La lotta per l’emancipazione della donna può avere successo solo se parte integrante della lotta proletaria di classe contro il capitalismo
(«il comunista»; N° 186 ; Marzo-Aprile 2025)
UNO SGUARDO AL PASSATO
Centootto anni fa, l’8 marzo 1917 (il 23 febbraio secondo il calendario giuliano allora in vigore in Russia) era la «giornata internazionale della donna» e i rivoluzionari del tempo (menscevichi, socialisti rivoluzionari e bolscevichi) pensavano di celebrare questa giornata, come in occasioni precedenti, con riunioni, comizi, manifestini, sconsigliando gli operai di scendere in sciopero perché tale iniziativa avrebbe scatenato una dura repressione rispetto alla quale il movimento operaio non era preparato. Nessuno avrebbe immaginato che quella giornata avrebbe inaugurato la rivoluzione in Russia.
Furono innanzitutto i lavoratori del tessile di Pietrogrado, soprattutto le lavoratrici, ad abbandonare il lavoro inviando delegate e delegati agli operai metallurgici chiedendo il loro appoggio allo sciopero.
Come scrive Trotsky, nella sua Storia della rivoluzione russa, «la rivoluzione di febbraio fu scatenata da elementi di base che superarono la resistenza delle loro stesse organizzazioni rivoluzionarie», «l’iniziativa fu presa spontaneamente da un settore del proletariato oppresso e sfruttato più di tutti gli altri – i lavoratori tessili – tra cui indubbiamente si contavano non poche mogli di soldati. L’ultimo impulso venne dalle interminabili attese dinanzi ai forni. Il numero degli scioperanti, uomini e donne, fu quel giorno di circa 90.000. Lo stato d’animo combattivo si tradusse in manifestazioni, comizi, scontri con la polizia. Il movimento si sviluppò prima nel rione di Vyborg, dove si trovavano le grandi fabbriche, e arrivò poi al sobborgo di Pietrogrado. (...) Una folla di donne, non tutte operaie, si diresse verso la Duma municipale per chiedere pane. Era come chiedere latte a un bue. In vari quartieri comparvero bandiere rosse e cartelli le cui scritte dimostravano che i lavoratori esigevano pane e non volevano più saperne dell’autocrazia e della guerra. La “giornata della donna” era riuscita, era stata piena di slancio. E non aveva causato vittime.
Ma di che cosa fosse gravida, in serata nessuno ancora sospettava. All’indomani, il movimento, lungi dal calmarsi, raddoppia di energia: circa la metà degli operai industriali di Pietrogrado sono in sciopero il 24 febbraio.
Sin dal mattino gli operai si presentano nelle fabbriche e, invece di mettersi al lavoro, tengono comizi, e successivamente si dirigono verso il centro della città. Nuovi quartieri, nuovi settori della popolazione vengono trascinati nel movimento. La parola d’ordine: “Pane” è lasciata cadere o è soffocata da altre: “Abbasso l’autocrazia! Abbasso la guerra!”» (1). La guerra, a cui la Russia zarista partecipava a fianco dei democraticissimi Francia e Regno Unito, aveva in parte svuotato le fabbriche dagli uomini inviati al fronte e al loro posto, soprattutto nelle lavorazioni più alla portata delle capacità manuali e fisiche femminili – come appunto il settore tesile –, erano state inserite le donne, quelle mogli dei soldati di cui parla Trotsky.
Nella storia non era certo la prima volta che le donne partecipavano alle lotte di strada e ad un movimento rivoluzionario; già con la rivoluzione francese del 1789 si erano distinte sulle barricate, e soprattutto nella Comune di Parigi del 1871, il loro apporto al movimento proletario fu spontaneo, passionale e spesso decisivo non solo per la loro opera da infermiere ma anche nella strenua difesa delle barricate. Sono le donne che, il 18 marzo 1871, impediscono ai soldati governativi di portare via da Montmartre i cannoni che i parigini avevano comprato con una sottoscrizione cittadina per difendersi dai prussiani. Lissagaray scriverà infatti: «Le prime a muoversi furono le donne, come nelle giornate di rivoluzione. Quelle del 18 marzo, [prima]impietrite dall’assedio – esse avevano avuto doppia razione di miseria – non attesero i loro uomini. Esse circondano le mitragliatrici (...) D’improvviso il tamburo suona a raccolta (...) Guardie nazionali e soldati di linea scavalcano il parapetto, mentre un gran numero di altre guardie, abbandonati i fucili, insieme a donne e fanciulli fanno irruzione dal lato opposto (...) Il generale Lecomte, circondato, comanda tre volte di far fuoco. I suoi uomini rimangono con le armi al piede. La folla arriva, fraternizza, arresta Lecomte e i suoi ufficiali. (...) La folla ha fermato i cavalli [con cui Lecomte voleva portarsi via i cannoni, NdR, tagliato i finimenti, convinto i soldati ed infine ha riportato a braccia i cannoni sulle alture» (2). Le donne, e molti fanciulli, non si limitarono a manifestare in questo modo la loro rivolta contro i governativi, parteciparono attivamente ed eroicamente alla costituzione e alla difesa della Comune, fino alla fine, fino al massacro dei comunardi nella tragica settimana di sangue che ne decretò la fine: «Più di diecimila donne nei giorni di maggio – scriverà Louise Michel nelle sue memorie – sparse o unite, combatterono per la libertà» (3).
Sviluppatosi dapprima in Inghilterra, poi in Francia e negli Stati Uniti, il capitalismo in tutto il corso dell’Ottocento, pur nel suo sviluppo ineguale, è penetrato in tutti i paesi attraverso i mezzi che gli sono caratteristici: la violenza economica, il colonialismo e la guerra, il tutto coronato da un sistema di leggi atte a giustificare la classe al potere in quanto classe dominante, in difesa dei suoi interessi di classe e del sistema economico su cui questi interessi si basano, e a dare alla popolazione nazionale la sensazione di partecipare politicamente e socialmente alla vita sociale secondo i famosissimi principi ideali di «libertà», «uguaglianza» e «fraternità».
Ma per impiantarsi e svilupparsi la nuova forma sociale doveva sradicare sistemi economici, regimi politici, costumi, tradizioni e pregiudizi che bloccavano il progresso delle forze produttive di cui il capitalismo era il motore principale. La trasformazione di larghe masse di contadini in lavoratori salariati non è stato un fenomeno casuale, o un progetto studiato a tavolino o una cinica prospettiva dovuta al carattere particolarmente maligno dei capitalisti, ma una necessità oggettiva dello sviluppo stesso delle forze produttive che non potevano più essere costrette nei limiti dei vincoli personali della società feudale. Il vero progresso che il capitalismo ha portato alla storia delle società umane sono stati certamente la creazione del lavoro associato, quindi l’industria, e la creazione del lavoro salariato, che hanno trasformato la produzione individuale, artigianale e limitata al consumo individuale a produzione sociale, a produzione di beni destinati al consumo e dei mezzi di produzione stessa. Trattandosi di una società divisa in classi, non poteva che acutizzare sempre più l’antagonismo tra la classe dominante – la borghesia, appunto, la classe di capitalisti, dei proprietari dei mezzi di produzione e della terra – e la classe produttrice per eccellenza, i lavoratori salariati, il proletariato; gli interessi dell’una e dell’altra classe, fin dal loro apparire, sono stati oggettivamente antagonistici, cosa che la lotta tra le classi non faceva che confermare sistematicamente anche quando, per ragioni di conservazione sociale, la borghesia proclamava libertà e diritti uguali per tutti i componenti della società, mentre nella realtà sociale la libertà corrispondeva alla libertà di espropriare i contadini della loro terra e di sfruttamento del lavoro salariato da parte dei capitalisti e i diritti, per la loro grandissima parte, non erano altro che i diritti dei borghesi di essere borghesi, proprietari dei mezzi di produzione e dei prodotti.
«Secondo la concezione materialistica – scrive Engels nella sua Prefazione del 1884 a “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” – il fattore in ultima istanza determinante nella storia è questo: la produzione e riproduzione della vita immediata. Tale fattore ha però esso stesso, a sua volta, una duplice natura. Da una parte la produzione di mezzi di sussistenza, di generi alimentari, di oggetti per il vestiario, per l’abitazione, nonché degli attrezzi necessari a questo scopo; dall’altra parte la produzione dell’uomo stesso, la riproduzione della specie. Le istituzioni sociali entro le quali vivono gli uomini di una certa epoca storica e di un certo paese sono condizionate dai due tipi di produzione: dal grado di sviluppo in cui si trovano il lavoro da un lato, la famiglia dall’altro». Sviluppandosi sempre più la produttività del lavoro, «con essa si sviluppano proprietà privata e scambio, disparità di ricchezza, possibilità di utilizzare forza lavoro estranea e con ciò il fondamento degli antagonismi di classe» (4) che, a loro volta, sviluppatisi all’interno della vecchia società portano questa stessa società ad esplodere a causa dello scontro delle classi sociali.
