di là e al di sopra degli accordi economici, politici e commerciali che ne hanno fatto un mercato comune, ma non unico dal punto di vista delle merci e dei capitali – come invece sono i mercati statunitense, russo, cinese – anche se dal 2001 molti paesi europei si sono riconosciuti nell’euro come moneta unica, ma che di per sé, pur facilitando la circolazione delle merci e dei capitali nell’Eurozona, non è espressione di un unico Stato, tanto meno di un’unica politica economica e di un’unica politica estera. Questo non significa che le potenze imperialistiche che costituiscono l’Europa abbiano un peso periferico rispetto alle questioni internazionali che sorgono e sorgeranno dal nuovo ordine mondiale che verrà tracciato nei prossimi dieci-vent’anni: la loro potenza industriale, economica, commerciale, finanziaria non è per nulla da sottovalutare da parte di nessun protagonista delle sorti del mondo imperialista, ma il declino a livello di potenza mondiale, prima dell’Inghilterra, poi della Francia e della Germania, declino che segnò la loro sudditanza dagli Stati Uniti d’America nella seconda guerra imperialista mondiale e nel suo lungo dopoguerra, non è sormontabile, viste le leggi vigenti del capitalismo imperialistico. Nello sviluppo storico del capitalismo, l’Inghilterra ha rappresentato la prima potenza imperialistica mondiale, poi è stata surclassata dagli Stati Uniti d’America che sono diventati sì «padroni del mondo», ma insieme alla Russia con cui si sono spartiti i compiti di controllo generale delle diverse aree del mondo, a partire, certo, dall’Europa, culla del capitalismo e dell’imperialismo. In poche parole, non esistono gli «Stati Uniti d’Europa», e più si protrae la fase imperialistica con le caratteristiche che ha assunto nell’ultimo trentennio, più difficilmente una tale entità sovrastatale ha la possibilità di nascere. A meno di fare, come tentò la Germania scatenando la seconda guerra mondiale, invadendo e sottomettendo al proprio dominio militare l’Europa continentale, allungandosi a est verso i Balcani e tentando il colpaccio nella Russia europea – tentativo alla fin fine fallito. La presenza molto capillare delle basi Nato in Europa difficilmente concederebbe spazio alla nascita e alla crescita di una simile entità statale.

Da questo punto di vista, il quadro dei contrasti interimperialisti fra gli stessi paesi europei, su cui insistono iniziative imperialistiche, di breve e lungo termine, da parte degli Stati Uniti, della Russia e da parte della sempre più vicina Cina, non favorisce un’unione politica europea alla stessa stregua di questi tre grandi paesi: paesi che hanno tutto l’interesse, ognuno con la propria forza economica, politica e militare, a tenere i paesi europei disuniti, mettendoli gli uni contro gli altri. Questo tipo di politica di mettere gli uni contro gli altri la iniziò la Russia di Stalin, sull’onda della vittoria contro il nazifascismo, facendosi forte di partiti comunisti sovvenzionati e comandati a bacchetta da Mosca, organizzando nell’Est Europa la rete di stati a «democrazia popolare», detti «socialisti» e continuando a influenzare per alcune generazioni le masse proletarie non solo dell’Est ma anche dell’Ovest europeo. Le democrazie classiche, capitanate da Inghilterra, Francia e Stati Uniti, risposero mettendo in campo una battaglia politica e ideologica che univa la libertà di mercato con la libertà politico-personale, soffiando, sia ad Est che ad Ovest, sui valori nazionali di ogni paese e dimostrando in questo modo che nulla di socialista esisteva né nell’Europa dell’Est né, tantomeno, in Russia.

La prospettiva di un’unica entità statale europea su basi capitalistiche e imperialistiche non si è realizzata negli anni Venti-Quaranta del secolo scorso, né si realizzerà nei prossimi anni Venti-Quaranta di questo secolo. Potrebbe presentarsi un’eventualità del genere, ma del tutto opposta alle caratteristiche che dello Stato borghese dà il capitalismo, soltanto in seguito alla rivoluzione proletaria e comunista le cui basi politiche sono fin dall’origine del movimento rivoluzionario del proletariato, internazionaliste e internazionali, una rivoluzione volta ad abbattere ogni Stato borghese nazionale e a distruggere il modo di produzione capitalistico e le sue leggi legate alla proprietà privata e al lavoro salariato. Lo Stato borghese, abbattuto dalla rivoluzione, deve essere sostituito dallo Stato proletario che non si caratterizza per essere un nuovo organismo permanente, ma per essere l’espressione della dittatura del proletariato, guidata dal partito di classe, che mira a estendere la rivoluzione proletaria a livello mondiale nella prospettiva di trasformare le basi economiche dello Stato nazionale borghese in un’economia non mercantile, in un’economia sociale; perciò lo Stato proletario non è uno Stato per come lo hanno cosciuto tutte le società divise in classi finora, ma – come ha detto Engels e ripetuto Lenin – un non-Stato, uno Stato transitorio, che non riconosce e non rispetta alcun confine nazionale perché il movimento proletario rivoluzionario intende combattere e battere ogni oppressione, sul piano economico e sociale, rispetto al genere, alla nazionalità, alla razza: obiettivo che non può essere raggiunto storicamente se non internazionalmente attraverso la violenza della rivoluzione proletaria. Ma questa è un’altra storia... alla quale vanno dedicati altri articoli.

Anche gli Stati Uniti d’America potrebbero subire un processo di declino simile a quello subito nel Novecento dall’Inghilterra, a causa di altri più giovani attori imperialistici, come ad esempio la Cina; e la politica dei vari governi americani, soprattutto degli ultimi trent’anni, esprime questo timore diventato sempre più presente quanto più le potenze economiche della Germania, del Giappone, della Cina hanno iniziato a conquistare mercati che prima erano sottoposti al dominio dell’imperialismo americano. D’altra parte, è lo stesso sviluppo capitalistico, purtroppo non bloccato e spezzato dalla rivoluzione proletaria internazionale, che ha fatto sorgere in più punti del pianeta forze economiche e imperialiste che non permettono più a una sola grande potenza imperialistica – come fu a suo tempo l’Inghilterra – di svolgere non solo il compito di «padrona del mondo», ma anche quello di controllare lo sviluppo economico dei paesi del mondo torcendolo a beneficio esclusivo del proprio capitalismo nazionale e del proprio dominio internazionale.

