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La Colombia sta bruciando?

 

 

A fine marzo abbiamo sottolineato l’enorme tensione sociale che regnava in questo Paese (1). Già a settembre la capitale Bogotà era stata scossa da rivolte dopo l'omicidio di un manifestante da parte della polizia, il cui brutale arresto era stato trasmesso sui social: la repressione aveva poi fatto 16 morti e decine di feriti da armi da fuoco.

Non ci volle molto perché questa tensione scoppiasse di nuovo, perché il vulcano eruttasse.

Il 28 aprile, dozzine di organizzazioni sociali e sindacali hanno proclamato uno sciopero nazionale di 24 ore. L’appello è stato seguita in modo massiccio; le marce e le proteste, svoltesi nonostante una sentenza del tribunale le vietasse, hanno riunito decine di migliaia di persone; a volte erano pacifiche ma il più delle volte violente. Vi sono state assalti e saccheggi di grandi magazzini e negozi di grandi marche, incendi di autobus, scontri con la polizia per lunghe ore, con il solito numero di feriti e arresti. Per tutta la notte, mentre il governo decretava il coprifuoco, i "cacerolazos" (concerti di pentole) risuonavano in tutto il paese.

Proteste e scontri sono proseguiti spontaneamente nei giorni successivi; il 3 maggio il governo dispegava l’esercito nelle città. Secondo quanto riferito dalle ONG dal 1 ° maggio, la repressione ha causato almeno 37 morti e 800 feriti fino al 3 maggio; la polizia ha sparato proiettili veri nella città di Cali contro i manifestanti; dal primo maggio, secondo le ONG 379 persono sono scomparse. Le ONG hanno anche denunciato aggressioni sessuali da parte della polizia.

Da parte loro, il 28 aprile i leader sindacali hanno condannato "l’uso sproporzionato della forza" (sic!) da parte della polizia e delle squadre anti-sommossa (ESMAD) nonché atti di violenza e saccheggi, affermando che non erano opera dei manifestanti...

 

LE RAGIONI DELLA COLLERA

 

Ciò che ha fatto scoppiare la rabbia di ampi settori della popolazione è il previsto aumento delle tasse nella nuova riforma fiscale che esenta quasi interamente i settori che traggono i maggiori profitti da questa società, ovviamente un pugno di ricchi gruppi di "oligarchici". In Colombia, il clan dell’ex presidente Uribe Vélez (accusato dalla Corte Suprema di corruzione e per il suo ruolo nei massacri commessi durante il suo mandato), mentore dell'attuale presidente, è uno dei più potenti (2). La nuova riforma, la terza sin dall’inizio del mandato di Duque, chiamata pomposamente “legge della solidarietà sostenibile”, tassa la grande borghesia solo all’1% o al 2%, ma colpisce duramente milioni di lavoratori che, fino ad ora, erano esenti dal dichiarare il loro magro reddito. Tra i punti di questa nuova riforma, c’è l’aumento dell’IVA, la creazione di una tassa del 20% sui servizi e sui prodotti di prima necessità come acqua, elettricità, raccolta dei rifiuti, gas ecc. e che toccano l’intera popolazione, compresa la piccola borghesia, ma in particolare i più poveri, che già da anni attraversano una terribile crisi economica.

Ma l’elenco dei malcontenti e delle rivendicazioni è lungo, tra cui la gestione sociale disastrosa o inesistente della pandemia, mentre la riforma fiscale si è presentata come necessaria per finanziarne la lotta (3). La Colombia è il terzo paese più colpito dell’America Latina, dopo Brasile e Argentina. Secondo il sito spagnolo “La Tercera”:

«... dal 19 aprile il Paese ha segnalato più di 400 morti al giorno [su una popolazione di 50 milioni di abitanti-NDR]. Inoltre, gli ospedali stanno affrontando un tasso di occupazione dei letti delle unità di terapia intensiva (USI) superiore all’80%, un aumento considerevole rispetto al 61% registrato all’inizio di aprile».