Questo lungo e contraddittorio processo storico riguarda tutte le società divise in classi, dalla società schiavista fino alla società capitalistica. Per avanzare, la società ha dovuto portare la divisione in classi al suo massimo livello di antagonismo consegnando alla classe storicamente progressiva – la classe borghese capitalistica – il compito di rivoluzionare l’intero sistema sociale antico, feudale, dispotico-asiatico, che ormai era entrato in urto irrisolvibile con l’irrefrenabile sviluppo delle forze produttive; queste ultime cozzavano contro le forme sociali (economiche, politiche, culturali) che ne impedivano lo sviluppo e «chiedevano» il loro abbattimento. La classe borghese, la più moderna classe delle società divise in classi, grazie all’impressionante sviluppo delle forze produttive e al suo impianto in tutto il mondo nel giro di qualche centinaio d’anni, non solo ha scardinato le organizzazioni economiche e sociali millenarie delle società precedenti, ma ha, nello steso tempo, creato le condizioni storiche perché la divisione in classi della società fosse superata totalmente. Le caratteristiche essenziali della società capitalistica, cioè la produzione sociale e l’internazionalizzazione del modo di produzione capitalistico, hanno costituito il volano dello sviluppo del capitalismo nel mondo, sottomettendo alle proprie leggi economiche, e quindi anche politiche, tutti i paesi sebbene il suo sviluppo fosse inevitabilmente ineguale, partendo dai paesi storicamente più predisposti al salto di qualità che il capitalismo richiedeva, come l’Inghilterra, poi la Francia, gli Stati Uniti e tutta l’Europa. Nelle condizioni storiche create dalla borghesia per lo sviluppo del modo di produzione che essa ha rappresentato e di cui è la vera e unica beneficiaria, va considerata anche la creazione di una nuova e indispensabile classe produttrice: il proletariato, la classe dei lavoratori salariati. Il proletariato è una classe formatasi, è vero, attraverso la sua «liberazione» dai vincoli personali e di territorio del feudalesimo, ma che è stata però spogliata di ogni proprietà salvo la sua forza fisica, la forza di lavoro che, sottoposta allo sfruttamento da parte della classe borghese che possiede tutto – i mezzi di produzione e di distribuzione e, soprattutto, l’intera produzione sociale, e che controlla tutta la gestione sociale attraverso lo Stato e le sue diverse istituzioni –, è non solo la vera produttrice della ricchezza sociale, ma, nello stesso tempo, la creatrice della valorizzazione dei capitali investiti nella produzione. E’ questa funzione, ossia la produzione di plusvalore a beneficio esclusivo del capitale, che differenzia il proletario moderno, non più proprietà personale di un padrone, dallo schiavo dell’epoca antica. Il proletario moderno sopravvive grazie alla sua forza lavoro che è costretto a vendere a qualsiasi capitalista ricevendo in cambio un salario mediante il quale comprare al mercato quel che serve per vivere. Questa «libertà» di ogni singolo proletario di vendersi a un capitalista qualsiasi, in realtà, lo espone a una permanente insicurezza di vita, poiché il posto di lavoro e il salario corrispondente all’impiego della sua forza lavoro non sono affatto garantiti per tutta la vita; lo schiavo dell’antichità, solo da questo punto di vista, era in un certo senso più garantito, perché era di proprietà personale del padrone finché viveva.
Tutti i rapporti di produzione e sociali, nella società borghese, sono rapporti mercantili, perciò anche la forza lavoro proletaria è sottoposta al rapporto di mercato: è infatti trattata come una merce. Per il fatto che l’impiego della forza lavoro di ogni singolo proletario non viene garantito per tutta la sua vita, significa che il capitalista lo equipara al sistema del noleggio: se ne serve fino a quando gli conviene, sia quando sottoscrive un contratto (di cui sono previste un’infinità di varianti, dal tempo “indeterminato” al lavoro a ore) sia quando non stipula alcun contratto (è il caso del lavoro nero). Ma anche quando è in vigore un contratto a tempo indeterminato, il capitalista ha la facoltà – e le leggi glielo consentono – di licenziare i lavoratori, metterli a zero ore, costringerli ad accettare un abbattimento dei salari se vogliono mantenere il posto di lavoro, ad aumentare i ritmi di lavoro senza contropartita in denaro, ad accettare gli straordinari ecc. ecc.
Equiparando il lavoro produttivo a una merce, sottoponendo ogni attività umana alle leggi del mercato e rendendo ogni proprietà privata, anche della terra, oggetto di scambio mercantile, la società borghese sviluppata e internazionalizzata ha dialetticamente predisposto, in realtà, l’intera organizzazione sociale a un ulteriore salto storico di qualità superiore, ossia alla trasformazione economica e sociale che non risponda più, in nessun ambito, alle leggi dello scambio mercantile e monetario, ma che soddisfi i bisogni reali della vita sociale della specie umana; un salto storico di qualità che non può realizzarsi se non abbattendo tutte le forme politiche, sociali ed economiche che frenano e deviano le forze produttive incastrandole in rapporti di produzione e di consumo sempre più contraddittori, sempre più in contrasto coi bisogni sociali generali della specie umana, esponendole a crisi sempre più devastanti.
Lo sviluppo stesso del capitalismo – e non solo a causa delle guerre che richiedono rilevanti masse di esseri umani da mandare al macello, togliendole dalla produzione e dall’amministrazione economica e sociale – porta a una continua rivoluzione tecnica industriale e a una semplificazione sempre più accentuata delle operazioni lavorative, predisponendole ad essere messe in atto non solo da manodopera costituita da donne e adolescenti, ma anche da manodopera non necessariamente superspecializzata. Questa generale semplificazione del lavoro, nella società borghese diventa motivo di abbattimento dei salari e di aumento della concorrenza tra proletari, ma non elimina la divisione in classi e le più diverse specializzazioni tecniche e scientifiche a cui la borghesia instrada appositamente una parte dei lavoratori separandola appositamente dalla massa lavoratrice, sia in termini di censo sia in termini numerici. Al contrario, nella società socialista, e tanto più nella società comunista, la generale semplificazione del lavoro diventa il motivo non solo perché il lavoro produttivo, distributivo e amministrativo sia alla portata di tutti e tutti siano coinvolti a dare, ciascuno, pochissime ore di lavoro alla società, ma anche perché la situazione sociale, liberatasi dalle oppressioni della società divisa in classi, metta ognuno nelle condizioni di dedicare le altre ore di ogni giornata ai rapporti sociali, alla conoscenza, alla scienza, al divertimento, allo svago, all’ozio, all’arte e a seguire le proprie propensioni e le proprie facoltà intellettuali.
Nella società borghese, invece, seguendo la legge del minor costo di produzione possibile per combattere la concorrenza, la borghesia incentiva costantemente la concorrenza anche tra i proletari non solo attraverso le diverse specializzazioni di lavoro, ma anche attraverso l’acquisto della forza lavoro, favorendo tendenzialmente quella a costi sempre più bassi . L’allargamento dello sfruttamento della manodopera operaia anche alle donne e agli adolescenti è andato esattamente in questa direzione: aumentare lo sfruttamento generale della forza lavoro salariata e aumentare la concorrenza tra proletari sia in termini di specializzazioni lavorative sia in termini di genere e di età, cosa che si è ampliata sempre più nella misura in cui lo sfruttamento capitalistico si è esteso anche alle diverse nazionalità e razze nei vari continenti. Ed è proprio lo sviluppo del capitalismo e dello sfruttamento della forza lavoro sia maschile che femminile a distruggere la famiglia, quell’unità economica su cui il capitalismo basa la vita e la riproduzione della specie.
Ma tutto ciò non ha avuto e non ha soltanto la caratteristica dello sfruttamento e dell’oppressione, tipici del capitalismo; ha anche un lato dialetticamente positivo, progressista.
L’immissione delle donne e degli adolescenti nella produzione, della stessa nazionalità o di nazionalità diverse, è stata ed è, per i marxisti, un fenomeno storicamente progressivo. «E’ indiscutibile – scriverà Lenin nel 1899 – che la fabbrica capitalistica pone queste categorie della popolazione operaia in una situazione particolarmente dura, che nei loro riguardi sono necessarie una riduzione e regolamentazione della giornata di lavoro, la garanzia di condizioni di lavoro igieniche ecc., ma sarebbe reazionario e utopistico voler vietare completamente il lavoro delle donne e degli adolescenti nell’industria, o sostenere quel regime di vita patriarcale che escludeva questo lavoro» (5). Perché tale fenomeno è stato ed è progressivo? «Distruggendo l’isolamento patriarcale di queste categorie della popolazione – continua Lenin –, che in passato non uscivano dalla cerchia ristretta dei rapporti familiari e domestici, chiamandole a partecipare direttamente alla produzione sociale, la grande industria meccanica affretta il loro sviluppo, aumenta la loro indipendenza, ossia crea delle condizioni di vita infinitamente superiori all’immobilità patriarcale dei rapporti precapitalisti» (6).
Questa immobilità patriarcale dei rapporti precapitalistici, come sappiamo, non è stata superata in generale in tutti i paesi, nonostante il capitalismo e le sue leggi economiche dominino dappertutto. La famiglia come unità economica, per quanto sconquassata e distrutta dalle stesse leggi economiche e sociali del capitalismo, sopravvive ancora, condiziona pesantemente la vita reale degli esseri umani e la loro riproduzione, soprattutto riguardo alle vaste masse proletarie e diseredate. D’altra parte, nonostante la grande epoca borghese dei lumi, della Ragione contro le superstizioni e i pregiudizi, il fatto che le religioni abbiano ancora un notevole peso nel dominio culturale e sociale sulle grandi masse proletarie e contadine, la dice lunga sull’effetto soporifero che i vari credi religiosi rappresentano ancora. Più si sviluppa il capitalismo, più aumentano l’oppressione e lo sfruttamento delle grandi masse a beneficio esclusivo del dominio borghese e capitalistico, e più la conservazione sociale, la difesa dell’ordine costituito «chiedono» che le grandi masse sfruttate e oppresse rimangano piegate agli interessi borghesi. La lotta contro le superstizioni, i pregiudizi, ereditati dalle società classiste precedenti, è appannaggio soltanto dei ceti elevati della borghesia e di quella schiera di intellettuali che hanno il compito di mostrare alle grandi masse che la sbandierata vecchia «libertà di pensiero», che va a braccetto con la «libertà individuale», è ancora un «diritto inalienabile» di cui tutti gli uomini dovrebbero godere e che, se non usano questo «diritto», è perché non ne sono capaci o «scelgono» di non usarlo... In realtà, come la storia ha dimostrato, le abitudini sociali che le diverse società divise in classi hanno creato e radicato sono particolarmente difficili da superare; esse, soprattutto se sono legate alla famiglia, alla procreazione e alle superstizioni religiose, resistono per lunghissimo tempo sebbene il modo di produzione abbia rivoluzionato l’intera società; e ciò è determinato dal fatto che la società, pur sviluppatasi dal punto di vista economico e produttivo, è rimasta divisa in classi.
