L'Italia sgonfiona aggiorna la sua "nuova politica" antiproletaria

(«il comunista»; N° 186 ; Marzo-Aprile 2025)

Ritorne indice

 

 

Stavamo completando l’impaginazione di questo numero del giornale quando è giunta la notizia della morte del papa. Naturalmente tutti gli esponenti del potere borghese dei vari paesi si sono precipitati a proclamare sperticate lodi del papa degli ultimi: tutti a declamare la sua alta coscienza morale, la sua tenace insistenza verso tutti i governi del mondo perché mettessero la pace e il disarmo al primo posto e perché si occupassero dei poveri, dei migranti, degli ultimi, appunto. In un mondo in cui ci sono gli “ultimi” e gli ultimi diventano una massa imponente e addirittura la maggioranza della popolazione mondiale, vuol dire che le grandi parole di uguaglianza, libertà e fratellanza che la classe borghese ha eretto come suoi obiettivi storici all’epoca della sua rivoluzione antifeudale, antimonarchica, anticlericale sono state sistematicamente tradite.

Il Vaticano fa parte delle grandi istituzioni borghesi, ha sempre condiviso l’impianto generale del capitalismo di cui è sempre stato e sempre sarà un pilastro portante. Nella divisione dei ruoli, al fine di dare un volto “umano” a una società del tutto disumana, il ruolo della Chiesa, e quindi del pontefice, è sempre stato quello di portare conforto alle masse che vengono sistematicamente sfruttate, diseredate, emarginate, che sono vittime predestinate di ogni sorta di violenza, e di propagandare la fede in un Dio che nella sua “infinita bontà” avrebbe sconfitto il male di questo mondo grazie alle preghiere e all’opera degli uomini di “buona volontà”. Essere caritatevoli e occuparsi materialmente di una parte dei poveri sono azioni che servono a mitigare l’effetto drammatico che il capitalismo, il suo sfruttamento, le sue contraddizioni e le sue guerre hanno sulla maggioranza delle popolazioni; servono a sopportare le tragedie e le condizioni bestiali in cui è costretta a vivere una parte considerevole dell’umanità; servono a spegnere la rabbia, la rivolta e gli incendi sociali che il capitalismo e la classe dominante borghese provocano e dai quali può scoppiare la rivoluzione proletaria.

Avremo occasione, in un prossimo articolo, di entrare nel merito del ruolo svolto dalla Chiesa, e dalla religione in generale, a difesa della società capitalistica. Ora passiamo a introdurre il tema che ci siamo proposti con il titolo di questo articolo e cominciamo con la dichiarazione della Meloni sulla morte di papa Francesco: la premier cattolica ricorda di aver avuto «il privilegio di godere della sua amicizia, dei suoi consigli e dei suoi insegnamenti, che non sono mai venuti meno neanche nei momenti di prova e sofferenza». 

Quanto ha goduto la premier cattolica di quei consigli, di quegli insegnamenti, a proposito di poveri, migranti, e di pace e guerra? Che cosa ne ha fatto?

 

I SALARI

 

Secondo i dati ufficiali del G20, in Italia, in 17 anni a partire dal 2008, i salari sono diminuiti dell’8,7%. Le cause? Le solite, aumento dell’inflazione, aumento dei prezzi sui generi di prima necessità, sull’energia e sui trasporti. Meno drammatica la contrazione per il Giappone (-6,3%), la Spagna (-4,5%), il Regno Unito (-2,5%). Al di là dei salari nominali, che possono anche aumentare, ciò che è decisivo è il salario reale, dunque il reale potere d’acquisto dei salari: è il salario reale che ha ricevuto un taglio considerevole e questo spiega come mai in Italia quel che viene chiamato “rischio di povertà o esclusione sociale” è salito parecchio, raggiungendo la cifra di 13 milioni e 525mila persone. Secondo la terminologia degli statistici, si tratta di individui che sono a rischio di povertà, o in grave deprivazione materiale e sociale, o a bassa intensità di lavoro (cioè che fanno dei lavori pagati malissimo o molto saltuari). In queste statistiche entrano sia i lavoratori dipendenti che gli autonomi. E’ ormai un dato cronico che il Mezzogiorno sia l’area del paese in cui il rischio di povertà e di povertà assoluta è più alto che nelle altre aree dell’Italia.