Questo potere dominante sul mondo che gli Stati Uniti avevano conquistato con la vittoria nella seconda guerra imperialistica mondiale e nel suo dopoguerra non è più in grado di essere presente tempestivamente e da solo nelle diverse aree del mondo, non soltanto là dove scoppiano tensioni economiche e sociali che mettono a rischio gli interessi diretti e indiretti americani, ma anche là dove, a causa di quelle stesse tensioni economiche e sociali, scoppiasse una lotta proletaria di classe potenzialmente rivoluzionaria. Se le portaerei americane negli anni Cinquanta potevano raggiungere in poco tempo, in qualsiasi punto del globo, il paese o i paesi in cui il movimento proletario fosse stato in grado di mettere in serio pericolo il potere borghese, costituendo in questo modo un esempio per gli altri proletariati, e per i proletariati dei paesi imperialisti in particolare (1), oggi le forze armate americane avrebbero certamente molta più difficoltà a svolgere lo stesso compito di schiacciare il movimento proletario rivoluzionario se non potessero contare sull’alleanza, più che provata, di altri attori imperialisti dislocati in Europa, nel Medio ed Estremo Oriente e nelle stesse Americhe, mentre nella poverissima e arretrata Africa gli Stati Uniti si sono limitati finora, salvo nei confronti dell’Egitto, a giocare soprattutto la carta degli «aiuti umanitari» che, una volta cancellati, come è stato fatto di recente dall’Amministrazione Trump-Musk, hanno fatto precipitare molti paesi del continente in una situazione ancora più disastrosa di quella già vissuta finora.

 

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Ma torniamo all’Europa post-crollo dell’URSS e costituzione dell’Unione Europea. La sudditanza dei paesi europei agli Stati Uniti d’America, sia economica che finanziaria, particolarmente pesante durante la seconda guerra mondiale e nei decenni successivi di dopoguerra, è stata in parte limitata dalla ripresa economica dei paesi indeboliti e distrutti dalla guerra, soprattutto dalla Germania – nonostante fosse stata divisa in due e controllata da Washington e Mosca – e dalla costituzione di un mercato economico e finanziario di prima grandezza che ha contribuito non solo a rinforzare le economie dei paesi europei, ma anche a rilanciare l’espansione economica a livello mondiale degli Stati Uniti e della stessa Russia. Le crisi economiche e finanziarie che hanno segnato i decenni dal 1975 in poi, mentre sono state riassorbite, nonostante la loro gravità, dai paesi occidentali senza far loro subire un tracollo generale di cui il proletariato – se non fosse stato completamente deviato sulla collaborazione di classe e sulle esigenze nazionalistiche di ciascuna borghesia – avrebbe potuto approfittare per scatenare la sua lotta di classe e rivoluzionaria, hanno invece colpito duramente la struttura economico-politica dell’URSS A fronte anche del potente sviluppo capitalistico non solo della Germania ovest ma anche di alcuni dei suoi satelliti est-europei, l’URSS ha dovuto fare i conti con una sua debolezza storica, quella di essere soprattutto una fornitrice di materie prime per le economie industriali più sviluppate della propria, sebbene il proprio sviluppo industriale sia stato ed è certamente importante – soprattutto nell’ambito della produzione militare – ma non paragonabile né a quello degli Stati Uniti né a quello dei paesi vinti nella guerra, Germania e Giappone.

Questa nuova situazione ha portato la Russia a smontare la politica interna ed estera che l’apparato del PCUS aveva seguito fino ad allora, aprendosi completamente al mercato internazionale e quindi mettendosi nelle condizioni di dipendere da esso ancor più di prima, pur perseguendo l’obiettivo, che si era reso più facile, di diventare uno dei principali fornitori di materie prime per l’Europa (gas, petrolio, fertilizzanti ecc.). Era d’altra parte nella logica imperialistica che la Russia tendesse a fare delle ex repubbliche «socialiste» europee mercati di sbocco della propria produzione e zone di diretta influenza politica. Nella concorrenza con l’imperialismo americano e con gli imperialismi europei occidentali, in grado di investire e prestare le masse di capitali necessarie a strappare i paesi dell’Est Europa dal controllo di Mosca, rendendoli però dipendenti dagli imperialismi americano ed euro-occidentali, la Russia tendeva a far leva su quei paesi, come la Bielorussia e l’Ucraina, che per lingua, popolazione, religione e tradizioni storiche le erano molto più affini, che non i polacchi, i baltici, i cechi, gli slovacchi, i bulgari, i rumeni ecc.

Ragioni, quindi, sia di affinità linguistica e culturale che di interesse diretto verso paesi confinanti, come avveniva d’altra parte nella regione caucasica e nella zona della Russia asiatica confinante coi paesi del cosiddetto -stan (Kazakistan, Uzbekistan, Turkestan ecc.), stretto tra l’Occidente europeo organizzato nella Nato e nell’Unione Europea, l’Oriente dove impera la Cina, il sud con la presenza di Turchia, Iran, India e Pakistan. Mentre i suoi tentativi di insediarsi in Medio Oriente con una Siria che per Mosca è ormai persa, l’imperialismo russo, se vuole sopravvivere, non ha molte alternative: dato lo scontro di interessi tra Europa e Stati Uniti, l’unica possibilità era ed è di trovare un accordo politico con Washington che, nella storia passata – al di là del confronto-scontro con gli interessi di Mosca –, ha dimostrato di essere propensa ad allearsi con la Russia piuttosto che con la Germania o col Giappone: questi paesi, per farseli «amici», li ha dovuti sconfiggere in guerra e sottoporre a un serrato controllo militare.