Anche se la repubblica democratica, in molti paesi, ha preso il posto della monarchia, la società resta divisa tra una classe dominante e le classi dominate, e finché si rimane nell’ultima società divisa in classi della storia, la società capitalistica, la classe dominante sarà sempre costituita dalla minoranza assoluta della popolazione, appunto la borghesia, mentre le classi dominate costituiranno sempre la stragrande maggioranza della popolazione, proletari, contadini, diseredati. Per le donne della borghesia, nonostante siano anch’esse sottoposte alla discriminazione storica data dalla convinzione che le loro facoltà intellettuali non possano raggiungere quelle degli uomini, se non in casi particolari che non farebbero che confermare l’inferiorità generale del genere femminile, l’oppressione sociale è attenuata dal fatto di godere dei privilegi sociali a cui la grande massa delle donne del “popolo” non arriverà mai: hanno soldi, potere, servitù, tutto il tempo che vogliono a propria disposizione. Per le donne del proletariato e delle masse contadine le oppressioni a cui sono sottoposte sono permanenti: oltre a quella di essere considerate di capacità inferiori rispetto ai maschi e di essere considerate come oggetto di loro proprietà, sono sfruttate sul lavoro con paghe inferiori a quelle dei maschi e sono costrette a dedicarsi ai lavori domestici e alla cura dei figli fino alla loro maggiore età.
LA FAMIGLIA BORGHESE, OSTACOLO ALL’EMANCIPAZIONE DELLA DONNA
La famiglia, concepita dalla borghesia come unità economica su cui basare la vita sociale, ma, nella realtà, distrutta da tempo e trasformata in un intralcio alla vita quotidiana degli stessi componenti della famiglia, mentre viene elevata a «soluzione di vita» per il genere umano, viene sistematicamente distrutta proprio dal sistema economico e sociale capitalistico che basa il suo sviluppo e la sua sopravvivenza storica non sull’unità familiare ma sullo sfruttamento della forza lavoro di ogni singolo essere umano, di ogni singolo componente della famiglia; singoli esseri umani messi costantemente in concorrenza l’uno contro l’altro sia sul piano economico, sia su quello sociale, culturale, sentimentale e sessuale.
La borghesia non si è limitata a ereditare dalle precedenti società divise in classi la famiglia monogamica, o nei paesi musumani, la famiglia poligamica, regolata da un contratto secondo il quale l’uomo, il «capofamiglia», ha sotto di sé moglie e figli; il matrimonio è rimasto, come nelle precedenti società, una questione di convenienza, ma, a differenza dei matrimoni di coppia delle epoche precedenti, in più sancisce il «dominio dell’uomo nella famiglia» e nella «procreazione di figli che potessero essere soltanto suoi e che erano destinati a divenire eredi della sua ricchezza». La proprietà privata si estendeva così sull’intera famiglia, la moglie e i figli erano proprietà privata dell’uomo; il sesso femminile, soggiogato dal sesso maschile, rappresentava così «la prima divisione del lavoro», quella cioè «tra uomo e donna per la procreazione dei figli» (7). Engels aggiungerà che «il primo contrasto di classe che compare nella storia coincide con lo sviluppo dell’antagonismo tra uomo e donna nel matrimonio monogamico, e la prima oppressione di classe coincide con quella del sesso femminile da parte di quello maschile. Il matrimonio monogamico costruì un grande progresso storico, ma, nello stesso tempo, aprì – accanto alla schiavitù e alla proprietà privata – l’epoca che dura tuttora, quella in cui a ogni progresso corrisponde un regresso relativo, in cui il prezzo della prosperità e dello sviluppo degli uni è la sofferenza e la repressione degli altri» (8).
Dal 1884, anno in cui Engels scrisse questa sua opera, ad oggi, 2025, a centoquarant’anni di distanza, il progresso economico e sociale che già a quell’epoca poteva essere rilevato con grande evidenza, è riuscito a superare quel regresso relativo a causa del quale la prosperità e lo sviluppo degli uni corrisponde alla sofferenza e alla repressione degli altri?; gli uni intesi come borghesi, gli altri intesi come proletari, gli uni intesi anche come maschi, gli altri come femmine?
Nell’un caso e nell’altro la risposta è: NO ! La sofferenza e la repressione per i proletari come classe, per le femmine come sesso, non sono né sparite né diminuite, ma si sono radicate e, in generale, per la gran parte del proletariato mondiale e per la gran parte del sesso femminile mondiale, sono aumentate, nonostante i paesi capitalistici avanzati si siano dotati di leggi sul divorzio e sull’aborto che sembrano andare incontro alle rivendicazioni delle donne, ma con pesanti e dispendiose pratiche burocratiche e, soprattutto per quanto concerne l’aborto, se non in possesso di una consistente somma di denaro, con grandissima difficoltà soprattutto nei paesi dove dominano il cattolicesimo, il cristianesimo ortodosso, l’islamismo, l’induismo, il buddismo ecc.
La famiglia della civiltà borghese non ha risolto alcun contrasto, lo ha costantemente ribadito e ingigantito. «Su che cosa si basa la famiglia attuale, la famiglia borghese?». Il Manifesto di Marx-Engels del 1848 risponde, senza alcuna possibilità di essere smentito, che si basa «sul capitale, sul guadagno privato», e sottolinea: «Una famiglia completamente sviluppata esiste soltanto per la borghesia: ma essa ha il suo complemento nella coatta mancanza di famiglia del proletario e nella prostituzione pubblica (...). La fraseologia borghese sulla famiglia e sull’educazione, sull’affettuoso rapporto fra genitori e figli diventa tanto più nauseante, quanto più, per effetto della grande industria, si lacerano per il proletario i vincoli familiari, e i figli sono trasformati in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro», mentre le donne sono considerate «semplici strumenti di produzione», oltre che oggetto di «prostituzione ufficiale e non ufficiale» (9).
Data questa realtà assolutamente evidente, com’è possibile che la famiglia monogamica continui a rappresentare nella società attuale non solo la sua unità economica di base, sia riguardo la produzione che la riproduzione, ma venga ritenuta la culla dei sentimenti, dell’educazione, dell’affetto e della solidarietà che distinguono gli esseri umani da tutti gli altri animali? La civiltà e la cultura borghesi elevano la famiglia al più alto traguardo che possa essere raggiunto dai giovani adulti per la loro «realizzazione», sia materiale che spirituale. Nella realtà di una società così cinicamente votata a far dipendere nascita, vita e morte di ogni essere umano da rapporti sociali che lo obbligano ad essere solo un attore di mercificazione sistematica, dei prodotti per vivere come degli esseri viventi stessi, come compratore e come venditore, il maschio e la femmina – al pari di qualsiasi altra merce – sono stati trasformati in valori di scambio. In questa società essi hanno un valore nella misura in cui sono utilizzabili per la produzione capitalistica, per la produzione e la distribuzione delle merci; sono stati trasformati in mezzi di produzione e di distribuzione al servizio del capitale e della sua valorizzazione continua. E, alla stessa stregua delle diverse merci, vi sono quelle che rispondono effettivamente a una reale utilità per il capitalismo, al suo sviluppo e al suo mantenimento, quelle che sono di ornamento, quelle che servono per dimostrare la potenza del loro proprietario, quelle che sono del tutto inutili o tossiche e quelle che non servono più e sono da buttare. Il mercato, non la natura, è diventato l’ambiente in cui vive l’umanità, in cui tutto è merce ed ogni merce si compra e si vende, «vive» e «muore». La società è il mercato; quando i borghesi parlano di civiltà, di valori della società moderna, parlano della società mercantile nella quale ogni rapporto economico, sociale, politico, affettivo degli esseri umani è determinato dalla posizione che ogni singolo, ogni gruppo, ogni popolazione ha rispetto al mercato, e nel mercato vige la legge del valore di scambio, che a sua volta dipende dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e della produzione stessa. Non se ne esce. Finché vi sarà capitalismo vi sarà mercato, vi sarà la disumanizzazione sempre più estesa e profonda.
