Che cos’è il proletario?
Che cosa deve diventare?
(«il comunista»; N° 186 ; Marzo-Aprile 2025)
Il proletario è il lavoratore salariato che la borghesia capitalistica sfrutta in qualsiasi attività di produzione e di distribuzione e di ogni loro organizzazione e amministrazione; ha un'accezione più ampia del termine operaio col quale si intende solitamente il lavoratore di fabbrica. Un'efficace sintesi della nostra concezione del proletariato la dà l'articolo di fondo del primo numero a stampa del nostro giornale in lingua francese Le Prolétaire uscito nel 1964.
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In realtà, la condizione di proletario è definita non da un «certo livello di vita», ma da una dipendenza completa dal Capitale. Intollerabile come in periodo di crisi o di guerra, o relativamente sopportabile come in periodo di prosperità, la vita dell’operaio è in ogni caso determinata, in tutti i suoi aspetti, non dalle «risorse della società» in generale, ma delle esigenze della produzione del profitto. In altri termini, il capitalismo imprigiona l’operaio entro confini più o meno angusti a seconda che sia più o meno sviluppato, più o meno ricco e potente; ma, all’interno di questi confini, la vita dell’operaio è contrassegnata in tutte le sue manifestazioni dal fatto di non avere altra ragion d’essere che di produrre, riprodurre e accrescere il capitale. Nei paesi ricchi non meno che nei paesi poveri, egli non è sicuro dell’avvenire, perché lo stesso capitalismo non è mai sicuro di potersi sviluppare senza scosse, senza crisi, senza conflitti di ogni sorta.
La condizione proletaria risiede in questa dipendenza, che il «progresso» non attenua per nulla. Senza dubbio, in ogni stadio del suo sviluppo, la specie umana è sottomessa alla natura in generale, in gradi che d’altronde variano con la tecnica e la scienza ch’essa ha accumulato. Ma la dipendenza in cui si trova il proletariato è di tutt’altra natura: essa non può essere giustificata dai «limiti della potenza umana» in generale, perché deriva da una divisione della società in classi non più necessaria oggi che la «potenza umana», cioè la produttività del lavoro, è divenuta enorme. E’ una schiavitù sociale: punto e basta.
Le prove? Sono innumerevoli. Si prendano per esempio la durata e l’intensità del lavoro. Dipendono esse, a un momento dato, dalle risorse tecniche della società? Sono queste risorse sfruttate in rapporto ai bisogni sociali? Affatto. Le aziende-giganti del capitalismo contemporaneo lavorano molto al disotto della loro capacità produttiva, periodicamente interi settori dell’economia rasentano la sovraproduzione: quanto alla durata del lavoro, essa è diminuita di ben poco in tutta la storia del capitalismo, è aumentata in rapporto a periodi anteriori recenti, e, in ogni caso, la sua diminuzione globale è più che compensata dall’intensità accresciuta del lavoro. Oggi come ieri, la parte più preziosa della vita dell’operaio si consuma nel generare profitto per il capitalista. Ne genera più a lungo perché vive di più: punto e basta.
Tutte le altre «condizioni di vita» che borghesi e opportunisti giurano di voler migliorare senza toccare il capitale, dipendono tuttavia interamente dalla organizzazione capitalistica della società. Prendiamo la casa, che è una delle più importanti. Filantropi e riformisti menano gran scalpore del fatto che gli operai d’oggi abbiano lasciato i buchi e le spelonche del secolo scorso per installarsi in case più o meno decorose, perfino dotate delle comodità e degli ornamenti che agli occhi di un bigottismo familiare e domestico di carattere squisitamente borghese sono i beni supremi ai quali l’uomo possa aspirare.
E’ vero che lo stesso sviluppo del capitalismo ha strappato gli operai a quelle specie di ghetti sociali in cui essi un tempo vegetavano; ma insieme ha fatto dell’intera estensione delle città un gigantesco ghetto per il cittadino in genere, perduto in un’anarchia crescente e asfissiato da un’aria sempre più mefitica. Bel progresso davvero!
