Guerra e lotta di classe
(«il comunista»; N° 188 ; Agosto-Ottobre 2025)
Negli anni 1982-1984, il Partito effettuò una valutazione delle scottanti questioni sollevate dall’ascesa del militarismo. Questo lavoro, pubblicato in italiano nel 1994 con il titolo Antimilitarismo di classe e guerra e successivamente sulla nostra rivista in lingua spagnola con il titolo La guerra imperialista en el ciclo burgués y en el análisis marxista, mirava a fornire una posizione chiara sull’atteggiamento del Partito nei confronti dei cosiddetti «movimenti antimilitaristi» che stavano emergendo sul fianco sinistro della politica borghese, ma anche all’interno del cosiddetto movimento «autonomo», valutando al contempo tali questioni e sistematizzando ancora una volta i punti fondamentali dell’antimilitarismo di classe. Questo studio ha tracciato una linea di demarcazione tra le posizioni meccanicistiche e attiviste che vedevano lo scoppio del terzo conflitto imperialista mondiale in qualsiasi conflitto regionale che contrapponesse una delle maggiori potenze imperialiste a un’altra (si pensi alla guerra delle Falkland, al conflitto Iran-Iraq ecc.) e le corrette posizioni del marxismo rivoluzionario, che studia le possibilità dello scoppio di un nuovo conflitto mondiale sulla base delle condizioni storiche e sociali che lo faciliterebbero, collocando questa possibile guerra (temporale) all’interno del ciclo borghese per poi, da lì, indicare i compiti che il partito rivoluzionario di classe deve assolvere sia per guidare la lotta rivoluzionaria, sia per influenzare la ripresa della lotta di classe del proletariato.
Come si diceva all’epoca: «La grande alternativa storica tra guerra e rivoluzione si basa sull’effettiva ripresa della lotta di classe e, quindi, sull’effettiva riorganizzazione di classe del proletariato sul terreno della difesa delle condizioni di vita, di lavoro e di lotta nel terreno immediato». Senza questa scuola di lotta di classe, per usare un’affermazione di Lenin, il proletariato non ha alcuna possibilità di vittoria sul terreno rivoluzionario. Gran parte del lavoro svolto in quel periodo fu quindi indirizzato allo studio delle condizioni in cui, prendendo come riferimento l’inevitabile scoppio di una Terza Guerra Mondiale, ma non dando per scontato che fosse un evento immediato, se non a condizione che si realizzasse una serie di punti critici, e che la lotta di classe proletaria potesse riapparire sul campo, sia su scala immediata, riferendosi alla difesa delle condizioni di esistenza dei proletari, sia su scala politica, nella lotta per il rovesciamento del potere borghese, come accadde nel 1917.
Entrambi gli aspetti della lotta di classe sono intesi, come ha sempre fatto la nostra corrente, non come due sfere separate collegate da un qualche meccanismo attivato in determinate situazioni, ma come parte di una relazione dialettica in cui la classe impara, attraverso la sua lotta quotidiana per i salari, le condizioni di lavoro ecc., a confrontarsi con la classe borghese e, quindi, si inquadra in un confronto più ampio per i suoi obiettivi storici. Si esclude qualsiasi meccanismo e, pertanto, si scarta l’idea di una lenta accumulazione delle forze proletarie sul terreno sindacale che poi lascerebbe il posto alla lotta politica, il che sarebbe una parodia della vecchia distinzione socialdemocratica tra programmi minimi e massimi. Sono le convulsioni caratteristiche della società borghese a disporre la classe proletaria alla lotta, che tendono inevitabilmente a erodere la forza che l’opportunismo politico e sindacale esercita su di essa e che, pertanto, aprono la possibilità di intervento del partito di classe al fine di acquisire un’influenza decisiva sugli strati determinanti della classe proletaria.
