Medio Oriente, arena in cui la normalità è la guerra di tutti contro tutti

Israele-Iran: una pluridecennale rivalità regionale che non poteva che sfociare nella guerra

(«il comunista»; N° 187 ; Maggio-Luglio 2025)

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La guerra lampo che Israele e gli Stati Uniti hanno scatenato contro l’Iran, iniziata la notte del 12 giugno scorso, è stata chiamata la «guerra dei 12 giorni», scimmiottando la «guerra dei sei giorni», del giugno 1967, quando Israele entrò in conflitto contro la coalizione araba formata da Egitto, Siria e Giordania e, con una serie di attacchi a sorpresa, riuscì a sconfiggere i tre eserciti conquistando la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza (sottratti all’Egitto), la Cisgiordania e Gerusalemme Est (sottratti alla Giordania) e le alture del Golan (sottratte alla Siria). Nei successivi trattati Israele, sotto la supervisione degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, riconsegnò il Sinai all’Egitto, prese il controllo diretto dei territori palestinesi di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est, e mantenne l’occupazione delle alture del Golan che la Siria non riuscì più a riprendersi.

Ma la guerra lampo del giugno 2025 di Israele e Stati Uniti contro l’Iran non ha ottenuto la vittoria tanto ostentata a parole da Tel Aviv e Washington. A detta di molte fonti ritenute affidabili (Cnn, Nyt ecc., e le stesse fonti ufficiali dell’intelligence statunitense e dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica), il massiccio bombardamento israeliano su obiettivi militari e infrastrutturali iraniani e l’intervento americano contro i siti di arricchimento nucleare di Natanz e Fordow e il sito di ricerca scientifica di Isfahan, con ben 7 bombardieri B2 capaci di trasportare le ormai famose bombe da 13 tonnellate dette bunker buster (in grado di perforare la crosta terrestre da 60 a 100 metri di profondità), non hanno prodotto la completa distruzione dei siti di produzione e di arricchimento nucleare tanto decantata da Trump e da Netanyahu. Ma non hanno nemmeno subito una reazione militare da parte del regime iraniano, al di là delle sue minacce verbali, che avrebbe potuto innescare un’altro conflitto armato a causa del quale l’Iran avrebbe potuto andare incontro ad una crisi economica e sociale che avrebbe potuto scuotere il regime islamico stesso aprendo, nello stesso tempo, l’opzione di un cambio di regime con caratteristiche più favorevoli all’Occidente. A una situazione di instabilità prolungata del regime iraniano sarebbe più interessato Israele che non gli Stati Uniti, perché Israele sopravvive a condizione che l’intera area mediorientale – come dimostrano le situazioni in Libano, Siria e Iraq – sia perennemente instabile per poter far valere i suoi interessi specifici di minimperialismo regionale consolidando il rapporto di dipendenza economica, finanziaria e militare con gli Stati Uniti per i quali, d’altra parte, svolge da sempre il ruolo di affidabile gendarme regionale. La potente lobby ebraica americana ha sempre avuto un ruolo importante nella politica estera di Washington, sia per i democratici che per i repubblicani e, come ieri per Obama e Biden, così oggi per Trump, nessuno di loro ha mai inteso mettere a repentaglio il suo forte sostegno. Resta però il fatto che Trump, e la fazione economica e finanziaria che rappresenta, vedono soprattutto nella Cina il nemico principale di oggi e di domani, contro cui tessere una rete di interessi e di rapporti in ogni area strategica del mondo, in particolare Europa, Medio Oriente, Indo-Pacifico, America Latina, riconsiderando anche alcuni paesi dell’Africa del Sahel e del Corno d’Africa per contrastare la penetrazione russa e cinese.   

Ma perché Tel Aviv, certamente con l'accordo di Washington, ha scatenato una guerra di questo tipo contro l’Iran, mettendo in campo la forza militare che Trump indica come necessaria per... la pace?

Il motivo principale, diffuso da Tel Aviv e da Washington, e accettato supinamente da tutte le potenze dell’occidente europeo, consisteva nel fatto che l’Iran sembrava vicinissimo a produrre la bomba atomica, rappresentando un pericolo aumentato rispetto a una guerra contro Israele, le basi militari americane in Medio Oriente e i paesi arabi alleati degli Stati Uniti (il «grande Satana» come disse Khomeyni). Le notizie diffuse dalla propaganda guerrafondaia israeliana e americana si basano sui rapporti dell’IAEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica) che ha per missione, ufficialmente, il monitoraggio dello sviluppo dell’energia nucleare nei paesi aderenti alle Nazioni Unite per usi civili; tale agenzia aveva documentato che l’Iran era giunto finora ad arricchire l’uranio del 60% circa, molto di più di quel che serve agli usi civili, ma ancora piuttosto distante dal 90% che serve per gli usi militari, obiettivo verso il quale, sarebbe però potuto arrivare nel giro di qualche anno. Ovviamente, come succede sempre nei riguardi di istituzioni internazionali di questo tipo, dai loro rapporti viene diffusa al grande pubblico l’interpretazione dei dati che fa più comodo alle grandi potenze dotate di armamento nucleare (1) (Stati Uniti d’America, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina, sottoscrittori del Trattato di non proliferazione nucleare –TNT – e India, Corea del Nord e Pakistan che non l’hanno firmato, oltre Israele che non ha mai dichiarato ufficialmente di possedere armamenti nucleari, pur disponendo di una novantina di testate nucleari).

Non è la prima volta che Netanyahu lancia l’allarme sulla bomba atomica iraniana. Facciamo qualche passo indietro nel tempo. Nel 1995, secondo un’intervista rilasciata alla Cbs News, Netanyahu dichiarava: «L’Iran sarà in grado di produrre da solo, senza importare nulla, bombe nucleari nell’arco di tre, massimo cinque anni». Nel 1996, intervenendo al parlamento israeliano, dichiarava che «il tempo [per agire contro l’Iran] sta per scadere»; nel 2006, sul social network Headline Prime, scriveva: «L’Iran potrebbe costruire 25 bombe atomiche all’anno, il che significa che tra 10 anni potrebbe possederne 250». Nel 2012, Netanyahu torna sul tema e sul magazine ITB Times News annuncia che «[L’Iran] ci è molto vicino. Tra sei mesi possederà il 90% dell’uranio arricchito con il quale potrà produrre bombe nucleari»; passano tre anni e, nel 2015, avverte di nuovo «L’Iran è pericoloso. Tra poche settimane avranno il materiale necessario tale da creare un arsenale di bombe nucleari»; altri tre anni e nel 2018, intervistato dalla Cnn, dichiara: «[In Iran] Hanno le competenze per produrre armi nucleari in pochissimo tempo, se volessero» (2). Non c’è dubbio che le competenze in Iran non mancavano e non mancano, ed è proprio questa la ragione per cui, nelle ultime settimane, gli israeliani, grazie a una rete di infiltrati molto efficace, sono riusciti ad ammazzare in poco tempo, oltre ad alcuni capi militari, anche diversi scienziati impegnati nel programma nucleare. E non mancava certo la volontà del regime iraniano – al di là delle note dichiarazioni della guida suprema Khamenei con le quali proclamava la sua contrarietà all’uso di armi di distruzione di massa – di dotarsi di un armamento nucleare all’altezza di quello già posseduto da Israele, e perciò aveva avviato, da molti anni, un programma nucleare non solo per usi civili – ma più volte interrotto quello indirizzato all’uso militare secondo i diversi accordi contratti con Usa, Russia ed europei. Anche dall’instaurazione della repubblica islamica e dalla sua attitudine anti-occidentale, il programma nucleare per scopi militari è stato interrotto, ripreso e sviluppato più volte fino ad oggi, e i siti di Natanz, Isfahan e Fordow (questo è il sito collocato ad una profondità di oltre 90 metri sotto la montagna), che sono stati l’obiettivo principale dei bombardamenti prima israeliani e poi, soprattutto americani coi famosi B2, lo confermano.

