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Libia: boccone petrolifero su cui continuano a gettarsi i briganti imperialisti

 

 

Dalla violenta caduta di Gheddafi nel 2011, in Libia non si è mai spenta la guerra.

L’intervento anglo-franco-statunitense, sostenuto da Italia e Germania, che mise fine al regime di Muammar Gheddafi, era stato propagandato come l’azione necessaria per mettere fine ad un regime dittatoriale che martoriava la propria popolazione e, grazie al quale intervento, alla Libia si sarebbero aperte le porte di un regime democratico come la rivolta popolare chiedeva.

Anche in Libia, come in precedenza in Tunisia e in Egitto, una grande rivolta popolare, soprattutto delle masse piccoloborghesi e dei clan anti-ghedaffiani, puntava a far cadere Gheddafi e il suo regime per sostituirlo con libere elezioni e successivi parlamento e governo democratici. I dittatori Bel Alì e Mubarak furono effettivamente defenestrati grazie alla fortissima pressione popolare, ma il cambio di regime poté poggiare in realtà sull’organizzazione centralizzata dell’esercito e, soprattutto nel caso di Al Sisi in Egitto, dimostrando che l’unità nazionale e un nuovo ordine borghese non potevano essere attuati se non con la forza di un esercito ben organizzato e disciplinato. Dalla forma dittatoriale di un potente clan come quello di un Mubarak, nella realtà, si è passati ad un’altra forma dittatoriale apertamente militare, sotto il comando di un generale come Al Sisi. Le illusioni piccoloborghesi di poter instaurare un regime di nuova democrazia basato sulla rivolta popolare, affidando all’Onu e alle potenze imperialiste che lo controllano l’uscita dal regime repressivo e massacratore contro cui quelle rivolte si sono lanciate, si infransero rapidamente contro una dura realtà: gli interessi delle potenze imperialiste che da sempre agiscono, con tutti i contrasti che la lotta di concorrenza mondiale genera, in tutta l’ampia fascia di paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, così importanti sia per le risorse petrolifere che per ragioni strettamente strategiche. Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia, Italia, Germania, Spagna, per citare gli imperialismi più direttamente interessati al Nord Africa e al Medio Oriente, garantivano nelle più diverse forme il sostegno ora all’uno ora all’altro “dittatore” locale, e i loro scopi non sono mai coincisi con le esigenze e gli interessi delle grandi masse popolari di quei paesi, tutt’al contrario; semmai usavano la loro forza, la loro pressione politica e militare, perché il controllo sociale attuato da un Gheddafi, un Ben Alì, un Mubarak, un Bouteflika, un Assad, un Hussein non provocasse danni ai loro interessi. E quando questi interessi venivano messi in serio pericolo, come nel caso delle rivolte popolari in Egitto, in Libia, in Siria, in Iraq, le potenze imperialiste applicavano, e applicano, una politica che prevede ormai contemporaneamente l’intervento diretto, il sostegno a determinate forze locali, la via diplomatica, la fornitura, aperta o nascosta, di armamenti leggeri e pesanti alle diverse fazioni locali, il cambio repentino di alleanze, l’organizzazione di conferenze per giungere ad accordi di conciliazione tra le parti, la minaccia di distruggere città e paesi interi e via di questo passo. L’Iraq e la Siria, da questo punto di vista, costituiscono gli esempi più emblematici di come i paesi imperialisti più forti concepiscono il loro intervento pacificatore!

La Libia, a differenza degli altri paesi della fascia che va dal Nord Africa al Medio Oriente, non è mai stato un paese che poteva contare su una base nazionale unitaria. E’ sempre stato un coacervo di tribù, di clan che hanno continuato a vivere controllando un vasto territorio per lo più desertico che, per ragioni geografiche e storiche, è inserito come fosse una enorme enclave tra paesi molto più popolati (si va dall’Egitto che conta 95 milioni di abitanti al Sudan, 41 milioni, dall’Algeria, 42 milioni, alla Tunisia, 12 milioni, al Ciad, 15 milioni e al Niger, 21 milioni), formando quella che l’Italia coloniale di primi del Novecento chiamava “scatolone di sabbia”, e i paesi sub-sahariani. Soprattutto dopo la caduta di Gheddafi, e lo spezzettamento del paesi in zone controllate da tribù e milizie antagoniste, la Libia è diventato territorio di transito della maggior parte dei migranti provenienti soprattutto dai paesi sub-sahariani, e la crisi economica e politica dovuta ai contrasti armati tra le diverse fazioni e milizie è stato un acceleratore dei traffici di esseri umani ad opera proprio delle diverse milizie che controllano i vari territori sia nel deserto libico che nella parte costiera, in particolare nelle regioni di Tripoli, di Misurata, di Sirte.