La borghesia ha ereditato dalle società di classe precedenti il rapporto di sudditanza della donna rispetto all’uomo. Liberando, con la sua rivoluzione antifeudale, le masse contadine, piccolo borghesi e proletarie dai vincoli personali e territoriali tipici del feudalesimo, le ha convogliate in un altro tipo di vincolo, più impersonale e meno legato allo stretto territorio di nascita. Il vincolo del lavoro salariato, attività questa che può essere svolta dal lavoratore in qualsiasi luogo, in qualsiasi paese, in qualsiasi continente. Ma la «libertà» di cui gode il lavoratore salariato nel vendere la propria forza lavoro a qualsiasi capitalista e in qualsiasi luogo del pianeta per la produzione di merci – una libertà che va ad annullarsi ogni volta che nessun capitalista compra la sua forza lavoro, o gliela compra a un prezzo inferiore a quello che permette al lavoratore salariato di vivere – si porta appresso un vincolo da cui non è in grado di liberarsi perché l’organizzazione sociale borghese stessa non glielo permette: la famiglia, che è il luogo, l’ambito in cui il lavoratore salariato riproduce se stesso, procurando alla borghesia altri lavoratori salariati. La razza operaia riproduce così se stessa, sempre a esclusivo beneficio del capitale e della sua società. Insieme alla famiglia come unità economica e luogo in cui l’operaio riproduce se stesso, la borghesia eredita dall’organizzazione sociale precedente anche la posizione della donna rispetto alla società stessa e, quindi, alla famiglia. L’uomo, il maschio, è il capofamiglia, colui che, col suo lavoro, sostiene in vita il nucleo familiare; e ciò vale anche quando il capitalismo costringe le donne, e gli adolescenti, a lavorare «come gli uomini» perché il capofamiglia non guadagna abbastanza per mantenere la famiglia o è disoccupato. Il sistema della proprietà privata che caratterizza l’intera società borghese e tutti i suoi rapporti, economici e sociali, delega al capofamiglia la gestione della sua famiglia come fosse la sua proprietà privata, perché i figli, oltre alla moglie, sono destinatari della sua eredità economica: ne deve avere cura, certo, ma la sua responsabilità nei confronti della moglie e dei figli si esercita preservando e difendendo i principi che regolano la società borghese, la società della proprietà privata, della sottomissione del lavoro salariato al capitale, della sottomissione dei cittadini allo Stato.
Sebbene lo sviluppo del capitalismo abbia mandato e mandi continuamente in mille pezzi l’unità familiare, la borghesia continuerà fino alla fine dei suoi giorni, e contro ogni evidenza, a propagandare i principi della famiglia come unità economica della società, come fosse il seme da cui è nata la società umana e da riprodurre continuamente. Il capitalismo non nasce grazie all’attività della famiglia monogamica; questa è stata piegata alle esigenze economiche del modo di produzione e di distribuzione capitalistico, mantenendo il rapporto di sudditanza della donna dall’uomo nonostante lo sviluppo stesso del capitalismo l’abbia scardinata sia come organizzazione economica, sia come nucleo di protezione della prole, sia come ambito in cui assicurare la riproduzione umana.
Perché, nonostante l’evidente fallimento della famiglia monogamica, la classe dominante borghese insiste nell’elevarla a modello-base della società? La famiglia borghese si basa sul capitale, sul guadagno privato; senza capitale, senza guadagno privato la famiglia non esisterebbe. Ma dati i rapporti di produzione e di proprietà che caratterizzano la società capitalistica, soltanto i borghesi, i capitalisti, possono ambire ad avere una famiglia secondo i criteri economici e sociali della società attuale; mentre la grande maggioranza della classe lavoratrice, non potendo contare stabilmente su guadagni e capitali sufficienti per far vivere tutti i componenti della famiglia, è esposta alla distruzione della famiglia, alla sua disgregazione. Quanto al rapporto tra i sessi, che la famiglia borghese è chiamata a regolamentare, anch’esso è determinato dalla società capitalistica. Tutto, in questa società, è stato trasformato in rapporti mercificati, e il rapporto tra i sessi certo non sfugge a questa legge; la prostituzione pubblica, che accompagna la prostituzione privata, non è che l’espressione dello scambio tra prestazione sessuale e denaro: c’è da un lato la vendita del sesso e dall’altro l’acquisto del sesso, e ciò rientra perfettamente nei normali rapporti tra esseri umani nella società capitalistica. L’unico elemento che disturba questa compra-vendita è l’Amore, con la A maiuscola, ossia quel trasporto passionale che l’istinto degli esseri umani fa avvicinare e fondere sia per il piacere fisico che per la riproduzione della specie e che nega qualsiasi mediazione commerciale. La società divisa in classi, e in particolare la società capitalistica, non poteva non trasformare anche questo istinto di vita sociale della specie umana in disumani atti di compra-vendita in cui la legge della proprietà privata detta le regole.
I rapporti borghesi di proprietà privata sono alla base della sottomissione della donna all’uomo, nel senso che – pur essendo stata tolta dalla legge scritta, nei paesi democratici avanzati, la dipendenza assoluta della donna, come sposa, madre e figlia, dall’uomo – resiste ancora tenacemente il concetto che la donna è proprietà privata dell’uomo, e in quanto proprietà privata l’uomo ne può disporre come meglio crede. La religione ha contribuito in modo sostanziale a mantenere la sottomissione della donna all’uomo, e una prova di questo la si trova in particolare nella questione dell’aborto: per quanto le leggi borghesi tendano a rispondere alla pressione dei movimenti sociali ammettendo, in alcuni paesi, sotto tutta una serie di eccezioni, il «diritto all’aborto», in realtà i diritti delle donne, sia a livello di parità con l’uomo – ad esempio in campo economico dove stabilmente le donne vengono pagate meno degli uomini per le stesse mansioni lavorative –sia a livello delle cosiddette «pari opportunità» lavorative che rimangono nella stragrande maggioranza dei casi solo parole, sono diritti soltanto scritti nelle costituzioni e nelle leggi ma in buona parte mai applicati.
E’ la donna a mettere al mondo i figli e questo, che dovrebbe essere un semplice atto d’amore e di riproduzione della specie, nella società capitalistica è diventato per lei un ostacolo in più rispetto al bisogno di esprimere la propria potenzialità sociale, in termini di capacità intellettuali, politiche, organizzative, artistiche, lavorative in genere: costretta ad allevare i figli da quando nascono fino all’adolescenza avanzata e alla maggiore età, lavoro che si somma alla cura della casa e dei mestieri domestici, alla donna viene impedita la possibilità di esprimere tutte le sue potenzialità umane, riducendola a svolgere il ruolo di proletaria all’interno della famiglia e di strumento di produzione al servizio dell’uomo e della società capitalistica. Più si inneggia alla famiglia, più si schiaccia la donna nell’abbrutimento dei lavori domestici e nel dover allevare i figli, che la società capitalistica, attraverso i suoi organi amministrativi, giudiziari, educativi, le strapperà dalle mani per trasformarli a loro volta in venditori di forza lavoro, in venditori e compratori di sesso, in carne da cannone nei casi di guerra; e più si schiaccia la donna nel compito di occuparsi dei vecchi, degli ammalati, degli invalidi, che la società abbandona perché non più sfruttabili come quando erano negli anni del vigore e della salute.
Per quanto la classe borghese dominante cerchi di farsi passare per la migliore organizzatrice sociale dell’umanità, declamando le proprietà morali, culturali e civili della democrazia, supportate da un incessante sviluppo economico e da innovazioni tecniche e scientifiche utili ad abbattere la fatica del lavoro, resta comunque prigioniera del suo stesso modo di produzione, delle sue contraddizioni, dei suoi disastri sia in campo economico che sociale. Essa non potrà mai fare a meno dello sfruttamento del lavoro salariato perché è da questo sfruttamento che estorce il plusvalore che viene trasformato in capitale. Per mantenere il dominio sociale sulle masse lavoratrici, la borghesia, oltre a usare i mezzi coercitivi di cui dispone, ha bisogno anche di alimentare concetti, pregiudizi, superstizioni e abitudini che le distraggano dalla fatica di vivere e, nello stesso tempo, ne impegnino le menti perché le loro aspirazioni a una vita migliore, più umana, a una vita più felice e soddisfacente siano sempre e costantemente legate al denaro, al capitale, quindi al sistema di produzione e di proprietà attuale che si appoggia sulla famiglia, sulla patria, sulla democrazia e, naturalmente, sulla religione che ha rapidamente adattato i suoi precetti e principi a Sua Maestà il Capitale, diventando un pilastro per la sua difesa.
L’EMANCIPAZIONE DELLA DONNA POTRÀ AVVENIRE SOLO CON L’EMANCIPAZIONE DEL PROLETARIATO DAL DOMINIO DEL CAPITALE
Che la donna, nella società capitalistica, continui a subire un’oppressione sociale che già subiva nelle precedenti società divise in classi è cosa nota ormai anche alle pietre. Ma il capitalismo ha aggiunto un’ulteriore oppressione: quella del lavoro salariato. Da quando ha attirato nelle galere del lavoro anche il sesso femminile – mettendolo in concorrenza con il sesso maschile sia perché poteva pagarlo di meno, sia perché le donne, oppresse a livello sociale da secoli, sono state abituate ad essere tendenzialmente docili rispetto agli uomini, e quindi rispetto ai padroni –, la borghesia si è vista costretta a prevedere, sotto la pressione sociale dei movimenti proletari,una serie di diritti anche per le donne, diritti soprattutto legati alla famiglia e alla maternità (si sa quanto ci tenga la borghesia ad affermare continuamente il diritto all’eredità ai figli legittimi).