Ma c’è una differenza tra le iniziative militari israeliane e quelle americane, riguardo sia la guerra condotta contro i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, sia contro l’Iran (e contro il Libano e la Siria). Israele aggiunge sistematicamente al ruolo di braccio armato americano in Medio Oriente, i suoi obiettivi specifici di potenza regionale, sia in terra di Palestina che nei confronti degli altri paesi della regione, a partire dai confinanti Libano, Siria, Giordania ed Egitto, coi quali negli ultimi sessant’anni ha avuto continue ragioni di scontro. Israele è immerso nel mondo arabo e islamico, e questo fatto aggiunge agli imprescindibili fattori di concorrenza borghese e capitalistica un elemento in più di scontro dal punto di vista religioso data la plurisecolare influenza sulle grandi masse dell’islamismo contro cui l’ebraismo combatte da sempre. Sono stati sempre i fondamentali interessi economici delle rispettive borghesie a muovere gli eserciti l’uno contro l’altro; e il bisogno di allargare la supremazia su territori economici della stessa grande area geopolitica – in questo caso il Vicino e Medio Oriente, che comprende, oltre ai paesi già citati, i paesi dell’intera penisola arabica tra il Golfo Persico e il Golfo di Oman, il Mar Rosso e il Golfo di Aden, l’Iraq, l’Iran, l’Afghanistan, ma anche il nord Africa, Cipro e la Turchia – ha continuato ad aggravare ogni sia pur piccolo screzio tra paesi confinanti, tra un braccio di mare e l’altro. L’intervento delle potenze imperialistiche, già dalla prima guerra mondiale e dal crollo dell’impero ottomano, non ha «pacificato» l’intera area come andavano cianciando i vincitori del 1918, ne ha semmai aumentato le ragioni di concorrenza e di scontro portandoli a livelli sempre più gravi e mondiali: il petrolio e le vie di comunicazione tra l’Europa continentale, il Mediterraneo e l’Oceano Indiano, sono stati e sono ancora oggi le ragioni di fondo per le quali tutte le potenze capitalistiche, dai più vecchi imperialismi ai nuovi imperialismi e alle nuove potenze regionali, sono spinte a rinfocolare attriti e guerre; ognuno di loro vuole assicurarsi almeno una fetta della torta mediorientale. Se il Medio Oriente è stato definito da sempre tormentato, non è per una trovata giornalistica, ma per sottolineare uno stato permanente di instabilità oggettiva, e in parte anche voluta dalle potenze capitalistiche dominanti. 

 

LA FORZA SOSTIENE LA DIPLOMAZIA, NON IL CONTRARIO

 

L’attuale interventismo militare trumpiano sembra cozzare contro la sua propagandata politica «di pacificazione» delle guerre in corso. Ha in parte sorpreso i media internazionali l’iniziativa militare di Israele contro Teheran negli stessi giorni in cui la Casa Bianca stava discutendo con il governo iraniano proprio sul suo programma nucleare. Ma gli interessi imperialistici americani nell’area sono talmente intrecciati con gli interessi della borghesia israeliana da impedire alla Casa Bianca di sconfessare apertamente le iniziative di Tel Aviv che, in genere, sono concordate. Ed è certo che fa parte dei loro interessi reciproci non solo impedire all’Iran di dotarsi di un armamento nucleare, ma anche di restringere il più possibile l’influenza che Teheran ha e potrebbe avere sull’intero Medio Oriente e sull’Asia centrale. Perciò l’entrata degli Stati Uniti in questa guerra lampo contro l’Iran ha avuto anche il ruolo di togliere a Israele l’iniziativa, controllarne le mosse, e sottolineare il primato della Casa Bianca anche in quest’area in cui i suoi interessi possono venire attaccati o semplicemente messi in discussione. Il fatto che l’attacco militare contro Teheran avesse o meno anche l’obiettivo di mettere in grande difficoltà il regime islamico attuale, facilitando prima o poi, un cambio di regime (non importa se con un colpo di Stato o con una sollevazione popolare alimentata e indirizzata appositamente come è successo in Ucraina), è in un certo senso secondario; è ovvio che gli imperialisti americani e le potenze occidentali preferirebbero avere a Teheran un regime non così ostico, perdipiù alleato con la Russia e in ottimi rapporti con la Cina. Ma per scardinare il regime islamico iraniano ci vuol ben altro che un attacco aereo, anche se pesante come quello che c’è stato in quei famosi «12 giorni», nel quale, fra l’altro, i pur micidiali B2 americani con le loro bunker buster non sono riusciti nell’intento di distruggere i reattori per l’arricchimento dell’uranio (mentre l’uranio arricchito sembra sia stato trasferito in altri luoghi sicuri prima dei bombardamenti americani).

Ma si è trattato davvero di una guerra lampo, un atto di forza che spalanca le porte ad accordi a favore degli USA? Il fatto che il breve intervento americano contro i siti nucleari iraniani abbia stoppato l’intervento israeliano, dando a Washington e a Teheran il tempo di riprendere i colloqui sul programma nucleare iraniano – un tempo facilitato da una risposta militare iraniana ai bombardamenti americani col lancio di missili nella base americana nel Qatar, ampiamente annunciata a Washington tanto da provocare soltanto qualche danno materiale e nessun morto – va considerato come una tregua temporanea, non come l’inizio di una pace in Medio Oriente che, attraverso i negoziati con l’Iran, potrebbe estendersi a tutti i paesi dell’area. Sempre di pace imperialista si tratta, quindi di una tregua nello scontro militare con l’Iran – scontro militare che l’America di Trump non ha intenzione di aggravare e allargare in questo momento – per dedicare le proprie forze e le proprie risorse economiche, finanziarie e militari su altri scacchieri, come ad esempio quello dell’Indo-Pacifico di cui, non a caso, non si parla quasi più, ma che nelle strategie imperialiste americana e cinese assume sempre più importanza; uno scacchiere che non ha ancora la potenzialità per emergere come il più importante in assoluto per il nuovo ordine mondiale, ma verso il quale anche le altre potenze imperialistiche sono costrette, e interessate, a misurarsi.

D’altra parte, tutte le guerre finora scatenate e, in qualche modo, terminate, non sono servite soltanto per contrastare, temporaneamente, le crisi economiche che tormentano continuamente i paesi capitalisti avanzati, ma anche per mettere alla prova nuove strategie e tecniche militari, nuove politiche di alleanza e di contrasto, e saggiare la tenuta o l’indebolimento delle vecchie alleanze e dei trattati interstatali e mettere le basi per nuove alleanze. Crisi che le stesse superpotenze non sono in grado di controllare, non per mancanza di volontà «politica» da parte loro, ma a causa di contraddizioni economiche strutturali che nessun regime borghese ha la possibilità di prevenire e di risolvere una volta per tutte. E il tormentato Medio Oriente è un teatro in cui i regimi borghesi hanno dato e continuano a dare l’esempio di come il capitalismo – una volta che è riuscito a svilupparsi nelle forme più moderne possibili e una volta che è giunto a far da base a Stati che non possono che essere al servizio degli interessi del grande capitale, dei grandi monopoli e, quindi, dell’imperialismo – non ha vie d’uscita se non quelle classiche già definite dal marxismo rivoluzionario: sfruttamento sempre più intenso della forza lavoro salariata, aumentata oppressione delle popolazioni più deboli da parte degli Stati più forti economicamente e militarmente, aumentata necessità di sopraffazione da parte degli Stati più forti per assicurarsi territori economici sempre più vasti e redditizi dal punto di vista capitalistico, aumentate e aggravate contraddizioni sia dal punto di vista economico che sociale, aumentati fattori di scontro politico e militare fra i diversi paesi e i diversi blocchi militari, aumentato ricorso alla guerra guerreggiata per combattere l’inesorabile aumento della sovraproduzione sia di merci che di capitali e per imporre un nuovo ordine sia areale che mondiale.   

