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Un altro devastante terremoto sconvolge il centro Italia: per l’ennesima volta, prevenzione inesistente ma terreno fertile per le speculazioni dell’emergenza e della ricostruzione!

 

 

Il terremoto che, nella notte tra il 24 e il 25 agosto, ha interessato un’ampia zona appenninica al confine tra Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo, ha raso al suolo alcuni paesi e devastato moltissime loro frazioni: Amatrice, Accumoli, Pescara del Tronto e Arquata del Tronto non esistono praticamente più. La mattina del 27 agosto, i morti accertati sono 290, i feriti sono più di 250, e il conto dei dispersi non è ancora preciso dato che in questi paesi, d’estate, affluiscono  villeggianti anche da altre parti d’Italia e dall’estero. Ma sotto le macerie altri corpi potrebbero portare il conto totale dei morti a più di 300.

6.0 di magnitudo della scala Richter la violenta scossa che alle 3:36 di notte ha raso al suolo Accumoli; più di 300 le scosse immediatamente successive, alcune delle quali ancora molto violente, hanno superato il 4.0 della scala Richter, nel pomeriggio del 25 e nella mattina del 26, facendo crollare altri edifici in buona parte già gravemente lesionati. E le scosse hanno continuato a presentarsi nelle ore e nei giorni successivi; ne hanno contate, fino alla mattina del 27 agosto, più di 1.500.

Questo terremoto è stato definito, da Il Sole 24 Ore del 25 agosto, gemello del terremoto che ha colpito l’Aquila nel 2009 che si verificò dopo centinaia di piccole scosse premonitrici (ma rimaste del tutto ignorate nonostante gli allarmi lanciati dalla popolazione e da diversi geologi al notissimo Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia); gemello perché la zona colpita è confinante con l’aquilano, perché la magnitudo è simile: 6.3 a l’Aquila, 6.0 ad Accumoli e Amatrice, e perché a l’Aquila è avvenuto alle 3:32 di notte mentre qui è avvenuto alle 3:36. Solo la stagione è diversa (sembrava che i terremoti d’estate non dovessero mai avvenire): là il 6 aprile, qui il 24 agosto.

Ma ciò che rende davvero strettamente gemellati i terremoti italiani e le migliaia di comuni interessati è la sistematica mancanza di prevenzione, di quella vera, sostanziale, quella che mette in sicurezza i vecchi edifici, moltissimi dei quali si trovano nei borghi e nei centri storici di origine medioevale, e capace di dare le direttive e controllare che gli edifici “nuovi” siano stati e siano costruiti con le misure antisismiche più appropriate.

Qualche dato per avere un’idea: secondo l’Ufficio studi della Camera (il fatto quotidiano, 25/8/2016) in cinquant’anni, dal terremoto del Belice del 1968 al 2009, “la gestione dell’emergenza e la ricostruzione sono costate 135 miliardi di euro, oltre 90 messi dallo Stato”, e il conto salirà sicuramente perché considerando anche il terremoto dell’Aquila del 2009 e dell’Emilia del 2012, si arriva a 150 miliardi fino al solo 2013! E ora si aggiunge quest’ultimo. L’indebitamento dello Stato è dunque notevole, e lo sentono direttamente tutti i contribuenti che pagano le tasse, se si considera che  “per il Belice si pagherà fino al 2018, per l’Irpinia al 2020, per Marche e Umbria al 2024, per il Molise al 2023, per l’Abruzzo al 2033; solo per il Friuli tutto si è completato nel 2006”. Che l’Italia sia un paese ad alto rischio sismico è risaputo da sempre: “oltre il 60% degli edifici (7 milioni) è stato costruito prima delle normative antisismiche, 2,5 milioni sono in pessimo stato. Ma si è fatto davvero poco, quasi nulla”. Sono gli stessi giornalisti borghesi a mettere in evidenza, ogni volta che commentano i disastri e le vite perse a causa dei terremoti, e di qualsiasi altro disastro “naturale”, che i costi della prevenzione sarebbero sempre molto inferiori ai costi della ricostruzione. Sempre Il fatto quotidiano del 25/8 ricorda che, nel 1996, secondo il sottosegretario alla Protezione civile, Franco Barbieri, «si poteva dire addio agli effetti devastanti dei terremoti “con un flusso costante annuo di 2-3 mila miliardi di lire”, cioè di 3,6 miliardi di euro. Una cifra alla portata di qualsiasi governo». Dunque, la mancanza di prevenzione corrisponde alla mancanza di volontà politica di attuarla sistematicamente: i danni alle abitazioni e all’ambiente, come la grandissima parte dei morti sotto le macerie a chi sono dovuti? Alla fatalità imperscrutabile degli eventi della natura? Al castigo di Dio? Alla incuria e alla sbadataggine di qualche amministratore pubblico? Quali sono le priorità sociali e pubbliche se non quelle che riguardano la vita, la salute, il benessere degli esseri umani?