Tra la caduta del regime di Gheddafi e l’attuale situazione sono passati 8 anni, anni in cui si sono tenute le prime elezioni (luglio 2012) che hanno eletto un congresso nazionale generale, poi sostituito nelle seconde elezioni (giugno 2014) da una Camera dei Rappresentanti. Ma scoppia nuovamente una guerra civile tra le diverse fazioni che intendono controllare il paese, e così i due gruppi più forti entrano in contrasto e formano due parlamenti, uno a Tripoli, all’estremo ovest, e uno a Tobruk (in Cirenaica), all’estremo est, entrambi affacciati sul Mediterraneo; in mezzo si trovano Misurata, Sirte, Bengasi, Al Bayda. Il generale Khalïfa Haftar, vecchio capo di stato maggiore cirenaico sotto Gheddafi, ha guidato nel 2015 l’offensiva vittoriosa contro le forze islamiste tripolitane, consolidando in questo modo il suo potere in Cirenaica e conquistando l’appoggio di Egitto, Emirati Arabi e Russia. Il 30 marzo 2016, con un accordo tra varie fazioni, si insedia a Tripoli il Consiglio presidenziale guidato da Fäyiz as-Sarraj, che viene riconosciuto dall’Onu come il legittimo governo libico, ma non è riconosciuto dalle fazioni che fanno capo al generale Haftar e, dopo pesanti scontri per il controllo dei terminali petroliferi, viene sconfessato un anno dopo. Da allora la situazione nel paese oscilla continuamente tra rischi di scontri militari tra le milizie che sostengono as-Sarraj e quelle che sostengono Haftar, mentre il caos generale in cui si sviluppa la situazione facilita l’attività delle numerose bande criminali che sfruttano in tutti i sensi il flusso di migranti che dai paesi sub-sahariani tentano di venire in Europa.

In questi lunghi anni di scontri armati, di caos economico e politico, quel che non si è mai fermato è l’export del petrolio. Non importa chi in un dato momento controlla gli oleodotti e i terminali petroliferi, ma il petrolio ha continuato a viaggiare dai pozzi d’estrazione alle raffinerie e ai terminali per raggiungere l’Europa. Il profitto innanzitutto! I migranti, sfruttati peggio delle bestie, imprigionati nei centri di detenzione e di “identificazione”, bastonati, torturati, violentati, talvolta uccisi, e spediti via mare verso l’Europa su barconi fatiscenti che non raggiungeranno mai le coste europee, costituiscono per le bande libiche criminali un’alternativa o un surplus di profitto al traffico del petrolio.

Tra il luglio 2017 e il maggio 2018, as-Sarraj e Haftar, sollecitato dal governo francese si sono incontrati per ben due volte per concordare, sotto la mediazione di Salamé, capo missione dell’Onu per la Libia, un processo di conciliazione e giungere così ad una doppia elezione, legislativa e presidenziale. Ma la conciliazione non era nelle corde né nelle fazioni che sostengono as-Sarraj né in quelle che sostengono Haftar. A novembre dello scorso anno ci tenta l’Italia, convocando un incontro a Palermo tra i due “leader”, che in questo modo cerca di riprendere un ruolo nei rapporti con la Libia e con gli alleati occidentali. Ma Haftar snobba l’incontro, e ovviamente l’Italia, e inizia invece a muovere le sue milizie nella conquista del sud libico, prospettando una manovra che punti su Tripoli da sud e non da est; il suo obiettivo, come annunciato più volte, è Tripoli, e il pretesto è la necessità di sgominare le bande islamiste presenti a Tripoli a mia eliminate dalle milizie di as-Sarraj. In febbraio di quest’anno, dopo che Haftar ha pagato di più i mercenari della “Brigata 30, l’unità tuareg incaricata da Tripoli e da as-Serraj di difenderne le installazioni” (1), le forze militari di Haftar hanno conquistato il controllo di due impianti petroliferi molto importanti – quelli di El Feel e Al Sharara – nel Fezzan, e da qui si sono mosse verso Tripoli giungendo in questi giorni alla sua periferia.