Ecco che, di fronte alle nuove sfide imperialistiche proiettate verso una terza guerra mondiale, sia a Washington che a Mosca – non va scordato che si tratta di due superpotenze atomiche – conviene trattarsi non da acerrimi nemici ma da mercanti interessati a dividersi parti del mercato mondiale, e la parte del mercato mondiale di influenza dell’uno o dell’altro dipenderà, come sempre, dai rapporti di forze reali quanto a forza economica, finanziaria e militare. Perciò la «pace» in Ucraina diventa per Washington un obiettivo a breve termine per potersi dedicare molto più intensamente a preparare le pedine necessarie per rafforzare lo schieramento anti-cinese. Inevitabilmente, questo obiettivo principalmente americano «richiede» che l’Europa si pieghi agli interessi americani – a partire dall’interscambio commerciale – e che ripaghi gli Stati Uniti – questa è la posizione di Trump –, in termini politici e militari, per la protezione e la pace di cui ha goduto dalla fine della seconda guerra mondiale per quasi un cinquantennio.

L’Europa, dunque, Gran Bretagna compresa, è posta di fronte a un’alternativa: mettersi contro gli Stati Uniti, stringere ancor più i legami tra i paesi più importanti e sfidare Washington a vedersela da sola con la Cina e la Russia, mentre, sottotraccia, ricuce i rapporti economici, finanziari e politici con Mosca e Pechino, o piegarsi per l’ennesima volta agli interessi di potenza economica e finanziaria del tanto osannato Occidente all’ombra degli Stati Uniti, trasformandosi in un agente di Washington presso le capitali più importanti del mondo, come sta facendo da tempo in quanto agente della Nato. Per come si stanno mettendo le cose, l’Europa non prenderà nettamente né l’una né l’altra alternativa, ma rimarrà in mezzo al guado per un certo periodo di tempo, in attesa di verificare quali Stati sono pronti e decisi ad allearsi in tutto e per tutto a fianco degli USA e quali, invece, rimarranno nella posizione peggiore, senza prendere una posizione netta – come ad esempio, per un verso, la Germania e, per un altro verso, l’Italia, maestra di indecisione – pur dovendo fare i conti con le basi Nato che gli Stati Uniti hanno disseminato in molti paesi europei e in mezzo mondo.

La guerra russo-ucraina, di fatto, ha esposto più l’Unione Europea che non la Russia a perdere peso nello scacchiere internazionale, sin dall’inizio, quando gli Stati Uniti, amministrati da Biden, insieme alla Gran Bretagna hanno deciso di spingere l’Ucraina di Zelensky a rispondere all’invasione russa con la guerra a tutto campo e a organizzare in tempi non troppo lunghi la controffensiva. Inutile ripetere quanto abbiamo già detto più e più volte: la guerra russo-ucraina è stata un test reale di scontro di guerra per tutte le forze militari coinvolte. Non si è trattato più di un’esercitazione con finti obiettivi da colpire, si è trattato di un teatro reale di scontri armati, di trincee, di massacri, di utilizzo combinato dell’armamento convenzionale e delle tecnologie più avanzate anche a livello di intelligence e di intelligenza artificiale, usando sul terreno la popolazione ucraina e l’esercito ucraino come carne da macello a favore di interessi extra-ucraini. Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione europea hanno continuato poi, per quasi tre anni e fino all’insediamento di Trump alla Casa Bianca, a illudere l’Ucraina che la combinazione di sanzioni economiche e finanziarie e cospicue forniture di armamenti potesse essere la chiave per la vittoria sulla Russia...

Lo svolgimento della guerra, mentre ha ridicolizzato le forze politiche e i media internazionali che predicavano la possibile vittoria sulla Russia col solo esercito ucraino, ha anche messo in luce quanto ipocrita e ingannevole sia la costante predica sulla imprescindibile sovranità delle nazioni, sulla insostituibile democrazia dei popoli, sulla volontà proclamata a ogni pie’ sospinto di pace e di fratellanza, su una «comunità internazionale» che deve rispondere a un «diritto internazionale» che di volta in volta è sbandierato da ciascuna potenza a seconda dei propri vili interessi politici ed economici. Lo svolgimento di questa guerra ha anche messo in evidenza che il reale interesse di ogni Stato borghese è di essere pronto a scontri di guerra non solo locali, ma mondiali. Nel frattempo, però, l’Unione Europea, dopo aver sborsato miliardi di euro a sostegno di una guerra persa in partenza, dopo aver sottoposto i propri proletariati ad altri sacrifici dopo quelli che già li avevano colpiti nei tre anni di Covid-19, dopo aver gridato urbi et orbi che la Russia, dopo l’Ucraina, avrebbe invaso l’Europa..., dopo aver sparato a raffica sanzioni contro la Russia ricavandone un effetto boomerang quanto a risultati economici negativi per le proprie economie, dopo aver ingrassato le multinazionali degli armamenti a discapito di molti altri settori economici, ha subìto lo smacco, da parte dell’alleato su cui ha sempre contato, di essere esclusa dalle trattative con Mosca per il processo di tregua e di pace...  

 

LA PAROLA D’ORDINE EUROPEA? REARMEU!

 

