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Soumaila Sacko, bracciante maliano, ucciso a fucilate nella piana di Gioia Tauro

 

 

Il 2 giugno, giorno in cui in Italia la classe dominante borghese festeggia la sua Repubblica “fondata sul lavoro” – ossia, sullo sfruttamento sistematico della forza lavoro salariata! –, nella piana di Gioia Tauro, a San Calogero, vicino a Rosarno, alcuni immigrati rovistavano tra le macerie di una vecchia fornace abbandonata per trovare delle lamiere con cui costruire una baracca dove ripararsi; questi immigrati vengono presi a fucilate. Uno di loro resta ferito, mentre Soumaila Sacko, ventinovenne maliano, colpito in modo grave alla testa, muore mentre viene trasportato all’ospedale.

Non è il primo immigrato che viene colpito in quella piana.

Molti ricorderanno i fatti di Rosarno del gennaio 2010, quando alcuni immigrati africani vennero feriti da colpi d’arma da fuoco per mano dei rosarnesi, fatto cui seguì la rivolta dei supersfruttati africani che per due giorni si scontrarono con la polizia e con gli abitanti di Rosarno. E prima ancora, nel dicembre 2008, quando altri due braccianti africani vennero feriti a colpi di pistola, sempre a Rosarno, da parte di giovani italiani a bordo di un’auto che si dileguò velocemente. O dell’ennesimo incendio, questa volta nel gennaio di quest’anno, alla baraccopoli di San Ferdinando, a pochi chilometri da Rosarno e vicino al porto di Gioia Tauro, in cui bruciò viva una donna; in questa vera e propria favela sono ammassati centinaia di immigrati per lavorare negli aranceti e negli uliveti, come d’altra parte si ammassano in baraccopoli di fortuna in tutta la piana. Secondo stime non ufficiali, ma date per attendibili, nella piana di Gioia Tauro vi sono circa 5.000 braccianti immigrati che sopravvivono in condizioni spaventose e, naturalmente, per la maggior parte, clandestini (1).

Il supersfruttamento cui sono sottoposte le migliaia di immigrati, giunte in Italia dopo aver subito fame, miseria, oppressione nei paesi di provenienza, e dopo aver subito continue condizioni schiavizzanti, minacce e torture, nelle località di passaggio per giungere sulla costa mediterranea, in particolare in Libia, è uno sfruttamento noto ormai da anni ma per il quale nessuna istituzione statale è mai intervenuta se non per imprigionare i “clandestini” nei centri di identificazione e di espulsione. Interventi che, però, hanno sempre lasciato in una zona d’ombra migliaia di braccianti africani (con o senza permesso di soggiorno) utilizzabili dai caporali, dagli aguzzini, dagli imprenditori legati più o meno strettamente alle mafie locali e, in ogni caso, fornitori di merci alle multinazionali dell’agricoltura, allo scopo di “far girare l’economia agricola” e produrre il massimo dei profitti da quelle coltivazioni, siano di mandarini, di arance, di olive o di qualsiasi altro prodotto della terra. Dalle 12 alle 14 ore al giorno di lavoro, piegati sui campi a raccogliere frutta e verdura, per un compenso che non supera i 25 euro al giorno (di cui non meno di 10 sono trattenuti dai caporali) (2).

La speranza per le masse proletarie e proletarizzate che scappano dai propri paesi per giungere in luoghi – come i paesi d’Europa – dove trovare un lavoro per sopravvivere e una situazione in cui non sia scontata la tortura, la schiavitù, la morte, è appunto quella di sopravvivere in condizioni meno disastrate di quelle subite fino al giorno in cui decisero di mettersi in viaggio; ed è quella di poter ricongiungersi, prima o poi, con la propria famiglia. Spesso, non avendo le somme che richiedono i trafficanti di uomini per il “viaggio” di un adulto con bambino, i genitori affidano i propri figli a qualcuno che parte per quel “viaggio”, e così, quando non muoiono durante la traversata del deserto o del Mediterraneo, giungono sulle nostre coste i “minori non accompagnati” che, come si legge talvolta in qualche reportage, diventati “invisibili” finiscono col divenire facili prede nelle mani di altri trafficanti ed aguzzini.