La guerra imperialista appare quindi come l’inizio e la fine della parte del ciclo di dominio borghese in cui si inserisce il partito. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la distruzione dell’Europa e di alcune parti dell’Asia ha permesso lo sviluppo di un processo di accumulazione di capitale sconosciuto al mondo dal XVII secolo, in termini relativi, e molto più ampio in termini assoluti. Sulla base di questa esacerbazione della capacità produttiva del capitale, si sviluppano due elementi strettamente correlati. Da un lato, la capacità politica della borghesia, che da allora ha goduto di uno Stato direttamente legato nella forma e nel contenuto all’eredità fascista, ma infinitamente più grande e molto più capace di orientare la difesa dei propri interessi di classe. È in questo senso che dobbiamo intendere sia la distruzione politica dell’avanguardia di classe proletaria, attuata dall’azione congiunta della controrivoluzione stalinista e borghese degli anni Venti, sia l’integrazione delle grandi organizzazioni economiche proletarie nell’apparato statale.
D’altra parte, l’eccesso di profitto derivante dalla ricostruzione delle aree devastate dalla guerra permise di destinare parte del surplus alla costruzione di una fitta rete di ammortizzatori sociali in grado di sostenere, anche minimamente, la vita dei proletari. In questo modo, la socialdemocrazia, lo stalinismo e gli agenti sindacali, lavorando a stretto contatto con lo Stato borghese, gestirono in larga parte il riformismo economico e sociale del dopoguerra, estendendo così la base della loro influenza e mantenendo il proletariato entro i limiti della collaborazione di classe. Questa prolungata pace sociale nelle maggiori concentrazioni proletarie in Europa e in America caratterizzò il mondo capitalista del dopoguerra, approssimativamente fino al 1975.
Nel 1975, la grande crisi capitalista, prevista dal nostro partito due decenni prima, segnò la fine di questo periodo postbellico e lasciò il posto al periodo prebellico, che persiste ancora e la cui fine non sarà immediata. Quest’epoca è caratterizzata da un progressivo smantellamento della rete di ammortizzatori sociali a seguito di un forte calo dei profitti capitalistici. Segue il deterioramento della struttura socialista e stalinista, che varia nella forma, si riorganizza o scompare a seconda del paese. C’è anche la perdita del controllo sindacale sulla forza lavoro proletaria, non nel senso di una rinascita della lotta di classe sul terreno dello scontro diretto con la borghesia, ma piuttosto nel senso della scomparsa del loro peso numerico, senza che ciò implichi la fine dell’influenza delle loro politiche antiproletarie. Perché, ad eccezione di alcuni tentativi, alcune lotte condotte con diversa intensità, come quelle degli anni ’70 in Italia, Spagna e Francia, in Polonia nel 1980 o in Inghilterra nel 1984, la classe proletaria non si è ripresa dalla situazione di prostrazione in cui si è trovata dopo la sconfitta per mano della controrivoluzione.
Eventi successivi, altrettanto gravi o maggiori della crisi del 1975, come la crisi del 2008-2012 (maggiore per intensità e conseguenze sul proletariato rispetto alle precedenti), l’inizio delle tensioni belliche tra alcune delle principali potenze mondiali nel 2017 o la crisi COVID del 2020, hanno mostrato una classe proletaria che non sta riemergendo, dimostrando che i legami che la legano alla politica di collaborazione tra le classi, al di là dell’influenza diretta delle forze opportuniste, sono maggiori di quanto alcune valutazioni ottimistiche avrebbero potuto supporre. Ma questa situazione non invalida la giustezza delle previsioni marxiste sulla necessità di uno scontro mortale tra proletariato e borghesia: mostra semplicemente che la realtà sociale della vita di classe è più complessa di quanto un’analisi meccanicistica potrebbe suggerire e che i fattori determinanti per il trionfo della controrivoluzione sono ancora presenti nonostante il deterioramento delle forme in cui si sono inizialmente manifestati.
Il lungo periodo prebellico iniziato nel 1975– pur avendo incluso fasi di relativa prosperità in alcune regioni del mondo e pur avendo, a un certo punto, creato il miraggio di un nuovo e definitivo equilibrio imperialista con gli Stati Uniti come suo campione imbattibile– non impedisce alla Terza Guerra Mondiale di essere una realtà inevitabile nel futuro del mondo capitalista. Senza poter stabilire, come ha mostrato lo studio del 1982-1984, una data o un evento chiaro e inevitabile come punto di partenza, la guerra imperialista costituisce una tappa inevitabile nel corso del dominio borghese e, in realtà, gli ultimi quarant’anni non hanno fatto altro che affermarlo.