Da quando le donne, spose e figlie di proletari, hanno cominciato a lavorare nelle fabbriche e nei servizi in cui prima erano occupati solo uomini, esse hanno cominciato a subire le stesse angherie, la stessa fatica e la stessa oppressione che normalmente subiscono i proletari; anzi, proprio perché donne, venivano e vengono spessissimo sottoposte a molestie, dai capi e dai padroni, ma anche dai colleghi, perché considerate costantemente soprattutto oggetti di piacere degli uomini. La società borghese, nonostante nelle repubbliche democratiche si sia dotata di diritti scritti nelle costituzioni e nei codici civili e penali a favore delle donne, considera la donna, nei fatti, dal punto di vista mentale e intellettuale, un essere inferiore. Per secoli la donna, anche delle classi superiori e privilegiate, è stata considerata incapace di eccellere nell’arte e nelle scienze; poteva essere regina – ma in quanto regina si trattava soltanto di una donna tra tutte, era l’eccezione che confermava la regola – ma non poteva essere istruita, pittrice o scienziata, tanto meno darsi alla politica, in quanto essere “inferiore”. A sostegno di queste convinzioni fior di medici e di scienziati proponevano ricerche – come documentato e criticato da Bebel nella sua famosa opera La donna e il socialismo –, ad esempio, circa il volume e il peso del cervello maschile e femminile; ma le ricerche degli stessi scienziati borghesi portavano a stabilire che i cervelli maschili e femminili delle tribù e dei popoli selvaggi erano molto più proporzionati che non tra i popoli civili. Ciò «si spiega soltanto col riflesso che gli uomini dei popoli civili hanno educato maggiormente le loro funzioni cerebrali, mentre quelle della donna vennero arrestate» (10). Non solo, ma, paragonando i cervelli maschili e quelli femminili rispetto al peso complessivo del corpo, essendo in generale il corpo della donna più minuto di quello dell’uomo, risulta che «il cervello della donna è più pesante di quello dell’uomo» (11). In ogni caso, è stato documentato che le facoltà intellettuali legate al cervello, e il loro sviluppo, dipendono dall’esercizio di queste facoltà, come d’altra parte il benessere generale dell’organismo dipende dalla vita sana e dal movimento. Non è infatti un caso che, con la diffusione dell’istruzione anche alle femmine e con l’impiego delle loro capacità lavorative in tutti i campi dell’attività umana, le donne hanno dimostrato e dimostrano di avere spesso facoltà intellettuali pari o superiori a quelle degli uomini, oltre ad avere un istinto alla protezione della vita e alla sua organizzazione, non solo individuale ma anche a livello sociale, che deriva dal fatto stesso che sono loro a mettere al mondo i figli.
Ma il destino della donna, nelle società divise in classi, quindi anche nella società capitalistica, era scritto: doveva ubbidire all’uomo, al capofamiglia, al suo signore, doveva essere madre, mettere al mondo figli maschi per via dell’eredità da trasmettere, allevarli e accudire alle faccende domestiche, rendendo la casa luogo di riposo e di piacere dell’uomo. La donna, che per secoli, nelle società maschiliste, è stata limitata nell’esercizio e nell’uso delle facoltà intellettuali, è stata «costruita» appositamente come essere «inferiore», inevitabilmente dipendente dall’uomo. La proprietà privata dei mezzi di produzione e dei prodotti, inoltre, aggiungeva un’ulteriore condizione vincolante, estendendosi fino alla proprietà privata del corpo della donna, che diventava, nello stesso tempo, un oggetto in mano all’uomo, uno strumento di produzione e una forza lavoro da sfruttare, in casa prima di tutto, ma poi anche nei campi, nelle fabbriche, negli uffici.
La rivoluzione industriale e la rivoluzione sociale e politica portate dal capitalismo hanno di fatto sconvolto l’ordine familiare e sociale precedente in cui alla donna veniva assegnato il destino di sottomettersi all’uomo fin dalla nascita. Ma quanto profondo è stato il cambiamento che il capitalismo e la borghesia hanno portato nella società riguardo la donna?
Come affermava Lenin (vedi nota 5), con la trasformazione delle condizioni di vita della popolazione operata dalla fabbrica, nonostante la durezza del lavoro in essa, l’immissione di donne e adolescenti nella produzione è stato un fenomeno sostanzialmente progressivo. Progressivo perché ha distrutto l’isolamento patriarcale di queste categorie della popolazione, ha aumentato la loro possibilità di indipendenza dalla cerchia ristretta dei rapporti familiari e domestici, spingendo le proletarie a lottare per rivendicare la riduzione della giornata di lavoro, la garanzia di condizioni di lavoro igieniche, la protezione della maternità ecc. In sostanza, questa trasformazione ha costretto anche le donne proletarie a interessarsi delle condizioni sociali e delle questioni politiche legate alle condizioni di lavoro e di vita dell’intero proletariato. I diritti e le «garanzie» di cui le donne proletarie godono oggi nei paesi capitalistici avanzati sono stati ottenuti grazie alle lotte dell’intero proletariato all’interno del quale le rivendicazioni specifiche riguardo il divorzio, la maternità, l’aborto, il cosiddetto «diritto di famiglia» per il quale anche la donna può essere «capofamiglia» ecc., fanno parte, in realtà, del sistema di leggi borghesi che ammette l’applicazione di quei diritti a condizione di rafforzare la famiglia come unità economica di base della società, di difendere il principio dell’eredità e della proprietà privata. Il progresso, quindi, che storicamente è stato portato dal capitalismo rispetto all’immobilità patriarcale dei rapporti precapitalistici, è supercondizionato dal sistema mercantile che permea qualsiasi attività umana, non solo quindi la produzione e la distribuzione dei prodotti, ma anche la riproduzione della specie. Ed è questo impianto di base che permette la sopravvivenza di abitudini, idee, preconcetti, superstizioni, tradizioni caratteristici dei rapporti precapitalistici e non solo sul piano morale e religioso, ma anche sul piano dei rapporti tra i sessi.
Le manifestazioni delle donne che rivendicano la fine del patriarcato, dunque la fine della supremazia del sesso maschile su quello femminile, colpiscono giustamente un aspetto negativo della vita sociale della società moderna che sopravvive, nonostante la dipendenza economica della donna dall’uomo non sia più una regola intangibile, l’istruzione non sia più vietata alle donne, l’indipendenza economica della donna non sia più irraggiungibile, visto che è stata risucchiata anch’essa nel lavoro salariato, il divorzio dal marito sia possibile per legge e sia possibile perfino l’aborto senza doversi procurare di nascosto l’intervento delle mammane. Anche se, in quest’ultimo caso, nella società è in atto da sempre una resistenza dovuta sia ai preconcetti religiosi sull’esistenza dell’anima fin dal concepimento, sia al principio della supremazia del maschio sulla femmina come proprietario privato del prodotto dell’atto sessuale – il figlio – del quale la donna rappresenta lo strumento di produzione. Di più, la società borghese, mentre ha permesso alle donne di avere un proprio conto in banca, una casa a loro intestata, di condurre un esercizio commerciale, di essere a capo e padrona d’azienda, di guidare un veicolo, una barca, un aereo, di occuparsi di politica e di svolgere le stesse attività lavorative a cui si dedicavano un tempo soltanto i maschi, l’ha anche «equiparata» all’uomo nel mestiere della guerra trasformandola da generatrice di vita a dispensatrice di morte.
La liberazione della donna dai rapporti familiari e domestici medievali dovuta alla rivoluzione borghese non è stata una vera emancipazione dall’oppressione domestica, né lo sviluppo del capitalismo nella democrazia l’ha liberata dall’oppressione salariale. Finché esisterà la società capitalistica, questa doppia oppressione a cui è sottoposta la donna non sarà mai eliminata. Ciò non toglie che le donne che fanno parte della classe dominante godano di una libertà e dei diritti che le leggi borghesi prevedono solo alla condizione di essere anch’esse strumenti di oppressione della maggioranza della popolazione femminile: esse infatti godono del privilegio di far parte della classe proprietaria di tutto, e non solo dei mezzi di produzione e di distribuzione, ma anche della produzione sociale; esse partecipano con i propri mariti, i propri padri e i propri figli, al privilegio di vivere sullo sfruttamento generale del proletariato maschile e femminile, e difendono il loro status sociale con la stessa, se non maggiore, determinazione e con lo stesso cinismo dei capitalisti maschi.
Ecco perché, quando da marxisti parliamo dell’emancipazione della donna, stiamo parlando in particolare dell’emancipazione della donna proletaria, perché è dalla lotta delle proletarie e dei proletari contro il potere borghese, contro il sistema capitalistico – in sostanza, dalla lotta di classe – che dipende il successo o l’insuccesso dell’emancipazione della donna, anche delle donne della borghesia che, per quanto godano dei privilegi di appartenere alla classe dominante che vive esclusivamente sullo sfruttamento del lavoro salariato del proletariato, anch’esse subiscono in parte gli effetti negativi della società borghese che esercita anche su di loro il suo maschilismo di fondo.
Il femminismo, pur preceduto da una serie di posizioni culturali e politiche elitarie legate alla Rivoluzione francese del 1789, nasce come movimento vero e proprio per i diritti delle donne nel 1848 europeo, in corrispondenza con i grandi movimenti rivoluzionari di segno proletario in Francia, in Austria, in Germania, in Polonia, in Italia, movimenti che hanno avuto risonanza anche nel Nord America dove, nel luglio 1848, si è tenuta la storica «Convenzione sui diritti delle donne» a Seneca Falls (New York). Da allora, soprattutto grazie al movimento delle donne lavoratrici, la questione dei diritti delle donne è stato tema di ogni movimento politico, sia a sostegno della parità di diritti tra donne e uomini, sia contro quella parità di diritti. Le condizioni in cui vivono ancor oggi le donne, e in particolare le donne proletarie, dimostrano come le altisonanti parole pronunciate dalle istituzioni borghesi in ogni Costituzione, in ogni Dichiarazione dei diritti, in ogni programma politico, sulla libertà, sull’uguaglianza, sulla fraternità, sono parole del tutto ingannevoli perché mascherano una realtà che è esattamente l’opposto di quei diritti, di quella dignità di cui ogni essere umano dovrebbe godere.