Il fatto che le condizioni proletarie particolarmente pesanti durino da molto tempo dimostra che la grande crisi del 2008-2011 ha colpito duramente – come è sempre successo in periodo di crisi – soprattutto i lavoratori salariati, sui quali i capitalisti si sono rifatti delle perdite dovute appunto a quella crisi. Certamente ogni governo ha continuato a promettere di intervenire a favore degli strati di lavoratori salariati impoveriti a causa delle crisi, ma tutte le misure adottate non sono riuscite nemmeno a mantenere il livello dei salari allo stesso rapporto con il costo della vita di 17 anni fa! E neppure i famosi “ristori” del governo Conte, coi quali la borghesia dominante cercava di tamponare una situazione particolarmente pesante dovuta alle conseguenze della pandemia di Covid-19 e alla relativa recessione economica, hanno alleggerito il rapporto tra i salari e il costo della vita. Non solo i salari, ma anche le pensioni (il salario differito) hanno subito una diminuzione di valore rispetto al costo della vita, soprattutto nelle grandi città, nelle quali al rialzo dei prezzi dei beni di prima necessità si è aggiunto l’aumento degli affitti.

La premier Meloni e il suo governo, da quando si sono insediati due anni e mezzo fa, hanno continuato a sostenere che avrebbero combattuto gli sprechi, avrebbero verificato che i ristori del governo Conte non fossero andati a chi non ne aveva diritto (e in effetti ne sono emersi non pochi) e avrebbero comunque speso i soldi in modo oculato per sostenere le famiglie, le imprese e i conti dello Stato. Alle chiacchiere del governo rispondono i fatti: nel 2023 il reddito annuo medio delle famiglie aumenta in termini nominali, rispetto al 2022, del 4,2% ma in termini reali diminuisce dell’1,6%; mentre il reddito delle famiglie più abbienti supera di 5,5 volte quello percepito dalle famiglie più povere.

 

L’OCCUPAZIONE

 

Sul piano dell’occupazione il governo Meloni si è vantato di aver aumentato il numero di occupati rispetto agli anni precedenti, ma quello che è effettivamente aumentato è ciò che loro stessi chiamano il “lavoro povero”, quindi il lavoro precario, il lavoro mal pagato. Non si spiegherebbe, sennò, come mai secondo i dati relativi alla povertà relativa e assoluta tali condizioni sono in aumento e non in diminuzione. Resta comunque il fatto che questi dati sono in realtà falsati, visto che per l’Istat basta che nella settimana di interviste e rilevazioni una persona, tra i 15 e i 64 anni, abbia lavorato anche un’ora soltanto per classificarla come occupato, mentre per risultare disoccupato è necessario che l’assenza di ore lavorate sia superiore a tre mesi. Il metodo ufficiale di calcolo è il seguente: il dato generale su cui viene calcolata la percentuale di disoccupazione è la somma degli occupati e dei disoccupati; questa somma corrisponderebbe agli attivi e quindi è chiamata forza lavoro. Il tasso di disoccupazione, quindi, non corrisponde alla percentuale dei disoccupati rispetto alla popolazione, ma solo rispetto alla “forza lavoro”, cioè a coloro che risultano “abili al lavoro”. E’ un metodo che non tiene conto, perciò, dei fanciulli al disotto dei 15 anni che vengono sfruttati al lavoro e nemmeno degli ultra 64enni che continuano a lavorare oltre quell’età, magari per qualche ora alla settimana... Comunque sia, aldilà dell’imprecisione dei dati reali, su di essi si può tracciare una tendenza soprattutto sul lungo periodo, e la tendenza che si riscontra è da un lato l’aumento obbligatorio dell’età lavorativa per acquisire il diritto a percepire la pensione (addio ai 64 anni!), dall’altro lato il fatto che lavorare un’ora alla settima o una settimana al mese o un mese all’anno dà la certezza di una povertà assoluta e, quindi, nessuna certezza di riuscire a sopravvivere. L’aumento dei mendicanti, delle code alle mense dei poveri, degli alcolizzati e dei drogati, oltre agli “occupati” nelle reti della criminalità organizzata, segnalano una degenerazione sociale in aumento e non una lenta ma progressiva diminuzione. Poi c’è il fenomeno che è stato definito degli inattivi, ossia di coloro che rientrano nell’età dai 15 ai 64 anni, ma non cercano lavoro; secondo le indagini fatte dall’Istat risulterebbe che la maggior parte degli inattivi sia formato da donne e da giovani, sia maschi che femmine, di età tra i 15 e i 24 anni. Il fenomeno dei giovani inattivi è considerato, da un lato, preoccupante perché viene a mancare una parte di forza lavoro con più energia da impiegare anche in sostituzione della forza lavoro più anziana, oltre che più conveniente perché pagata meno; dall’altro lato, interessante perché, almeno in parte, quei giovani proseguono gli studi oltre le medie e le superiori, quindi proponendosi sul mercato del lavoro con maggiori competenze nelle varie professionalità (tecniche, ingegneristiche, digitali, mediche ecc.). Gli ultimi dati 2024 danno questa situazione: tasso di occupazione giovanile del 19,7%, tasso dei disoccupati del 5% (ma di disoccupazione del 20,3%), tasso di inattività del 75,3%.