Ora, a che punto si intrecceranno il lungo e tortuoso cammino verso la ripresa della lotta di classe proletaria e quello della guerra imperialista? Quale delle due apparirà prima? E in quali termini? È legittimo, da un punto di vista marxista, riporre qualsiasi tipo di speranza nel fatto che la guerra risvegli finalmente la forza storica del proletariato? Queste sono domande che inevitabilmente sorgono quando si valuta la situazione passata, presente e futura e a cui non si risponde mai una volta per tutte: il metodo marxista consiste proprio nel verificare la realtà dei suoi postulati, confermandoli con fatti storici e contemporanei, e allo stesso tempo consentendo a questi postulati di predire eventi futuri.
Torniamo ora al testo pubblicato in spagnolo per estrarne i seguenti paragrafi:
«[…] Affermiamo che, a determinate condizioni, lo scoppio della guerra mondiale e le sue vicissitudini possono aprire la strada alla rivoluzione, che la prospettiva può essere guerra e rivoluzione, quest’ultima innestandosi sul terreno sanguinoso e ardente della prima. Possiamo specificare le nostre ipotesi:
«1) Ripresa della lotta di classe rivoluzionaria su larga scala nell’immediato periodo prebellico con movimenti insurrezionali vittoriosi in almeno uno dei principali paesi imperialisti. Solo a questa condizione è possibile concepire che la rivoluzione internazionale possa bloccare la strada alla Terza Guerra Mondiale, che l’appello alla mobilitazione degli eserciti possa trasformarsi per il movimento operaio internazionale in un segnale di mobilitazione antipatriottica e contro la guerra e, quindi, in un segnale di guerra civile. Questa situazione, che non può ancora essere esclusa, anche se la giudichiamo la meno probabile data l’ampiezza e la profondità del ciclo controrivoluzionario da cui non siamo ancora usciti, a 15 anni dall’inizio della crisi economica globale, ci vengono fornite, in termini reali, le condizioni sine qua non per una situazione favorevole al dilemma: guerra o rivoluzione. Non neghiamo che ci sia un fondo di verità in questo dilemma, ovvero che solo la rivoluzione proletaria possa impedire la guerra mondiale (o che senza rivoluzione il conflitto sia inevitabile). Tuttavia, neghiamo l’inversione del dilemma nella forma: se scoppia la guerra, la rivoluzione è impossibile.
«2) Una ripresa generale della lotta di classe prebellica, con il movimento operaio che riconquista il livello sindacale, ovvero la rinascita di organizzazioni sindacali indipendenti, ma senza che la classe operaia tenti di riconquistare il livello di indipendenza politica, ovvero di stabilire un solido legame tra il Partito Comunista e la classe operaia. La lotta di classe riemerge nel cuore dell’imperialismo in aspre battaglie sul terreno economico, ma non è ancora abbastanza forte per lanciare un assalto rivoluzionario contro la borghesia; non è ancora in grado di lottare per il potere in nessuno dei principali paesi imperialisti. La guerra imperialista scoppia nonostante le proteste e i tentativi di opposizione della classe operaia; la mobilitazione bellica non può segnare l’inizio di una lotta rivoluzionaria. Ma le condizioni oggettive e soggettive (l’abitudine alla lotta indipendente, un legame ancora debole ma reale tra la classe e il Partito marxista) lasciano aperta la possibilità della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile e, quindi, dello scoppio della rivoluzione nel corso della guerra tra Stati. Questa possibilità è a sua volta condizionata dalla capacità del Partito di rimanere su posizioni autenticamente marxiste, di non vacillare nell’orgia del pacifismo prima, nel patriottismo poi, e da lì di opporre, nella propaganda e nei fatti, le sane tradizioni del disfattismo rivoluzionario.