Nella «Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America» del 1776 si dichiara che «tutti gli uomini sono stati creati uguali» e che «sono dotati dal Creatore di inalienabili diritti» tra i quali vi sono «la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità»; nella «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino» dovuta alla rivoluzione francese del 1789, si dichiara che «lo scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo» e si precisa: «Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione». Inalienabili diritti? Belle parole, ma la loro definizione, la loro applicazione, il loro rispetto e la loro difesa in una società che ha tutto mercificato – dunque anche i diritti, e infatti fra questi è elencata non a caso la proprietà – sono parole scritte sulla sabbia, parole al vento. La realtà capitalistica riconosce nei fatti soltanto ed esclusivamente il diritto e la libertà del capitalista di sfruttare la forza lavoro operaia, di obbligare le operaie e gli operai a rispettare le sue leggi, le sue regole e a sottostare alle decisioni economiche e politiche che i capitalisti prendono, riuniti nelle loro associazioni e nelle loro istituzioni che fanno capo al loro Stato di classe. Difendere il loro sistema sociale ed economico, ecco il grande problema per i capitalisti: un sistema che, tutte le volte che ciclicamente entra in crisi – commerciale, finanziaria, economica, sociale e di guerra – scarica sulle masse proletarie (donne, uomini, adolescenti, nascituri) tutte le sue conseguenze negative. A dimostrarlo sono tutte le crisi economiche che hanno punteggiato l’intero corso mondiale del capitalismo, tutte le guerre, commerciali, finanziarie, di rapina, coloniali e le due guerre mondiali del Novecento. Sono le crisi e le guerre che continuano a dominare sulla vita di miliardi di esseri umani a dimostrare che questo sistema economico e sociale, questa società – aldilà del regime politico di cui i vari paesi si sono dotati e si dotano – non migliora le condizioni di esistenza dell’umanità, ma le peggiora sempre più.
La vita reale vissuta, e sofferta, dalle masse proletarie, per la classe dominante borghese non ha alternative: deve dipendere da un’economia che si regge esclusivamente sullo sfruttamento del lavoro salariato e sul dominio del capitale anche sul più remoto aspetto individuale dell’esistenza umana.
«La condizione più importante per l’esistenza e per il dominio della classe borghese è l’accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la moltiplicazione del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato», così recita il Manifesto di Marx-Engels verso la fine del cap. 1, «Borghesi e proletari». Parole scritte nel 1848, ma che leggono la realtà del capitalismo di oggi, a distanza di centosettantasette anni, senza aver sbagliato nulla. L’unica differenza rispetto ad allora è che i paesi di capitalismo sviluppato non sono più soltanto alcuni, come la Gran Bretagna, l’Europa continentale e gli Stati Uniti d’America di quel tempo, ma si sono moltiplicati, pur con ineguale sviluppo, al di fuori del continente europeo, nelle Americhe, nella Russia, nell’Oriente asiatico e nel Medio Oriente, nell’Oceania e in alcune parti dell’Africa.
Tale sviluppo non poteva verificarsi se non creando masse sempre più vaste di proletariato, perché condizione del capitale, e del suo sviluppo, è il lavoro salariato e, ovviamente, il suo ampliamento e l’intensificazione del suo sfruttamento. Un proletariato, d’altronde, che è sempre più «unisex», sempre meno solo maschile, ma che è costituito sempre più da masse femminili e adolescenziali. Per il capitale, l’allargamento del lavoro salariato alle masse femminili, e agli adolescenti, costituisce un enorme ampliamento del bacino di sfruttamento salariale, ma anche il radicamento della concorrenza tra proletari maschi e femmine, di istruzione, età, nazionalità e razze diverse. Ma, dialetticamente, come sottolineato da Lenin, costituisce anche l’aumento della forza sociale proletaria nella misura in cui lotta per le proprie rivendicazioni di classe insieme al proletariato maschile.
«Il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro», continua il Manifesto di Marx-Engels. Abbiamo evidenziato le due parole esclusivamente e concorrenza, perché sia ben chiaro che non solo la concorrenza tra proletari è perniciosa alle condizioni di vita e di lavoro proletarie, ma anche perché il lavoro salariato in quanto tale – ossia l’acquisto da parte del capitale della forza lavoro proletaria da impiegare sui mezzi di produzione e di distribuzione capitalistici – non è soltanto la fonte reale del dominio capitalistico sulla società, ma è anche la condizione sociale del lavoro umano che deve essere eliminata perché il lavoro umano si emancipi dal capitalismo. Perciò dove c’è lavoro salariato c’è capitalismo e non socialismo; c’è divisione in classi della società e non società socialista, che è la società senza classi.
Per giungere a un risultato storico come la fine del capitalismo e la trasformazione totale della società in una società non mercantile, non divisa in classe dominante e classi dominate, c’è soltanto una via: la rivoluzione della classe che nel capitalismo non ha nulla da guadagnare, nulla da conservare, ma che ha tutto da perdere, la classe del proletariato. Una classe che lo stesso capitalismo, ma per fini di esclusivo sfruttamento, ha dotato di una forza sociale ulteriore, la forza sociale delle lavoratrici, delle donne proletarie.
Oggi sarebbe ancora più assurdo di ieri separare i problemi del proletariato femminile da quelli del proletariato maschile. Per la borghesia la “questione femminile” è una questione separata da quella sociale generale; per i comunisti tutto ciò che riguarda la donna, e la donna proletaria in specie, fa parte della questione sociale, della questione del proletariato e della sua lotta di classe. Che la questione dell’emancipazione della donna dall’oppressione specifica che subisce nella società borghese in quanto donna, e cioè l’oppressione domestica nella ristrettezza dei rapporti familiari, sia una questione ha richiede delle risposte adeguate perché si lotti contro di essa, è un fatto che non si può negare. Ma, trattandola come una questione “a sé”, slegata da quella generale della lotta del proletariato per la propria emancipazione di classe, non ci si discosta di un millimetro dall’impostazione borghese dei problemi sociali, in questo caso dei “problemi della donna”. Non c’è dubbio che il riconoscimento di determinati diritti, ad esempio la parità tra uomini e donne, sia una rivendicazione di segno proletario e la lotta per ottenere dei risultati su questo terreno è una lotta doverosa (come lo è stata la lotta per la legge sul divorzio, e ancor più quella sul diritto all’aborto), come d’altra parte è doverosa la lotta per la parità salariale tra uomini e donne per lo stesso lavoro. Ma quel che è decisivo, per i comunisti e per la lotta di emancipazione generale del proletariato, è appunto la lotta, ossia l’unirsi e organizzarsi per la stessa lotta tra proletarie e proletari, perché è da questa lotta – riconoscendosi parte integrante della stessa classe – che nasce la solidarietà di classe, la capacità di lottare non solo uniti ma per obiettivi generali contro cui i proletari si trovano di fronte lo schieramento borghese al completo: forze economiche, sociali, intellettuali e armate. Questi diritti non li può concedere il singolo capitalista e nemmeno le associazioni padronali; li può concedere soltanto lo Stato ed è allora che il terreno del diritto diventa il terreno dello scontro di classe, della lotta di classe, dunque – in prospettiva – il terreno della rivoluzione. Sul terreno del diritto la borghesia vincerà sempre, anche quando è costretta dalla pressione dei movimenti sociali a concedere quel che non aveva interesse a concedere, sapendo che quelle concessioni, di per sé, non sconvolgono l’ordine costituito. Come, a suo tempo, il diritto all’istruzione venne concesso anche alle donne, così come il diritto di voto, il diritto di aprire e condurre un’attività economica, il diritto di intestarsi conti bancari, proprietà immobiliari ecc., così il diritto al divorzio piuttosto che all’aborto non hanno cambiato le leggi economiche che regolano la società capitalistica, né tanto meno il modo di produzione. La società è e resta capitalistica, i rapporti sociali sono regolati dal mercantilismo, la vita delle masse proletarie era e resta appesa alle esigenze del capitale e della sua valorizzazione: capitale e lavoro salariato rimangono saldamente le basi fondamentali della società borghese, e il proletariato, maschile e femminile, pur lottando perché tutta una serie di diritti gli vengano riconosciuti, rimane nella condizione di classe per il capitale, mentre la sua vita resta legata al buon o cattivo andamento dell’economia capitalistica, alle crisi che periodicamente sconquassano la società e alle guerre che gli Stati capitalisti si fanno – trasformando i propri proletari in carne da macello – per il solo fine di continuare a mantenere in vita lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la divisione della società in classi, l’accumulo di ricchezza prodotta dal lavoro del proletariato soltanto da parte dell’estrema minoranza dei capitalisti.
SENZA L'APPORTO DEL PROLETARIATO FEMMINILE LA LOTTA DI CLASSE NON POTRÀ SVILUPPARSI
Oggi, più di ieri, per la lotta di resistenza al capitale, il proletariato maschile ha sempre più bisogno dell’apporto del proletariato femminile che, a sua volta, da solo, non ce la farà mai a lottare contro l’oppressione domestica in cui inesorabilmente è costretto. Le proletarie più coscienti, più avanzate politicamente, sanno che il loro primo nemico non è il maschio, borghese o proletario che sia, ma è la classe borghese dominante costituita da borghesi maschi e femmine, che vivono sull’oppressione salariale del proletariato in generale e sull’oppressione domestica del proletariato femminile. Il proletariato femminile non è una classe a sé, è parte della classe proletaria e condivide storicamente lo stesso interesse a lottare contro la società borghese nel suo insieme. L’influenza che l’ideologia e la politica della borghesia esercitano sulle masse proletarie si fonda sul dominio economico e sociale con cui la borghesia governa la sua società; e grazie a questa influenza, nel proletariato si è radicata, per generazioni, la convinzione che non ci sia altra alternativa a una società fatta di ricchi e di poveri, di lavoratori e di capitalisti, e che la sopravvivenza sia un problema che ogni individuo deve risolvere per conto proprio.
