Il 19 gennaio, 468 giorni dopo il 7 ottobre 2023, è entrato in vigore il fatidico «cessate il fuoco» a Gaza, reso possibile dall’ascesa di Donald Trump alla Casa Bianca – o almeno così hanno riportato i media mainstream internazionali

(Supplemento Gaza e Cisgiordania  a «il comunista» N° 186  -  Marzo – Aprile 2025 )

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L’incursione armata del 7 ottobre da parte delle milizie guidate da Hamas ha causato oltre 1.200 morti e la cattura di 250 ostaggi destinati a fungere da merce di scambio. Alla radice degli attacchi palestinesi contro gli israeliani e dei massacri perpetrati da Israele contro i palestinesi si trova l’antica e ancora irrisolta «questione nazionale» palestinese. e anche il desiderio delle potenze imperialiste vittoriose dopo la seconda guerra mondiale di trovare un solido appiglio filo-occidentale nel Vicino e Medio Oriente: era necessario soffocare le aspirazioni indipendentiste di una regione troppo ricca di petrolio, troppo vicina all’Asse nazi-fascista durante la guerra, troppo riluttante a conformarsi alle regole economiche e sociali di un capitalismo assetato di materie prime, territori economici e colonie.

Per dominare le popolazioni arabe e musulmane, gli imperialisti britannici, francesi e americani non si accontentarono di investimenti, occupazioni militari e del reclutamento al loro servizio – promettendo loro protezione, capitali e relazioni politiche privilegiate – di tribù o popolazioni in conflitto con altre; gettarono sulla scacchiera mediorientale una carta che si rivelò ben più utile e fedele di qualsiasi tribù o popolazione locale: il sionismo.

Cosa c’è di meglio di un popolo che, come gli ebrei, può rivendicare origini storiche in Palestina, unito dalla religione e che, dopo secoli di persecuzioni e pogrom, desidera ardentemente un territorio riconosciuto a livello internazionale dove poter finalmente risiedere? Un popolo verso il quale i vincitori della Seconda Guerra Mondiale avevano tutto l’interesse a mostrare condiscendenza e protezione postuma di fronte allo sterminio inflitto dai nazisti, che non erano riusciti a fermare, pur sapendo esattamente cosa stava accadendo nei campi di concentramento.

Nel 1948, lo Stato di Israele fu riconosciuto dalla Società delle Nazioni (poi ONU), dopo un periodo di disordini durante il quale le masse di ebrei provenienti dai paesi europei si scontrarono con i palestinesi che vi avevano sempre vissuto. Da allora, l’illusione di dividere la Palestina in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo, è sempre stata alimentata, ma lo Stato di Palestina non vedrà mai la luce. La nascita dello Stato di Israele non pose fine alla guerra tra ebrei e palestinesi; per diversi decenni, questi ultimi sono stati ingannati dai paesi arabi che pretendevano di costringere Israele ad accettare l’esistenza di uno Stato palestinese. Di fatto, Israele, sempre vittorioso nelle guerre contro i paesi arabi (Egitto, Siria, Libano), ha esteso i propri confini fino alla Cisgiordania, a Gaza e alle alture del Golan, contando sul fermo sostegno politico, finanziario e militare dei paesi dell’Europa occidentale e, soprattutto, degli Stati Uniti, di cui è diventato il braccio armato nel Medio Oriente musulmano. I governi israeliani hanno sempre aspirato a costruire una patria ebraica su tutta la Palestina, dominando una popolazione araba che si sarebbe ridotta a poche centinaia di migliaia di persone. La favola dei «due popoli, due Stati» propagata dalle potenze imperialiste serve solo a mantenere l’illusione di una soluzione democratica. Centinaia di migliaia di proletari palestinesi hanno versato il loro sangue per ottant’anni per questa illusione e continuano a versarlo in nome di uno Stato che non vedrà mai la luce, né attraverso le azioni dell’ANP in Cisgiordania, né attraverso quelle di Hamas o del movimento che la sostituirà a Gaza.

L’era delle rivoluzioni borghesi, in cui i popoli di un dato territorio, condividendo la stessa lingua e gli stessi costumi, potevano imporre la fondazione di Stati indipendenti attraverso l’insurrezione armata contro le potenze coloniali, è finita. Il capitalismo ha raggiunto una fase, la fase imperialista, che può essere rovesciata solo dalla rivoluzione proletaria comunista. Fu il caso della Rivoluzione d’Ottobre del 1917; ma nel decennio successivo non riuscì a diffondersi in Europa, tanto meno in America, impedendo così alla rivoluzione proletaria di internazionalizzarsi. 

La controrivoluzione sventò l’Ottobre bolscevico, i tentativi rivoluzionari in Germania, Ungheria e, più tardi, in Cina, conducendo il mondo borghese al secondo massacro imperialista globale. Nel secondo dopoguerra, approfittando della crisi capitalista, le lotte anticoloniali ebbero indubbiamente risultati positivi, ma non furono coronate da successo ovunque, e in Palestina, non lo furono affatto. La nascita di Israele non è dovuta a una classica rivoluzione borghese, ma a una «rivoluzione» avviata dall’alto dalle potenze imperialiste utilizzando una popolazione importata appositamente a questo scopo. Non si è trattato semplicemente di insinuare un cuneo in territorio ostile, ma di soggiogare il popolo palestinese sottomettendolo agli interessi nazionali israeliani e trasformandolo in larga parte in proletari; proletari non solo dal punto di vista delle condizioni economiche, quindi senza riserve, in possesso solo della propria forza lavoro, ma anche senza patria, il che, da un punto di vista ideologico borghese, è un fatto negativo, ma da un punto di vista comunista proletario, è un fatto storico altamente positivo.