 

LA GUERRA IRAQ-IRAN DEGLI ANNI ’80: ESEMPIO DI UNA FALSA GUERRA LAMPO E DI UN REALE DISORDINE PERMANENTE

 

L’Iran era già stato trascinato in una guerra, quarantacinque anni fa, sulla base di vecchi contrasti con l’Iraq relativi allo Shat al-‘Arab. Nel 1980, a poco più di un anno dal crollo del regime dello Scià e dell’instaurazione della repubblica islamica a Teheran, l’Iraq, sostenuto dall’URSS, ha invaso la provincia iraniana del Khuzestan (ricca di petrolio e abitata da arabi) scatenando contro l’Iran una guerra (chiamata Guerra del Golfo) per il controllo dello Shat al-‘Arab, il fiume che nasce dalla confluenza del Tigri e dell’Eufrate e che sfocia nel Golfo Persico; una guerra che nelle intenzioni di Saddam Hussein avrebbe dovuto essere breve, lampo per l’appunto, ma che invece si rivelò particolarmente lunga e sanguinosa (terminò nel 1988 con un’ecatombe di morti che, a seconda delle fonti, pare che siano stati più di 1 milione per parte); una guerra «vecchio stile», «di trincea», ma che alla fine non cambiò i confini prebellici, costituendo così, inevitabilmente, un permanente fattore di contrasto tra i due paesi che, prima o poi, può di nuovo sfociare nella guerra (3). Data la sua posizione strategica, soprattuto per il passaggio delle petroliere che, oltrepassato lo Stretto di Hormuz, si dirigono sia a Oriente, attraverso l’Oceano Indiano, che a Occidente, attraverso il Mar Rosso e il Canale di Suez, si capisce come mai le potenze imperialistiche, a iniziare dall’URSS e dagli Stati Uniti, fossero particolarmente interessate a sostenere l’uno e/o l’altro paese, sia militarmente che politicamente ed economicamente, a seconda dell’andamento della guerra e della diversificazione degli interessi contingenti degli uni e degli altri. Nonostante la sanguinosissima guerra scatenata dall’Iraq, il regime khomeinista non barcollò, riuscì invece a compattare la popolazione a tal punto da irreggimentare addirittura i bambini dai 6 anni in su e a farsi sostenere dall’intera popolazione nonostante la profonda crisi economica in cui era precipitato. Il regime khomeinista riuscì anche ad ottenere l’appoggio del più forte partito iraniano di opposizione, il partito nazionalcomunista Tudeh («Partito delle masse»). Questo compattamento popolare sulla «difesa della patria», caratteristico in genere dai paesi democratici nella loro lotta contro i «totalitarismi», si è rivelato un collante molto efficace soprattutto perché intriso di confessionalismo, in questo caso islamico. Aldilà delle differenze tra sciismo e sunnismo, la presa religiosa rafforzata nel tempo passando alla lotta politica, è diventata un’arma nelle mani dei clan e delle famiglie che esercitano il potere sia economico che politico e culturale su determinati territori. In parte, la stessa appartenenza religiosa ha facilitato e facilita l’alleanza anche politica tra paesi, comunità, clan, ma non è una cosa automatica. Ad esempio, l’appoggio di Teheran al regime degli al-Assad a Damasco non c’entra nulla con l’appartenenza di entrambi all’islam e con alcune specificità dello sciismo. In realtà lo sciismo iraniano e l’alauitismo degli al-Assad hanno parecchie differenze nel concepire la pratica religiosa: ad esempio gli alauiti non hanno moschee, l’Iran della repubblica islamica e degli ayatollah non aveva nulla in comune con la Siria laica, sedicentemente «socialista» e in cui si erano imposti gli alauiti, ma c’entra col fatto che, attraverso i pasdaran iraniani ospitati dalla Siria nella valle della Bekaa, Teheran poteva sostenere le milizie Hezbollah in Libano dominato da cristiano-maroniti, sunniti e greco-ortodossi, estendendo in questo modo la sua influenza politica oltre che religiosa.

    

Come in ogni guerra, gli affari legati alle forniture militari si sviluppano a grande velocità, e riguardano sempre entrambi i fronti bellici. L’Iraq contava soprattutto sull’URSS e sui paesi arabi del Golfo, intimoriti dal contagio della rivoluzione islamica khomeinista, e sulle forniture di armi anche da parte dell’Italia, della Francia e della Gran Bretagna. L’Iran – a dispetto del khomeinismo che considerava gli USA come il «grande Satana» – poteva contare sulle relazioni stabilite con Washington per risolvere la cosiddetta «crisi degli ostaggi» americani catturati nell’assalto all’ambasciata americana di Teheran durante la «rivoluzione islamica», ma soprattutto su Israele che voleva contrastare in tutti i modi il rafforzamento dell’Iraq di Saddam Hussein nella regione e che, negli anni della guerra contro l’Iraq, fornì a Teheran armi e munizioni per svariati miliardi di dollari; inutile dire che quando si parla di Israele non è possibile dimenticare il suo padrino miliardario, gli Stati Uniti d’America. 

Le iniziative militari di Israele contro l’Iran, iniziate con il tentativo di eliminare la capacità militare degli Hezbollah, di distruggere Hamas e colpire gli Houti yemeniti scesi in campo al loro fianco, proseguivan parallelamente all’operazione di radere al suolo la Striscia di Gaza decimando la popolazione in essa imprigionata, di rioccupare per l’ennesima volta il sud del Libano, allargare l’occupazione nel Golan (con il pretesto di difendere i drusi che vi abitano) e minacciare incursioni militari in tutta l’area nel caso altri paesi, altre milizie, reagissero militarmente contro Tel Aviv. Più volte i media si sono chiesti come sia possibile che Israele, un paese di quasi 10 milioni di abitanti, possa non avere alcun timore di scontrarsi con un Iran che conta 90 milioni di abitanti? Evidentemente non è soltanto una questione di numeri. Israele, sebbene costituitosi in Stato indipendente in modo artificiale, fortemente sostenuto, sia politicamente che economicamente e militarmente, all’inizio dalla Gran Bretagna e, successivamente, dagli Stati Uniti – e in un territorio in cui poteva contare su antiche origini etniche e religiose e su una debolezza strutturale dell’economia sia palestinese che di tutti gli altri paesi arabi – nel giro di vent’anni si è sviluppato e strutturato economicamente come una vera potenza capitalistica moderna nel cuore di una vasta area  caratterizzata da uno sviluppo faticoso, lento, estremamente contraddittorio del modo di produzione capitalistico, dedita più alla piccola e media agricoltura che all’industria e dominata da strutture politiche nella forma estremamente divisiva, dei clan e delle tribù. La borghesia israeliana non ha avuto bisogno di fare una rivoluzione politica per sbaragliare il dominio feudale e di dispotismo asiatico affinché fosse possibile al capitalismo «già presente» di espandersi in tutta la sua potenza, come è avvenuto nel giro di qualche secolo in Europa; il capitalismo moderno è stato importato e imposto in Palestina, con tutti i suoi orrori e le sue potenzialità economiche, direttamente dalla borghesia ebraica proveniente dall’Europa e dall’America. In un certo senso, in Palestina è successo, in parte, quello che era avvenuto in America: il capitalismo più sviluppato d’Europa è stato impiantato in America senza dover passare attraverso una rivoluzione antifeudale; in Palestina e nell’area mediorientale il capitalismo era già presente grazie alla colonizzazione francese e britannica, sviluppandosi in particolare – come in ogni colonia in cui dominavano le potenze colonizzatrici europee – in quei settori (porti, miniere, pozzi petroliferi ecc.) a cui le potenze colonizzatrici erano più interessate dal punto di vista del rafforzamento del loro dominio sui mercati internazionali. Quel che mancava era una grande massa di proletari, di lavoratori salariati da sfruttare a pieno ritmo al fine di valorizzare sempre più i capitali investiti. E Israele, in un certo senso, ha segnato la strada in tutto il Medio Oriente, trasformando le masse contadine palestinesi in  proletari puri, spogliandole di tutto, dei loro appezzamenti di terra, delle loro case come delle loro minute relazioni commerciali. E mancava uno Stato fortemente centralizzato, sostenuto da una popolazione compattata da profondi legami religiosi e sociali, economicamente evoluta e pronta a svolgere il ruolo di gendarme per conto dell’imperialismo occidentale in cambio di uno spazio vitale, un territorio da strappare alla popolazione stanziale in cui impiantare, appunto, uno Stato che non poteva essere che «una creatura del capitale finanziario» (4), creato appositamente come baluardo dell’imperialismo occidentale, prima britannico e poi statunitense, contro le esplosioni sociali della collera delle masse sfruttate in Palestina, nel Medio Oriente e in Africa, e contro i tentativi di penetrazione e di espansione dell’imperialismo russo nello scacchiere mediorientale (e oggi, possiamo aggiungere, dell’imperialismo cinese, visti i rapporti sempre più stretti tra Pechino e Teheran).