In una società del genere, la propaganda borghese dà per scontato che esistano i fortunati e gli sfortunati, i ladri, i violenti, i pacifici, i criminali, gli onesti, gli approfittatori, i consolatori, i deboli, i forti, i disoccupati, gli emarginati, gli immigrati, i soldati, gli aguzzini; dà per scontato che vi siano gli infortuni sul lavoro con relative morti e la violenza sulle donne; dà per scontato che la donna, in generale, e le donne proletarie in particolare, siano considerate il “sesso debole”, abbiano necessità di essere protette dal male del mondo e da loro stesse a cui soltanto il maschio può provvedere, e che esistano, in sostanza, non solo per mettere al mondo figli ma anche per essere l’oggetto del desiderio del maschio. La propaganda borghese, oltre a insistere su canoni di bellezza ai quali le donne devono attenersi per poter essere prese in considerazione come persone, insiste anche sul fatto che le donne, per “emergere” rispetto all’intera popolazione femminile e per farsi “rispettare” dagli uomini, non solo devono assomigliare il più possibile agli uomini, quanto a carattere, volontà, ambizioni, sprezzo del pericolo e cattiveria, ma devono nello stesso tempo mantenere la loro femminilità, la loro docilità nei rapporti coi maschi, la loro tendenza a perdonare i maschi – figli, mariti, padri, compagni che siano – tutte le volte che essi agiscono da loro padroni, da loro proprietari, pretendendo assoluta ubbidienza e sottomissione.
La società borghese, come giustifica la violenza del suo sistema economico e sociale, così è pronta a giustificare la violenza delle sue istituzioni tutte le volte che esse sono chiamate a difendere il regime sociale e politico che la borghesia si è data, soprattutto dalla classe proletaria che è l’unica che può mettere in pericolo, se scende sul terreno della lotta di classe, l’ordine costituito. L’ordine costituito, in realtà, non è che il tentativo di regolamentare il disordine sociale in cui è costretta a vivere la maggioranza della popolazione; un disordine che, riguardo la popolazione femminile, è ancora più drammatico proprio perché la donna, una volta che è stata strappata dalla ristretta cerchia familiare e domestica finendo a lavorare nelle fabbriche, nelle aziende di qualsiasi settore, negli uffici pubblici e privati, e dotandosi di un’istruzione che in tempi lontani le era impedita, si è resa conto che il suo destino può essere quello di condividere, con gli uomini, la vita sociale nella quale agire con le proprie capacità fisiche e facoltà intellettuali, alla pari con gli uomini, e non essere costretta a rinchiudere la propria vita nelle quattro mura di casa entro le quali, invece, la società borghese tende a riportarla costantemente perché sa che più la donna rimane legata alla famiglia, alla cura della casa e dei figli, e più l’ordine sociale borghese ne beneficia. Il fatto che la donna ormai lavori nella produzione, nella distribuzione, nell’istruzione, nell’amministrazione e da molti decenni anche nella polizia e nell’esercito, come fosse un uomo, non l’ha «liberata» dall’oppressione domestica e da tutto ciò che tale oppressione comporta, compreso il fatto di essere considerata proprietà privata del maschio; anzi, come detto dai comunisti rivoluzionari fin dai tempi di Marx ed Engels, all’oppressione domestica che dura da qualche millennio si è aggiunta, nell’era moderna, l’oppressione salariale, la costrizione a vendere la propria forza lavoro ai capitalisti, come succede ai proletari maschi. Tali oppressioni producono degenerazione sia in ambito sociale che in ambito familiare e personale, inducono a reagire con violenza alle insoddisfazioni e all’insicurezza della vita, e le reazioni violente iniziano inevitabilmente negli ambiti familiare e personale nei quali la parte socialmente più debole è la donna.
Ma i problemi che nascono nella vita familiare e personale non potranno mai essere risolti se non dal punto di vista sociale, perché essi sono generati dai rapporti di produzione e di proprietà borghesi che sono i rapporti su cui si fonda l’intera società. Ovvio che la borghesia riporti costantemente i problemi sociali a livello dell’individuo; la sua ideologia basa la sua forza proprio sull’individuo, su quello che l’individuo pensa, fa, immagina, costruisce o distrugge. In questo modo la causa sociale, ossia dell’organizzazione sociale capitalistica, scompare dal radar, e tutto viene ridotto alla volontà e alla ragione del singolo individuo. Ma è la stessa organizzazione economica capitalistica, base della società borghese, ad aver trasformato quella che era l’economia parcellare, l’economia personale o familiare dell’artigianato e del contadiname in economia sociale, creando in questo modo, vista la sopravvivenza della proprietà privata e della divisione in classi della società, le contraddizioni economiche e sociali storicamente più acute di sempre. La società borghese non sfugge alla sue contraddizioni: le crea e le ricrea continuamente a livello sociale e internazionale e le fa ricadere con tutti i suoi effetti negativi nella famiglia, nella vita domestica, nei rapporti tra i sessi e personali. La soluzione delle contraddizioni sociali non potrà mai nascere dalla famiglia, né tantomeno dal singolo individuo; può nascere soltanto dal movimento sociale della classe che in questa società non ha nulla da perdere perché nulla possiede, dal movimento della classe proletaria che un tempo era necessariamente maschile, ma che nell’era moderna si è allargato alla popolazione proletaria femminile.
Perché il movimento dei proletari e delle proletarie raggiunga forza sociale è necessario che ci si riconosca come un unico movimento di classe che lotta per obiettivi e finalità che non fanno distinzione tra i sessi e che prevedono necessariamente, dopo l’abbattimento del potere borghese, la trasformazione sociale che distrugga la famiglia borghese e il suo corredo di oppressione domestica, riconoscendo nei fatti, e non solo a parole, pari diritti tra uomini e donne. Perché ciò avvenga, si deve iniziare col rendere pubblici i lavori domestici, a cominciare dalle mense, dalle lavanderie pubbliche e dagli asili d’infanzia, come aveva cominciato a mettere in pratica la rivoluzione d’ottobre del 1917 in Russia, e liberando i rapporti tra i sessi dalla burocrazia e dagli obblighi previsti dalla famiglia monogamica, dalla proprietà privata e dai “diritti” di eredità, abolendo, invece, ogni restrizione dei diritti della donna e ampliando, ad esempio, il diritto al divorzio, come all’unione tra i sessi, prevedendo una semplice formalità; quanto ai figli “legittimi” e “illegittimi” era stata abolita per legge ogni differenza. Avviare in questo modo la trasformazione della società non può che iniziare abolendo la proprietà privata; ma questo intervento, del tutto dispotico perché contrario al fondamentale principio borghese della proprietà privata (si tratti di mezzi di produzione, prodotti, terra, immobili, capitali, invenzioni o proprietà intellettuale) può essere messo in pratica soltanto dal potere dittatoriale della classe proletaria, della classe dei produttori dell’intera ricchezza sociale di cui, nel capitalismo, si appropria esclusivamente la classe dominante borghese che, oltretutto, rappresenta la minoranza assoluta della popolazione. Un potere dittatoriale che ha il compito di intervenire drasticamente sull’intero sistema economico e nei rapporti di produzione e sociali tenendo conto dell’effettivo sviluppo economico e sociale dei paesi in cui la rivoluzione proletaria ha vinto, sapendo che la trasformazione sociale generale non potrà che attuarsi completamente in tempi lunghi. Tempi in cui, oltre al sostegno dei movimenti proletari rivoluzionari nei paesi ancora sottoposti al dominio della borghesia capitalistica, e alla difesa del potere nel paese o nei paesi in cui la rivoluzione ha vinto, il potere proletario dovrà combattere strenuamente contro le vecchie abitudini sociali e le vecchie tradizioni culturali e religiose che inevitabilmente continueranno a influenzare le generazioni presenti e successive e che potranno essere vinte completamente soltanto in virtù delle nuove abitudini e delle nuove tradizioni che si innesteranno nella vita sociale grazie alla trasformazione economica e sociale attuata dalla rivoluzione proletaria e socialista.