La «cultura» è sempre il tema preferito degli avvocati del capitalismo: «Ieri analfabeta, l’operaio “dispone” oggi del giornale e del libro a buon mercato, della televisione, della radio e, come se non bastasse, della scuola fino ai sedici anni; non è una emancipazione, questa?». No, non è l’operaio che dispone dei «mezzi di cultura»; è la borghesia che dispone dell’operaio mediante la cultura vera o falsa. Tutti questi mezzi non diffondono se non i sottoprodotti culturali che, su un mercato in cui lo sfruttamento domina, trovano il più facile sbocco; per tacere della decadenza manifesta della cultura borghese, scienza o arte che sia! Da qualunque parte ci si giri, si vede che il famoso «progresso» non attenua, ma rafforza, la dipendenza del lavoro verso il capitale.
Che cosa deve diventare la classe dei proletari, moderni schiavi del Capitale? La risposta marxista è rivoluzionaria: essa deve scomparire. Non essere «incivilita», «culturalmente e moralmente elevata», materialmente ingrassata, cioè imborghesita; no, abolita. Ma dire che il proletariato deve scomparire, è dire che il capitalismo deve essere distrutto. Non migliorato, regolarizzato, rinsavito – tutte cose, d’altronde, impossibili – ma spazzato via in modo rivoluzionario. Non solo il proletariato, ma tutta la società vive oggi non «secondo i suoi mezzi», ma nei limiti in cui il Capitale la rinchiude. Si strappino al Capitale tutti gli strumenti produttivi e il monopolio della scienza, per consegnarli alla società sbarazzata dalla classe borghese, e la società potrà finalmente vivere «secondo i suoi mezzi», e il proletario, per ciò stesso, scomparire. Tale il programma comunista: una società in cui le classi tendono a scomparire, cioè in cui gli individui sono progressivamente liberati dalla barbara divisione capitalistica del lavoro, che condanna dei gruppi sociali alla decadenza fisica ed altri alla decadenza intellettuale, ma tutti ad un’esistenza sociale intisichita e a una visione ferocemente egoistica della vita in società.
Una simile rivoluzione sociale è impossibile finché la borghesia domina di fatto lo Stato e l’amministrazione, pur pretendendo che essi siano ciò che la maggioranza ha voluto e che agiscano per il bene di tutti; finché ha tutti i mezzi d’inculcare nello stesso tempo la sua morale ascetica e la sua filosofia grossolanamente egoistica e «materialistica» della vita; finché soprattutto dispone dell’esercito, della polizia, dei tribunali, per reprimere qualunque tentativo di emancipazione.
Bisogna, perché questa rivoluzione si compia, che la grande borghesia sia impedita di governare, di amministrare, di predicare, di insegnare e di reprimere, e la piccola borghesia di recriminare, di resistere, si sabotare. Il regime capace di raggiungere questi obiettivi non può essere una democrazia, neppure di «tipo nuovo», con un parlamento, un pluripartitismo, e quindi dei tornei oratori e una concorrenza politica sia pure di «tipo nuovo». Questo regime è la dittatura del proletariato. Tutto ciò che ne possiamo dire è che, conformemente alle sue finalità di rivoluzione sociale, la sua preoccupazione non sarà di «assicurare la libertà», ma di concentrare il potere nelle mani delle forze veramente rivoluzionarie; che il suo obiettivo non sarà la realizzazione di una «vera giustizia» fra gruppi sociali disparati oggi diseguali, ma l’abolizione delle differenze sociali, l’eliminazione della patologica civiltà di classe; insomma, la messa al mondo della prima società omogenea e fraterna della storia.
La dittatura del proletariato, ecco l’unico mezzo di cui gli schiavi del capitale dispongono per emanciparsi dalla propria schiavitù.
La costituzione in partito rivoluzionario, ecco il loro unico mezzo per giungere a questa dittatura!
Tali le finalità politiche che il nostro Partito persegue, e che lo distinguono da tutti gli altri. Quanto al programma assurdo che vorrebbe l’abolizione del proletariato senza l’abolizione del Capitale, e alla sciocca pretesa di aver soppresso il proletariato quando il capitale non è mai stato così forte, il nostro Partito li lascia tranquillamente al cinismo borghese, al servilismo riformista e all’incomparabile idiozia dell’opportunismo. Senza lasciarsi né accecare né deprimere dal luccichio fittizio del «progresso» borghese contemporaneo, esso continua a difendere il programma più che secolare ed insostituibile della rivoluzione proletaria e del comunismo.
Partito Comunista Internazionale
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