«Solo in questo caso i tormenti della carneficina imperialista potranno alimentare il disfattismo rivoluzionario e lo scoppio della guerra civile. Questa seconda alternativa, guerra e rivoluzione, è così poco fantasiosa che, di fatto, fu l’unica pienamente realizzata, nell’ottobre del 1917 in Russia.
«3) Il passaggio dalla crisi economica alla guerra senza rivoluzione né ripresa della lotta di classe prebellica. Si tratta della ripetizione storica della fase che precedette la Seconda Guerra Mondiale e determinò il corso segnato dalla quasi totale assenza di reazione proletaria. In una tale situazione, è impossibile prevedere gli episodi più o meno isolati di disfattismo e fraternizzazione nel corso del conflitto senza la possibilità di un esito rivoluzionario, come, ad esempio, il caso della Comune di Varsavia nell’ultima guerra. Il compito principale del partito, quindi, è diffondere attraverso la propaganda un orientamento di classe antimilitarista e un disfattismo rivoluzionario, invitando i lavoratori a rifiutare i fronti nazionali e la lotta partigiana, anche sotto la presunta etichetta “socialista”. Il compito del partito non è affatto quello di lanciarsi a tutti i costi in un’attività pratica “a contatto con le masse”, con l’illusione volontaristica di forzare il corso rivoluzionario, tentando, ad esempio, di trasformare la lotta partigiana in una lotta rivoluzionaria. L’attività organizzativa pratica e la partecipazione alla lotta armata saranno possibili solo in presenza di movimenti proletari non militarmente inquadrati da alcun imperialismo, ad esempio le Comuni di Varsavia di domani, anche se non vi è alcuna possibilità di vittoria immediata. Infatti, anche se destinate alla sconfitta, come lo fu a suo tempo la Comune di Parigi, queste lotte sono un patrimonio inestimabile per la lotta e la vittoria future, e un partito che si ritirasse dalla battaglia perché le possibilità di successo sono minime abdicherebbe semplicemente al suo ruolo rivoluzionario. Infatti, anche se la guerra scoppiasse senza una previa ripresa della lotta di classe, il che precluderebbe la vittoria della rivoluzione durante il conflitto, non si può escludere la possibilità di una mobilitazione operaia durante la guerra e di rotture non episodiche dei fronti di guerra. Ciò dipende dalla capacità delle diverse borghesie di mantenere il controllo sociale, dalla loro capacità di resistere agli scontri militari e dalla loro capacità di imporre sacrifici ai proletari.
«Questa terza ipotesi ammette una variante che costituisce una quarta ipotesi:
«4) Ripresa della lotta di classe nel corso della guerra, con scioperi e sabotaggi da parte dell’industria militare ed episodi non sporadici di ribellione dei soldati. Anche in questo caso, la possibilità che la guerra imperialista si trasformi in guerra civile è esclusa. Non dobbiamo farci illusioni: senza una ripresa di classe prima della guerra, senza un reale radicamento del Partito nella classe prima del conflitto, non può esserci alcuna possibilità rivoluzionaria durante la guerra. Per affrontare vittoriosamente il nemico di classe nel momento di massimo dispiegamento del suo potere repressivo e delle sue risorse di mobilitazione ideologica per consolidare l’unità nazionale, il proletariato deve essere preparato, deve essere abituato alla lotta di classe indipendente e deve essere dotato, sul terreno ideologico, di una reale autonomia che solo un solido legame con il Partito di classe può garantire. Allo stesso modo, la lotta di classe non può raggiungere la vittoria se emette i suoi primi suoni alla vigilia della battaglia decisiva. L’ipotesi dell’emergere di un significativo antagonismo di classe durante la guerra imperialista non cambia le prospettive generali del movimento operaio, che rimangono sfavorevoli alla rivoluzione durante il conflitto. Ma ciò che cambia sono le prospettive del dopoguerra.