A fronte di questa situazione, abbiamo una popolazione di quasi 59 milioni di abitanti, di cui, come in tutti i paesi capitalisti avanzati, una parte importante è costituita dai cittadini stranieri residenti in Italia: più di 5 milioni (l’8,7% del totale), di cui più dell’80% si concentra nel Centro-Nord, dove ci sono più possibilità di lavoro, soprattutto nei servizi e nel terziario, ma dove si concentra di più l’ostilità verso gli stranieri da parte dei partiti di centro-destra. “Prima gli italiani”, era il motto della Lega, ma gli italiani negli ultimi anni fanno meno figli e costituiscono la parte più rilevante di invecchiamento della popolazione. Per questo motivo le imprese italiane lamentano la mancanza di forza lavoro più giovane, ma più preparata, più istruita, più tecnicamente pronta a occupare posti di lavoro qualificati per i quali – coi bassi salari offerti – i lavoratori italiani non si rendono disponibili. Un tempo le aziende spendevano una parte delle loro risorse nella formazione dei propri operai; da decenni non lo fanno più, cercano nel mercato del lavoro nazionale e internazionale lavoratori già formati e pronti e chiedono naturalmente allo Stato di provvedere, con i soldi pubblici, alla formazione tecnica necessaria della forza lavoro di cui hanno bisogno. Secondo alcuni istituti di ricerca le imprese italiane avrebbero bisogno di almeno 1.300.000 lavoratori pronti da sfruttare nelle più diverse posizioni, ma la realtà economica italiana non offre condizioni salariali e di esistenza attraenti, nemmeno per le migliaia di migranti che fuggono dalla miseria e dalle guerre dei loro paesi di origine e che preferiscono rischiare la vita nei terribili viaggi attraverso monti, deserti e mari per sbarcare magari in Italia, ma al solo scopo di attraversarla per raggiungere la Germania o i paesi scandinavi.