 

DI GUERRA IN GUERRA, LA «PACE» DIVENTA UNA TREGUA NECESSARIA PER RIPRENDERE LA GUERRA CON PIÙ FORZA E DECISIONE

     

In realtà, come abbiamo molte volte sottolineato, la pace che l’imperialismo impone non è che una tregua tra una guerra e la successiva, aldilà del fatto che la guerra venga scatenata nelle stesse aree temporaneamente «pacificate» o in altre aree. Lo sviluppo stesso dell’imperialismo come politica di potenza da parte degli Stati capitalisti più sviluppati sia economicamente che militarmente, chiede che la politica di conquista di nuovi mercati per le proprie merci e i propri capitali, o di sviluppo dei mercati già dominati, utilizzi tutti i mezzi a disposizione per ottenere gli obiettivi previsti e, in buona misura, necessari a far sì che la potenza economica e finanziaria dei paesi più forti sia mantenuta, difesa e, naturalmente, aumentata. I mezzi nel tempo non sono cambiati: sono politici, diplomatici, economici, finanziari, militari. E non sempre il mezzo militare è l’ultimo a essere utilizzato. Anzi, con il passare degli anni, e con l’accumularsi dei fattori di crisi che sono congeniti allo stesso modo di produzione capitalistico, la politica imperialista tende a utilizzare il mezzo militare non più soltanto dopo aver tentato tutti gli altri mezzi, ma in contemporanea se non prima di tutti gli altri, a seconda della gravità della crisi che il tale o tal altro Stato imperialista sta attraversando.

L’esempio di Israele è emblematico. Dalla sua costituzione come ente statale nel 1948, il fatto di scontrarsi militarmente contro la popolazione palestinese e contro gli Stati arabi del Medio Oriente è diventata una necessità di sopravvivenza, da tutti i punti di vista: dalla terra su cui costruire il proprio Stato al dominio politico, economico e militare sulla popolazione palestinese alla quale strappare sistematicamente sempre più territori. La politica di espansione della borghesia israeliana a detrimento degli interessi della borghesia palestinese e degli interessi dei contadini e dei proletari palestinesi, coincideva con la politica delle grandi potenze imperialistiche e dei paesi petroliferi della regione che, di volta in volta, entravano in campo per veicolare i loro interessi specifici ora a favore degli israeliani ora a favore dei palestinesi; è stato il caso della Russia, oltre che della Gran Bretagna e, poi, degli Stati Uniti e, in seguito, anche dell’Arabia Saudita e degli altri paesi del Golfo. L’imperialismo è la politica che il capitalismo più sviluppato adotta per ingigantire la propria potenza a detrimento dei paesi più arretrati e più deboli; è, nello stesso tempo, la politica della fase storica in cui il capitalismo ha sviluppato a tal punto il capitale finanziario da sottomettere il capitale industriale e agricolo alle proprie specifiche necessità di sviluppo. Non si tratta più soltanto di produrre più merci a costi minori e di conquistare mercati grazie alla potenza produttiva a costi più contenuti dei concorrenti; si tratta di sviluppare sempre più la parte finanziaria del capitale grazie alla costituzione di monopoli sempre più grandi e in grado di imporre sui vari mercati i propri interessi commerciali, industriali e finanziari. Il capitale finanziario ha bisogno di essere investito – sviluppando il credito che, a sua volta, produce debito da parte di chi ne beneficia inizialmente – e di ottenere un ritorno in termini di utili e di profitto all’altezza degli obiettivi prefissati. Questa circolazione di denaro, di capitale finanziario, sempre più vorticosa e planetaria, non può contare su un volano infinito. Non solo le merci, ma anche i capitali entrano in concorrenza tra di loro, finendo in una spirale sempre più ampia e irrefrenabile tanto da provocare inevitabilmente situazioni in cui la distruzione di merci e di capitali diventa la conclusione «necessaria» perché la crisi che inceppa il meccanismo che produce profitti venga superata e il sistema capitalistico generale si riavvii. E cosa c’è di più distruttivo della guerra guerreggiata?  

L’imperialismo, che non è un modo di produzione diverso, ma è la politica del capitalismo più sviluppato e monopolista, è caratterizzato dalla tendenza a distruggere tutto quello che ostacola il suo sviluppo e ad opprimere sempre più tutto quello che riesce a dominare. Il capitalismo, d’altra parte, è rappresentato politicamente dalla classe borghese che è una classe di per sé nazionale e nazionalista per il semplice fatto che i suoi privilegi e i suoi interessi di classe dominante possono essere difesi con maggior forza se coincidono con i territori in cui sono stati costituiti gli Stati: ad ogni Stato corrisponde un territorio con confini definiti entro i quali esercitare il dominio diretto sulle loro risorse naturali, sulle loro popolazioni e, soprattutto, sulla loro forza lavoro, sulla massa del proletariato, dei lavoratori salariati dal cui sfruttamento la borghesia estorce quel che la arricchisce veramente, il plusvalore, cioè la valorizzazione del capitale: più aumenta la quota di plusvalore nella giornata lavorativa del lavoratore salariato, più si valorizza il capitale investito nella produzione e nella distribuzione, e più aumenta la parte di capitale che si trasforma in capitale finanziario. Il capitalismo, dalla sua nascita, si è sviluppato in pochi secoli in modo impressionante sottomettendo l’intero pianeta, anche le lande più sperdute, alle leggi della sua economia.

Nello stesso tempo, lo sviluppo economico capitalistico porta con sé lo sviluppo delle contraddizioni che gli sono connaturate, aumentando anche la loro forza distruttiva che per teatro, ormai da più di cent’anni, ha il mondo intero. Ecco perché le contraddizioni che scoppiano in un paese o in un’area geoeconomica provocano conseguenze, dirette e indirette, in tutti gli altri paesi e in tutte le altre aree. Ci sono aree, come il Medio Oriente, che, per tutta una serie di ragioni storiche economiche e politiche, irradiano le conseguenze delle proprie contraddizioni e delle proprie crisi su tutto lo scacchiere internazionale, coinvolgendo obbligatoriamente tutte le maggiori potenze imperialistiche, le quali, attraverso i loro interventi diretti, i loro mancati interventi diretti o il loro appoggio «esterno» al tal paese o alla tale coalizione di paesi, determinano il livello di aggravamento delle situazioni.