Finché il flusso migratorio era quantitativamente di modeste proporzioni, la nostra borghesia discettava di regole per l’accoglienza e per i “richiedenti asilo”; ma quando i flussi iniziarono ad essere più cospicui, furono emanate leggi che avevano lo scopo di contrastare il fenomeno della “clandestinità” che, nelle sue preoccupazioni, prendeva il sopravvento, distinguendo, in più, tra immigrati “economici” e rifugiati politici. Ma, in particolare, l’esplodere dell’ultima crisi, che dal 2008 si è protratta fino al 2015 e le cui conseguenze negative sono ben visibili ancor oggi, è stato il pretesto grazie al quale le forze politiche presenti in parlamento si sono trovate a dover gestire flussi migratori che, viste le distruzioni di guerra, il declino economico di interi paesi dell’Africa e del Medio Oriente, le oppressioni sempre più intollerabili, diventati molto più consistenti che in passato. Inutile dire che la preoccupazione di fondo era condivisa dalle forze parlamentari tanto di “sinistra” quanto di “destra”: difendere la legalità e combattere con ogni mezzo l’illegalità, non solo costruendo i CIE e perseguitando i “clandestini”, ma limitando al massimo possibile gli sbarchi sulle nostre coste. La richiesta da parte dei governi di Roma di applicare le disposizioni europee sulle quote di immigrati da distribuire in tutti i paesi della UE, non ha avuto reale applicazione. L’Italia, nella sua caratteristica di essere il paese europeo di primo sbarco, ha l’obbligo di identificare tutti gli immigrati giunti sul suo suolo e di espellere tutti coloro che risultano illegali, e questo fatto evidentemente ha aggravato le difficoltà che la burocrazia italiana ha già per conto suo nella normale amministrazione di qualsiasi pratica, costringendo gli immigrati, anche quelli illegalmente presenti nei confini italiani, ad una prolungata permanenza in condizioni di sopravvivenza molto precarie e sempre più insopportabili, spingendo molti di loro alla fuga dai centri, al vagabondare da una città all’altra, a cercare ripari di fortuna lontani dagli occhi degli abitanti.

Ecco quindi che le forze politiche di destra, e la Lega in primo piano, già paladine della difesa dell’italianità contro qualsiasi stranierità, hanno continuato ad alzare la voce contro gli immigrati in generale e contro tutti coloro che tendono a dar loro una mano, per compassione o per toglierseli di torno. Il massimo dell’accusa è: “ci invadono”, “tolgono il lavoro agli italiani”, “violentano le donne”, “rubano” e “assassinano”, per questi motivi dobbiamo cacciare quelli che ci sono e impedire agli altri di invaderci. E il massimo dell’aiuto, mossi dai sentimenti di “carità cristiana” richiamati dalla Chiesa di Roma, è: “aiutiamoli a casa loro”, “l’Europa non può intromettersi nella nostra sovranità nazionale”. E’ solo propaganda elettorale? In questo modo, queste forze politiche parlano solo alla pancia della gente? No, non è solo propaganda elettorale. La borghesia non è mai stata una classe sociale perfettamente allineata su un solo fronte; è sempre stata una classe divisa in fazioni con interessi e obiettivi differenti, a seconda delle situazioni, delle convenienze immediate o future, della forza economica e finanziaria di cui ogni fazione borghese dispone. Ma è certo che in determinati periodi, soprattutto di prolungata crisi economica, nei quali le masse proletarie che subiscono più violentemente gli effetti negativi delle crisi economiche e sociali potrebbero e possono ribellarsi ai poteri costituiti, i borghesi hanno interesse che i proletari indirizzino la propria rabbia, provocata dal disagio, dall’insicurezza e dalla precarietà della loro vita, non verso i veri nemici di classe – i capitalisti, dunque i borghesi, le loro istituzioni e il loro Stato – ma verso gli strati sociali più deboli, più emarginati, più indifesi e facilmente identificabili. Lo straniero, l’immigrato, il nero, lo zingaro, il drogato, il gay, il barbone, fanno al caso loro, come ieri succedeva per gli ebrei. Vengono loro addossate le colpe di qualsiasi insoddisfazione, di qualsiasi pericolo per la proprietà privata o per l’incolumità personale; diventano il bersaglio di un odio che nasce nel profondo di una vita vissuta in una società in cui si viene abituati a difendersi da tutto e da tutti, in una società in cui ognuno è “solo contro il mondo”, in cui prevalgono il cinismo, la sopraffazione, la vessazione, l’ipocrisia, il furto, la frode, la violenza economica, psicologica e fisica, e di cui gli stessi rappresentanti del potere danno prova ad ogni pié sospinto.