Occupazione e salario sono le due facce della stessa medaglia per ogni lavoratore, ma la parte decisiva perché i lavoratori non fuggano dal posto di lavoro in cui sono occupati diventa sempre più quella legata ai carichi di lavoro eccessivi, allo stress sempre più pesante, ai disagi psicologici e ai disturbi comportamentali, agli orari massacranti. Ai disagi quotidiani di questo tipo si aggiungono salari del tutto insufficienti per una vita decorosa. E allora si comprende il fenomeno dell’abbandono del posto di lavoro o la ricerca all’estero, nella speranza di trovarne uno pagato meglio, o l’abbandono definitivo del lavoro e il ritiro a una vita fatta di hobby (se esiste il sostegno economico della famiglia), di lavori saltuari o di elemosina. Questo recente fenomeno, chiamato delle “Grandi Dimissioni”, era iniziato nel 2021 a causa del Covid-19. In Italia ha toccato ben due milioni di lavoratori anche nel 2022 e nel 2023; sembrava destinato a esaurirsi col superamento del periodo pandemico, ma nel 2024 si è ripresentato più o meno con le stesse caratteristiche e con gli stessi numeri (1). Secondo l’Inps, ad andarsene dal posto di lavoro sono stati medici, infermieri, autisti di autobus, insegnanti, poliziotti; insomma, una parte di dipendenti pubblici, quelli che si erano illusi di accedere al “posto fisso” per la vita, allo stipendio “sicuro” anche se non particolarmente elevato. Un altro settore particolarmente toccato da questo fenomeno, che riguarda circa 600mila addetti, è il commercio dove gli orari sono massacranti e i salari sono generalmente bassi. Altri 300mila lavoratori hanno abbandonato i loro posti di lavoro nel settore manifatturiero, nei servizi dei rifiuti e dell’energia, e altri ancora nelle diverse attività professionali, tecniche e scientifiche. E’ quindi un fenomeno che non riguarda in particolare un settore specifico di attività, ma spazia tra diversi settori sia nel pubblico che nel privato. Ciò vuol dire che le condizioni di lavoro, l’ambiente di lavoro e le condizioni salariali sono pesanti e intollerabili dappertutto. Il problema per questi lavoratori – come per i lavoratori immigrati – è che il loro rifiuto ad accettare e subire continuamente condizioni così pesanti e degradanti per assicurarsi un salario, invece di spingerli a unirsi nella lotta comune per ottenere migliori condizioni di lavoro e salari più alti, li spinge ad azioni del tutto individuali, abbandonando l’unico modo perché le loro stesse condizioni di esistenza possano migliorare: lottare per una vita sociale completamente opposta a quella da cui fuggono. Finché esisterà il capitalismo, finché la classe borghese sarà dominante, dominerà la legge del profitto capitalistico, del denaro, delle merci, dello sfruttamento del lavoro salariato: l’ambiente borghese e capitalistico non condiziona soltanto la vita individuale, condiziona tutta la vita sociale, perciò ogni lavoratore, ogni proletario, ogni individuo, per vivere, è costretto ad adeguarsi alla legge del più forte che, nella società del capitale, è la classe dominante borghese. Ma la società del capitale vive costantemente in contraddizioni sempre più acute, a livello economico come a livello sociale e politico: contraddizioni che provocano un antagonismo fra le classi principali in cui è divisa la società – borghesia e proletariato – che si esprime attraverso la lotta fra le classi. Questa lotta, che la borghesia conduce quotidianamente contro la classe proletaria, sia nelle forme virtuali – attraverso le leggi, la pressione sociale e le abitudini a vivere e a lavorare secondo l’ordine costituito – sia nelle forme più o meno violente, raramente vede le masse proletarie davvero protagoniste, e questo succede quando le condizioni generali di esistenza delle masse peggiorano in modo pesante e intollerabile, o quando la crisi della società la porta alla guerra. A causa delle condizioni intollerabili di esistenza e di lavoro i proletari o reagiscono con forza organizzandosi per resistere allo scontro sociale tentando di vincerlo, o reagiscono ripiegando su sé stessi e tentando, magari, di fare della famiglia una specie di fortino in cui sentirsi protetti e al sicuro.  

