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Guerra borghese e propaganda dell’orrore

 

 

La propaganda dell’orrore è, per la borghesia, un’arma di guerra. Naturalmente tutti i belligeranti usano quest’arma per per i propri scopi. Lo scopo più importante, perseguito documentando con immagini sia reali che appositamente fabbricate, è di giustificare la propria guerra al nemico contro cui si è chiamata a raccolta la propria popolazione, compattandola nella grande e miracolosa unità nazionale grazie alla quale aumentare la forza d’urto, o di resistenza, delle operazioni belliche.

In particolare, dalla seconda guerra imperialista mondiale in poi, le guerre che le classi dominanti si fanno, per gli esclusivi interessi di spartizione dei mercati e del mondo, coinvolgono sempre più le popolazioni civili dei paesi in cui avvengono gli scontri militari. Certo, colpendo la popolazione civile dei paesi «nemici» si vuole piegare lo spirito combattivo delle loro truppe militari, indebolendole, disorientandole, demoralizzandole, spingendole ad arrendersi. Più il «nemico» resiste, più la sua popolazione civile viene colpita, massacrata, costretta a fuggire dalle sue case. Le operazioni militari delle classi dominanti borghesi non rispondono ad alcuna morale; sono preparate, organizzate, condotte esclusivamente allo scopo di piegare il nemico ai propri interessi immediati e futuri, interessi che non sono soltanto militari, ma politici, economici e di potere e per i quali le vite umane spezzate sono semplicemente... danni previsti, necessari, spesso ipocritamente passati per... collaterali. Qualsiasi mezzo, dunque, aldilà delle illusorie convenzioni internazionali di non usare determinate armi o di non infierire sui civili, notoriamente disarmati, viene in ogni caso utilizzato. La pietà scompare, è un sentimento del tutto episodico e legato esclusivamente all’imbarazzo di singoli militari che non riescono a sopportare la vista dell’orrore a cui hanno partecipato. Le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, i gas, le bombe al fosforo, le bombe a grappolo, gli oggetti esplodenti mascherati da oggetti di uso comune nella vita quotidiana, le mine anti-uomo, le bombe batteriologiche e le mille altre invenzioni che la tecnologia moderna permette di mettere in pratica allo scopo di uccidere, massacrare, annientare i nemici del momento, dimostrano come la società borghese, mentre ciancia di democrazia, coesione nazionale, valori condivisi e di inseguire soprattutto la pace, non è che un orrore permanente.

I media borghesi danno per scontato che la guerra porti con sé distruzioni, morti e orrori. E si stupiscono quando gli orrori si presentano anche in tempo di pace. In realtà, la società capitalistica, accumulando e moltiplicando la violenza sociale, le diseguaglianze, lo sfruttamento intensivo del lavoro salariato e delle risorse naturali, la sfrenata concorrenza tra capitalisti e tra Stati, non fa che sistematizzare l’orrore su cui essa si è sviluppata e grazie al quale si mantiene in vita. Che cosa sono gli infortuni e le morti sistematiche nei luoghi di lavoro; i feriti e i morti nei disastri continui provocati nelle frane, negli smottamenti, nelle alluvioni, negli incendi, nei disastri aerei, navali, ferroviari, stradali, nei terremoti; le violenze e gli omicidi quotidiani, in particolare contro le donne o per motivi razzisti o per sentimenti di rivalsa contro gruppi di persone inermi che funzionano come bersagli di atti vendicativi, nelle scuole, negli ospizi, nelle strade; che cosa sono se non la dimostrazione che la presente società borghese è la società degli orrori, la società delle sciagure, la società della morte e delle atrocità?

I mezzi di comunicazione più recenti, grazie a tecnologie avanzate, possono ormai portare nelle case di tutti, attraverso la tv e i cellulari, scene e filmati di distruzione, di repressione, di morti e di feriti; in questo modo l’orrore diventa una cosa di tutti i giorni, suscita una morbosa curiosità e, nello stesso tempo, paura. Essendo in mano alle grandi compagnie industriali e finanziarie, i mezzi di comunicazione vengono ovviamente usati al servizio dei loro interessi; se da una parte si fanno vedere e si descrivono, dettagliando fin nei minimi particolari, le atrocità messe in atto dal «nemico», sull’altro fronte tali atrocità si nascondono o vengono falsificate. In entrambi i casi, i belligeranti usano l’orrore della guerra allo stesso modo: insufflare sentimenti di solidarietà e di vendetta nell’una e nell’altra parte a giustificazione dei reciproci massacri. Ovvio che le operazioni di guerra attuate dagli eserciti più potenti e organizzati provochino più distruzioni, più morti, più atrocità proporzionalmente agli scopi prefissati, all’andamento della guerra, alla resistenza e ai contrattacchi del «nemico». Senza riandare alla seconda guerra mondiale, basta guardare alle guerre in Iraq, in Libia, in Siria o alle guerre jugoslave per rendersi conto che gli orrori della guerra non sono che la continuazione, con mezzi militari, della politica borghese e imperialista attuata in precedenza.