Il governo non ha esitato a sfruttare questa tragica situazione, di cui è responsabile, per cercare di dissuadere i manifestanti: un portavoce del governo, alla vigilia delle manifestazioni, ha minacciato di mandare in prigione coloro che sarebbero usciti per protestare, sotto la famigerata accusa di “mettere in pericolo la vita altrui”, o di far rispettare le regole di “distanziamento sociale” nelle marce. Ma «il governo è più pericoloso del virus!», «Le riforme sono più spaventose!», risponderanno il giorno dopo i manifestanti, disobbedendo ai “consigli” che il governo ha lanciato alle masse impoverite, alle sue provocazioni e ai suoi ricatti.

Tuttavia, la causa profonda della rabbia è il degrado delle condizioni sociali, anche tra gli strati piccolo borghesi. La crisi economica ha portato ad un aumento della disoccupazione: le ultime statistiche pubblicate danno un tasso di disoccupazione del 14% a marzo, ma questo dato non tiene conto del settore informale, il primo colpito dalla perdita di posti di lavoro: occupa comunque oltre il 66% della forza lavoro! I proletari che lavorano nel settore informale non hanno alcuna protezione sociale per quanto riguarda la disoccupazione, la salute, i diritti alla pensione ecc., per non parlare del rispetto del salario minimo: uno sfruttamento davvero bestiale! Non sorprende che il tasso di povertà sia salito al 42,5% della popolazione e quello di “povertà estrema” (una condizione che non consente di soddisfare i bisogni primari di cibo, cure mediche ecc.). è aumentato più del 15%. Il paese aveva già conosciuto uno sciopero generale e una forte mobilitazione proletaria nel novembre 2019 contro le misure di austerità del governo, prima che fosse fermato dalle misure contro la pandemia.

Altre ragioni dello sciopero sono state le violazioni del trattato di pace tra i guerriglieri delle Farc-Fln e il governo nazionale dell’ex presidente J.M. Santos, firmato all’Avana nel 2016: da allora si è registrato un macabro bilancio di oltre 450 (52 dall’inizio di quest’anno) firmatari e altri attivisti sociali assassinati dalle milizie paramilitari dei padroni. Secondo la “Giurisdizione speciale per la pace in Colombia”, durante i primi 6 anni di mandato di Uribe, l’esercito colombiano ha al suo triste carico l’impressionante cifra di 6.402 civili uccisi...

Per tutte queste ragioni, e nonostante la pandemia, dalle 5 del mattino del 28 aprile, un’ora dopo l’inizion delle manifestazioni in tutto il Paese, città come Cali e Bogotá stavano già registrando forti proteste, blocchi compresi. A metà mattinata, gli indigeni Misak hanno demolito a Cali la statua del conquistatore Sebastián de Belalcazar; questa è la città dove gli scontri sono stati i più violenti dell’intero paese. A Cúcuta, la capitale del Norte de Santander, i giorni di protesta sono iniziati presto. I manifestanti hanno denunciato in particolare l’aumento della violenza e delle uccisioni in questa regione di confine. In alcuni comuni come Entrerríos e Santa Rosa de Osos, ci sono state manifestazioni punteggiate da discorsi e concerti di casseruole. I manifestanti hanno chiuso l’autostrada Sogamoso-Belencito per bloccare la multinazionale Votorantim che opera in questa regione. Centinaia di persone si sono radunate a Saravena, Arauca, per iniziare le giornate di protesta nell’ambito dello sciopero nazionale. Nel comune di Tibú, Catatumbo, i lavoratori della Ecopetrol hanno aderito allo sciopero nazionale; hanno bloccato le strutture dell’azienda in tre punti, chiamando altri lavoratori a unirsi alla mobilitazione. Sono state scavate delle trincee per bloccare il traffico all’imbocco della superstrada Suba (Bogotà); respingendo le politiche attuate dal governo di Iván Duque durante la pandemia, gli abitanti del comune di Cantagallo, a sud di Bolívar, hanno bloccato l’ufficio del sindaco e la banca. Hanno anche protestato contro la possibile ripresa dell’irrorazione aerea di glifosato (erbicida cancerogeno) e i progetti per la produzione di gas di scisto mediante fratturazione idraulica sul loro territorio ecc.