I tentativi di as-Sarraj di fermare, diplomaticamente, l’avanzata delle forze militari di Haftar sono andati all’aria. Per quanto as-Sarraj sia sostenuto dall’Onu, e dall’Italia, dalla Turchia e dal Qatar, non trova alcuna via d’uscita politica: la guerra, per quanto “asimmetrica” sia – visto che Haftar è sostenuto da Egitto, Arabia Saudita, Russia e dalla Francia (anche se in tutto questo periodo Parigi ha fatto continuamente il doppio gioco) – è in atto e dato che gli imperialismi europei presenti (Russia, Francia e Italia) si sono schierati su due fronti antagonisti, gli Stati Uniti, che prima o poi dovevano prendere posizione sia perché membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu sia perché interessati a mantenere saldi i forti rapporti che li legano all’Egitto e all’Arabia Saudita, hanno infine deciso di affiancare queste due potenze regionali e passare al sostegno del generale Haftar.

Povera Italia, rimasta col cerino in mano. La sua “forza contrattuale”, non solo e non tanto con la Libia – o meglio, con la parte di Libia ancora controllata da as-Sarraj – quanto con gli altri ben più potenti paesi coinvolti, nel giro di qualche anno è andata assottigliandosi a tal punto da essere vicina allo zero. La Libia, con cui l’Italia si è sempre vantata di avere e di poter avere un rapporto privilegiato grazie ai suoi trascorsi coloniali (ma l’imperialismo italiano non è l’imperialismo francese che, invece, con le sue ex colonie mantiene ancora un rapporto coloniale forte), è diventata una trappola. Non solo dalla Libia, nonostante le grandi dichiarazioni di amicizia con l’Italia fin dai tempi dei governi Berlusconi, hanno continuato a partire migliaia di migranti trasportati dai trafficanti, ma lo stesso as-Sarraj, sempre sostenuto dalla diplomazia italiana, ultimamente non ha avuto scrupoli – dopo l’attacco su Tripoli da parte delle forze militari di Haftar che non è stato fermato dai governi europei – nel minacciare di scaricare verso l’Europa, e quindi soprattutto verso l’Italia, viste le rotte marine che portano facilmente alle isole siciliane, centinaia di migliaia di migranti. Tale minaccia è stata presa molto sul serio. Il governo Conte ha immediatamente istituito un “gabinetto di crisi” permanente per seguire passo passo le vicende legate alla guerra libica e alle sue conseguenze, anche se tale iniziativa è stata vestita ipocritamente come “crisi umanitaria”. Di umanitario, il governo Conte-Salvini-Di Maio ha dimostrato di non avere assolutamente nulla, vista la considerazione che questo governo ha delle navi delle ong e del loro lavoro di soccorso in  mare (i casi Aquarius, Diciotti, Sea Wach ecc. sono più che lampanti), e viste le spacconate dello sceriffo Salvini sui porti italiani sigillati e sul respingimento dei migranti nei porti “sicuri” della Libia!

«L’Italia – ha dichiarato Conte a Bari durante la cerimonia inaugurale dell’anno accademico al Politecnico – vuole avere un ruolo in Libia come lo ha sempre avuto. Il ruolo dell’Italia è quello di un Paese facilitatore, per il processo di stabilizzazione e pacificazione dell’intero territorio. E’ la ragione per cui pur dialogando con tutti, ovviamente sosteniamo quella che è l’azione delle Nazioni unite e riteniamo che tutti gli attori stranieri, gli esponenti della comunità internazionale debbano lavorare tutti insieme per non consentire che le divisioni sul territorio libico tra gli attori libici, si possano riprodurre e amplificare nell’ambito della comunità internazionale» (2).