Allora la domanda è: a quali interessi risponde la politica attuata dalla classe dominante borghese in tempo di pace? Sono esattamente gli stessi a cui risponde in tempo di guerra, solo che in tempo di guerra i mezzi repressivi utilizzati per mantenere l’ordine capitalistico sono molto più concentrati e distruttivi, qualitativamente e quantitativamente, nello spazio e nel tempo, di quanto non lo siano in periodo di pace. La classe dominante borghese non modifica la sua essenza di classe dominante passando dalla pace alla guerra, o viceversa: ciò che modifica sono appunto i mezzi militari ad una scala più o meno ampia, più o meno distruttiva, più o meno locale, più o meno mondiale. E non va dimenticato che la società capitalistica si è sempre sviluppata attraverso le guerre guerreggiate che altro non sono che il punto storico di maggior crisi della società capitalistica. La stessa economia capitalistica porta, nel suo sviluppo – quando le crisi economiche e finanziarie non sono più superabili attraverso meccanismi di compensazione economici, finanziari e sociali –, alla crisi di guerra. I contrasti fra aziende, monopoli e Stati, giunti al limite della tensione provocata dalla crisi di sovraproduzione, chiedono oggettivamente di essere sanati da una sempre più ampia distruzione di forze produttive. La guerra imperialista è l’unica «soluzione» che le classi dominanti borghesi conoscono. Per questo la guerra, nella società capitalistica, è inevitabile; è la stessa politica borghese, la politica di potenza, la politica di conquista di mercati sempre più ampi a detrimento della concorrenza, che conduce le classi dominanti borghesi, sempre più in contrasto tra di loro, a prolungare la loro politica economica in politica di guerra. La liberazione di territori e paesi, sempre evocata dall’una o dall’altra parte dei belligeranti, è in realtà la liberazione di mercati: vengono «liberati» mercati da una concorrenza che con la guerra viene temporaneamente distrutta per lasciare il posto ai vincitori; una concorrenza che, però, non scompare mai, perché è parte integrante del capitalismo, e rinnovandosi non fa che ricostituire i fattori di tensione e di contrasto che porteranno nuovamente alla guerra.

Quando i livelli di tensione nei rapporti internazionali giungono a livelli non più controllabili, e per quanto ogni classe dominante borghese si prepari anzitempo alla guerra – come la corsa agli armamenti e la loro continua modernizzazione dimostrano –, la borghesia non è in grado di prevedere né quanto tempo la guerra durerà (i blitzkrieg sono sempre stati una pura illusione), né quante risorse dovrà mettere in campo per vincere, né quanto potrà contare sulla «coesione nazionale» della propria popolazione, né che effetti potranno avere le tensioni sociali interne e le sconfitte nelle diverse battaglie, né se gli alleati della prima ora saranno gli stessi per tutta la durata della guerra. Come il modo di produzione capitalistico non è controllabile da parte della borghesia – infatti essa è la sua rappresentante, e su di esso ha eretto il suo potere politico, ereditando dalle società più vecchie la proprietà privata e l’organizzazione dello Stato – così non sono controllabili né il mercato, né il capitale, né lo sviluppo delle forze produttive, né la guerra né la pace.

La borghesia, da classe rivoluzionaria, ossia rappresentante dello sviluppo delle forze produttive innestato nella vecchia società feudale, col passare del tempo è diventata necessariamente una classe reazionaria, cioè una classe che mantiene con la forza il potere politico anche quando non riesce più a sviluppare le forze produttive che il modo di produzione capitalistico ha generato e che, proprio per le sue contraddizioni intrinseche, deve necessariamente distruggere per lasciare il posto a nuovi cicli produttivi. La legge del valore, se da un lato ha significato una potente spinta allo sviluppo capitalistico, dall’altro rappresenta, allo stesso tempo, un potente freno allo sviluppo delle forze produttive; il capitale si autodigerisce per poter sopravvivere, si nutre di lavoro umano, attraverso il quale avviene l’accumulazione e la valorizzazione del capitale, esclusivamente per sopravvivere come capitale. Alle contraddizioni intrinseche al modo di produzione capitalistico si aggiungono quelle inerenti allo Stato nazionale, ossia all’organismo centralizzato che è nato per cercare di superare le contraddizioni economiche derivanti dalla produzione per aziende e dalla loro concorrenza nel mercato, ma che in realtà svolge il ruolo di massimo difensore dei poli capitalistici più forti che monopolizzano il mercato nazionale, dunque di massimo difensore del capitalismo nazionale