Cosa può fare l’Europa per tornare ad avere un peso nello scacchiere internazionale ed evitare di essere schiacciata come un vaso di coccio tra i due vasi di ferro americano e russo, che hanno una tecnologia militare molto più avanzata degli europei e sono gonfi di bombe atomiche? Armarsi come mai in precedenza: questo è il nuovo vangelo firmato Ursula von der Leyen e sottoscritto da tutti i principali esponenti degli Stati europei. Ma l’Unione Europea non è uno Stato unitario, perciò non ha una politica estera unica, un unico esercito e un’unica struttura politico-militare. Il ReArmEU non potrà che essere un riarmo di ciascun paese dell’UE a seconda delle effettive disponibilità di capitali e della possibilità nazionale riguardo all’esposizione al debito che, in sede europea, può essere accettata. Ad esempio, Italia, Francia e Spagna sono già fortemente indebitati e hanno poco spazio di manovra a livello di bilancio: chi e come pagherà il riarmo europeo? Gli 800 miliardi di cui ha parlato Ursula von der Leyen da spendere nei prossimi 4/5 anni son più virtuali che reali, e su questo non ha tutti i torti la presidente del consiglio italiana Meloni. In realtà, soltanto 150 miliardi sono quelli effettivamente previsti a livello di prestiti agli Stati membri per gli investimenti nella difesa un quinto dei quali ciascuno dei 27 paesi UE dovrà destinare all’armamento dell’Ucraina. Praticamente poco più che briciole. Gli altri 650 miliardi che mancano per arrivare alla favolosa cifra di 800, sarebbero i miliardi di spese militari considerate al di fuori del rapporto deficit/PIL di ogni paese che andrebbero a sommarsi, comunque, al debito pubblico già esistente. Ovvio che, nell’attuale situazione di stentata crescita economica e di bilanci statali già ridotti, i miliardi che verranno spostati sulle spese militari saranno tolti dalla sanità, dall’istruzione, dalla previdenza sociale, dalle pensioni e da tutte le voci che riguardano la tanto controversa politica di sostegno delle famiglie povere e disagiate. Naturalmente, dopo il 2030,   gli Stati che hanno usufruito della facilitazione di non contabilizzarli nel proprio debito complessivo sul PIL dovranno farli rientrare riducendo il debito ulteriore accumulato...

Come si sa, il titolo al piano europeo di riarmo: ReArm EU non è piaciuto ad alcuni leader europei, in particolare alla Meloni, perché troppo militaresco; l’ipocrisia borghese vuol sempre mascherare la propensione alla violenza e alla guerra caratteristica della società capitalistica, perciò il titolo dell’operazione è stato modificato in Readiness 2030, «Prontezza 2030», con cui si vuol far passare l’idea che il riarmo è necessario non per «piani di aggressione», ma per «piani di difesa» contro Stati – come, ad esempio, la Russia – che decidono di invadere paesi indipendenti e sovrani – come, ad esempio, l’Ucraina – con la sola volontà di distruggere l’indipendenza degli altri Stati, assoggettandoli al proprio potere...

Vecchia polemica quella dell’aggressore e dell’aggredito, delle guerre di difesa e di aggressione, fin dai tempi della guerra mondiale del 1914-18, quando i principi della morale borghese facevano dichiarare da parte di ogni governo che la propria era una guerra «di difesa».

«Governo, Stato, Patria, Nazione, Razza, sono assimilati ad un unico soggetto con ragione, torto, diritto e dovere, come tutto si riduce a Persona Umana e alla dottrinetta sul suo comportamento», scriveva Bordiga nel 1949 su Prometeo (2); così, «come l’uomo giusto e alieno dal male, se assalito, si difende dall’aggressore, (...) così il Popolo assalito ha il diritto di difendersi. La guerra è cosa barbara ma la difesa della patria è sacra, ogni cittadino deve democraticamente pronunziarsi per la pace e contro le guerre, ma dall’attimo in cui il suo Paese è aggredito deve correre alla difesa contro l’invasore!». «Ne venne fuori – continua l’articolo – il tradimento generale del socialismo, il guerrafondaismo su tutti i fronti, il trionfo in tutte le lingue del militarismo. E non meno ovviamente non ci fu guerra che lo Stato e il Governo che la conducevano non qualificassero di difesa».

E’ noto, fin dal «Manifesto del partito comunista» di Marx-Engels che il proletariato non ha patria. La guerra, come diceva il famoso von Clausewitz, è la politica estera di ogni governo fatta con altri mezzi, appunto con mezzi militari. Essendo il proletariato la classe per eccellenza antagonista rispetto alla classe dominante borghese, e non avendo patria, non ha nemmeno il dovere di difenderla, mentre ha il dovere, imposto dalla sua condizione di classe sfruttata e sottomessa alla violenza del potere borghese, di lottare contro ogni interesse della borghesia, tanto più se imposto attraverso la guerra. Dunque, la lotta del proletariato contro tutte le guerre borghesi – non ha importanza se sono considerate di difesa o di aggressione – distingue gli interessi di classe dei proletari dagli interessi di classe dei borghesi e dei loro Stati. Il proletariato, come classe, è tenuto a lottare in ogni paese innanzitutto contro la propria classe dominante borghese sia in tempo di pace che in tempo di guerra, poiché né in tempo di pace, né, tanto meno, in tempo di guerra, il proletariato può aspirare a una sua reale emancipazione dallo sfruttamento capitalistico; anzi, ciò che lo attende in ogni caso è di essere schiacciato in condizioni di vita e di lavoro sempre più intollerabili fino ad essere trasformato in carne da cannone. Se ne ha la forza, se la sua esperienza di lotta classista gli ha fornito gli strumenti materiali, dai metodi ai mezzi e agli obiettivi della lotta in difesa dei suoi interessi di classe, il proletariato lotterà per impedire di essere trascinato nella guerra borghese, perché i suoi interessi, sia immediati che generali, non sono quelli di schiacciare altri popoli, altri proletariati, altre nazionalità, altre razze, ma di impedire di essere trasformato in strumento di un’ulteriore oppressione borghese. La propria oppressione salariale, l’oppressione di classe esercitata dalla borghesia non si combatte e non si supera facendosi strumento di un’oppressione verso altri popoli, verso altri proletariati; cosa che, in realtà, aumenta l’asservimento alla propria borghesia di casa e, in generale, non attenua né risolve l’oppressione e la repressione che la borghesia di casa esercita per mantenersi saldamente al potere in tutte le situazioni che si presentano, soprattutto in situazioni di crisi economica e di guerra.