Da buon avvocato, al di là delle solite parole su stabilizzazione e pacificazione che vengono usate sempre dai borghesi quando, nella realtà, fanno la guerra, quel che emerge dal discorsetto è che i contrasti di fazione sul territorio libico non si riproducano e si amplifichino sul territorio “della comunità internazionale”, cioè dell’Italia, visto che è il territorio più vicino alla Libia. Perciò, se Haftar deve vincere, perché ora ha dalla sua parte anche gli Stati Uniti, “noi italiani” ci appelliamo all’ONU (quindi al suo Consiglio di sicurezza, che è quello che decide) perché si prenda in carico la responsabilità di dire... da che parte dobbiamo stare... Si deduce che il ruolo dell’Italia sia, quindi, quello di sostenere le delibere dell’Onu e magari quello di inviare, se e quando verrà il momento, una forza di interposizione, come in Libano, alla quale l’Italia sarà ben felice di partecipare, ovviamente  nel suo ruolo di Paese facilitatore per il processo di stabilizzazione e pacificazione dell’intero territorio... in qualità di guardiano degli interessi imperialistici di tutti i paesi interessati.

Il fatto che gli Stati Uniti non si siano messi di traverso all’iniziativa di Haftar ha sicuramente preso in contropiede l’Italia, visto che Roma, prendendo sul serio le disposizioni dell’Onu, ha sempre supposto che gli Stati Uniti sarebbero stati dalla parte dell’Onu. Non è escluso, d’altra parte, che Washington, dopo che l’Italia è andata avanti per la propria strada riguardo le Vie della Seta e il memorandum d’intesa con Xiaoping senza dar retta a Trump, voglia mettere alla prova l’Italia in una situazione così intricata, per poi avere più peso nel restringerle un’autonomia di rapporti e di iniziative che Roma tenta ogni tanto di conquistarsi.

Ma, attenzione, in Libia esiste un’altra guerra di concorrenza, di cui i media parlano molto poco. L’italiana Eni e la francese Total sono estremamente interessate non solo a difendere i propri diretti interessi sul petrolio e sul gas libici, ma ad allargarli il più possibile.

L’intercambio tra Italia e Libia, nel 2018, è stato di 5,4 miliardi di euro, secondo il Quotidiano energia (3), di cui l’88% nel settore energetico (4,1 miliardi di euro); la Libia risulta essere così il quinto fornitore dell’Italia nel settore. L’Eni è presente nel paese dal 1959, in cooperazione con la società nazionale Noc (National Oil Corporation) che rappresenta il 70% della produzione nazionale libica, e soprattutto gestisce la concessione (fino al 2042) degli impianti di Al Sahara e di El Feel-Elephant che producono oltre un terzo del petrolio libico. Chiaramente, data la guerra tra le varie milizie, continuata in questi ultimi 8 anni con alti e bassi, la produzione petrolifera complessiva non è più stata quella di un tempo (tra il 2003 e il 2009 raggiungeva mediamente la produzione di 1,6-1,7 milioni di barili al giorno), ma nel 2017 e nel 2018 è stata comunque superiore a 1 milioni di barili al giorno, ciò che ha prodotto un fatturato medio, nel 2018, di 24,4 miliardi di dollari, il “massimo livello di produzione e entrate dal 2013” (4). Naturalmente, nel caso di una “stabilizzazione” della situazione, la produzione petrolifera potrebbe tornare al livello di produzione di 1,4 milioni di barili al giorno, sempre secondo il presidente della Noc, e questo è uno dei motivi per cui le diverse fazioni sono tentate di trovare un accordo per spartirsi le relative risorse finanziarie. Ma è nello stesso tempo motivo di scontro fra le fazioni che sostengono i due leader, as-Sarraj e Haftar, entrambi mossi dall’ambizione di controllare l’intero paese, quindi l’intera produzione petrolifera e tutti i proventi derivanti dalla vendita del petrolio. Dietro di loro, come si sa, manovrano le vere potenze, sia internazionali che regionali. Resta intanto confermato che «nonostante tutte le violenze e il caos che hanno scosso la Libia negli ultimi giorni, settimane, e mesi» non c’è stato «alcun arresto nelle esportazioni petrolifere libiche». Tanto che, in pieno attacco delle truppe di Haftar alle porte di Tripoli, «il 9 aprile, una petroliera Suezmax della compagnia britannica Energy Triumph è partita da Mellitah, 100 km a ovest di Tripoli, trasportando un milione di barili di greggio verso la Cina»; ciò malgrado «l’Eni, che gestisce la Mellitah Oli and Gas Company» abbia «annunciato il ritiro del proprio personale italiano dai giacimenti petroliferi di Al-Wafa e El Feel (controllati da Haftar) e Tripoli» (5).

