Striscia di Gaza: 365 kmq trasformati in un enorme cimitero
(«il comunista»; N° 186 ; Marzo-Aprile 2025)
Rispetto alla popolazione palestinese di Gaza, e di Cisgiordania, il governo Netanyahu svolge il ruolo del sicario superpagato, gli Stati Uniti d’America, la Gran Bretagna e l’Unione Europea, insieme a tutti i Paesi arabi, svolgono il ruolo di mandanti diretti e indiretti, mentre il resto del mondo borghese sta a guardare, chi disinteressandosi del tutto dello sterminio sistematico della popolazione palestinese, chi in attesa di approfittare della pace dei morti per sondare la possibilità di fare affari con Israele, visto il livello avanzato della sua industrializzazione, della sua tecnologia e della sua esperienza sul campo nell’arte militare. Di fronte ai 570 giorni di guerra dal 7 ottobre 2024, coi suoi 51mila e oltre morti accertati (ma quanti cadaveri sono ancora sotto le macerie?) di cui più di 20mila bambini, coi suoi 116mila e passa feriti, e con una popolazione lasciata morire di fame, di sete e di malattie, i politicanti della democrazia borghese disquisiscono se ci si trova di fronte a un genocidio, o no; se Netanyahu e il suo governo sono “criminali di guerra”, o no; se l’esistenza dello Stato di Israele sia effettivamente minacciata dal terrorismo palestinese, e perciò Tel Aviv sia giustificata a difendersi con ogni mezzo, anche con lo sterminio della popolazione civile palestinese, o no; se le deliberazioni dell’ONU che prevedevano fin dal 1948 la costituzione di due Stati nel territorio chiamato Palestina, uno per gli ebrei (Israele) e uno per gli arabi (Palestina) siano da attuare – e da parte di chi? –, o debbano essere cancellate; se, data la situazione di conflitto permanente tra ebrei e palestinesi che dura da oltre 70 anni e mai vicina a una soluzione accettata da entrambe le parti, non abbia ragione Trump (su suggerimento di Netanyahu) di prevedere la deportazione in massa dei gazawi in altri paesi disposti ad accettarla (recentemente si è già fatta avanti l’Indonesia) e di fare della Striscia di Gaza, ridotta oggi a un enorme cimitero, un grande resort di lusso.
I politicanti della democrazia borghese si sono messi la coscienza a posto quando il 21 novembre 2024 – dopo più di un anno dall’inizio dei bombardamenti israeliani su Gaza – la Corte Penale Internazionale ha emesso i mandati d’arresto per “crimini di guerra e crimini contro l’umanità” a carico di Netanyahu e del suo ministro della difesa Gallant, oltre al comandante delle brigate al-Qassam al-Masri (che però è stato dato per morto). La “giustizia” borghese, quando si tratta di capitalisti, rappresentanti dei poteri forti e leader politici che si mettono di traverso rispetto alle regole dettate dagli imperialismi più potenti, usa sempre i guanti di velluto e, nella maggior parte dei casi, si limita alle denunce verbali; quando, invece, si tratta di proletari che si ribellano alle condizioni intollerabili in cui sono costretti a lavorare e a vivere, usa guanti d’acciaio, non ha riguardi. Il fatto che talvolta i “crimini di guerra” vengano effettivamente addossati al tale o talaltro generale o capo di governo, serve ai borghesi soltanto a mettere a tacere la loro coscienza perché questi crimini – la guerra borghese è di per sé un crimine visto che viene fatta mandando masse di proletari innocenti a massacrare altre masse di proletari innocenti – non sono mai stati fermati dalla giustizia borghese; anzi, i fatti hanno rivelato che i vincitori delle guerre che hanno condannato per crimini di guerra i vinti erano anch’essi responsabili di crimini di guerra (Dresda, Hiroshima, Nagasaki, per citare le stragi democratiche più note, parlano da sole), ma, avendo vinto la guerra si sono trasformati in giudici, decantando i propri crimini come risposte “necessarie” per far finire una guerra la cui colpa doveva ricadere soltanto sulle spalle dei vinti. La stessa cosa vale per Netanyahu: una parte di imperialisti vorrebbe condannarlo, salvando così l’idea di una “vera giustizia” ; un’altra parte di imperialisti non ci pensa proprio a condannarlo, anzi, lo elogia per il servizio di boia che sta svolgendo contro i “terroristi” e pazienza se ci va di mezzo la popolazione civile: è il prezzo che i popoli devono pagare per la democrazia, per il mercato libero, per la crescita economica, per il futuro benessere...