La guerra borghese, soprattutto nella fase imperialista dello sviluppo capitalistico, in realtà, se non viene impedita dalla mobilitazione di lotta del proletariato, scoppia in tutta la sua estensione e in tutta la sua forza distruttiva; ciò è dimostrato non solo dalle due guerre imperialistiche mondiali del 1914-1918 e del 1939-1945, ma anche da ogni altra guerra che le borghesie dei vari paesi hanno scatenato per assicurarsi nuovi mercati, nuove masse di forza lavoro e di risorse naturali da sfruttare, universalizzando il metodo che già le borghesie del Settecento e dell’Ottocento avevano adottato con le loro imprese coloniali. Le guerre anticoloniali che caratterizzarono il secondo dopoguerra mondiale, fino al 1975, furono considerate dal nostro partito come guerre da sostenere sia perché fecero fare un balzo in avanti nella storia di molti paesi arretrati attraverso il moderno modo di produzione capitalistico, distruggendo in gran parte i modi di produzione precedenti, sia perché crearono masse proletarie sempre più numerose in tutto il mondo, coinvolgendole nella vita politica dei rispettivi paesi, come era già avvenuto nei paesi d’Europa e d’America nei secoli XVIII e XIX, e rendendole così influenzabili dalla politica di classe e rivoluzionaria del partito di classe. Dopo il secolo XIX, in cui tutto il mondo civile era scosso dalle rivoluzioni borghesi antifeudali, sulle quali si innestarono le successive rivoluzioni proletarie –, il cui apice storico fu rappresentato prima dalla Comune di Parigi e poi dalla rivoluzione d’Ottobre 1917 –, la vittoria della controrivoluzione borghese, che riguardo al movimento proletario prese il nome di staliniana, fece precipitare le masse proletarie in Europa, nelle Americhe e in Oriente in una profonda depressione sociale, e fece perdere anche solo il ricordo delle gloriose lotte di classe e rivoluzionarie che avevano fatto tremare il mondo borghese.

Oggi, le enormi masse proletarie create dal capitalismo nell’Estremo Oriente, nel Medio Oriente e in Africa, nonostante resistano molte vecchie abitudini addirittura tribali, sono sottoposte – come e più di quanto non lo fossero le masse proletarie in Inghilterra, in Francia, in Germania nei secoli dello sviluppo rivoluzionario del capitalismo – a un intensivo e brutale sfruttamento che, da un lato ha consentito agli imperialismi più forti e alle rispettive borghesie nazionali di rafforzare il loro dominio di classe e il loro potere di vita e di morte su quelle stesse masse, dall’altro lato ha contribuito oggettivamente a universalizzare le contraddizioni economiche e sociali che il capitalismo non riuscirà mai a risolvere. Contraddizioni che produrranno inevitabilmente crisi sociali e crisi di guerra così gigantesche da spingere quelle stesse masse proletarie – come successe in Europa nell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento – a lottare per la propria sopravvivenza: una lotta che, per quanto incosciente e confusa dal punto di vista degli obiettivi storici proletari e di classe, giungerà a porre materialmente il grande problema storico che le borghesie di tutto il mondo temono più di ogni altra cosa e che hanno sempre cercato di allontanare dal loro presente e dal loro futuro: o capitalismo o socialismo, o perenne sfruttamento sempre più feroce del lavoro salariato e imbarbarimento generale della società umana, o lotta rivoluzionaria dei proletari di tutto il mondo per sovvertire da cima a fondo l’intera società del capitale, distruggendo il potere politico delle borghesie e il loro sistema economico e sociale. Un potere politico che va sostituito con la dittatura della classe proletaria e un sistema economico e sociale che deve trasformare l’economia mercantile, del denaro e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo in un’economia comunista in cui il lavoro vivo (rappresentato oggi dai lavoratori salariati – il capitale variabile di Marx – e che domani sarà semplicemente il lavoro dell’intero e solidale genere umano programmato sui bisogni reali della specie e non più del mercato) sovrasterà completamente il lavoro morto (cioè i mezzi di produzione, le materie prime da trasformare, le infrastrutture ecc. – il capitale costante di Marx –, che domani non saranno altro che gli strumenti necessari alla produzione e riproduzione della specie al servizio della specie umana e della sua vita sociale e non dell’accumulazione e della valorizzazione del capitale). Ciò significa che il lavoro morto, il capitale, non si nutrirà più del lavoro vivo, non si nutrirà più delle masse proletarie schiacciate, sfruttate e uccise nelle galere capitalistiche e massacrate a milioni nelle guerre borghesi.

Della guerra borghese e imperialista dicevamo che le borghesie di ogni paese la giustificano come «guerra di difesa»; quello che in realtà le borghesie difendono sono i propri interessi di classe, dunque il loro potere politico e il capitalismo come modo di produzione su cui si fonda illoro dominio sociale. Con l’antagonismo di classe, da quando esiste il capitalismo, si manifesta la netta opposizione degli interessi della classe borghese capitalista contro gli interessi della classe proletaria e salariata, evidenziando la contraddizione più forte della società attuale: chi produce la ricchezza non ha alcun accesso ad essa, non può godere dei benefici che quella ricchezza può dare, è costretto a recarsi al mercato per acquistare i prodotti che gli consentono di sopravvivere, ma può farlo solo se prima ha venduto la propria forza lavoro ai capitalisti. Tale contraddizione non è causata dalla crudele volontà dei capitalisti e dei borghesi di reprimere in generale le masse lavoratrici, superata la quale questa contraddizione viene risolta con un riequilibrio sociale tale da far scomparire le sempre più forti diseguaglianze ed oppressioni; ma è una contraddizione insopprimibile nel capitalismo perché è lo stesso capitalismo a generarla e a mantenerla in vita, poiché la sua vitalità, la sua crescita esponenziale dipende dallo sfruttamento intensivo del lavoro salariato ed esteso a tutti i paesi del mondo. Può essere più acuta in determinati momenti e in certi paesi e meno in altri, ma è sempre presente, tanto da collegare in modo sempre più stretto la vita economica e sociale in tutti i continenti. Perciò, a fronte di borghesie aggrappate alle loro origini nazionali – origini che vengono sempre più messe in discussione dallo sviluppo mondiale del capitalismo, soprattutto nella fase dei monopoli e dell’imperialismo che stiamo attraversando – si erge una reale e oggettiva condizione di internazionalità delle masse proletarie, condizione attraverso cui lo stesso capitalismo, con le sue crescite e le sue crisi, lega la sopravvivenza in relazione – all’estrema e sempre più veloce mobilità dei capitali e dei loro interessi alla scala mondiale. Come i capitali, così la forza lavoro, il cui sfruttamento sistematico li produce e li accresce, tende a seguirne le orme, da un’industria all’altra, da una città all’altra, da un paese all’altro, da un continente all’altro. Se il proletariato è diventato una classe internazionale lo deve prima di tutto al capitalismo e al suo sviluppo mondiale, e così i suoi interessi di classe sono diventati internazionali. Con questo dato di fatto termina il contributo involontario che il capitalismo ha dato al proletariato come classe, poiché, nonostante l’economia capitalistica tenda oggettivamente a superare ogni confine «nazionale», la classe borghese ha interesse a difendere il sistema della proprietà privata, per la quale difesa ha costituito una ben precisa forza amministrativa e militare, lo Stato nazionale, che ha una doppia funzione: difendere, alla scala mondiale, gli interessi del capitalismo nazionale di cui è espressione diretta, e difendersi dalla lotta del proletariato nazionale soprattutto nei periodi in cui le tensioni sociali provocate dalle crisi del suo stesso sistema economico e sociale mettono in pericolo la sua stabilità politica, se non addirittura il potere politico della classe dominante borghese.