Alla domanda: perché Haftar, invece di mettersi d’accordo con as-Sarraj come vuole l’Onu, vuole invece eliminarlo col rischio di mettersi contro gli interessi dell’Italia, della Turchia, e probabilmente anche della Gran Bretagna e della Germania? Secondo un inviato del Sole 24 Ore, il generale Haftar «ha tre obiettivi. Il primo è conquistare il potere facendo fuori gli islamisti, Il secondo impadronirsi delle entrate petrolifere: lui controlla infatti i pozzi del Sud e i terminali dell’Est ma non può esportare il greggio per un embargo internazionale e i soldi dell’oro nero li incassa ancora Tripoli con la banca centrale libica». Perciò Haftar punta a prendere il controllo della banca centrale libica che ora è controllata da as-Sarraj.

Tornando all’Eni, la produzione libica vale circa il 15% della produzione del gruppo italiano, e circa un terzo del gas naturale prodotto dal gruppo è libico. L’attività dell’Eni infatti non riguarda soltanto il petrolio ma anche il gas. L’approvvigionamento di gas naturale in Libia nel 2017 da parte dell’Europa è stato pari a 4,76 miliardi di metri cubi (dati Eni), e l’Eni conferma che le attività a Mellitah proseguono regolarmente (16 aprile 2019), nonostante le azioni militari che si svolgono nelle vicinanze di Zuwara. Esiste un gasdotto di 520 chilometri, il Greenstream, che, attraversando il Mediterraneo, collega l’impianto di trattamento del gas naturale di Mellitah con Gela in Sicilia ed ha una capacità di trasporto di 8 miliardi di metri cubi all’anno (6). Per l’italiana Eni, come per la francese Total, l’importanza, dunque, delle loro attività relative sia al petrolio che al gas naturale è significativa, tanto più considerando le prospettive di aumento delle attività visto che, sia onshore che offshore, la Libia risulta essere un paese con riserve tra le più alte in assoluto di petrolio ed ha anche moltissime riserve di gas – che rappresenterebbe il combustibile del futuro – ancora non esplorate. E’ quindi naturale, per i voraci interessi imperialistici dei diversi paesi, che questa “scatola di sabbia” rappresenti un boccone su cui giustificano qualsiasi guerra, qualsiasi dramma, qualsiasi imbroglio, qualsiasi violenza.

E, visto che il governo italiano è stato messo da parte dalle altre potenze occidentali, a partire dalla Francia e dagli Stati Uniti, come farà l’Eni a difendere i suoi interessi in Libia ora che il governo di accordo nazionale (Gna) di as-Serraj, con cui ha stretto forti legami, potrebbe essere detronizzato da Haftar? Secondo diverse fonti, dato che sia il capo della Noc che il ministro delle finanze di Tripoli hanno lavorato con l’Eni con cui continuano ad avere dei solidi legami, «l’Eni è abbastanza solida per resistere alle carenze del governo italiano» (7). Come dire che, non importa quali forze politiche italiane siano al governo, il colosso Eni difende i propri interessi anche con altri mezzi se le pressioni del governo non sono sufficienti. Dimostrazione indiretta della tesi marxista che i governi borghesi sono al servizio del capitalismo nazionale, e in particolare dei grandi trust, e non viceversa.