Il destino dei palestinesi sembra segnato: o si sottomettono completamente alla ragion di Stato israeliana, e quindi americana, o pagheranno ancor più cari la loro resistenza, l’attaccamento a una terra che non è più loro da decenni, sotto occupazione militare da sempre. E proprio la loro indomita resistenza, il loro attaccamento a quella terra sono la loro dannazione: hanno perso e stanno perdendo tutto, anche quella stentata sopravvivenza che è stata permessa loro negli ultimi decenni, ma tentano ancora di rimanere nella terra in cui sono nati. Sono stati sconfitti in ogni tentativo di rispondere all’oppressione e alla guerra condotta non solo dagli israeliani, ma anche dai regimi arabi, con la propria resistenza armata, con la propria guerriglia partigiana; sono stati illusi e traditi più e più volte dalla propria borghesia e dai paesi arabi “amici”. La loro aspirazione a costituirsi in Stato indipendente, e la loro determinazione e combattività sono state usate in una guerra di concorrenza tra Stati borghesi e tra i vari imperialismi: una vera e propria carne da macello immolata al dio capitale, al dio profitto, al dio mercato, ai poteri borghesi interessati soltanto a sfruttare la loro forza lavoro fino all’ultima goccia di sudore e a bere il loro sangue finché ne hanno in corpo.
La loro resistenza all’oppressione nazionale e capitalistica, la loro lotta contro l’occupazione militare dei territori in cui sono stati rinchiusi, la persistenza a non sottomettersi al tallone di ferro con cui vengono schiacciati giorno dopo giorno, possono essere d’esempio per altri popoli oppressi, e soprattutto per altri proletariati del Medio Oriente, d’Asia e d’Africa. Questo per ogni borghesia è insopportabile: lo è per la borghesia israeliana come per le borghesie arabe, lo è per la borghesia turca, che ha già i suoi problemi con i curdi, e lo è per le borghesie europee,, che hanno già il loro daffare per tenere sottomessi i propri proletariati dei quali temono il riemergere dei ricordi e delle tradizioni delle lotte rivoluzionarie del loro lontano passato.
I proletari palestinesi non hanno avuto e non hanno una patria, e non l’avranno mai. Le potenze imperialiste che cianciano sui “due popoli, due Stati”, non hanno alcun interesse che si costituisca uno Stato palestinese, tanto meno ce l’ha Israele che mira, invece, ad annettersi l’intera Palestina.
Ma il fatto di non poter vivere in una patria, in un territorio e in uno Stato borghese riconosciuto internazionalmente, per il proletariato palestinese non è un fatto negativo in assoluto: è la conferma storica che i proletari in quanto tali sono dei senza patria anche quando vivono in una “patria”, come sono dei senza riserve perché sono soltanto braccia da lavoro che dipendono esclusivamente dal capitale, dalla borghesia, dai padroni che hanno interesse a sfruttarli nella terra in cui sono nati e in qualsiasi altra terra in cui sono obbligati ad andare per sopravvivere. In un certo senso, la loro situazione assomiglia a quella dei migranti tedeschi, irlandesi, italiani, greci, boemi, polacchi che emigrarono nel Nord America ai primi dell’Ottocento, cercando lavoro per sopravvivere. I proletari di allora che si spostarono verso l’America la patria l’avevano, ma questa patria non dava loro da mangiare, non li faceva sopravvivere, li opprimeva nel lavoro e nella disoccupazione, li reprimeva quando si ribellavano chiedendo pane e lavoro, li discriminava e li trattava come potenziali delinquenti.