La guerra di concorrenza tra capitali si trasforma, ad un certo punto dello sviluppo del capitalismo, in guerra tra Stati, in guerra guerreggiata. La politica borghese che sostiene e difende, politicamente, diplomaticamente ed economicamente, gli interessi del capitalismo nazionale contro gli interessi di tutti gli altri capitalismi nazionali esistenti, prolunga la sua attività – nella lotta di concorrenza internazionale – sul piano dello scontro militare. Lo Stato, quindi, da massimo difensore degli interessi nazionali diventa il massimo aggressore degli interessi delle altre borghesie. La guerra, dunque l’uso dei mezzi militari per affermare i propri interessi nazionali, ha il compito di «risolvere» i contrasti intercapitalistici, e quindi interimperialistici, che le pressioni e gli accordi politici non riescono a «risolvere», che la tattica delle minacce, delle sanzioni, degli embargo non riesce a «risolvere». La guerra perciò, oltre al compito di distruggere, a causa delle crisi di sovraproduzione, enormi quantità di merci invendute ed enormi quantità di forze produttive inutilizzate, è anche il mezzo attraverso il quale gli Stati nazionali più forti, più potenti, sottomettono gli Stati più deboli, spartendosi il mondo – quindi i mercati – tra i vincitori.

Per fare la guerra, la borghesia di ogni paese ha bisogno di mobilitare tutto il paese, soprattutto le forze produttive, dunque capitali e lavoratori salariati; ha bisogno di unire tutte le classi sociali in un’unico esercito. Questa «unione nazionale» non si forma spontaneamente, non è automatica. La borghesia deve prepararla, costruirla e mantenerla nel tempo perché deve attenuare i contrasti sociali esistenti che, con le crisi economiche, e con la crisi di guerra in particolare, tendono ad acutizzarsi. Per raggiungere quell’unione nazionale così indispensabile per la sua stessa sopravvivenza come classe dominante, la borghesia usa tutti i mezzi possibili, legali e illegali, leciti e illeciti, morali e amorali, pacifici, repressivi, terroristici. Per mandare al macello masse di proletari e di soldati non basta costringerle con la forza – cosa che naturalmente fa – ma  deve anche convincerle della «giustezza» della guerra, di una guerra presentata sempre, da ogni borghesia, come una guerra «di difesa». E uno dei mezzi borghesi di convinzione utilizzati, da entrambi i fronti belligeranti, è appunto la propaganda sulla giustezza della guerra, sulla necessità di armarsi per difendere la patria, i sacri confini, la civiltà, le proprie tradizioni, il proprio stile di vita; una propaganda che esalta ogni fenomeno, ogni situazione, ogni fatto, ogni avvenimento in  grado di sollecitare le più forti emozioni perché i componenti di quell’esercito «nazionale» siano pronti a sacrificare la propria vita a favore... della patria, dei sacri confini, della civiltà ecc. ecc.

La propaganda dell’orrore è parte integrante della propaganda di guerra; più la guerra si dimostra distruttiva, più le azioni di guerra colpiscono la popolazione civile, più la propaganda dell’orrore diventa per la borghesia necessaria. E allora i massacri, le torture, gli eccidi avvenuti veramente o fabbricati appositamente, servono sia a piegare e a demoralizzare le truppe e la popolazione che li ha subiti, sia ad aumentare il sentimento di vendetta per averli subiti; diventano un carburante della guerra stessa.