Rimane però la constatazione che, il proletariato di ogni paese, deviato e ingannato per generazioni dall’opportunismo collaborazionista, non ha alcuna percezione di essere una classe che storicamente ha definito obiettivi storici di emancipazione che eleveranno l’intera società umana dalla sua preistoria, caratterizzata dalle società divise in classi, alla sua storia, caratterizzata dalla società di specie, dalla società senza classi distinte. E così, di fronte a ogni crisi economica e sociale, come di fronte a ogni guerra borghese, i proletari sono istigati ad abbracciare le esigenze della nazione, dei valori nazionali, della patria che va difesa da ogni aggressione da parte di altre nazioni, di altri Stati, di altre patrie. Caduti nelle trappole ideologiche e morali della propaganda borghese, i proletari non si riconoscono come classe antagonista prima di tutto della propria borghesia e poi di tutte le borghesie del mondo, e tendono a sostenere la propria borghesia nelle sue battaglie, nelle sue guerre, offrendo gratuitamente il proprio sangue; e quando non vogliono offrirglielo ci pensa la borghesia a prenderselo lo stesso, con ogni mezzo, sui posti di lavoro come sui fronti di guerra dai quali, come fanno istintivamente gli animali davanti a un incendio, scappano il più lontano possibile per salvare la pelle.

Il conflitto russo-ucraino non sfugge alle leggi della politica e dell’economia capitalistiche, né agli interessi delle rispettive borghesie nazionali. Le giustificazioni della guerra, da una parte come dall’altra, si riducono al concetto di guerra di difesa.

Da parte russa, Mosca difende i suoi confini occidentali con l’Ucraina – circa 1580 km – messi in pericolo dal previsto accorpamento di Kiev alla Nato, il che significherebbe avere sotto casa altri missili Nato puntati su Mosca che si sommerebbero a quelli già presenti in Polonia e nei Paesi Baltici, e nella prossima base Nato in Finlandia a 200 km dal confine russo. Mosca, già dal 2014, e anche prima, si è mossa in aiuto alle popolazioni russofone del Donbass, in particolare del Lugans’k e del Donets’k, tendenti a rendersi indipendenti da Kiev e per questo oppresse e represse da Kiev, mentre mette in atto la programmata annessione della Crimea. La giustificazione? Difendere le popolazioni russofone e la loro libertà dalla discriminazione e dallo Stato ucraino che, tra l’altro, usa milizie naziste per terrorizzare coloro che non si piegano all’ordine costituito.

Da parte ucraina, Kiev difende la sovranità nazionale, la sua indipendenza dall’URSS e la sua libertà di intrattenere rapporti politici, economici e militari con qualsiasi altro paese del mondo, nella fattispecie con i paesi dell’Unione Europea e con gli Stati Uniti che il caso vuole siano avversari della Russia. I proletari russi e i proletari ucraini vengono irreggimentati nei rispettivi eserciti per difendere i sacri diritti e le sacre esigenze delle rispettive borghesie. In questo quadro non esiste una sola briciola di «diritto» riservata ai proletari: essi sono automaticamente considerati strumenti di guerra e, perciò, sottoposti alla legge marziale.

La politica imperialista, anche nei paesi di sbandierata democrazia, non prevede il coinvolgimento del popolo elettore a votare per la guerra o contro la guerra; tutta la propaganda che precede il fatto materiale di scendere in guerra contro altri Stati è intrisa di concetti e di parole terrorizzanti la popolazione, tali da far credere che l’unica possibile salvezza della vita, del lavoro, delle proprietà, sta nell’andare a far la guerra decisa dai poteri borghesi. Nel frattempo, come sta succedendo in Europa nell’ultimo periodo, i poteri forti dell’Unione Europea, sull’onda degli interessi anglo-americani battono la grancassa della necessità di riarmarsi, di armarsi fino ai denti perché il pericolo di essere invasi dalla Russia non finisce con i «negoziati di pace» per l’Ucraina fra Trump e Putin, ma viene soltanto allontanato nel tempo. C’è stato addirittura qualcuno, come la premier danese Mette Frederiksen, che ha definito la pace in Ucraina «più pericolosa della guerra», e quindi riarmare l’Europa diventa la cosa più importante: «E non credo che abbiamo molto tempo. Quindi riarmare l’Europa: spendere, spendere, spendere in difesa e deterrenza: questo è il messaggio più importante» (3).