I proletari palestinesi, chiusi in una Palestina fatta di territori trasformati in vere e proprie prigioni, la cui vita dipende esclusivamente da Israele e dalle organizzazioni politiche e militari gradite a Israele e agli imperialisti che la sostengono, sono costretti da decenni ad abbandonare una “patria” che non è mai nata e cercare altrove, e non solo nei paesi arabi, ma anche in Europa e in America, la possibilità di sopravvivere. E così la loro “patria” diventa ora il Libano, ora la Giordania o la Siria, ora l’Egitto o il Cile, l’Arabia Saudita o il Brasile, dunque nessun paese sarà davvero la loro patria, sarà sempre un paese in cui sono immigrati e dove, se hanno avuto fortuna, hanno trovato un lavoro, si sono fatti una famiglia e i loro figli hanno potuto prendere la relativa cittadinanza. Proletari erano e proletari sono rimasti e possono vivere o sopravvivere solo alla stessa condizione dei proletari di ogni paese al mondo: vendere la propria forza lavoro per un salario, il più delle volte da fame, e lottare, insieme agli altri proletari autoctoni o di altre nazionalità, contro lo sfruttamento intensivo cui sono sottoposti, per gli aumenti del salario, per una diminuzione dei ritmi di lavoro e della giornata lavorativa, contro la nocività e contro il lavoro nero. Dunque, contro le condizioni in cui si trovano tutti i proletari del mondo, con in più il problema di essere discriminati sul piano salariale e per la provenienza etnica. Sono esattamente queste le condizioni-base che spinsero i proletari tedeschi, irlandesi, italiani, greci ecc., emigrati in America, a unirsi e a lottare contro i padroni americani e a fare delle loro lotte un esempio mondiale per tutti i proletari, dalle quali sono sorti i sindacati classisti e l’indicazione del Primo Maggio come giornata internazionale della lotta proletaria. Ma quelle lotte, purtroppo, non furono sufficienti perché negli Stati Uniti si formasse e si radicasse il partito di classe, il partito comunista rivoluzionario; la stessa cosa successe in Inghilterra, il primo paese in cui si innestò e si sviluppò l’industria capitalistica e fu creata la classe del proletariato salariato e che, grazie anche al suo movimento storico di lotta, mise in evidenza tutti gli aspetti dell’economia capitalistica e dell’antagonismo di classe che caratterizzano la società borghese, e che diede a Marx e a Engels la possibilità di applicare, dimostrandone la forza teorica, il materialismo storico e dialettico su cui si basa il socialismo scientifico.
Non sappiamo se i proletari palestinesi avranno la stessa forza dei proletari delle diverse nazionalità europee che in America, tra l’’Ottocento e il Novecento, furono protagonisti delle grandi lotte in cui si unirono al disopra delle differenze etniche per combattere insieme contro i capitalisti e il loro governo, costituendo in questo modo un ponte di collegamento con le lotte del proletariato in Germania, in Austria-Ungheria, in Irlanda, in Italia, in Russia. Le condizioni oggettive perché questo collegamento si realizzi sono però presenti, anche se mancano le condizioni soggettive visto che i proletari europei e, oggi, ancor più, i proletari americani non riescono a riemergere dalla depressione della lotta di classe in cui sono precipitati da decenni.
Quella che sta davanti agli occhi dei proletari palestinesi, oggi, è una tragedia simile a quella vissuta nel 1948, quando 77 anni fa, durante la guerra arabo-israeliana scatenata nello stesso anno della fondazione dello Stato di Israele, la maggioranza della popolazione palestinese (circa 700mila abitanti, la maggioranza della popolazione palestinese di allora) fu espulsa dalle sue case e costretta a fuggire verso il Libano, la Giordania, la Siria e Gaza stessa, che allora era territorio egiziano. I palestinesi la chiamarono Nakba (catastrofe), e una tragedia simile la stanno vivendo oggi.
E’ ormai evidente che Israele ha approfittato dell’attacco del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas contro i kibbutz e i villaggi confinanti di Israele (uccidendo 1200 persone, vecchi e bambini compresi, prendendo 250 ostaggi trasferiti poi a Gaza) per scatenare una guerra totale contro i palestinesi della Striscia, devastandola con continui bombardamenti aerei e da terra, cancellando interi villaggi, costringendo masse di decine di migliaia di palestinesi a spostarsi continuamente da nord a sud e da sud a nord inseguiti costantemente dai bombardamenti. L’attacco che Hamas aveva preparato era atteso e conosciuto dall’intelligence israeliana; l’unica cosa che non era conosciuta era la data in cui sarebbe scattato; in ogni caso il governo Netanyahu non ha fatto nulla per prevenirlo, come se aspettasse che avvenisse per avere il pretesto di scatenare non tanto contro Hamas, ma contro Gaza e la sua popolazione, il più micidiale attacco militare che potesse organizzare. Se prima del 7 ottobre 2023 Gaza soffriva di una stretta costante nei rifornimenti di cibo, acqua, medicinali e danaro, la guerra israeliana ha prodotto un embargo totale per cui la popolazione della Striscia è ridotta a morire di fame e di sete, ed è esposta alle malattie provocate non solo dalla denutrizione ma anche dai cadaveri che marciscono sotto le macerie.
Quel che succede da un anno e mezzo di guerra israeliana non è soltanto un’espulsione forzata, è uno sterminio premeditato. Se è vero quel che affermano fonti israeliane, e cioè che le milizie di Hamas sono state decimate dall’Idf (Israel Defense Forces), resta il fatto che l’obiettivo del governo di Netanyahu era di annientare certamente le milizie di Hamas e i loro alleati, ma anche di sterminare la popolazione gazawi, così da costringerla a fuggire da Gaza o a farsi seppellire nella terra che non vogliono o non sono in grado di abbandonare, facendo la fine che hanno fatto gli indiani d’America.