Negli ultimi anni, il terremotato Medio Oriente ha incrociato le proprie crisi con quella scoppiata in Ucraina, ossia con una crisi che ha colpito una seconda volta, dopo la ex Jugoslavia, l’est Europa; una crisi che stava maturando da molti anni, in realtà dal crollo dell’URSS e dal nuovo disordine mondiale creatosi con questo crollo. Sull’Ucraina abbiamo scritto molto, perciò non ci torniamo qui e rimandiamo i lettori al nutrito numero di articoli dedicati alla guerra russo-ucraina, guerra che non sta finendo nonostante le sparate che Trump aveva rilasciato nella campagna elettorale per le presidenziali americane e nei primi mesi della sua Amministrazione. Sta di fatto che, pur conservando molta attenzione sulla situazione creatasi nel Medio Oriente negli ultimi anni, e pur contando su un Israele sempre molto attivo nel contrastare le iniziative delle milizie hezbollah in Libano, di Hamas a Gaza, degli Houthi dello Yemen o dei siriani, senza dimenticare i palestinesi della West Bank contro cui mobilita da sempre, proteggendoli, i propri coloni, l’Amministrazione Trump tende a calibrare in modo diverso gli interventi nei confronti dell’Ucraina da quelli relativi alla guerra che Israele sta conducendo contro i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania. Per Trump non si tratta certo di ritirarsi completamente dal teatro russo-ucraino, né tanto meno da quello mediorientale, ma di continuare a far fare all’Ucraina di Zelensky e ad Israele di Netanyahu delle «guerre per procura» dalle quali ricavare vantaggi economici, politici e militari pagando un prezzo molto inferiore rispetto a quello che ha pagato l’Amministrazione Biden. Per Gaza rimane in piedi il progetto di trasformarla in una riviera turistica per ricchi con deportazione della gran parte dei palestinesi gazawi in altri paesi; nel frattempo Israele continua a radere al suolo quel poco di Gaza che è rimasto in piedi e a sterminare la popolazione, soprattutto donne, bambini e anziani sia continuando a bombardare anche i campi degli sfollati, sia facendoli morire di fame di sete e di malattie. Questa immensa tragedia si sta consumando con la complicità delle cancellerie d’Europa, di Russia, di Cina e di qualsiai altro grande paese del mondo, a dimostrazione che alle classi dominanti borghesi le sorti di intere popolazioni interessano soltanto se col loro intervento possono ricavare dei vantaggi concreti, immediati o futuri che siano. La differenza di atteggiamento dei diversi imperialismi nei confronti dei palestinesi e dell’Ucraina sta nel fatto che l’Ucraina che uscirà dall’attuale guerra, paese di vecchia industrializzazione che può rinascere dalle distruzioni, rappresenta non soltanto un possibile baluardo contro le eventuali mire che la Russia potrebbe avere, un domani, su altri paesi dell’Est europeo, ma un reale grande affare per molte multinazionali americane ed europee, e non solo nel settore degli armamenti, mentre Gaza e Cisgiordania costituiscono una specie di enclave all’interno dello Stato di Israele su cui l’occidentalissimo Israele ha proprie mire di annessione dalle quali non intende ritirarsi. Israele è troppo utile agli imperialisti americani ed europei come gendarme dei loro interessi in Medio Oriente per soffocarne le ambizioni; tanto più che il terrorismo che Israele diffonde in tutto il mondo mediorientale serve per tenere schiacciate le masse proletarie di tutti i paesi della regione impedendo loro di organizzarsi in modo indipendente sulla scia delle rivolte con cui periodicamente reagiscono a condizioni di vita e di lavoro intollerabili. A differenza dei paesi petroliferi della regione che, non avendo a disposizione la necessaria massa di forza lavoro autoctona,  devono procurarsela oltre che nei paesi mediorientali anche in altri paesi asiatici molto lontani (India, Pakistan, Bangladesh, Cina, Filippine, Thailandia, Afganistan), Israele ha ridotto la stragrande maggioranza dei palestinesi in proletari a propria disposizione che, se vogliono sopravvivere, non solo devono sottostare alla sistematica repressione di Tel Aviv, ma sono costretti a lavorare con salari da fame, senza alcuna previdenza sociale prevista invece per i meglio pagati proletari ebrei. 

Contro la retorica e l’illusione dei «due Stati per due popoli», propagandata per decenni da tutti gli altoparlanti delle diplomazie internazionali che avrebbero favorito la costituzione dello Stato di Palestina dopo quella dello Stato di Israele, ci ha pensato la dinamica reale dei movimenti nazionalborghesi sia palestinesi che di ogni altro Stato arabo esistente a mandare all’aria una prospettiva che soltanto un grande e forte movimento proletario internazionale – come all’epoca dei primi anni dell’Internazionale Comunista – avrebbe potuto sorreggere, coinvolgendo i proletari degli Stati capitalisti avanzati d’Europa (colonizzatori di tutto il Medio Oriente) nel sostegno di movimenti pur borghesi ma nazionalrivoluzionari, e quindi decisamente anticolonialisti, spinti alla lotta per la propria autodeterminazione. Quell’appuntamento storico che avrebbe potuto congiungere la forza del movimento proletario comunista russo ed europeo con la forza dei movimenti nazionalrivoluzionari d’Asia – come nella grande prospettiva dell’Internazionale Comunista – fu mancato a causa soprattutto della degenerazione del partito bolscevico e dell’I.C. che, con lo stalinismo, annullò tragicamente ogni possibilità del movimento proletario internazionale di approfittare della vittoriosa rivoluzione d’Ottobre 1917, utilizzando nello stesso tempo la forza dei movimenti nazionalrivoluzionari borghesi per indebolire il fronte degli imperialismi. La Cina 1925-27 sarà il teatro in cui lo stalinismo darà il colpo di grazia al movimento proletario internazionale e agli stessi movimenti nazionalrivoluzionari borghesi. Nel Medio Oriente arretrato degli anni Trenta del secolo scorso, l’impianto del capitalismo in Palestina da parte del sionismo non poteva che seguire la cinica e violenta trama di un capitalismo e di una borghesia che avevano fretta di ottenere successo e ciò non poteva verificarsi che attraverso una vera e propria guerra economica e sociale contro le masse palestinesi. Lo dimostrarono le rivolte sociali contro i proprietari terrieri palestinesi e contro i colonizzatori inglesi e sionisti da parte delle masse contadine e dell’embrione di una classe operaia concentrata soprattutto nei porti e nella raffineria di petrolio di Haifa, dal 1921 al 1925, e ancora nel 1929, nel 1933, culminate nel 1936 con un potente sciopero generale urbano durato sei mesi: questa eccezionale vitalità delle masse sfruttate della Palestina andò però incontro alla sconfitta, soprattutto per l’assenza in Europa di un movimento rivoluzionario proletario che avrebbe appoggiato quella rivoluzione palestinese e a causa della contro-rivoluzione staliniana che abbandonò in Palestina, come in precedenza in Cina e in ogni altra parte del mondo, le masse proletarie alla mercé dei controrivoluzionari e della repressione borghese (5). La storia di Israele è segnata da continue ondate di espropriazione che dal 1948 in avanti non sono mai cessate e che continuano, con una violenza mai vista prima, sotto i nostri occhi a Gaza, col beneplacito di tutte, nessuna esclusa, le potenze capitalistiche del mondo, pur non essendo Hamas, e tantomeno l’ANP, rappresentanti di un movimento rivoluzionario di segno proletario; perché è di un movimento rivoluzionario di cui il proletariato arabo potrebbe, ad un certo punto, essere protagonista che la borghesia israeliana, palestinese e di ogni altro Stato della regione hanno timore. Come nel quindicennio 1921-1936, il proletariato agricolo e industriale non solo palestinese, ma libanese, siriano, iracheno, egiziano, rivoltandosi alle condizioni disumane in cui è stato precipitato e in cui è mantenuto da un capitalismo vampiresco e mai sazio – non importa se targato petrodollari o dollari americani – avrebbe la forza di opporsi alle continue guerre di rapina e all’immancabile e temporanea «pace» che le classi privilegiate di ogni paese negozierebbero con gli imperialismi, per porre finalmente all’ordine del giorno la lotta di classe e la rivoluzione anticapitalistica. Per quanto possa essere lontano nel tempo quel momento, è di questo che tutte le borghesie, imperialiste o meno, hanno timore e cercano in tutti i modi di rimandare il più possibile.

 

IRAN: TRA RELAZIONI INTERNAZIONALI DA CONTRAPPORRE AGLI STATI UNITI (COI BRICS) E INTERESSE A CALMARE LO SCONTRO CON GLI STATI UNITI

 

Questo quadro è ben presente anche in Iran inserito com’è in un’area geostorica che è destinata a subire continuamente terremoti economici, sociali, politici e militari alla cui contaminazione non è possibile sfuggire. D’altra parte, l'Iran è situato, come scrivevamo nel 1979 (6), «sulle vie asiatiche della Russia» e perciò il suo destino è più che mai «legato a quello della Russia stessa sia per ragioni sociali che strategiche». Lo ricordava lo stesso Lenin, quando parlava del «risveglio dell’Asia» (7), dovuto sia allo sviluppo del capitalismo mondiale, sia al movimento russo del 1905, non solo per le colonie ma anche per le semicolonie come Cina, Turchia, Persia. Le vicende legate alla controrivoluzione vittoriosa sulla rivoluzione d’ottobre 1917, non favorirono la guida del movimento sociale nascente in Iran da parte del proletariato rivoluzionario internazionale; favorirono invece l’imperialismo che dell’Iran fece «un avamposto del suo cordone sanitario controrivoluzionario» e, contemporaneamente, grazie alla produzione petrolifera, l’oggetto della «rivoluzione capitalistica dall’alto», una «rivoluzione» che doveva esser fatta «dall’alto», alla cosacca come si disse all’epoca, prima che fose fatta «dal basso».