Scioperi e manifestazioni sono continuati spontaneamente nei giorni successivi, al punto di costringere il Comitato Nazionale di Sciopero (CNS) a proclamare, nel tentativo di riprendere la guida del movimento, una nuova giornata di mobilitazione per il 5 maggio, quando non prevedeva di indirla se non per il 19.

Il successo dello sciopero e delle giornate di manifestazione, nonostante l’azione ritardante del CNS, hanno avuto i primi esiti positivi; a causa della gravità della situazione sociale, il governo Duque ha annunciato inizialmente che avrebbe corretto alcuni aspetti della riforma; alcuni settori e partiti filogovernativi si sono spaventati come il Partito Liberale che ha annunciato il suo voto contrario, mentre altri come il Centro Democratico hanno chiesto il ritiro definitivo della riforma. Infine, il 2 maggio, il presidente ha annunciato il ritiro della riforma, almeno temporaneamente.

Ma questa ritirata non ha posto fine alla mobilitazione: il 5 maggio ci sono state numerose manifestazioni che hanno proseguito anche il 6 e il 7 e doveva proseguire anche l’8 con altri blocchi.

 

MANCA IL CILINDRO A PISTONE 

 

Il Partito Comunista Boliviano, da buon democratico borghese, in una dichiarazione che termina con «patria o morte, vinceremo!», lanciava il 5 maggio un «appello (...) urgente alla comunità nazionale e internazionale affinché il governo smilitarizzi le città e fornisca garanzie fondamentali per la protesta e la mobilitazione della popolazione» (4).

Che cos’è questa “comunità” a cui si rivolge questo appello, se non una finzione borghese per camuffare le organizzazioni nazionali e internazionali e le strutture statali della classe dominante?

Il Partito Socialista dei Lavoratori (PST, trotskista) ha giustamente criticato l’azione di indebolimento della mobilitazione giocata dal CNS, che cerca soprattutto di negoziare con il governo la fine del movimento. Ma non riesce a capire che questo atteggiamento non si spiega con la «burocrazia» del CNS, ma con la sua politica di collaborazione di classe e il suo interclassismo, perché soffre dello stesso male, come dimostrato dalla prospettiva centrale dichiarata dai 3/5 del suo Comitato Esecutivo: «per rafforzare la lotta» una «riunione nazionale di emergenza» per «eleggere democraticamente una nuova leadership con organizzazioni sociali e sindacali, [le organizzazioni] di donne, della gioventù, delle comunità afro e indigene» – le stesse che fanno parte o sostengono il CNS! E questa dichiarazione si conclude così: «per un governo operaio e popolare!» (5), senza specificare chiaramente cosa significherebbe un tale governo interclassista, con quali mezzi sarebbe stato istituito e quale sarebbe il suo scopo. L'unica cosa chiara in questa confusa verbosità è che il PST è completamente estraneo alle posizioni rivoluzionarie marxiste e alla necessità imperante di lottare per l’indipendenza di classe del proletariato.  

Il CNS, che raggruppa con i sindacati le organizzazioni contadine e studentesche, in breve organizzazioni collaborazioniste e piccolo borghesi, è infatti per sua natura incapace di dare un orientamento e una direzione di classe alla lotta; ha già dato prova del suo attaccamento alla collaborazione di classe e alla difesa del capitalismo colombiano: la sua piattaforma rivendicativa mette in primo piano la «difesa della produzione nazionale (agricola, industriale, artigianale, contadina)». rivendicazione borghese se ce n’è una!

Non c'è da stupirsi quindi se il 7 maggio ha deciso di partecipare al «dialogo nazionale» proposto dal governo per trovare una via d’uscita dalla crisi, senza però chiedere la fine del movimento: un appello del genere non sarebbe seguito e il CNS ovviamente conta sull’esaurimento della lotta; quindi andrà a «negoziare» con il governo e con le organizzazioni dei padroni, della Chiesa ecc. il suo piano di emergenza, elaborato da diversi mesi, e le sue richieste. Ma non sono trattative nuove con questo governo assassino che minaccia di dichiarare lo stato di emergenza per fermare manifestazioni, scioperi e blocchi e che accusa i manifestanti di essere pagati dai narcotrafficanti, cosa che potrebbe portare a risultati positivi per i proletari.