«Se, nel corso del conflitto, capitoli non episodici di lotta di classe si aprono all’azione diretta del Partito, e se il Partito agisce in piena coerenza con le linee tattiche e programmatiche marxiste, unendosi agli operai e ai soldati che combattono per i propri interessi con le armi in pugno, se sa imprimere a queste reazioni immediate alle sofferenze della guerra un orientamento apertamente disfattista e antinazionale, allora è possibile che la lotta rivoluzionaria esploda dopo la fine della guerra. È per questo motivo, e non per ragioni morali o, peggio ancora, per ragioni di prestigio, che il Partito deve stare al fianco degli operai anche nella più modesta delle loro lotte, anche se la sconfitta è probabile, anche se si tratta di una fiammata isolata. D’altra parte, sarebbe del tutto sbagliato affidare il successo del movimento rivoluzionario a una o poche fiammate isolate di lotta; la vittoria finale può essere raggiunta solo dopo numerose prove.
Non è possibile stabilire a priori se ci troviamo nell’ipotesi 3 o nell’ipotesi 4.
«Se si verifica l’ipotesi 3, l’azione del Partito si rivelerà infruttuosa per quanto riguarda una ripresa classista immediata, ma sarà feconda per il futuro. È vero che non rafforzerà la classe né influenzerà le lotte future, ma rafforzerà la prospettiva del Partito chiamato a guidarle, il Partito che deve essere ricostituito, riorganizzato su solide basi teoriche e programmatiche, in una situazione di controcorrente e, quindi, inevitabilmente attorno a un pugno di militanti.
«Al contrario, se ci troviamo nell’ipotesi 4, l’azione di orientamento e di battaglia rivoluzionaria condotta dal Partito nel mezzo della lotta proletaria sarà feconda per la ripresa rivoluzionaria del dopoguerra. Infatti, queste lotte sociali emerse dall’inferno della guerra lasceranno un segno indelebile nella coscienza e nella memoria di milioni di proletari se saranno state veramente orientate in senso classista e antinazionale. Questa esperienza, la lezione di queste lotte, si riveleranno preziose dopo la guerra, quando la borghesia, invece di mantenere le promesse fatte prima e durante il conflitto, esigerà nuovi sacrifici dai proletari per la “ricostruzione della Patria”. Allora la voce della rivoluzione potrà rispondere, a differenza di quanto accadde nel secondo dopoguerra, dove le lotte sociali e le agitazioni proletarie non mancarono, ma furono tutte inquadrate e orientate in senso non rivoluzionario dalle forze della collaborazione di classe, dai partiti di Thorez, Togliatti e soci».
Abbiamo incluso questa lunga citazione sia per dimostrare che la questione della guerra imperialista e il suo rapporto diretto con la ripresa della lotta di classe è sempre stata al centro del lavoro del Partito (anche in tempi in cui i tamburi di guerra risuonavano molto più lontani di quanto non facciano ora), sia per dimostrare che il trascorrere di quarant’anni convalida alcune ipotesi in misura maggiore di altre, anche se non è ancora possibile escluderne nessuna.
Dal 1982 a oggi, come abbiamo detto sopra, la classe proletaria non è riuscita a spezzare i legami che la uniscono alla politica collaborazionista dell’opportunismo. Non lo ha fatto né nell’arena politica né nella lotta economica immediata. Inoltre, anche quando le forze dell’opportunismo tradizionale hanno perso gran parte della loro influenza su alcuni strati della classe proletaria, la consegna democratica che sosteneva la loro politica rimane relativamente intatta.