 Come piange sui morti dei disastri provocati dall’incuria sistematica applicata al fine di risparmiare sui costi, velocizzare la produzione, guadagnare sui materiali, intascare sovraprofitti, così la borghesia, dopo aver ucciso e massacrato, piange sui morti delle sue guerre, celebra le vittime, stabilisce «giornate della memoria», fa «rivivere» i morti che lei stessa ha provocato per ribadire l’orrore della loro morte al fine di sollecitare il dolore, e il ricordo del dolore, per giustificare se stessa, per riproporre la sua società capitalistica come una società che «chiede perdono» per non aver saputo evitare quelle morti e quei dolori e che «promette» di fare di tutto – attraverso i valori morali e politici scritti nelle sue costituzioni – perché quegli orrori «non si ripetano più»; una società che, da un lato, affama miliardi di esseri umani e, dall’altro, provvede a sfamarne una parte, che da un lato getta moltitudini sempre più ampie nella miseria e nell’insicurezza sistematica della vita e, dall’altro, distribuisce ad una loro parte briciole di benessere immediato destinato a scomparire di colpo alla successiva crisi.

I proletari dei paesi della periferia dell’imperialismo conoscono bene, in questi ultimi decenni, l’orrore della guerra, della fame, della miseria; da quell’orrore scappano mettendo a rischio la loro vita e la vita dei familiari che lasciano, alla ricerca di una sopravvivenza meno incerta e meno dolorosa. Scappano da paesi che non offrono né un futuro né un presente, per raggiungere i paesi dell’opulenza, della pace, delle garanzie costituzionali, i paesi dell’Europa occidentale o del Nord America, i paesi dove regna la democrazia, i paesi dei diritti. E in questi paesi che cosa trovano? Da migranti, quando non muoiono nelle traversate dei deserti, dei boschi o del mare, trovano odio e diffidenza in quanto migranti, in quanto rifugiati; trovano la stessa miseria dalla quale sono scappati solo travestita da umanitaria beneficienza; incappano nel traffico di esseri umani, nel lavoro nero, nello sfruttamento della prostituzione, nella droga e nella criminalità, in una vita da schiavi trattati peggio delle bestie e sempre sull’orlo di peggiorare da un momento all’altro. L’orrore da cui credevano di essersi allontanati e di aver superato, si ripresenta sotto altre forme; in realtà, non li abbandona mai. Se non sono le bombe a ucciderli e a spezzare le loro famiglie, è la fatica di vivere, la vita da schiavi prima o poi a schiantare la loro resistenza.

La maggior parte dei proletari dei paesi imperialisti condivide la stessa condizione di schiavi salariati, solo che decenni di prosperità capitalistica, di superprofitti capitalistici, di sfruttamento bestiale dei proletari dei paesi della periferia dell’imperialismo, mentre hanno procurato loro un tenore di vita più decente, hanno oscurato le loro menti, hanno cancellato dalla loro memoria le reali condizioni di schiavitù salariale in cui vivono e le tradizioni delle loro lotte come classe antagonista alla classe dominante, alla classe dei capitalisti, alla classe borghese che è direttamente responsabile dello sfruttamento del lavoro salariato, delle diseguaglianze sociali, della concorrenza sui mercati tra gli Stati, della miseria crescente della stragrande maggioranza della popolazione mondiale, delle guerre e dei suoi orrori. Finché gli orrori della guerra borghese riguardavano le colonie, i paesi lontani dalle metropoli della democrazia imperialista, paesi in cui le metropoli imperialistiche inviavano i loro soldati a portare democrazia e benessere, a «sanare» scontri etnici, a trasportare quegli abitanti dalla «barbarie» alla «civiltà», la guerra borghese con tutti i suoi orrori appariva in qualche modo giustificata; si provava pietà per i morti dei massacri civilizzatori e si piangevano i propri morti, morti però per una «giusta causa». Ma la guerra ha bussato anche alle porte dell’Europa.

Con la guerra in Ucraina, come negli anni Novanta del secolo scorso con le guerre jugoslave, la pace in Europa si è rotta; l’Europa non è più un’isola felice dove la borghesia può godere della propria opulenza e i proletari autoctoni possono godere delle briciole che cadono dalla tavola dei ricchi capitalisti. La santificata democrazia ha mostrato per l’ennesima volta di non avere alcuna possibilità di fermare e spegnere le spinte sempre più forti dei contrasti interimperialistici. Sono questi contrasti che comandano, sono gli interessi economici e politici di potenza che guidano la politica dei governi borghesi. La guerra in Ucraina è soltanto l’ultimo esempio in ordine cronologico in cui si dimostra che il capitalismo non può fare a meno dello scontro tra le diverse borghesie nazionali spinte a conquistare nuovi territori economici a causa delle crisi dello stesso modo di produzione capitalistico. E’ la dimostrazione che la guerra è necessaria per la vita stessa dei capitalismi nazionali, dunque per il sistema capitalistico mondiale da cui dipende ogni capitalismo nazionale. E’ la dimostrazione che l’orrore della guerra imperialista non è un accidente che può essere evitato grazie alla buona volontà dei governanti o degli occasionali mediatori tra i belligeranti, ma è la norma per la guerra imperialista stessa.

