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Il capitalismo annuncia sempre le tragedie conseguenti alle alluvioni, ma non fa nulla per prevenirle!

 

 

8 ottobre 1970, 4 novembre 2011: Genova, ancora una volta, travolta da bombe d’acqua e fango, con morti e feriti.

L’alluvione è una tipica tragedia italiana. La lista è davvero lunga, e non c’è decennio, dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, che non sia stato punteggiato da catastrofi, distruzioni e morti, a dimostrazione che le note “cause naturali” – forti piogge, scioglimento delle nevi, innalzamento delle temperature, friabilità dei terreni ecc. – mettono in evidenza sempre più l’incapacità congenita della società borghese di dotarsi di sistemi di prevenzione in grado di proteggere vite umane, edifici, attrezzature produttive, coltivazioni, infrastrutture ecc. dalla “furia degli eventi”!

Basta scorrere rapidamente gli anni per notare l’impressionate serie di catastrofi dovute appunto alla sistematica assenza di prevenzione. Polesine 1951, Salernitano 1954, Vajont 1963, Firenze 1966,  Biellese 1968, Genova 1970, Val di Stava 1985, Valtellina 1987, Astigiano, Alessandrino e Monferrato 1994, Versilia del 1996, Val di Sarno 1998, Soverato 2000, Piemonte e Valle d’Aosta 2000, provincia di Udine 2003, Villar Pellice, nel torinese, 2008, provincia di Messina 2009, provincia di la Spezia e di Lucca 2009, Costiera Amalfitana 2010, Genova Sestri 2010, gran parte delle Marche e la Romagna 2011, Roma il 20 ottobre scorso, Cinque Terre e Lunigiana il 25 ottobre scorso, e ora Genova. E domani? Saranno le province di Savona e di Imperia ad essere colpite, e ancora le Cinque Terre, la Lunigiana, la Versilia giù giù fino alla costa salernitana o calabrese? Se la prevenzione nella società borghese è sempre assente, la previsione è addirittura troppo facile: ormai bastano 100, 200 mm di pioggia in più del solito, concentrati in poche ore e il disastro è assicurato!

       Erano appena terminati i funerali dei 10 morti, in Val di Vara, ad Aulla e a Monterosso, ad allarme ancora attivo, che i torrenti che sovrastano Genova si trasformavano in fiumi mortali di acqua e fango che trascinavano a valle, verso il mare, tutto ciò che trovavano sul loro percorso, tronchi d’albero, auto, motorini, bus, persone, cassonetti della spazzatura, mobili e tutto ciò che riempiva i negozi devastati dalla furia delle acque torrentizie. I dati ufficiali dicono che in 12 ore si sono rovesciati sulle alture appenniniche e su Genova 365 mm di pioggia, ingrossando i torrenti i quali, data la ripida pendenza verso il mare, trasportavano a valle con grande potenza la terra franata, rami e tronchi d’albero che, giungendo alle imboccature della loro canalizzazione cementificata, ostruivano lo scorrimento dell’acqua come fossero dighe: scavalcate queste “dighe” l’acqua fangosa travolgeva con ancor più forza tutto ciò che incontrava sul suo cammino. I torrenti Bisagno e  Polcevera abbracciano, in un certo senso, Genova, da est ad ovest, ma molti sono i loro affluenti che, in una densa ramificazione sotterranea, scorrono sotto le vie dei quartieri cittadini. Sono torrenti perlopiù in secca nei mesi estivi, ma che possono trasformarsi in violenti fiumi d’acqua con le piogge d’autunno. La popolazione genovese conosce per esperienza questa loro caratteristica, ma la speranza riposta di volta in volta negli amministratori della città e della regione affinché siano prese misure di sicurezza e prevenzione sulla base delle tragedie precedenti si è dimostrata tragicamente illusoria.

Il sindaco di Genova, di fronte ai 6 morti e agli enormi danni alle infrastrutture, agli edifici, ai negozi, ai mezzi di trasporto, non ha trovato di meglio che giustificarsi con i soliti argomenti burocratici: abbiamo dato “l’allerta 2” che “vuol dire massimo pericolo, vuol dire che se abiti nei piani bassi devi metterti in grado di salire ai piani alti, vuol dire che non devi andare in strada, che devi spostare la macchina prima che arrivi l’onda”! (la Repubblica, 5.11.2011). Già queste poche parole fanno capire come l’aiuto che dovrebbe giungere dalle “autorità preposte” si riduce miseramente a dei “consigli” e che poi...ognuno si regoli come vuole... D’altronde, a fronte di questo “massimo pericolo”, come mai le scuole non sono state chiuse? I famigliari degli alunni o andavano “ai piani alti” o andavano “a spostare la macchina”, o andavano a prendere i figli a scuola per riportarli a casa... E’ un caso forse che i morti erano persone che andavano a prendere i figli a scuola? Ma la voce della burocrazia, a proposito delle scuole aperte, si giustifica: “Meno male che che erano aperte. Altrimenti avremmo aggiunto caos al caos... le scuole aperte sono una possibilità in più, un servizio che offri: se la gente vuole può tenere i bimbi a casa, una volta che hai dato l’allarme massimo, è libera di farlo”! (la Repubblica, 5.11.2011). Che grande concetto di prevenzione: dare l’allarme massimo...chi lo sente lo sente... e poi ognuno faccia quel che vuole...