 

Che peso ha l’Iran nel mondo?

La sua ricchezza in materie prime (soprattutto petrolio e gas naturale) indispensabili per l’industria capitalistica di ogni paese, gli fornisce un potenziale per crescere economicamente molto rapidamente, ma le sanzioni, da parte degli Usa e dei paesi europei, che lo colpiscono fin dalla vittoria della cosiddetta «rivoluzione islamica» del 1979 che abbatté il regime dello Scià e instaurò il regime islamico degli ayatollah, e il relativo isolamento internazionale, hanno in parte frenato e ritardato lo sviluppo industriale del paese facendo dipendere la sua potenzialità economica e finanziaria quasi esclusivamente dall’esportazione di petrolio e gas naturale. Ciò non toglie che dal punto di vista del PIL l’Iran, nella classifica degli Stati mondiali, è comunque piazzato al 18° posto; è al terzo posto nella classifica mondiale di riserve petrolifere e al secondo per riserve di gas naturale (dati 2022 dell’OPEC); è tra i primi dieci produttori di petrolio al mondo (e la sua produzione, i cui costi per barile sono tra i più bassi, nel 2024, ha raggiunto il punto più alto degli ultimi 46 anni, raggiungendo e superando i 900.000 barili al giorno); è il terzo produttore di gas al mondo dopo Russia e Stati Uniti. Naturalmente, date le sanzioni americane, l’export di petrolio iraniano ha ricevuto negli ultimi 40 anni una batosta considerevole se confrontata con il 1978, quando era ancora in piedi il regime dello Scià (all’epoca produceva più di 5 milioni di barili al giorno); ma ultimamente è tornato a produrre, ad esempio nel 2024, 4,3 milioni di barili di greggio al giorno, più 725mila barili al giorno di altri prodotti liquidi per un totale di 5,1 milioni di barili/giorno. Ha perciò recuperato molto rispetto agli anni precedenti, rimanendo un grande produttore ed esportatore di petrolio, anche grazie alla Cina che ne importa il 90%. In realtà, le sanzioni, aggirate in mille modi sia dall’Iran che dalla Cina, rimangono per lo più sulla carta, come per la Russia. Un dato, per capire quanto valgano le sanzioni contro il petrolio iraniano: nel 2024 le esportazioni energetiche iraniane hanno raggiunto la cifra record di 78 miliardi di dollari contro i 18 miliardi del 2020 (8).

 

Nel 2019, nell’articolo: L’imperialismo americano si sta preparando ad una guerra con l’Iran? (9), riprendevamo un’affermazione del giornale della Confindustria italiana «Il Sole-24 Ore» che, a fronte della politica «anti-iraniana» di Trump (iniziata nel maggio 2018 con il ritiro degli USA dal trattato internazionale sul nucleare, firmato a suo tempo da Obama insieme con il Consiglio di sicurezza dell’ONU, dunque con Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna, ai quali si erano accodati Germania, Unione Europea e Iran), diceva che l’Iran stava diventando nuovamente un casus belli per tutte le potenze imperialistiche interessate direttamente al Medio Oriente e per le potenze regionali che delle potenze imperialistiche sono o alleate o intermediarie a difesa di interessi reciproci, intrecciati o contrastanti con esse. E’ noto che l’Iran, sia nel periodo del regime dello Scià Reza Pahlavi (sotto tutela di Washington fino alla sua caduta), sia nel periodo del regime confessionale degli ayatollah sciiti, da Khomeini all’attuale Khamenei (dalla rivolta popolare di segno islamico del 1979 fondamentalmente anti-americano, ma disposto ad una «tregua» in campo nucleare), si è sempre proposto come potenza regionale. La caduta dello Scià ha spostato l’Iran dall’asse imperialistico in alleanza con gli Stati Uniti agli accordi con la Russia e con la Cina.          

Il casus belli, quindi, sarebbe rappresentato dallo spostamento dell’Iran dall’area di influenza anglo-americana nella quale, prima di Israele, aveva il ruolo di gendarme dell’Occidente imperialistico nel Medio Oriente, una delle zone più critiche e strategiche del pianeta, all’area di influenza russo-cinese che, oltre a costituire una sottrazione significativa di uno strategico avamposto imperialistico occidentale, potrebbe svolgere il ruolo di un valido punto d’appoggio per una difesa più robusta dei confini russi meridionali e di sbocco sull’Oceano Indiano e per la penetrazione dell’imperialismo cinese non solo nel Medio Oriente ma anche verso l’Europa e l’Africa. L’imperialismo russo – già presente nel Medio Oriente, grazie alla Siria del clan al-Assad dal quale aveva ottenuto la concessione di due importanti basi militari sul Mediterraneo, una navale (a Tartus) e una aerea (a Hmeimim, vicino alla città portuale di Latakia) – con il crollo del regime degli al-Assad (alauita, quindi sciita) nel dicembre del 2024 e l’instaurazione del regime islamico sunnita di al-Shara’ (al-Jolani era il suo nome di battaglia), si è venuto a trovare in una situazione molto difficile dato il suo decennale sostegno agli al-Asad e all’Iran. Ma il pragmatismo di al-Sahara’, dimostrato fin dai primi passi del nuovo regime, gli ha permesso finora di tener aperte tutte le opzioni possibili: con la Russia sul fronte delle basi militari di Tartus e Hmeimim, per il cui eventuale accordo di ulteriore concessione al-Sahara’ chiede a Mosca un contributo sostanzioso in miliardi di dollari per le riparazioni della guerra sostenuta contro al-Assad; con la Turchia, che lo ha sostenuto nella guerra contro al-Assad e con la quale ha interesse a trovare un accordo rispetto alle milizie curdo-siriane che sono state inglobate nel nuovo esercito siriano; con gli Stati Uniti, e con l’Arabia Saudita, per ottenere una diminuzione, se non la cancellazione, delle sanzioni finora esistenti nei confronti della Siria degli al-Assad e per riavviare reciproci rapporti economici e commerciali; con Israele, dal 1967 occupante di una buona parte degli altopiani del Golan e che mira a occuparli interamente, ma col quale non intende e non ha la forza di sostenere un conflitto armato.