I proletari che vengono costretti a fare la guerra per conto dei borghesi, sia come soldati, e quindi sui fronti di guerra, sia nelle retrovie nella produzione di guerra e nella difesa dei territori eventualmente invasi dai nemici, per la borghesia rappresentano armi della sua guerra e, come tutte le armi, sono usati per colpire e distruggere i nemici, quindi i proletari degli altri paesi, o per essere distrutti da nemici più forti. Negli scontri armati della guerra borghese i proletari non hanno alcuna «dignità» patriottica, nazionale da salvare, perché quella dignità patriottica risponde esclusivamente all’interesse della borghesia nazionale che, anche se ne esce vinta militarmente, rimarrà sempre la classe dominante, rimarrà sempre al potere e non smetterà mai di essere la classe sfruttatrice per eccellenza, non importa quanto brodo democratico e anti-totalitario userà per ingannare per l’ennesima volta le masse proletarie.

Ma, contro la guerra borghese imperialista i proletari hanno una via da percorrere, e l’hanno dimostrato nella storia passata: la via della lotta di classe rivoluzionaria. E’ in questa lotta di classe, e soltanto in questa, che i proletari riacquistano una loro specifica dignità, in cui si sentono finalmente uomini e non oggetti armati disumanizzati che combattono una guerra che non è e non sarà mai la loro guerra. Sì, i proletari sono storicamente chiamati o a fare la guerra per conto della borghesia– e quindi per gli interessi capitalistici della borghesia nazionale, accettando di fare la parte principale dell’unione nazionale sbandierata dalla borghesia come il valore massimo della patria da difendere –, oppure a fare la guerra alla guerra borghese, alla guerra imperialista, a fare perciò la guerra di classe. All’unione nazionale, all’indipendenza nazionale il proletariato oppone l’unione di classe che supera ogni confine, l’indipendenza di classe con cui organizza la propria lotta, la propria guerra.

Di fronte alla prima guerra imperialista mondiale, ai proletari di tutto il mondo i comunisti bolscevichi, e Lenin per loro, hanno lanciato la parola d’ordine della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, cioè in guerra di classe in cui il proletariato combatteva innanzitutto contro la propria borghesia. Quella guerra civile non aveva nulla da spartire con la guerra partigiana di resistenziale memoria. La guerra di classe vede la classe proletaria organizzata, armata e guidata dal suo partito comunista rivoluzionario contro tutti i nemici di classe, la classe borghese innanzitutto e le forze di conservazione sociale che si battono insieme e per la conservazione del potere borghese. I partigiani non sono che milizie armate che affiancano l’esercito borghese nella guerra borghese, combattono per la supremazia degli interessi borghesi per i quali è scoppiata la guerra imperialista. Per questo noi comunisti rivoluzionari siamo stati sempre contro la «resistenza partigiana» che dal 1943 al 1945 ha affiancato gli eserciti angloamericani nella guerra contro l’esercito tedesco e i suoi alleati fascisti; perché, attraverso di essa, i proletari sono stati totalmente deviati ad appoggiare uno dei fronti bellici imperialisti contro l’altro; credendo di combattere per riacquistare una libertà perduta, erano diventati in realtà esecutori armati degli interessi di uno dei due fronti borghesi di guerra. La loro indipendenza di classe era stata svenduta e sostituita con la dipendenza diretta dalle fazioni borghesi (in quel caso democratiche) che si sono liberate delle fazioni borghesi nemiche (in quel caso nazifasciste) per avere la libertà di sfruttare la forza lavoro proletaria a proprio beneficio, a beneficio dei propri profitti capitalistici.

Gli eccidi, i massacri, le distruzioni, i campi di prigionia, i lager erano parte dell’orrore della guerra imperialista, e venivano utilizzati da entrambi i fronti belligeranti: per demoralizzare il nemico colpendo sistematicamente la popolazione civile dei paesi nemici (Dresda rasa al suolo, ieri, dagli anglo-americani non è stata molto diversa da Mariupol rasa al suolo, oggi, dai russi), e per stimolare la sete di vendetta dalla parte avversa. Oggi succede la stessa cosa, come è già successa in Iraq, in Siria, in Libano, in Libia, in Bosnia.