La borghesia, coadiuvata dalle forze della collaborazione di classe, sia sindacali che politiche, preferisce di gran lunga che i proletari scontenti del loro lavoro e della loro esistenza si ritirino nell’individuo, vadano raminghi per il mondo in cerca di un lavoro che li soddisfi o della famosa fortuna, o che vagabondino di città in città e si autoemarginino. Per la classe borghese questi proletari non costituiscono un pericolo, al più possono costituire un fastidio e sarà un problema di polizia se la loro presenza disturba... il normale corso degli affari. Ma la polizia serve soprattutto per controllare quei proletari che, spinti dalle intollerabili condizioni di lavoro e di vita, invece di ripiegare su sé stessi, reagiscono, lottano, si organizzano per resistere nel tempo e per rafforzare la propria lotta e le proprie rivendicazioni. E allora si capisce come mai un governo come quello della Meloni si sia dato tanto da fare per classificare come reati anche le manifestazioni di protesta e di sciopero del tutto legittime dal punto di vista degli interessi della lotta proletaria, dai picchetti di sciopero alle occupazioni di case. E si capisce l’atteggiamento razzista che, dopo essersi espresso verso i proletari che non si piegano a diventare docili schiavi del capitale, si allarga con maggiore virulenza nei confronti delle masse proletarie migranti che “osano” calpestare illegalmente il sacro suolo della nazione.

In Italia arrivano da anni  masse di migranti che, in fuga dalle guerre, dalle repressioni e dalla miseria che infuriano nei loro paesi d’origine, tentano in ogni modo di stabilirsi nei paesi d’Europa che si presentano al mondo come più civili, più pacifici, e più ricchi – oltre ad essere stati, ed essere ancora in forme diverse, i colonizzatori dei paesi da cui i migranti provengono –, senza attendere di ottenere dei permessi legalmente riconosciuti dalle autorità dei paesi in cui sperano di stabilirsi. Per ogni borghesia queste masse costituiscono un problema sociale non indifferente perché arrivano a decine o centinaia di migliaia, senza soldi, perché derubati di tutto dai loro aguzzini durante i “viaggi della speranza”, senza conoscere la lingua del paese dove sono giunti, senza un lavoro e un posto dove dormire, bisognosi di tutto, soprattutto se si tratta di donne e di minorenni. La borghesia è organizzata per sfruttare i proletari che nascono e crescono nel suo paese, e per sfruttare i lavoratori di altri paesi ma secondo accordi ben precisi tra Stati – come successe negli anni Cinquanta del secolo scorso tra il Belgio, l’Italia e altri Stati europei: il Belgio, a corto di manodopera, dava carbone all’Italia e ad altri Stati in cambio di minatori da impiegare nelle sue miniere. In questo “affare”, a Marcinelle, persero la vita 262 minatori di cui 136 italiani (2). Ma ogni borghesia deve salvare la facciata della propria civiltà, declinandola nella sfilza interminabile di leggi che supportano una pretesa legalità, con tutte le sue regole, una legalità che nella realtà viene costantemente violata per primi proprio dai borghesi capitalisti, i cui profitti mal sopportano tutte quelle regole e quelle verifiche che intralciano il corso veloce e meno dispendioso degli affari. I disastri nelle miniere come tutte le catastrofi cosiddette “naturali” e tutti gli infortuni e le morti sul lavoro sono causati per il 99% dalla mancanza di misure preventive di sicurezza, dall’abitudine ormai consolidata da parte di capi, capetti, dirigenti e responsabili vari di “tirar dritto” perché il business non deve fermarsi, perché la produttività richiede velocità nelle operazioni lavorative, perché il profitto richiede più ore e più carico di lavoro per ciascun proletario, e perché il loro benessere personale dipende dal far bene il mestiere di guardaciurma.