Ebbene, quel che anche l’Iran ha imparato dalle grandi potenze mondiali è di far fare ad altri (Stati o milizie appositamente sostenute), quando ne ha l’occasione, la guerra per procura a difesa dei propri interessi nazionali, come è avvenuto con la Siria degli al-Assad, gli Hezbollah in Libano (sostenuti nella guerra contro Israele), gli Houti in Yemen (sostenuti nella guerra contro l’Arabia Saudita) e Hamas, a Gaza (sostenuta contro Israele). Non ha invece alcun interesse allo scontro diretto con gli Stati Uniti per il quale, tra l’altro, non potrebbe contare sull’appoggio militare né della Russia né della Cina; con queste due potenze ha instaurato ottimi rapporti commerciali e politici, in particolare con la Cina, ma sono potenze che non hanno nemmeno loro interesse a scontrarsi militarmente con gli Stati Uniti. La Russia, da parte sua, soprattutto con l’arrivo di Trump alla presidenza statunitense, al di là del teatrino che Trump e Putin, di volta in volta, rispetto alla guerra con l’Ucraina, inscenano ora l’uno ora l’altro dichiarando reciproche insoddisfazioni, pur tenendo fermo il suo obiettivo di annettersi le province russofone dell’Ucraina del sud-est, ha sempre cercato di ottenere dagli Stati Uniti un riconoscimento internazionale che andasse oltre l’inevitabile intesa sulla proliferazione nucleare in campo militare. La Russia, uscendo dal crollo del suo impero nel 1989-91, non ha avuto la forza di opporsi duramente all’avanzata degli Stati Uniti nell’Europa dell’Est, e all'inglobamento nella Nato, nel giro di vent’anni, di quasi tutti gli ex satelliti della Russia staliniana; anni in cui la fornitura di petrolio e gas alle potenze dell’Europa occidentale, alla Germania soprattutto, a prezzi concorrenziali ha permesso a Mosca di far parte di un pezzo vitale dell’economia mondiale e di utilizzare i capitali accumulati non solo per lo sviluppo economico interno, ma anche per sostenere la sua politica imperialista in Medio Oriente, in Africa, nel Caucaso e in Asia centrale. Ma quando gli americani e gli inglesi hanno messo l’Ucraina nei loro obiettivi immediati (politici e militari), Mosca non poteva non reagire: lasciar fare avrebbe voluto dire abbandonare completamente la difesa dei propri confini e della propria economia – dunque della propria forza – nelle mani del concorrente imperialistico più importante. Allora la guerra contro l’Ucraina, che stava scivolando rapidamente nelle braccia della Nato, se poteva essere ancora evitata come scontro diretto contro la Nato, e quindi contro gli USA (l’Ucraina non faceva e non fa parte, finora, né dell’Unione Europea, né della Nato), rappresentava però un’azione giustificata perché i missili Nato non fossero piazzati sotto le mura del Cremlino. La forzatura anglo-americana con l’utilizzo dell’Ucraina di Zelensky come ariete occidentale contro la Russia faceva parte della politica imperialista di Washington tanto da impegnare nuovamente, finanziariamente e militarmente, sia gli Usa che Londra e le potenze dell’Unione Europea, a poco più di un anno dalla fine della disastrosa guerra in Afghanistan. Se c’era bisogno di un’ulteriore dimostrazione che la politica imperialista è costituita da ogni tipo di guerra – diplomatica, politica, commerciale, finanziaria, militare –, la guerra in Ucraina ne è un’ulteriore dimostrazione. Il mondo è diventato troppo piccolo per la sete di profitti capitalistici che ogni potenza imperialista cerca di soddisfare; e il fatto che ormai è stata presa, da tutte le potenze imperialistiche, la strada del riarmo e dell’ammodernamento tecnologico dei rispettivi armamenti non fa che confermare che le contraddizioni sempre più acute dello sviluppo capitalistico non potranno essere affrontate e risolte se non in due modi: o con la guerra mondiale che non potrà essere se non più crudele e distruttiva delle precedenti del 1914 e del 1939, o con la rivoluzione del proletariato internazionale che per obiettivo storico si porrà la distruzione della causa originaria delle guerre imperialiste: il capitalismo, il suo modo di produzione e di sviluppo. Allora le classi decisive della storia, quella borghese e quella proletaria, rinnoveranno il titanico scontro, già tentato negli anni della vittoriosa rivoluzione in Russia nell’ottobre 1917 e nelle magnifiche lotte del proletariato tedesco, ungherese, italiano, cinese degli anni Venti del secolo scorso, scontro dal quale il proletariato uscirà vincitore alla condizione di essersi riorganizzato sul terreno della lotta di classe e affidato alla guida nel partito di classe rivoluzionario, saldo teoricamente e politicamente.     

Siamo lontani da questo appuntamento con la storia che il Manifesto di Marx-Engels del 1848 aveva previsto e prospettato? La classe del proletariato che rappresenta le forze produttive positive, il lavoro vivo, si scontrerà necessariamente con le forze di conservazione delle forme produttive che ingabbiano e imprigionano il mondo intero, condannandolo sistematicamente alla guerra e alla distruzione. Che sia lontano o vicino quell’appuntamento, noi marxisti lo leggiamo come il traguardo che necessariamente sarà a un certo punto raggiunto perché – come è avvenuto nella storia precedente per tutte le società divise in classi – lo sviluppo delle forze produttive non può essere interrotto dalla volontà delle classi dominanti di rimanere al potere per l’eternità: saranno le stesse forze materiali, oggettive, incontrollabili del modo di produzione capitalistico che la borghesia dominante non sa e non può controllare a piacimento, a far esplodere il sistema della produzione di merci, del lavoro salariato, del capitale. Tutto ciò non avverrà per l’intervento di una forza extraterrestre, divina, del tutto sconosciuta: avverrà per le ragioni materiali, economiche e sociali, che il marxismo scientificamente ha rivelato, e avverrà come risultato di una lotta di classe che non sarà più a senso unico: borghesia contro proletariato, come sta avvenendo da più di cent’anni, ma nella quale il proletariato riconoscerà se stesso come l’unica classe rivoluzionaria esistente, l’unica classe che ha potenzialmente la possibilità di dare al futuro dell’umanità un traguardo umano e sociale in cui gli antagonismi di classe non esisteranno più perché le classi non esisteranno più, perché esisterà soltanto la società di specie in cui l’uomo avrà superato la sua preistoria e sarà entrato finalmente nella sua storia.

 

LA VECCHIA EUROPA MESSA AI MARGINI?

 

Come risulta evidente dalla situazione che si è creata da decenni, le potenze imperialistiche europee occidentali – dato che la loro influenza politica mondiale è stata sostituita dagli Stati Uniti, riducendosi via via al ruolo di fiancheggiatori degli interessi di Washington in ogni parte del mondo dietro i quali cercare uno spazio per i propri e cercando, nello stesso tempo, di contrastarli soprattutto all’interno del mercato della UE – non riescono più a svolgere un ruolo determinante nei contrasti di carattere internazionale non soltanto politico-diplomatico, ma anche economico e militare. Dal crollo dell’URSS nel 1989-91 e quindi dalla fine della cosiddetta «guerra fredda», gli Stati Uniti, attraverso la Nato e il loro peso politico-militare, hanno imposto all’Europa occidentale un ruolo politico di supporto in tutte le situazioni che hanno spinto l’imperialismo americano a ridisegnare le zone di influenza nelle aree più strategiche e critiche del mondo: dall’Iraq alla Siria, dai Balcani all’Afghanistan, dalla Libia alla Palestina e al Libano, dall’Ucraina all’Iran. In tutti questi quadranti la guerra non è mai iniziata se non per decisione di Washington e, il più delle volte, «finita» senza significativi vantaggi per gli Stati Uniti, se non quelli di aver piegato ancor più gli europei occidentali ai propri interessi, indebolendone ulteriormente il peso politico a livello internazionale, e di aver rafforzato, direttamente o indirettamente, il peso politico, economico e militare, ad esempio nel Medio Oriente, di Israele, Arabia Saudita e Turchia.

D’altra parte, già dalla fine della seconda guerra imperialista mondiale gli Stati Uniti avevano conquistato un primato internazionale che consentiva loro di dettare le condizioni sia della ricostruzione postbellica nei paesi europei distrutti dalla guerra, sia della politica dei governi post-bellici che, per oltre tre decenni, hanno dovuto concordare con la Russia di Stalin e dei suoi successori per l’Europa spartendosi le zone di influenza tra un’Europa occidentale e un’Europa orientale. Particolare vigilanza ebbero sulla Germania, sconfitta nella guerra, ma con un passato e un’esperienza industriale di primissimo livello in grado di rinascere con la ricostruzione postbellica, sia nel suo ovest che nel suo est, costituendo in questo modo un mercato di sbocco per la produzione e i capitali americani e, con le debite differenze, per la stessa economia russa – una spartizione che non poteva durare per sempre dati i caratteri fondamentali della fase imperialistica del capitalismo (supremazia dell’esportazione del capitale finanziario combinata con la supremazia militare).

La Germania nel proprio passato non aveva soltanto un grande e sviluppato capitalismo, aveva anche un grande e sviluppato movimento operaio di cui, giustamente, le borghesie imperialiste temevano la rinascita; una rinascita che avrebbe potuto contaminare il movimento operaio degli altri paesi europei riproponendosi, prima o poi, come il vero problema per ogni borghesia. I moti operai del giugno 1953 a Berlino est e in altri centri proletari della Germania Est russificata dimostrarono che il movimento operaio tedesco non era stato seppellito completamente, nonostante l’opera persistente, continua e capillare della collaborazione di classe della socialdemocrazia e quella di uno stalinismo che riuscì a sconfiggere venticinque anni prima il movimento comunista non solo in Russia ma nel mondo.