Non poteva essere più sintetica nel confermare quel che noi, insieme con Lenin, affermiamo da sempre: la pace borghese, tanto più in fase imperialistica, non è che una tregua tra una guerra e la successiva. La pace serve per armarsi e riarmarsi, la guerra per usare gli armamenti a disposizione per battere i concorrenti, i nemici, e per imporre, se vincitori, gli interessi immediati e generali dei capitalismi vincitori, della borghesia imperialista degli Stati vittoriosi. Il guerrafondaismo non viene sospeso durante la pace, viene invece alimentato, giustificato, ammantato di nobili valori morali pur di poterlo concretizzare nei conflitti armati per i quali è stato concepito. La pace tra gli Stati può durare per un certo periodo di tempo in determinati continenti, in determinate aree, mentre la guerra infuria in altri continenti, in altre zone, per poi ripresentarsi nelle aree dove prima regnava la pace.

 

Povera Europa, non sa che pesci prendere.

La reazione dei paesi europei al prevedibile accordo tra Washington e Mosca sulla fine della guerra in Ucraina e su ciò che questo accordo, voluto insistentemente da Washington, comporterà in termini di bottino a favore dell’America piuttosto che di Mosca, lasciando i bocconi meno pregiati alla Gran Bretagna, alla Francia e, insomma, ai paesi dell’Unione Europea che si sono spesi per far vincere l’Ucraina, è stata quella di rimettere il tema «guerra alla Russia» all’ordine del giorno delle proprie agende direzionando il riarmo europeo voluto dalla Nato e, quindi, dagli Stati Uniti, precisamente contro la Russia; d’altra parte la Nato era stata costituita a suo tempo esattamente con questo obiettivo... Solo che nella fase più recente dei contrasti interimperialistici le priorità anche di carattere strategico-militare per gli Stati Uniti si sono modificate, come detto sopra, verso il quadrante Indo-Pacifico. Non sarà facile nemmeno per gli USA gestire questo cambio di rotta nelle priorità strategiche, anche perché non hanno alcun interesse nel mettersi in contrasto frontale con l’Europa; hanno semmai interesse nel dividere i paesi europei per poter gestire i propri rapporti su un piano più bilaterale con ciascun paese dell’unione piuttosto che con l’Unione presa nel suo insieme; cosa che naturalmente a Bruxelles non sta per niente bene. La politica dei dazi che Trump sta mettendo in pratica tende nella direzione di spaccare l’Unione Europea, che già su diversi piani fatica a stare insieme; e più la crisi economica generale si avvicina, più i fattori di divisione intra-europei si fanno acuti. La carta «Ucraina» viene così giocata da tutti i protagonisti per saggiare le politiche di ciascuno, la loro forza e la loro determinazione e naturalmente, all’inverso, la loro debolezza e l’interesse a favorire i rapporti bilaterali vuoi con gli Stati Uniti, o con la Russia, o con la Cina, in attesa che il quadro generale dei contrasti interimperialistici non definisca, nelle sue linee più generali, i possibili schieramenti di guerra rispetto a un futuro terzo conflitto mondiale. 

L’iniziativa anglo-francese della sedicente «Coalizione dei volenterosi» (il fatto stesso di vedere protagonista la Gran Bretagna che non fa più parte dell’Unione Europea dal 2020, ma certamente coinvolta e non poco nel sostegno all’Ucraina contro la Russia, è uno dei tasselli di disgregazione della ricercata «unità politica» dell’UE, come d’altra parte sono stati i diversi tentativi di Francia e Germania di costituire un esercito «europeo», e come, in modo più plateale, la messa di traverso sistematica dell’Ungheria in tutte le iniziative che tendevano a sanzionare la Russia) è il modo che hanno trovato le uniche due potenze nucleari europee per tentare di prendere il comando di una risposta militare europea autonoma dagli Stati Uniti, e dalla Nato, in termini di uomini, di armamenti e di sostegno finanziario dell’eventuale missione di peacekeeping, o meglio, come hanno tenuto a precisare i promotori anglo-francesi, di rassicurazione, a difesa dell’accordo di pace tra Ucraina e Russia, per quando sarà. Data la loro esclusione dalle trattative tra USA e Russia, tale iniziativa ha il sapore di intralciare in qualche modo il negoziato tra USA e Russia, ricaricando gli argomenti della guerra e non della pace ed è certamente proposta più per non perdere la faccia e per ottenere dall’Ucraina qualche accordo bilaterale a favore degli altri Stati europei che hanno partecipato al sostegno dell’Ucraina – come, ad esempio, la Germania, la Polonia, l’Italia – che non per un reale sostegno a Kiev contro la Russia e, meno che mai, contro le esose pretese degli Stati Uniti. Le ultime notizie del 27 marzo date dalla testata americana Bloomberg sottolineano che gli Stati Uniti intendono «controllare tutti i principali investimenti infrastrutturali e minerari futuri in Ucraina, ottenendo potenzialmente un veto su qualsiasi ruolo per gli altri alleati di Kyiv e minando la sua candidatura all’adesione all’Unione Europea. L’amministrazione del presidente Trump sta chiedendo il “diritto di prima offerta” sugli investimenti in tutti i progetti infrastrutturali e di risorse naturali nell’ambito di un accordo di partenariato rivisto con l’Ucraina» (4). E’ evidente che se tale accordo venisse accettato, gli Stati Uniti otterrebbero un enorme potere di controllo sugli investimenti in Ucraina in progetti che riguardano strade, ferrovie, porti, miniere, petrolio, gas e terre rare. Ed è altrettanto evidente che la Gran Bretagna e l’Unione Europea faranno di tutto perché ciò non avvenga. Anche su questo piano, si vedrà.

Questa Coalizione dei volenterosi dovrebbe garantire la sicurezza ucraina rafforzando la difesa di Kiev contro la Russia: il fatto è che senza l’appoggio degli Stati Uniti tale iniziativa lascia il tempo che trova; non solo, ma promettere una difesa dei punti nevralgici ucraini (infrastrutture, ferrovie, aeroporti, porti ecc.) con un contingente militare striminzito di 20.000 uomini, accompagnato dal rifornimento di missili di difesa aerea e di altri armamenti e, soprattutto, senza il benestare di Mosca che non intende accettare truppe dei paesi Nato in territorio ucraino, ha più il sapore di una sparata politica tipica della propaganda borghese volta a nascondere l’inconsistenza delle promesse lanciate. E’ ovvio che, senza il benestare di Mosca e di Washington, nessun soldato europeo, asiatico, australiano, africano o sudamericano potrà mai metter piede in Ucraina. Nel frattempo, però, si continua a parlare di armi, di guerra, di pericolo da parte russa di violare gli accordi ecc. ecc.   