I reportage giornalistici dicono che da sette settimane Israele non fa entrare a Gaza i camion che portano cibo, acqua, medicinali, vestiti ecc. I bombardamenti hanno distrutto abitazioni, scuole, ospedali e anche le conduttore dell’acqua e delle fogne. La Striscia di Gaza è diventata un territorio invivibile da tutti i punti di vista. Le voci che si alzano a denunciare questi “crimini contro l’umanità” non turbano minimamente la borghesia israeliana che continua imperterrita a perpetrare lo sterminio dei palestinesi.
E’ emblematico il recente episodio in cui l’esercito di Tel Aviv si è reso responsabile dell’uccisione dei soccorritori palestinesi giustiziati freddamente sulla via Tal al-Sultan, a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza: il personale delle ambulanze e i vigili del fuoco che stavano per andare a soccorrere le ennesime vittime degli attacchi israeliani sono stati assassinati e sepolti in una fossa comune dai soldati dell’Idf; alcuni sono stati trovati mani e piedi legati con un colpo di pistola alla testa. Per giorni gli israeliani hanno negato l’accaduto, affermando che avevano sparato contro veicoli sospetti e non identificabili, mentre in realtà erano ben segnalati (1).
L’unico segnale di insofferenza rilevato tra gli israeliani, ma solo insofferenza, verso questa continua strage della popolazione civile, è stato dato da una parte dei riservisti israeliani (pare che siano 100mila) che non si sono presentati quando sono stati richiamati, mentre, da parte palestinese, vi sono state alcune manifestazioni contro Hamas perché rilasci gli ultimi ostaggi che ancora detiene nella speranza che ciò faccia finire la guerra. E non sono mancate le manifestazioni “pro-Palestina” in Europa e in America, manifestazioni che, come tutte quelle già avvenute in precedenza, sono solo punture di spillo sulla spessa pellaccia dei governanti europei, americani e, naturalmente, israeliani. Altro effetto avrebbero gli scioperi e le manifestazioni proletarie contro la guerra, sia a Gaza e nei territori occupati che in Ucraina e in Russia, perché le rispettive borghesie prendessero sul serio la possibilità di una rivolta proletaria che potrebbe avere sviluppi da loro imprevisti. Ma un effetto positivo nell’opposizione efficace alla guerra lo avrebbero soprattutto le azioni di sciopero e di lotta da parte dei proletari in Europa e in America perché sono questi paesi, in particolare, a sostenere economicamente, politicamente e militarmente lo Stato-gendarme chiamato Israele. Questo purtroppo non succede perché i proletari di questi paesi sono ancora prigionieri delle illusioni opportuniste e nazionaliste con le quali credono di poter ottenere migliorie sul piano delle condizioni immediate di vita, godendo inoltre di una situazione di pace, mentre la guerra non li ha ancora toccati direttamente.
La collaborazione di classe che caratterizza l’azione dei sindacati e dei partiti che influenzano e organizzano i proletari d’Europa e d’America, li porta oggettivamente e involontariamente a essere complici dello sterminio a Gaza, come dei massacri di proletari ucraini e russi in guerre che nessun proletario avrebbe voluto e vorrebbe fare. Ma la realtà del capitalismo è fatta di violenza, di oppressione, di crisi, di miseria, di guerra in cui sono le masse proletarie, di qualsiasi nazionalità, età o sesso a fare le spese.
Le borghesie in ogni paese si sono sempre preparate alla guerra, perché la loro fame di profitto capitalistico le spinge, nello stesso tempo, a sfruttare la forza lavoro proletaria il più possibile e a far la guerra alle borghesie straniere per allargare i mercati di sbocco delle proprie merci. La fame di profitto produce la fame di potere, la necessità di rafforzare la propria capacità non solo economica ma anche militare per affrontare la concorrenza con ogni altra borghesia; e a questo scopo, ogni borghesia ha bisogno di irreggimentare il proprio proletariato sia per sostenere gli sforzi di guerra sia per fare la guerra alle altre borghesie. In tutto questo i proletari sono le vittime predestinate sia quando vengono usati per uccidere i proletari irreggimentati nelle truppe “nemiche”, sia quando vengono uccisi dai “nemici”.
L’unica guerra che abbia un senso e uno scopo storicamente valido per i proletari di ogni paese è la guerra di classe, la guerra prima di tutto contro la propria borghesia, la guerra civile contro la guerra imperialista che ogni borghesia maschera sempre da guerra “di difesa”.
(1) Cfr. https://ilmanifesto.it/strage-di-.soccorritori-a-gaza-ecco-il-video-che-inchioda-israele
Partito Comunista Internazionale
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