Come affermò il nostro partito di fronte ai grandi scioperi e alle rivolte operaie del giugno 1953 a Berlino est (10) – scioperi che dimostrarono che lo storico filo classista non si era spezzato, ma che furono utilizzati dalla propaganda americana e occidentale come rivolta contro «il comunismo» e dalla propaganda stalinista come «provocazione ordita da teppisti all’uopo pagati» – «mentre gli operai berlinesi insorgevano contro la galera del lavoro salariato, ancora una volta l’imperialismo è riuscito a sfruttare per i suoi fini di guerra una manifestazione della collera proletaria contro lo sfruttamento capitalistico e un tentativo di scuoterne il pesante giogo». Ma tale era la presa controrivoluzionaria dello stalinismo che le rivolte di Berlino est, con il loro imprecisato numero di operai morti sotto la cinica repressione dei poteri falsamente «comunisti», «non sono servite ad aprire uno spiraglio nella cortina di infatuazioni partigiane che avvolge le menti proletarie» (11). E dimostrarono anche che, al di sopra dei contrasti che portano i centri imperialistici concorrenti a farsi la guerra, quel che li unisce – come dimostrò Marx rispetto alla Comune di Parigi del 1871 – è la reciproca necessità di combattere contro il loro nemico storico principale, il proletariato, soprattutto quando la sua rivolta contiene un’oggettiva forza classista; una forza classista che ha però bisogno di una guida politica in grado di comprendere la situazione storica, i rapporti di forza esistenti e prevedere il cammino da seguire sulla via della rivoluzione

       Il ruolo politico di supporto che i paesi europei stanno svolgendo da decenni nei confronti dell’imperialismo americano (e della Nato, di cui ora gli europei devono accollarsi il sostegno finanziario col famoso 5% del loro PIL come da ordini ricevuti da Washington) non esclude che, ad esempio, i tre paesi più importanti – Regno Unito, Germania e Francia – non abbiano un reale peso e un ruolo imperialistico nelle diverse aree, soprattutto verso l’Africa e il Medio Oriente. Ma il loro peso e il loro ruolo sono sempre più fortemente condizionati dagli interessi dell’imperialismo americano, come dimostrano anche la recente «guerra dei dazi», la stessa guerra in Ucraina nella quale gli europei si sono svenati in sostegno finanziario e militare senza nemmeno essere coinvolti direttamente nel possibile negoziato con la Russia per il futuro «fine guerra», per non parlare della guerra lampo contro l’Iran.

Quanto alla «questione palestinese», dopo aver per anni sbandierato lo slogan dei «due popoli, due Stati», i civilissimi, democraticissimi e umanitarissimi europei hanno per l’ennesima volta dimostrato, e questa volta di fronte a uno sterminio programmato da tempo da parte israeliana, che i loro interessi economici, finanziari, commerciali e politici non hanno mai previsto e non prevedono di scalfire minimamente le mire territoriali, politiche e militari di Israele sull’intera Palestina: gli affari non hanno sentimenti.

              

Aldilà del peso imperialistico reale che le potenze europee hanno rispetto alle vicende mondiali, anch’esse restano interessate alla de-escalation del conflitto a tutto il Medio Oriente o, meglio, ad un conflitto che non le le coinvolga direttamente, ma grazie al quale possano continuare a far profitti vendendo armi a tutti gli Stati che vogliono comprarle.

Nel rapporto tenuto nella nostra riunione generale di maggio dello scorso anno sul Corso dell’imperialismo mondiale (Petrolio, Medio Oriente e imperialismo), sostenevamo:

 

«L’allargamento del conflitto a tutto il Medio Oriente in questo momento, però, non conviene a nessuna potenza imperialistica e, infatti, sebbene Israele abbia attaccato, distruggendola, l’ambasciata iraniana a Damasco, uccidendo alcuni pasdaran e il generale che aveva la responsabilità delle operazioni iraniane in Siria e in Libano, la “risposta” iraniana a questo attacco israeliano, pur annunciata con grandi minacce, è stata in realtà relativamente debole anche se il lancio di 300 droni e missili contro postazioni militari israeliane non è stata poca cosa, ma per il 99% sono stati intercettati (grazie al sistema di difesa israeliano, ma anche all’intervento dell’aviazione statunitense, britannica, francese e giordana), cosa che l’Iran era in grado ovviamente di sapere preventivamente.

«D’altra parte, dopo questa mossa, con la quale è riuscito soltanto a provocare dei danni alla base israeliana del deserto del Negev, l’Iran non ha proceduto ad altri attacchi. I primi a non volere che il conflitto si allarghi a tutto il Medio Oriente – che vorrebbe dire anche al Nord Africa e al corno d’Africa – sono gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia, ma anche l’Arabia Saudita, la Turchia e l’Iran, e tanto meno la Russia che è già superimpegnata nella guerra in Ucraina e non sarebbe in grado di sostenere un’altra guerra nel Medio Oriente; nessuna potenza è pronta in questo periodo a una guerra che avrebbe tutte le caratteristiche di una guerra mondiale (gli arsenali delle varie potenze imperialiste non sono ancora gonfi di armamenti necessari alla guerra “moderna” e non si sono ancora formati in modo stabile i blocchi imperialisti che si scontrerebbero), sia perché nel mercato mondiale vi sono ancora porzioni importanti di sviluppo dei commerci non solo di materie prime: la crisi generale di sovraproduzione non si è ancora presentata» (12).

 


 

(1) Cfr. Stati con armi nucleari, wikipedia.org; per quel che riguarda Israele, vedi “Le Monde diplomatique”, luglio 2025, Cosa cerca Tel Aviv in Medio Oriente.

(2) Cfr. “Il fatto quotidiano”: Dichiarazioni. I tanti ossessivi allarmi di Netanyahu sul nucleare iraniano, 9 luglio 2025.

(3) Sulla guerra Iraq-Iran, le sue cause e i contrasti interimperialistici, vedi, in particolare, gli articoli pubblicati nel vecchio giornale di partito “il programma comunista”, dal n.19 del 1980 al n. 2 del 1981, e gli articoli pubblicati ne “il comunista” dal n. 4 del 1983 al n. 16 del 1989.

(5) Cfr. Il vulcano del Medio Oriente. Il lungo calvario della trasformazione dei contadini palestinesi in proletari, in “il programma comunista”, n. 20 del 1979, continuato poi nei nn. 21 e 22 sempre del 1979.

(6) Cfr. Iran. L’eredità Pahlevi: rivoluzione capitalista alla cosacca, “il programma comunista” n. 1 del 1979;  articolo cher segue nel n. 2 del 1979.

(7) Cfr. Lenin: Il risveglio dell’Asia, Pravda, 7 maggio 1913, Opere, vol, 19, pp. 68-69.

(8) Cfr. https://www,ig.con/it/strategie-di-trading/i-maggiori-produttori-di-petrolio-al-mondo-201012; inoltre: https://ilfarosulmondo.it/iran-terzo-produttore-gas-mondo/; https://www.internazionale.it/magazine/javier-blas/2025/07/10/il-petrolio-di-teheran-e-piu-forte-delle-bombe

(9) Cfr. L’imperialismo americano si sta preparando ad una guerra con l’Iran?, “il comunista” n. 159, maggio 2019. 

(10) Cfr. l’opuscoletto Giugno 1953. La Comune di Berlino, lunga e dura la strada, meta grande e lontana, Ediz. il comunista, Milano, giugno 2023, nel quale sono contenuti gli articoli inerenti a questi eventi, pubblicati nell’allora giornale di partito “il programma comunista”, nei nn. 12, 14 e 15 del 1953, e nei numeri dal 17 del 1953 al 13 del 1954.

(11) Cfr. Gli operai berlinesi sono insorti contro la galera del lavoro salariato, “il programma comunista”, n. 12 del 1953, presente nell’opuscolo citato alla nota 10.

(12) Cfr. “il comunista”, n. 182, maggio-luglio 2024.

 

 

Partito Comunista Internazionale

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