Per la società borghese, per la società capitalistica, la priorità non è e non sarà mai la vita, la salute, il benessere degli esseri umani, ma la vita, la salute, il benessere del capitale al quale è molto più congeniale l’attitudine all’affarismo, alla speculazione, al latrocinio che seguono sistematicamente ogni catastrofe, ogni disastro causato da eventi che sono “naturali” per un millesimo, visto che negli altri 999 casi sono preventivabili e, perciò, le loro conseguenze distruttive e mortali in gran parte arginabili.

A Norcia, in Umbria, epicentro della seconda scossa di questo terremoto, quella delle 4:35 della notte tra il 24 e il 25 agosto, di magnitudo 4.3, non vi sono state né lesioni gravi agli edifici né vittime. Fatalità? Fortuna? Si deve ringraziare “la benedizione papale con annessa indulgenza plenaria” ricevuta due anni fa? Certo che no; Norcia, che dista in linea d’aria da Amatrice solo 25 chilometri – a dimostrazione che è possibile intervenire con investimenti per la prevenzione – si è salvata da un disastro, che poteva essere molto simile a quello di Amatrice, grazie alla ricostruzione e alle ristrutturazioni antisimiche seguite al terremoto devastante del 1979 e poi a quello, meno grave, del 1997.

Ma Norcia resta un caso isolato e non perché sia difficoltoso copiare i tipi di intervento che sono stati messi in atto (“Sia le normative, sia le tecniche si sono evolute negli ultimi decenni; si è capito che non serve intervenire con strutture pesanti, come il calcestruzzo armato, che rischia di causare più svantaggi che vantaggi. Ora si lavora con materiali più leggeri, per esempio anche il legno”, secondo Giulio Sergiacomi, architetto esperto in tecniche antisimiche, che ha partecipato alla ristrutturazione della città umbra – il fatto quotidiano, ibidem), ma perché “grandi distruzioni uguale grandi affari e gli investimenti ritorneranno quadruplicati”, come si può leggere nel nostro filo del tempo del dicembre 1951, Omicidio dei morti.

Sappiamo di non poter essere smentiti da nessuno perché, come si legge poco sopra, sono gli stessi giornalisti borghesi che ammettono questa enorme contraddizione della società attuale. D’altra parte, cambia governo – e in Italia di governi ne sono cambiati molti – ma le vicende legate ai terremoti , come a qualsiasi altra catastrofe “naturale”, si assomigliano tutte: i cataclismi periodici sono sempre i più grandi affari dell’anno!, come anche il terremoto dell’Aquila dimostra chiaramente. E, alla fine, importa poco che gli affari li facciano le organizzazioni malavitose o le imprese che seguono le cosiddette regole del mercato. Chi ne trae beneficio è comunque il capitalismo, e quindi la classe sociale che lo rappresenta e lo difende, in pace come in guerra, la classe dominante borghese, che ad ogni catastrofe – per coprire l’affarismo che la caratterizza – fa girare a pieno regime la sua macchina propagandistica per la quale lo spettacolo della morte, della sofferenza e della distruzione domina su ogni altra notizia. Si assiste così ogni volta, come un rito irrancidito, alle solite litanie delle “più alte cariche dello Stato”, che si commuovono, pronunciano parole di conforto, promettono che le popolazioni colpite non saranno lasciate sole e che non si dovrà mai più assistere a tragedie di questo genere… ma i terremotati, come gli alluvionati, sanno che quel che lo Stato ha fatto, fa e farà per loro, è solo una goccia nel mare e gli interventi e la solidarietà che nell’emergenza si attuano – dovuti in buona parte alla solidarietà e all’abnegazione umana dei volontari e anche dei migranti presenti in quei paesi – sono destinati a scomparire nel giro di qualche settimana. Basta tornare agli esempi del Belice, dell’Irpinia, o dell’Aquila dove non solo il governo italiano ma addirittura i “grandi del mondo” davanti alle telecamere hanno lanciato promesse che non hanno mai mantenuto… 