Dal 1982, diciamo, si sono verificati eventi importanti che, pur avendo contribuito a frantumare il sistema politico e sociale del secondo dopoguerra, non sono stati sufficienti a smantellare l’impalcatura della prolungata collaborazione di classe. Lasciando da parte la caduta dell’Unione Sovietica, il cui impatto politico ed economico fu fondamentale nel rafforzare il dominio delle potenze imperialiste, l’evento più significativo fu la crisi del 2008-2012, che portò con sé diverse rivolte «popolari» sia in Medio Oriente che in alcuni paesi europei e, in misura minore, negli Stati Uniti. In queste rivolte, la forza indipendente della classe proletaria non fu mai rilevante, e il contenuto dei «movimenti sociali” che le guidarono fu (come non poteva essere altrimenti!) interclassista e mirato a sostenere lo Stato borghese con programmi riformisti d’altra parte impossibili da attuare. Il risultato di una tale situazione, con una classe borghese chiaramente determinata a liquidare tutto ciò che era necessario per il «patto sociale» e a ridurre le condizioni di vita del proletariato a un livello che consentisse una ripresa economica con profitti garantiti, e con una piccola borghesia che agiva come agente paralizzante del previsto movimento di classe, è stato un brutale deterioramento delle condizioni di vita del proletariato. Il livello dei salari reali è diminuito praticamente in tutte le potenze imperialiste centrali (ad eccezione della Cina, relativamente risparmiata dalla crisi); i salari indiretti e le prestazioni sociali sono stati significativamente ridotti ecc. Il proletariato ha pagato a caro prezzo la sua incapacità di rompere con le contese a livello sindacale e politico, con la rinnovata passione democratica rappresentata dal populismo delle nuove correnti parlamentari ecc. Un’altra pietra miliare degli ultimi quarant’anni è stata la mobilitazione tipica dei periodi di guerra che la borghesia ha attuato in risposta alla pandemia di COVID-19. In quell’occasione, la minaccia sanitaria iniziale rappresentata dal virus SARS-CoV-2 si è combinata con le ripercussioni delle misure di contenimento adottate dalla classe borghese, tra cui il licenziamento di milioni di lavoratori (i cui salari ridotti sono stati trasferiti direttamente sui conti nazionali) e la repressione sotto forma di sospensione delle libertà civili fondamentali (riunioni, stampa, spostamenti ecc.). Nulla è più simile a una guerra in tempo di pace di questa dimostrazione che il potenziale repressivo della borghesia non ha fatto altro che aumentare mentre il proletariato è rimasto indifeso. È vero che in quelle settimane si sono verificati focolai di lotta in alcune aziende, reazioni operaie contro il controllo assoluto imposto dai padroni ecc., ma la realtà ultima è la paralisi persistente e, ancora una volta, un netto deterioramento delle condizioni di vita della classe operaia con cui si finanzia la ripresa economica.
Data questa situazione e seguendo il quadro recuperato dal nostro studio del 1982, non è difficile vedere che sia la prima che la seconda ipotesi (ripresa della lotta di classe rivoluzionaria e ripresa della lotta di classe a livello sindacale), pur non essendo del tutto escluse, sono oggi più lontane di quanto avremmo potuto immaginare all’epoca. Gli sconvolgimenti sociali che abbiamo vissuto in questi quattro decenni non sono stati in grado di favorire nessuno dei due tipi di ripresa, sebbene abbiano considerevolmente indebolito le fondamenta su cui si fondava la pace sociale del dopoguerra. Come abbiamo detto sopra, il peso della mistificazione democratica, l’«abitudine» opportunista e conciliante ecc., sono così significativi nella classe proletaria che qualsiasi corrente politica può utilizzarli e far leva anche quando le sue azioni sono apertamente dirette contro gli interessi immediati dei proletari. Lo abbiamo visto, ad esempio, durante i lockdown pandemici del 2020 e del 2021, quando, di fronte alla disoccupazione e alla fame offerte dalla borghesia ai proletari, le vecchie e nuove correnti opportuniste sono riuscite a imporre la solidarietà nazionale e la difesa degli interessi economici del paese al di sopra di qualsiasi risposta di classe.