E’ in situazioni di disagio come l’attuale, in cui oltretutto le masse proletarie autoctone hanno perso da decenni la propria identità di classe, a causa del collaborazionismo interclassista e delle illusioni democratiche che hanno dato loro, sistematicamente, false speranze di miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro; è in situazioni come l’attuale, in cui le organizzazioni di difesa elementare degli interessi di base dei lavoratori salariati sono state catturate dall’opportunismo vendendosi ai capitalisti per qualche privilegio e qualche sicurezza economica, e in cui fa fatica ad emergere la effettiva riorganizzazione di classe dei proletari sul terreno immediato come su quello politico generale; è in situazioni come l’attuale che i membri della piccola borghesia, i piccoli produttori, i piccoli imprenditori, i piccoli proprietari, visto che lo Stato e le forze dell’ordine non riescono a fermare “l’invasione degli immigrati” e non fanno paura né ai trafficanti di uomini né ai “clandestini”, sentono di doversi “difendere” con le proprie mani, meglio se armate. Allora i piccoloborghesi premono perché, se di fronte ad un ladro entrato in casa, o in negozio, ma scoperto e in fuga, il proprietario difende la sua proprietà e la sua incolumità personale sparando e lo uccide, questo assassinio non sia perseguibile penalmente; allora il piccoloborghese, che solitamente è l’aguzzino dei supersfruttati braccianti immigrati, non solo si appropria di una parte della loro paga, non solo li sfrutta e li mantiene in condizioni di semischiavitù, ma si sente perfettamente nel diritto di prendere a fucilate coloro che, per un motivo o per un altro, sono usciti dalle loro baracche non per andare a lavorare nei campi a rompersi la schiena per 12-14 ore al giorno, ma per cercare qualche materiale di scarto utilizzabile per costruire le loro precarie baracche, come è successo a Soumaila Sacko e ai suoi compagni di sventura.

Aldilà di quanto risulterà dalle indagini della Procura che ha in carico il caso di questo omicidio, resta il fatto che il clima costruito dalle forze politiche che hanno puntato la loro “vittoria elettorale” sul giro di vite da dare agli immigrati, forze politiche che ora sono al governo come la Lega, è un clima che facilita la diffusione di un odio verso lo straniero e verso l’immigrato di colore in particolare, tanto da far sì che episodi come questo non siano più così rari. Ma c’è un altro aspetto che non va sottovalutato, ed è il fatto che Soumaila Sacko era un sindacalista dell’Unione Sindacale di Base, che è una delle poche organizzazioni sindacali che si occupano dei proletari emarginati, come sono quelli che lavorano nell’agricoltura o nella logistica, e che in buona parte sono proletari immigrati.

Non sapremo mai, probabilmente, se il ventinovenne del Mali, è stato ucciso solo perché era un immigrato entrato in una vecchia proprietà privata, sebbene abbandonata, a portar via dei pezzi di lamiera, o perché rappresentava un punto di riferimento sindacale per i suoi compagni di lavoro. Ci sono migranti, grazie anche a questo tipo di organizzazioni sindacali, che si sono organizzati sindacalmente per difendere i propri diritti di lavoratori salariati e che, in un certo senso, mostrano, nonostante le enormi difficoltà di vita in cui sono costretti, una grande energia classista che i proletari autoctoni hanno perso nel tempo. La stessa energia classista che è emersa nel settore della logistica dove, immigrati e autoctoni hanno solidarizzato scioperando insieme in diverse occasioni, come alla Gls, alla Tnt o all’Ikea nel polo di Piacenza.

Certo, la lotta di difesa degli interessi operai, perché abbia un effetto sia sui proletari che lottano sia sui padroni contro i quali si lotta, perché non rimanga un episodio isolato e perché consenta di fare esperienza e tirare delle lezioni, deve portare all’organizzazione di classe. Non possiamo dire se sindacati come l’USD, il Si-Cobas o simili saranno l’embrione in cui maturerà il sindacato di classe di cui ha bisogno il proletariato per scrollarsi di dosso il peso soffocante del collaborazionismo dei sindacati tricolore, e per riprendere la lotta di classe in difesa esclusiva degli interessi operai, fuori non solo dalle pratiche negoziali caratteristiche dei sindacati confederali, ma fuori anche dalle illusioni democratiche e pacifiste. Il percorso che i proletari, autoctoni e immigrati, devono e dovranno seguire per ricostituire una grande rete organizzata sul terreno della difesa immediata è certamente un percorso molto accidentato, nel quale molti saranno i tentativi organizzativi e di lotta. Molte lotte saranno sconfitte, altre raggiungeranno dei risultati immediati. Ma è indubbio che l’apporto dei proletari immigrati non solo sarà importante, ma sarà decisivo anche per la lotta contro la concorrenza tra proletari, dato che la concorrenza tra proletari è una delle più importanti armi di oppressione di cui i capitalisti dispongono e che utilizzano senza alcuno scrupolo. Più i proletari sono divisi tra loro e si fanno concorrenza o vengono messi in concorrenza gli uni contro gli altri, e più ogni lotta operaia parziale, ogni lotta operaia anche dura non avrà un reale sbocco di classe, una forza per unificare i proletari in un’unica lotta anticapitalista. E’ per questo obiettivo, anche se lontano nel tempo, che i comunisti rivoluzionari lottano nell’oggi.

  


 

(1) Cfr. la repubblica, 12/12/2008, il giornale 8/6/2016, la repubblica 27/1/2018.

(2) Cfr. la repubblica, 26/4/2010.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

9 giugno 2018

www.pcint.org

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