 

LA PROSPETTIVA PROLETARIA E COMUNISTA È LONTANA, MA È L’UNICA VALIDA

 

L’unico vero ostacolo al guerrafondaismo, alla preparazione delle masse proletarie alla guerra borghese è rappresentato dalla lotta di classe e rivoluzionaria del proletariato. Una lotta che non nasce dalla sera alla mattina e non si sviluppa nel giro di qualche giorno. Questa lotta ha bisogno di essere concepita, propagandata e importata tra le masse proletarie dall’unico organo politico rivoluzionario che esiste nella società borghese, il partito comunista rivoluzionario. Il proletariato non ha basi economiche su cui sviluppare la propria forza di classe e la rivoluzione sociale: le basi materiali della sua lotta di classe sono le sempre più acute contraddizioni economiche e sociali della società borghese; è la lotta contro la schiavitù salariale, contro l’oppressione sistematica della classe lavoratrice, tanto più se di nazionalità e di razza non bianche, a spingere le masse proletarie a lottare per la propria sopravvivenza, per la propria vita. Ma questa lotta incontra sempre la reazione del potere borghese, del suo Stato, delle sue forze di polizia e delle forze della conservazione sociale che nove volte su dieci si presentano a fianco dei proletari e in difesa delle loro rivendicazioni immediate, ma al solo scopo di ingannarle, di deviarle dallo sviluppo storico di quella lotta, dalla sua trasformazione politica in lotta per l’emancipazione di classe, dunque, per la rivoluzione antiborghese e anticapitalistica, rivoluzione che diventerà, come è già stato nella storia passata, l’obiettivo centrale della lotta di classe del proletariato. La forza del proletariato è costituita certamente dal numero: i proletari sono la maggioranza rispetto ai borghesi, ma questa maggioranza numerica per essere forza di classe, per essere positiva rispetto all’emancipazione proletaria dal punto di vista storico, deve essere rappresentata dal suo partito di classe, dal partito comunista rivoluzionario.      

Il partito rivoluzionario di classe rappresenta nell’oggi gli obiettivi storici della classe proletaria internazionale, ed è tenuto a perseguire i suoi fini, come affermava l’articolo citato nella nota 2 soltanto «colla rottura dei fronti interni, cui le guerre possono offrire ottime occasioni»; il partito rivoluzionario di classe «non vede lo sviluppo storico nella grandezza o nella salvezza delle nazioni»; già prima dello scoppio della prima guerra imperialistica mondiale, il partito rivoluzionario di classe «nei congressi internazionali era già impegnato a spezzare tutti i fronti di guerra cominciando ove meglio si poteva». E mentre la Seconda Internazionale Socialista tradiva i suoi stessi principi e i suoi stessi proclami aderendo alla guerra di ogni Stato, le correnti rivoluzionarie, fra tutte la corrente bolscevica di Lenin e la nostra corrente di Sinistra comunista, non smisero la loro battaglia contro il militarismo e contro la guerra, sintetizzata nella parola d’ordine del disfattismo rivoluzionario. Disfattismo rivoluzionario voleva dire, e vuol dire, portare la lotta contro la guerra borghese su tutti i piani, nella produzione, nella distribuzione, nei trasporti, nella società civile e al fronte: contro la guerra fra Stati, guerra di classe, dirà Lenin, dunque mobilitazione proletaria e organizzazione proletaria nella prospettiva della rivoluzione proletaria.

Lo sappiamo, sostenere questa prospettiva ci espone ai benpensanti e agli immediatisti come illusi utopisti staccati dalla realtà. E’ la stessa cosa, più o meno, che dicevano di Lenin e del piccolo gruppo di rivoluzionari russi esiliati in Europa occidentale durante lo zarismo quando i grandi partiti socialisti e socialdemocratici di Germania, Francia, Italia, Austria-Ungheria e Russia capeggiavano la partecipazione alla prima guerra mondiale dopo aver professato per anni fede socialista e rivoluzionaria, mentre nei fatti, dall’anima riformista e collaborazionista che possedevano, si predisponevano a condividere le ragioni nazionaliste e guerrafondaie del proprio paese. I proletari, allora, in Russia, in Germania, in Ungheria e in Italia si ribellarono e insorsero contro la guerra cogliendo di sorpresa le rispettive classi dominanti, e se la vittoriosa rivoluzione proletaria in Russia, in piena guerra mondiale, fu accompagnata da altri tentativi rivoluzionari in Germania e in Ungheria ma senza lo stesso successo, non fu per mancanza di combattività e di spirito di sacrificio dei proletariati, ma per corruzione opportunista e traditrice dei partiti proletari. Ecco, noi lottiamo non solo in difesa dell’intransigenza marxista sia sul piano teorico che su quello politico-tattico e organizzativo, ma contro ogni sia pur piccolo cedimento opportunista nel quale cadono tutti coloro che pensano di accorciare il cammino della rivoluzione adottando espedienti tattici e organizzativi o aggiornando la teoria marxista considerandola vecchia e sorpassata.

 


 

(1) Cfr. l’articolo L’imperialismo delle portaerei, “il programma comunista” n. 2, 18 genn.-1 febb.,1957.

(2) Cfr. Aggressione all’Europa (Alfa), “Prometeo”, anno III, n. 13 agosto 1949. Alfa era uno pseudonimo usato all’epoca da Amadeo Bordiga.

(3) Cfr. https://www.analisidifesa.it/2025/03/rearm-europe-piu-debiti-per-gli-stati-piu-potere-alla-nomenclatura-ue/

(4) Cfr. https://www.rainews.it/maratona/2025/03/ ucraina-guerra-tregua-navi-porti-centrali- energetiche-mosca-chiede-alt-sanzioni-agricole-cfd9580e-c9ed-4281-bf4c- 31b3279e0fd0.html

 

  

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