I proletari, in un periodo in cui l’opportunismo collaborazionista vive ancora del successo che da decenni lo mette al riparo dalla reazione di classe del proletariato e che parassitariamente beve la dose di sangue proletario che le classi dominanti borghesi gli concedono grazie allo sfruttamento spietato cui sottopongono le masse proletarie del mondo, non si rendono ancora conto che la società capitalistica trae nuova linfa, nuova energia proprio dalle catastrofi, come dalle guerre che ancor oggi devastano interi paesi e massacrano centinaia di migliaia di esseri umani. “Lo sviluppo della produzione mercantile sulla base del lavoro salariato porta ineluttabilmente alla corsa al profitto e all’accumulazione, alla concentrazione del capitale ed all’imperialismo: nocività, inquinamento, distruzioni e disastri non sono che aspetti delle conseguenze di questo sviluppo”, così nel nostro filo del tempo del 1952, “Politica e costruzione”. Ciò significa che non ci si può aspettare dal regime borghese una inversione di tendenza, una politica che metta come priorità assoluta, sempre e dappertutto, nella vita quotidiana e nei posti di lavoro, nelle fabbriche, nei campi e in qualsiasi attività umana, la prevenzione rispetto alle malattie, alla nocività, all’inquinamento, ai disastri. La borghesia sa perfettamente che, per continuare a sfruttare il lavoro salariato a tutte le latitudini del mondo, deve concedere, almeno agli strati superiori del proletariato, un tenore di vita più decente che alle grandi masse; e deve amministrare la vita civile con un minimo di difesa dalle conseguenze più tragiche del suo stesso sviluppo. Ma è, nello stesso tempo, del tutto impossibilitata e incapace di dirigere lo sviluppo della produzione mercantile verso traguardi diversi da quelli che lo stesso modo di produzione impone inesorabilmente.

L’economia capitalista è l’economia della sciagura, la società borghese coltiva catastrofi: è irriformabile, e non fa che aumentare le conseguenze disastrose del suo sviluppo. Va perciò non solo combattuta, ma, questa sì, distrutta: a questo obiettivo si può arrivare soltanto attraverso la lotta di classe del proletariato che ha un interesse nazionale e soprattutto internazionale a farla finita con il modo di produzione capitalistico che mette al primo posto le esigenze del capitale contro le esigenze della vita umana; lotta di classe che dovrà rinascere dall’elementare lotta di difesa economica e sociale degli interessi immediati di esistenza per incontrare, nel suo sviluppo, l’orientamento di classe e la guida che soltanto il partito proletario di classe può dare. E’ per questo che la rivoluzione, di cui è portatrice storica la classe dei lavoratori salariati, è la bestia nera della classe borghese. In giorni in cui le popolazioni colpite dalla tragedia del terremoto devono sfogare il tremendo shock e la disperazione per aver perso i propri cari, la casa, il lavoro e, quindi, una prospettiva di vita futura, può sembrare stonato parlare di rivoluzione, ma le conseguenze sempre  drammatiche per la vita degli esseri umani di eventi naturali come i terremoti, i maremoti, gli tsunami, sono al 99% dovute proprio al modo di produzione capitalistico e al suo sviluppo, in una società che su di esso si è organizzata e sviluppata. La soluzione, come dimostrato da una lunga storia di catastrofi “naturali” rispetto alle quali la stessa “scienza” borghese si dimostra impotente anche quando, teoricamente, può dare appropriate tecniche nella prevenzione, non sta nella “buona volontà” dei governanti che dovrebbero dirigere cospicui investimenti di capitale a beneficio della vita umana sottraendoli all’accumulazione capitalistica e alla corsa al profitto: questo non avverrà mai perché è la potente forza sociale del capitalismo che guida la mano dei governanti, non il contrario. Ecco perché la soluzione delle enormi contraddizioni di questa società va cercata alla loro radice, nelle cause prime e profonde di tutte le conseguenze disastrose dello sviluppo capitalistico.

La potente forza sociale del capitalismo non potrà essere vinta che da un’altrettanto potente forza sociale: quella del proletariato, quella della classe dei lavoratori salariati dal cui sfruttamento sistematico e sempre più bestiale il capitalismo trae la sua vita. Storicamente è inevitabile, quindi, che la forza sociale rappresentata dal proletariato, per avere successo contro la forza sociale del capitalismo, si scontri e vinca la forza sociale della classe che detiene il potere politico, la classe borghese, la classe che, con la forza armata dello Stato, si appropria dell’intera ricchezza prodotta dal lavoro salariato e che con la forza armata dello Stato mantiene i proletari nella condizione di veri e propri schiavi salariati la cui vita e la cui morte dipendono esclusivamente dalla corsa al profitto capitalistico. Solo attraverso la rivoluzione di classe, il proletariato potrà aspirare alla propria emancipazione dalla schiavitù salariale e, quindi, dalla condizione di essere sempre e comunque carne da macello in pace e in guerra, negli infortuni e nelle morti sul lavoro come sotto i crolli delle case mal fatte o sotto i bombardamenti di forze militari imperialistiche che si contendono territori economici e mercati solo ed esclusivamente a fini di profitto capitalistico!   

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

27 agosto 2016

www.pcint.org

 

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