 

Mentre le fazioni borghesi e le milizie armate si fanno la guerra, le città e i villaggi libici vengono colpiti e bombardati, da entrambi gli schieramenti e dato che, almeno finora, nessuno dei due schieramenti intendono fermarsi e passare la palla alle reciproche diplomazie e ai diplomatici dei paesi che li sostengono, quel che sta avvenendo è un vero e proprio bagno di sangue: i morti si contano già a centinaia, gli sfollati a decine di migliaia. Gli interessi capitalistici, non importa se di piccole fazioni o di grandi potenze imperialiste, viaggiano distruggendo case e vite umane. Oggi, le masse povere, disoccupate e proletarie della Libia non trovano ancora la forza di organizzare la propria difesa di classe e perciò vengono massacrate anno dopo anno senza sosta e senza prospettive. In un paese che, ai tempi di Gheddafi si era denominato “Repubblica araba libica popolare socialista” e che dopo la sua caduta, grazie all’intervento militare imperialistico euro-americano, è diventato un territorio diviso tra bande sostenute ognuna con armi e denaro dai paesi che intendono spartirsi brandelli di quella che fu la Libia, le masse proletarie libiche non hanno alcun punto di riferimento né in casa, né nei paesi confinanti: sono alla mercé dei gruppi di sfruttatori e di criminali che hanno preso il posto dei fedelissimi di Gheddafi.

Sarà durissima per loro, perché dopo essere state illuse da un socialismo arabo-popolare alla Gheddafi, sono state e verranno ancora illuse da una pacificazione che dovrebbe aprire una stagione di libere elezioni e di democrazia, naturalmente dopo anni di massacri e di miseria.

La prospettiva nella quale prima o poi esse dovranno rivolgersi, allo stesso modo della masse proletarie di tutti i paesi vicini, Tunisia, Algeria, Egitto e di ogni altro paese, è una soltanto: la prospettiva della lotta di classe e della rivoluzione anticapitalistica. Non ci potrà essere mai pace sotto il capitalismo, perché anche quando la pace sembra finalmente raggiunta si dimostra niente di più che una tregua fra guerre. E le guerre borghesi sono sempre e soltanto guerre di rapina, massacri volti esclusivamente a gonfiare le tasche dei capitalisti più potenti, non importa se la loro nazionalità è libica, italiana, francese, britannica, russa, saudita o americana. I capitalisti si azzannano tra loro in una lotta di concorrenza permanente, ma chi ci va di mezzo in modo pesante sono soprattutto le masse povere e proletarie, sfruttate in pace e massacrate in guerra. Se rimangono rischiano di essere bombardate, se fuggono rischiano di finire nelle grinfie di milizie ostili o di trafficanti di esseri umani. La strada per uscire da questa spirale infernale è quella della rivolta contro tutti gli schieramenti borghesi, nazionali e stranieri, e organizzarsi sul fronte di classe nella lotta anticapitalistica. Una lotta, questa, che i proletari italiani, francesi, britannici, americani, russi, insomma dei paesi imperialisti, devono essi stessi fare propria, perché le condizioni per fermare le guerre borghesi non passano attraverso la democrazia, non passano attraverso la fratellanza tribale o l’unione nazionale, ma passano attraverso il riconoscimento dell’antagonismo profondo tra gli interessi che uniscono tutti i borghesi (anche se si fanno tra di loro la concorrenza) e gli interessi che uniscono tutti i proletari, soprattutto se non si fanno concorrenza!

Per quanto lontana appaia oggi la via della lotta di classe e della rivoluzione proletaria, è l’unica che possa opporsi con una reale forza all’oppressione permanente e violenta del capitalismo e degli Stati borghesi che lo difendono.

 


 

(1) Cfr. https://energiaoltre.it/cosa-succede-in-libia-tra-italia-e-francia-su-petrolio-e-gas/ 

(2) Cfr. https://www.repubblica.it/politica/2019/04/13/news/conte_           

(3) Vedi https://energiaoltre.it/libia-eni-petrolio-e-gas-ecco-perche-il-paese-e-così-importante-per-litalia/

(4) Ibidem, riferendo quanto ssostenuto dal presidente della Noc, Mustafa Sanalla.

(5) Notizie ricavate dal The North Africa Journal e riportate da https://www.startmag.it/energia/eni-total-noc-petrolio-libia/

(6) Vedi nota 3.

(7) Vedi nota 1.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

20 aprile 2019

www.pcint.org

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