L’ineguale sviluppo del capitalismo nei diversi paesi determina, in genere, un’ineguale reazione alle oppressioni che il capitalismo esercita sulle popolazioni; ciò non significa – come ha dimostrato la storia del movimento proletario rivoluzionario – che il proletariato dei paesi capitalisticamente più avanzati sia automaticamente il più avanzato dal punto di vista della lotta di classe. La prima guerra imperialistica mondiale ha provocato forti reazioni, ad esempio, nel proletariato tedesco, in quello ungherese, in quello italiano, cioè nei paesi che dal punto di vista capitalistico si sono sviluppati molto dopo la Gran Bretagna, la Francia e gli Stati Uniti, nei quali la borghesia dominante ha avuto più tempo e più mezzi a disposizione per alimentare la concorrenza tra proletari e per attrarre nel campo della democrazia e della difesa degli interessi nazionali borghesi, attraverso le forze dell’opportunismo operaio, una parte consistente dei propri proletariati. Quanto al proletariato russo, creato da un capitalismo molto giovane, separato dallo sviluppo dell’Europa occidentale, in un territorio vastissimo dove le masse contadine costituivano la stragrande maggioranza della popolazione, è stato protagonista di un movimento rivoluzionario che ha sorpreso molto non solo la borghesia russa e la borghesia di tutto il mondo, ma anche i partiti e i sindacati operai d’Europa e d’America. I fattori oggettivi favorevoli alla lotta di classe in Russia, in line generale sono stati: la grande concentrazione dei proletari nelle industrie, soprattutto a Pietrogrado e a Mosca, l’esperienza delle lotte da cui sorsero i soviet durante la guerra russo-giapponese del 1905, il contemporaneo movimento contadino spinto a liberarsi dai vincoli e dalle ristrettezze imposte dallo zarismo ormai in declino, l’indebolimento reale del potere zarista, indebolimento al quale aveva contribuito la stessa partecipazione alla guerra imperialista con tutte le sue drammatiche conseguenze per le masse contadine e proletarie e le masse dei soldati. E il fattore soggettivo principale è stata la presenza e l’attività del partito bolscevico di Lenin, formatosi non solo sulle basi teoriche del marxismo originale, ma anche sull’esperienza politica maturata in Europa durante l’esilio forzato, grazie alle quali ha potuto prevedere che la rivoluzione che si presentò sulla scena storica aveva una duplice caratteristica, quella della rivoluzione borghese, antifeudale e antizarista, e quella della rivoluzione proletaria e comunista data la presenza di basi economiche e sociali capitalistiche che avevano permesso la formazione di un proletariato concentrato, organizzato e politicamente combattivo. Ciò che avrebbe potuto verificarsi – come atteso da Marx ed Engels all’epoca del Manifesto – in Germania nel 1848 dove si erano presentate le condizioni storiche che si presenteranno in Russia nel 1914-1917, si verificò appunto in Russia, e non per una strana fatalità della storia, ma per il formidabile sommovimento di forze storiche spinte «dagli urti delle nuove forze produttive che urgono contro le rete delle vecchie forme sociali che vacillano»; è allora che «l’atmosfera storica, il magma sociale umano, si presentano ionizzati», «tutto è polarizzato tra due orientamenti inesorabili e antagonisti, ogni elemento del complesso sceglie il suo polo e si precipita nello scontro con quello opposto, finisce il mortifero dubbio, va a ignobilmente farsi fottere ogni doppio gioco, l’individuo-molecola-uomo corre nella sua schiera e vola lungo la sua linea di forza, dimentico finalmente di quella patologica idiozia che secoli di smarrimento gli decantarono quale libero arbitrio!» (12). In questo straordinario sommovimento di forze storiche, tra lo sviluppo delle forze produttive e la rete delle forme sociali che le frenano e le costringono a indietreggiare dallo sviluppo si svolge uno scontro che da solo, in quanto tale, non risolve la grande contraddizione storica che ha portato a quello scontro. Tale scontro «chiede» una direzione cosciente, una prospettiva già definita in cui le straordinarie forze che si sono messe in movimento vengano incanalate perché non perdano il loro vigore e perché gli ostacoli che il capitalismo ha eretto a propria difesa vengano abbattuti. Quella direzione cosciente, quella prospettiva già definita, devono esistere prima della «ionizzazione» delle forze produttive e del loro scontro con le forme sociali che non riescono più a contenerle, ed è soltanto il partito di classe, il partito comunista rivoluzionario che le rappresenta, costituendo esso stesso una forza storica con una qualità speciale: è allo stesso tempo prodotto e fattore della storia, perché rappresenta l’esperienza storica della lotte fra le classi, delle loro vittorie e delle loro sconfitte in tutte le società divise in classi finora esistite, compresa la società capitalistica e, nello stesso tempo, prevede e anticipa il corso storico successivo dello sviluppo della forze produttive.
* * *
Abbiamo iniziato questo articolo citando Trotsky e la sua Storia della rivoluzione russa, e Lissagaray e la sua Storia della Comune di Parigi, mettendo in evidenza come in entrambe il via alla rivoluzione proletaria è stato dato, durante la guerra fra potenze borghesi, dalle donne del proletariato. Non è affatto escluso che la prossima rivoluzione proletaria veda nuovamente le donne proletarie a dare il via a un movimento rivoluzionario in opposizione alla guerra fra le potenze borghesi, reagendo non solo al supersfruttamento a cui saranno sicuramente sottoposte mentre i loro mariti, i loro figli, i loro fratelli, costretti a far la guerra e a massacrarsi per conto delle rispettive borghesie, non sono in grado di reagire a causa delle condizioni di repressione costante da parte degli ufficiali; ma reagendo anche alla repressione militare esercitata nelle caserme, nelle trincee, negli spostamenti di truppe, fornendo in questo modo un’alternativa concreta a cui i soldati possono collegarsi, dando loro forza e sostegno che dall’interno delle forze militari difficilmente posso generarsi.
In un periodo in cui le crisi del capitalismo si sommano una all’altra e le borghesie degli Stati imperialisti più potenti si armano e si preparano sempre più in vista di una terza guerra mondiale, il proletari in generale, e le donne proletarie in particolare, devono rimettere in primo piano gli interessi della loro classe, devono riconquistare e rimettere in movimento la forza sociale che essi rappresentano e che ogni borghesia sfrutta, con ogni mezzo, anche i più violenti e distruttivi, pur di salvare il proprio potere politico e il sistema economico e sociale capitalistico dal quale trae potere e privilegi. I sacrifici che il capitalismo in crisi impone alle masse proletarie non spariranno né con la democrazia, né con le riforme e la pace borghesi, né tantomeno con la guerra borghese; diverranno sempre più pesanti e insopportabili. Se i proletari e le proletarie non scenderanno sul terreno della lotta di classe, non solo quei sacrifici diverranno la norma nella loro vita, ma dovranno sacrificare sull’altare del Capitale figli e figlie per generazioni.
Cosa significa oggi la guerra borghese e imperialista ogni proletario, ogni proletaria può vederlo con i propri occhi: basta guardare cosa sta succedendo alla popolazione palestinese di Gaza, massacrata non perché «sostiene» Hamas, ma perché non si vuole piegare agli interessi di Israele, perché non intende ritirarsi da quella terra, ragion per cui gli israeliani vogliono annettersi Gaza (e domani la Cisgiordania), il suo suolo e sottosuolo e il suo mare liberandosi di ogni opposizione, di ogni intralcio. Donne, bambini, vecchi, ospedali, scuole, abitazioni civili, tendopoli, tutto quel che si muove, tutto quel che assomiglia a un riparo, tutto deve essere raso al suolo. Che hanno fatto gli americani a Hiroshima e a Nagasaki nel 1945? Che hanno fatto gli inglesi a Dresda, sempre nel 1945? E che hanno fatto i serbi a Srebrenica nel 1995 e i russi, in Ucraina, ad esempio a Bucha nel 2022? Per non parlare dei massacri di oppositori attuati dalle dittature militari in Cile, in Argentina, e in cento altri paesi d’Africa e d’Asia... Il capitalismo parla di pace ma fa la guerra; la borghesia parla di diritti ma li viola sistematicamente, indice «giornate mondiali» contro la violenza sulle donne, con la stessa ipocrisia e lo stesso cinismo con cui le religioni rivolgono preghiere ai loro dei perché portino pace e benessere in terra mentre condividono il potere dei soldi, dei capitali e lo sfruttamento del lavoro salariato.
La fine delle oppressioni, delle atrocità, della miseria, dello sfruttamento del lavoro salariato di uomini e donne sarà opera soltanto della rivoluzione del proletariato mondiale alla quale dovrà partecipare direttamente anche il proletariato femminile che lo stesso capitalismo sviluppato ha ormai equiparato al proletariato maschile. La lotta di classe del proletariato, a differenza della lotta della borghesia a difesa dei suoi interessi di classe, non conosce differenza di sesso, come non conosce differenza di età, di nazionalità, di razza.
(1) Cfr. Lev Trotsky, Storia della rivoluzione russa, Sugar Editore, 1964, pp. 123-124.
(2) Cfr. P. O. Lissagaray, Storia della Comune, Editori Riuniti, 1962, pp, 108-109.
(3) Cfr. L. Michel, La Comune, Edizioni Clichy, 2021, p. 262.
(4) Cfr. F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Prefazione del 1884, in F. Engels, Scritti, maggio 1883-dicembre1889, edizioni Lotta Comunista, 2014, pp. 29-30.
(5) Cfr. Lenin, Lo sviluppo del capitalismo in Russia, 1899, Opere, vol. 3, Editori Riuniti, 1956, p. 553.
(6) Ibidem.
(7) Frase citata da Engels, riprendendola da un vecchio manoscritto del 1846 sull’Ideologia tedesca, in L’origine della famiglia..., cit. p. 65.
(8) Ibidem.
(9) Cfr. Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, II. Proletari e comunisti, G. Einaudi Editore, 1962, pp.153-154.
(10) Cfr. A. Bebel, La donna e il socialismo, Parte seconda, “La donna nel presente”, cap. La condizione economica della donna. Sua capacità intellettuale. Il darwinismo e le condizioni sociali, Savelli Reprint, Roma 1977, p. 239. Vedi la versione pdf in https://www.pcint.org, (Biblioteca del marxismo rivoluzionario)
(11) Ibidem, p. 243.
(12) Cfr. “Ionizzazione” della storia, capitoletto n. 119, in Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, “Parte prima: Lotta per il potere nelle due rivoluzioni”, edizioni il programma comunista, Milano 1976, p. 246.
Partito Comunista Internazionale
Il comunista - le prolétaire - el proletario - proletarian - programme communiste - el programa comunista - Communist Program
www.pcint.org