Può il governo borghese non tener conto degli interessi prioritari della classe dominante? No, evidentemente; ma ha interesse a mascherare i reali rapporti di produzione e di proprietà in modo che gli sfruttati, i proletari, abbiano la sensazione – soprattutto dopo decenni di lotte e di sangue versato per la patria economica e politica – di poter ottenere dei miglioramenti nelle condizioni di lavoro e di esistenza. A questo scopo la democrazia borghese con le sue regole, la sua legge che in ogni tribunale che si rispetti è proclamata “uguale per tutti”, la sua legalità, appare come il metodo migliore per difendere il potere politico, ed economico, da parte della borghesia. Ogni violazione della legge prevede una sanzione, e prevede indagini, indagati, avvocati a difesa delle rispettive parti. Ma come è dimostrato da sempre, per un borghese che viene ritenuto “colpevole” di aver violato la legge e perciò viene sanzionato e condannato, ci sono migliaia di proletari che, per violazioni anche molto leggere, la pagano cara, talvolta con la vita anche se viviamo in un paese dove non è prevista la pena di morte. E’ assodato che molti infortuni, che possono portare alla morte, sono dovuti anche a una distrazione del lavoratore, o a un suo atteggiamento spavaldo legato alla necessità di compiere le operazioni di lavoro, anche se pericolose, per mostrare al padrone che il lavoro comandato viene comunque eseguito, anche se il pericolo si nasconde proprio nella mancanza di sicurezza che il padrone dovrebbe garantire a ogni suo dipendente. D’altra parte, sono lo stesso impianto legislativo e l’amministrazione borghese della giustizia che permettono ai padroni, e ai loro tirapiedi, di allungare le indagini, i processi, la ricerca delle prove, e i diversi livelli di giudizio: finché ci sono soldi per pagare gli avvocati, le cause che vedono imputati i grossi papaveri dell’economia, della finanza, della politica, possono andare avanti all’infinito. Berlusconi è stato un esempio per tutti, e certamente questo governo Meloni, che ha imbarcato nel suo carrozzone una vasta marmaglia di approfittatori e di santificatori di Berlusconi – in verità un governo non così differente dai governi precedenti – segue con grande vanto le sue orme.

Berlusconi lisciava il pelo alla classe lavoratrice, promettendo un milione di posti di lavoro, per soggiogarla meglio e fregarla sistematicamente. Intanto, durante i suoi quattro governi, imponeva una serie interminabile di leggi ad personam in modo da scansare le condanne per i suoi reati a catena, e quando non poteva scansare i processi provvedeva a corrompere testimoni e giudici   (sono stati 36 i procedimenti penali contro Berlusconi, in gran parte resi inefficaci grazie a prescrizioni, cavilli e depenalizzazioni appositamente emanati). Quel che rimane come eredità di Berlusconi ai suoi figliocci e successori – non per nulla Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega vogliono beatificarlo – è una specie di grido di battaglia: “no alla persecuzione giudiziaria”, mediante il quale questa marmaglia di politicanti nasconde la strenua difesa dei propri privilegi dietro una supposta persecuzione da parte di alcuni magistrati il cui torto sarebbe quello di indagare su reati concreti, in cui la casta è direttamente o indirettamente coinvolta, applicando la legge vigente (una legge che dovrebbe essere “uguale per tutti”, ma da cui i manovratori governativi pretendono di essere esentati). La legge borghese, d’altra parte, è pensata, scritta e applicata non in nome di una giustizia generale, che nella società divisa in classi non esiste, ma per difendere nei fatti gli interessi e gli esponenti della classe dominante, e per ingannare la grande massa di quel popolo a cui i borghesi si appellano ogni volta che dalla loro democrazia viene chiamato a mettere una croce sulle schede elettorali.

(continua)

 


 

(1) Cfr. Le Grandi Dimissioni non sono finite: lo scorso anno 2 milioni di persone hanno lasciato il lavoro, 21 gennaio 2025. https://www.fiscal-focus.it/quotidiano/altre-tematiche/economia-societa/le-grandi-dimissioni-non- sono- finite- lo- scorso- anno- 2- milioni- di- persone- hanno- lasciato- il- lavoro, 3, 169702 - Vedi anche il nostro articolo Nonsi sfugge ai dominanti rapporti di produzione e di proprietà borghesi abbandonando il lavoro..., "il comunista" n. 184, dicembre 2024.

(2) L'8 agosto 1956 scoppiò un incendio nella miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle.Vedi il testo di partito Drammmi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, "il programma comunista" n. 17 del 1956; poi nel volume dell'Iskra edizioni, con lo stesso titolo, Milano 1978.

 

  

Partito Comunista Internazionale

Il comunista - le prolétaire - el proletario - proletarian - programme communiste - el programa comunista - Communist Program

www.pcint.org

 

Top - Ritorne indice