La guerra che Israele ha scatenato a Gaza e che scatenerà domani in Cisgiordania, con tempi e violenza diversi, mira non solo a colpire le milizie di Hamas a causa del massacro del 7 ottobre, ma anche a porre la popolazione di Gaza oggi e della Cisgiordania domani in una situazione di perenne sfollamento. È qui che convergono gli obiettivi di Israele e quelli degli Stati Uniti, obiettivi mai nascosti da Netanyahu, occultati da Biden, ma proclamati da Trump con la sua solita vanteria: costringere i palestinesi a fuggire in Giordania o in Egitto e trasformare Gaza, con le sue splendide spiagge, in una meta turistica per i ricchi del mondo, e la Cisgiordania in una regione che Israele chiama già Giudea e Samaria.

La demografia è sempre stata uno dei problemi di Israele; il suo obiettivo è che la popolazione ebraica costituisca una schiacciante maggioranza rispetto a una popolazione arabo-israeliana limitata, al massimo, a un quinto della popolazione totale. La stima più recente della popolazione di Israele (2024) è di 9.880.000 persone, inclusi 1,9 milioni di arabi israeliani, in linea con questa proporzione. Per i palestinesi, le cifre più recenti (2023) indicano 2,2 milioni a Gaza, poco meno di 4 milioni in Cisgiordania, a cui si aggiungono i circa 4 milioni di rifugiati in Giordania, la maggior parte dei quali aspira a tornare in Palestina, il che rappresenta un problema permanente per Israele. Oltre a Israele, è Trump a plasmare il futuro dei palestinesi attraverso la migrazione forzata verso i paesi arabi confinanti.

La pace che Trump e Netanyahu immaginano, al di là della pace dei cimiteri, è quella di una popolazione allontanata – se non deportata – dalla propria terra d’origine, schiava degli interessi capitalistici di Israele e dei paesi che si assumerebbero il compito di gestire i migranti palestinesi all’interno dei suoi confini, magari in cambio del pagamento di qualche miliardo di dollari, come fece la Germania di Merkel con la Turchia per i rifugiati provenienti dal Medio Oriente. 

L’attuale tregua nei bombardamenti di Gaza – ma le armi non tacciono in Cisgiordania, amministrata dall’ANP, che si è unito all’esercito israeliano nella caccia ai «terroristi» palestinesi, come se i soldati israeliani e gli ufficiali di polizia dell’ANP non fossero terroristi di Stato – ha portato al ritorno di centinaia di migliaia di palestinesi sfollati dal sud al nord, dove un tempo vivevano e dove, per il 90% di loro, troveranno solo macerie come case. Ma il loro attaccamento alla terra e la loro determinazione a non lasciarsi completamente schiacciare dalla cieca violenza israeliana sono tali che affermano di voler ricostruire ciò che è stato distrutto dalla guerra per non andarsene all’estero, come se una volta lasciata Gaza non potessero più farvi ritorno. È certo che la tenacia con cui i palestinesi lottano per rimanere sulla loro terra non è un piccolo ostacolo per la borghesia israeliana. 

D’altra parte, per la borghesia di Gaza, i cui interessi sono divisi tra Hamas, l’ANP e altri movimenti anti-israeliani sostenuti dai paesi mediorientali, l’attaccamento dei palestinesi alla propria terra è un mezzo per legare i proletari agli interessi della borghesia, sia che si venda agli imperialisti e alla borghesia israeliana, sia che faccia affidamento su altre forze, come l’Iran.

In un modo o nell’altro, i proletari palestinesi non possono sfuggire alla spirale sempre più drammatica dei conflitti interborghesi e interimperialisti che si concentrano in Medio Oriente e tendono ad acuirsi sempre di più. La storia dei conflitti interstatali e delle lotte di classe li pone oggettivamente di fronte a un dilemma: abbracciare gli interessi della propria borghesia nazionale e fungere da carne da cannone non solo per la borghesia israeliana, ma anche per le opposte fazioni borghesi palestinesi; oppure abbracciare la causa della propria classe e lottare per organizzarsi indipendentemente da qualsiasi interesse borghese, interno o esterno, cercando solidarietà non con le borghesie arabe, islamiche o meno, presumibilmente amiche o temporanee nemiche di Israele, ma con i proletari con cui condividono la stessa lingua, i medesimi costumi, le stesse condizioni di sfruttamento e gli stessi interessi di classe immediati.

Questa è una prospettiva che oggi appare molto lontana, persino impossibile, non solo per il proletariato palestinese, ma anche per l’intera regione mediorientale. In realtà, questa sembra una strada irrealizzabile anche per i proletari d’Europa, degli Stati Uniti, della Russia, della Cina e dei paesi di tutto il mondo, dato il disastroso naufragio della causa di classe del proletariato internazionale causato dalla controrivoluzione, i cui effetti nefasti si fanno sentire da quasi cento anni. Ma mentre sviluppa al massimo il suo carattere oppressivo, violento e schiacciante, mentre si presenta con grande sicurezza come invincibile, il capitalismo continua a generare fattori di crisi sempre più profondi e diffusi: prima o poi, questi serviranno da base per la reazione positiva e di classe del proletariato, indipendentemente dal paese da cui partirà l’incendio sociale.

 

27 gennaio 2025

(«le prolétaire»; n. 556; febbraio-marzo 2025)

 

  

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