Da una società in cui si costruiscono case, negozi, fabbriche nei greti dei fiumi, in cui si cementifica il massimo possibile per dar più profitto ad ogni metro cubo costruito, in cui si degrada il territorio disboscando, abbandonando al loro destino le pendici dei monti, le antiche culture agricole grazie alle quali si tenevano puliti gli alvei dei torrenti e dei fiumi, il sottobosco e i muri di contenimento; da una società in cui ciò che ha valore – di vita o di morte – è il denaro, la mercificazione di qualsiasi attività umana, in cui una ristretta cerchia di capitalisti e di parassiti al loro servizio “gestiscono” la vita della stragrande maggioranza degli esseri umani, in cui ogni attività che non porti direttamente un profitto è considerata improduttiva perciò superflua, non prioritaria, inutile se non addirittura dannosa – e le misure di prevenzione e di sicurezza sono in generale non direttamente profittevoli – da una società di questo genere non ci si può attendere la soluzione dei problemi che essa stessa produce in quantità mostruose. Certo, l’emergenza porta sempre in primissimo piano la necessità di non porsi come problema immediato la soluzione delle cause del disastro da affrontare, ma di dedicarsi alla parzialissima soluzione degli effetti di quelle cause. Di fronte alle tragedie come questa, alle emergenze che stanno diventando la norma in una società zeppa di contraddizioni e in crisi prolungata, i politici o i preti di turno non perdono occasione di glorificare, nelle interviste e davanti alle cineprese televisive, l’eroismo e la grande dedizione dei volontari che intervengono spontaneamente, naturalmente senza pretendere di essere pagati, e si impossessano in questo modo di atti di solidarietà completamente estranei alla loro funzione sociale: oltre ad impossessarsi di privilegi, garanzie, emolumenti, essi rubano anche il sentimento di solidarietà che è in netta contraddizione con la società in cui tutto è merce, tutto si vende e si compra, in cui l’egoismo e l’individualismo regnano sovrani.

La grande contraddizione della società capitalistica, per quanto riguarda la città e la campagna, sta nel fatto che la città rappresenta la concentrazione degli affari, del business, delle banche, delle attività industriali, ossia la velocità di circolazione delle merci e dei capitali grazie alla quale il capitalismo si sviluppa; la campagna, invece, rappresenta sì la necessaria produzione alimentare dei mezzi di sussistenza, ma dipendendo essa, per la gran parte, da tempi di semina e raccolto e da stagionalità che non possono essere ridotti a piacere (a piacere del profitto capitalistico), è un’attività considerata subalterna, meno prioritaria, meno profittevole. Il capitalismo predilige il ritmo produttivo accelerato, quindi anche verso la produzione agricola predilige le coltivazioni di prodotti industrialmente più adatti e comunque di maggior profitto. L’abbandono delle campagne, ossia della cura agricola soprattutto dei terreni meno facili da coltivare, come quelli montani, non è dipeso solo dal fatto che i contadini non riuscivano più a ricavare da quegli appezzamenti un guadagno sufficiente per vivere, ma anche dall’aggressione capitalistica che tendeva e tende a trasformare i terreni messi a coltura in territori economici adatti al ricavo di profitto, destinandoli in toto o in parte ad altri scopi (edilizi commerciali o residenziali, turistici o sportivi ecc.). Cemento, dunque, contro spazio; profitto industriale, commerciale o finanziario contro ricavo agricolo, tendenza ad accelerare i cicli di accumulazione e circolazione del capitale contro l’adattamento delle attività umane ai cicli biologici della natura. La società borghese, se dovesse applicare effettivamente misure di prevenzione e sicurezza per la vita sociale degli uomini in armonia con i cicli biologici e con le forze della natura, dovrebbe distruggere le sue stesse basi economiche, il modo di produzione capitalistico che essa rappresenta e difende anche a costo di registrare continuamente morti per alluvione, per incendio, per terremoto, per tsunami, per infortunio sul lavoro, per crolli di palazzi, per scontri di treni o di auto, o per guerre. E’ impossibile che una società di classe distrugga le proprie basi economiche e sociali perché vorrebbere dire distruggere se stessa, né tantomeno è in grado di riformarle al punto da cambiarne del tutto lo scopo sociale. Ma ogni società di classe, nella storia, sviluppandosi ha prodotto anche i suoi seppellitori: sotto lo schiavismo si sono formate le classi feudali che lo hanno vinto e distrutto, nel feudalesimo si sono formate le classi borghesi che lo hanno vinto e distrutto, nel capitalismo si sono formate le classi proletarie che lo stanno combattendo ma non lo hanno ancora né vinto né distrutto.

Il corso storico delle società umane assomiglia un po’ al corso storico delle forze naturali: prima o poi riprendono ciò che, ad un certo punto dello sviluppo sociale, gli viene negato. Giungerà il tempo in cui le contraddizioni capitalistiche arriveranno ad un livello di rottura sociale tale da rimettere in movimento tutte le classi sociali e, in particolare, la classe del proletariato, l’unica che ha, nella prospettiva storica dello sviluppo delle società umane, la possibilità effettiva di chiudere il ciclo delle società di classe, con il loro portato di sviluppo ma anche di oppressione e di devastazione, per aprire la storia alla società di specie, capace finalmente di mettere la conoscenza, la scienza e i risultati della tecnica produttiva raggiunti, al servizio dell’uomo e della sua armoniosa vita sociale.  Ma tutto questo non avverrà per incanto, ma attraverso una durissima lotta che il proletariato dovrà ingaggiare come classe in netto e diretto antagonismo con la clase borghese e con tutto ciò che ne alimenta, ne difende, ne salvaguarda il mantenimento al potere. Se tragedie come queste devono insegnare qualcosa dal punto di vista sociale, devono poter indicare ai proletari il cammino di una riscossa di classe per poter finalmente risollevarsi dalla condizione di perenne vittima dello sfruttamento capitalistico e degli effetti mortali della sua persistenza.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

5 novembre 2011

www.pcint.org

 

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