La guerra che la classe proletaria dovrà fare per imporre la propria soluzione di classe alla crisi capitalistica dovrà usare tutta la violenza necessaria per piegare le forze borghesi nemiche, la loro dittatura politica, sociale, militare; alla violenza della classe dominante borghese non si potrà che opporre la violenza di classe del proletariato, una violenza che per finalità non ha, come per la borghesia, la continuazione della violenza economica e sociale al fine di mantenere in piedi un sistema sociale che si nutre, in ogni paese, della violenza quotidiana sulla stragrande maggioranza della popolazione. I proletari costituiscono la maggioranza della popolazione e sono la classe produttrice della ricchezza di ogni paese; il fine della guerra di classe rivoluzionaria è il superamento del disumano modo di produzione capitalistico,  e ciò rende il proletariato l’unica classe in grado di umanizzare la società, armonizzare la produzione con i bisogni reali non del mercato capitalistico, ma degli uomini in tutto il mondo, sviluppando e valorizzando le forze produttive che il capitalismo frena e distrugge periodicamente per ragioni esclusivamente di profitto capitalistico. Per raggiungere questo fine non si può che passare attraverso la rivoluzione, l’abbattimento dello Stato borghese, l’instaurazione della dittatura proletaria e l’allargamento della rivoluzione proletaria in tutti i paesi del mondo, soprattutto nei paesi capitalistici avanzati.

Il capitalismo non si spegnerà da solo, non si estinguerà; la classe borghese che rappresenta gli interessi del capitale non cederà mai il potere; anche quando, a causa della rivoluzione proletaria, perderà il potere, in un paese o in più paesi, non si darà mai per vinta. L’ha dimostrato nelle rivoluzioni del 1848, nella Comune di Parigi del 1871, e nella rivoluzione bolscevica del 1917; cercherà la restaurazione del proprio potere con tutti i mezzi, e in particolare con i massacri delle popolazioni inermi. Più sono avanzati tecnologicamente i sistemi d’arma, più la vendetta borghese si corona di orrori; oggi, con i bombardamenti dall’alto, dal mare e da lontano con i missili, gli eserciti cercano di spianare la strada alla fanteria, alle truppe terrestri perché la vittoria militare la si raggiunge solo occupando e dominando i territori dei nemici, e questo risultato lo possono ottenere soltanto le truppe di terra. Il capitale, infatti, per tornare a circolare vorticosamente ha bisogno di territori economici reali, mercati fatti di consumatori in carne ed ossa, terre su cui costruire stabilimenti, uffici, magazzini, banche, case, strade, ferrovie, porti, aeroporti, e forze lavoro da sfruttare. Finiti gli orrori della guerra, iniziano, perciò, gli orrori della pace, gli orrori provocati quotidianamente dallo sfruttamento delle forze di lavoro, dall’affamamento di una parte di popolazione che non trova lavoro, da una violenza economica di fondo che genera violenze di ogni tipo e su tutti i piani della vita sociale, in particolare contro le donne, i minori, gli anziani, dentro le mura domestiche, negli asili, nei ricoveri per anziani, nelle carceri. La società capitalistica è intrisa di violenza e il suo mantenimento in vita è dovuto soltanto ai fiumi di sangue proletario versato sia in tempo di pace che in tempo di guerra.

Perché gli orrori della guerra borghese finiscano non basta che finisca la guerra borghese. La storia dimostra ampiamente che la guerra borghese è la norma, non l’eccezione, e che la pace non è che un intermezzo tra due guerre. Perciò la via d’uscita è nella rivoluzione proletaria, l’unica che aprirà, a livello mondiale, la società umana ad un futuro totalmente opposto rispetto a quello offerto dal capitalismo perché al centro degli interessi economici e sociali ci saranno i bisogni reali della vita umana e non le esigenze del capitale e della sua incessante valorizzazione. Sarà una via difficile, ardua e per nulla breve, ma la ruota della storia va in quella direzione. Con lo sviluppo della grande industria – scrivevano Marx-Engels nel «Manifesto del partito comunista» nel 1848 – viene tolto di sotto i piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori, cioè la classe dei lavoratori salariati, la classe che produce la ricchezza in ogni paese, ma di cui è la borghesia ad appropriarsi monopolisticamente, sottraendola con la violenza dello Stato, delle sue leggi e delle sue forze militari, al godimento da parte della stragrande maggioranza degli esseri umani.  

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

11 aprile 2022

www.pcint.org

 

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