Come abbiamo detto, ciò non significa che entrambe le ipotesi, la prima e la seconda, siano del tutto escluse. Il periodo di mobilitazione prebellica delle risorse verso la sfera militare può portare a forti squilibri sociali in alcuni paesi, e in nessun caso si può garantire che questi non conducano a un qualche tipo di lotta proletaria su larga scala. I futuri schieramenti imperialisti di fronte a una Terza Guerra Mondiale (che non si sono ancora realizzati né economicamente né militarmente) potrebbero comportare immensi sacrifici per il proletariato, e solo il tempo dirà se tali eventi porteranno a una rinascita delle lotte operaie. Per quanto riguarda la terza e la quarta opzione, che implicano entrambe l’assenza di lotta di classe nel periodo prebellico ma la possibilità di una sua ricomparsa durante la guerra imperialista, le loro rispettive probabilità sono impossibili da calcolare, e proprio per questo motivo, dobbiamo evitare di cadere in false soluzioni del problema. Le due ipotesi si riferiscono non tanto alla possibilità che la guerra imperialista si trasformi in guerra civile, che in entrambi i casi sarebbe praticamente esclusa poiché il proletariato non sarebbe in grado di fare altro che muovere i primi passi sul campo dello scontro con la borghesia, quanto all’apertura, attraverso la mobilitazione operaia, di un periodo di effettiva influenza del Partito su strati considerevoli della classe. Ciò sarebbe escluso nella terza ipotesi, in cui la classe proletaria non può combattere se non in modo episodico e isolato, ma sarebbe una prospettiva realistica nella quarta. In ogni caso, però, entrambe le prospettive implicano che il Partito di classe debba riporre le sue speranze rivoluzionarie solo nel periodo postbellico. Di fronte alla possibilità di una guerra imperialista, il Partito deve anticipare con tutto il rigore possibile i diversi scenari che si presenteranno, soprattutto per quanto riguarda la capacità della classe proletaria di rompere con la politica borghese, sia nell’immediato che in generale. A tal fine, deve svolgere un lavoro di registrazione e valutazione di tutti i «sintomi» che possano indicare l’una o l’altra situazione, sforzandosi sempre di intervenire in ogni crepa, per quanto piccola, che possa aprirsi nell’edificio della società borghese e che offra anche la minima opportunità alla lotta proletaria e al suo intervento in essa.
Gli anni che precedono la guerra imperialista (che, secondo gli analisti militari, non sono molti e forse ammontano a meno di due decenni) vedranno l’emergere di una moltitudine di gruppi, cricche e collettivi, sia della vecchia «sinistra» che di quella ancora da nascere. Tutti porteranno con sé (e già lo fanno!) prospettive sulla guerra basate più sulla ripetizione automatica di slogan del passato che su una valutazione realistica dei fatti a cui stiamo già assistendo. E, con ciò, assisteremo all’uso fraudolento, impreciso e sterile di parole d’ordine marxiste classiche, come il disfattismo rivoluzionario, la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile ecc. Queste correnti, anche se oggi sono minoritarie, costituiscono il fondamento politico per la rinascita futura di correnti democratiche, partigiane ecc. che si concentreranno sul «movimento reale» e non sulle esigenze della preparazione rivoluzionaria. Tutta l’intransigenza verbale che ostentano oggi si trasformerà domani in un atteggiamento accondiscendente verso il corso degli eventi (che giustificheranno sempre con la «necessità di intervenire») e in un’indifferenza verso il reale potenziale di classe di certi eventi che indubbiamente si verificheranno. Lo abbiamo visto con il «Congresso contro la guerra» di Praga la scorsa primavera (vedi il nostro articolo Contro la guerra imperialista russo-ucraina, la risposta che solo il proletariato in Russia, Ucraina ed Europa può dare con la sua lotta di classe, sia contro il veleno bellicista delle borghesie e dei loro interessi nazionali, sia contro l’oppio pacifista, su «il comunista» n. 181, marzo-aprile di quest’anno) e lo vedremo in altre occasioni future.
Di fronte a queste illusioni, il Partito continua il suo lavoro, operando con forze che oggi numericamente possono sembrare ridicole rispetto al compito gigantesco imposto dall’antimilitarismo di classe, ma sulla solida e salda base della continuità teorica con le posizioni fondamentali del marxismo, che sono le uniche che permettono oggi di anticipare i futuri sconvolgimenti sociali e, domani, di trasformare la forza di classe proletaria che in essi emergerà nel motore della rivoluzione comunista mondiale.
Partito Comunista Internazionale
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