Nel 2019 la lotta era già stata tradita dal CNS, che si era prestato a negoziati con il governo: i proletari e le masse impoverite possono constatare che era solo una mascherata che non è servita a nulla. Non può essere altrimenti oggi; solo la lotta determinata del proletariato può strappare nuove concessioni ai capitalisti e al loro Stato dopo la prima ritirata del governo.

Ciò implica l’organizzazione della lotta su basi di classe e esclusivamente per obiettivi di classe – e  quindi una rottura con la pratica della collaborazione di classe delle organizzazioni sindacali. Implica anche lavorare per l’organizzazione di classe del proletariato, dalle organizzazioni per la lotta immediata all’organizzazione politica indispensabile per guidare la lotta verso la conquista rivoluzionaria del potere e l’instaurazione della dittatura del proletariato, tappa essenziale per sradicare il capitalismo e spianare la strada alla società comunista: il partito di classe.

Trotsky ha ricordato nella prefazione alla sua “Storia della rivoluzione russa” che «Senza un’organizzazione dirigente, l’energia delle masse si volatizzerebbe come il vapore non racchiuso in un cilindro a pistone. Eppure il movimento dipende dal vapore e non dal cilindro o dal pistone» (6).

Ovviamente il cilindro in questione non è altro che il partito rivoluzionario che non crea situazioni rivoluzionarie, non crea vapore, ma li dirige.

I proletari e le masse sfruttate della Colombia danno ai loro fratelli di classe in altri paesi l’esempio della loro combattività (il “vapore”), ma anche l’esempio del tradimento di questa combattività nel vicolo cieco delle “trattative” con i rappresentanti della classe dominante. I militanti e le avanguardie che emergono e emergeranno dagli scontri di classe in Colombia e altrove, scontri che oggi preoccupano le classi dirigenti, non solo in America Latina, dovranno imparare la lezione: questa lezione è l’irrefutabile bisogno di lavorare per ricostituire il partito di classe internazionalista e internazionale, in collegamento con i proletari rivoluzionari di altri paesi, sulla base dell’autentico programma comunista che sintetizza gli insegnamenti delle passate battaglie di classe rendendo così possibile tracciare un solido orientamento per le battaglie future.

Questo risultato non può essere ottenuto dall’oggi al domani, ma è l’unica prospettiva non illusoria di emancipazione proletaria.

 


 

(1) Cfr. «Contro le minacce di guerra tra Venezuela e Colombia, solidarietà e lotta di classe internazionale dei proletari!», in www.pcint.org, La nostra attività, Ultime prese di posizione, 29/3/21.  

(2) Uribe, che è anche presidente del partito al potere, ha dichiarato il 30/4, in risposta alle proteste contro l’uso di armi da fuoco contro i manifestanti: «Sosteniamo il diritto della polizia e dei soldati di usare le loro armi per difendersi e per difendere le persone e i beni»!

(3) Un istituto europeo di studi geostrategici ha scoperto che Bogotá aveva speso – solo per l’anno 2020! – 9.100 milioni di dollari per il rinnovo dei suoi equipaggiamenti aeronautici e militari: l’acquisto di armi è più importante per la borghesia che salvare la vita ai proletari, i più colpiti dalla pandemia.

(4) https://www.pacocol.org/index.php/comites-regionales/tolima/14952-militarizada-colombia-el-paro-nacional-sigue

(5) https://litci.org/es/65703-2/

(6) Cfr. Lev Trotsky, Storia della rivoluzione russa, Sugar Editore, Milano 1963, Prinkipo, 14 novembre 1930, Prefazione di L. Trotsky, p. 11. Anche Oscar Mondadori, Milano aprile 1969, e giugno 1978, vol I, Prefazione di L. Trotsky, p. 11.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

8 maggio 2021

www.pcint.org

 

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