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PROLETARI DI TUTTI I PAESI, UNITEVI!

Nella lotta contro la borghesia di ogni paese, nella lotta contro la guerra borghese, nella lotta per la rivoluzione proletaria e per l’emancipazione generale dallo sfruttamento capitalistico!

 

 

Dopo oltre due anni di pandemia di Sars-CoV-2 e di un sempre più stretto controllo sociale in ogni paese da parte della rispettiva classe dominante borghese, periodo in cui la borghesia ha dimostrato ampiamente di non poter prevenire le crisi sociali che essa stessa provoca, ma di essere pronta ad approfittarne per schiacciare ancor più la classe proletaria alle sue esigenze di dominio politico e sociale, scoppia la guerra tra Russia e Ucraina.

Dopo 8 anni di guerra di «bassa intensità» – come amano definirla i pennivendoli di ogni risma – in cui le forze militari ucraine hanno represso costantemente la popolazione russofona nel Donbass al solo scopo di sopraffare col proprio nazionalismo quello russofilo e conquistare il pieno controllo di una regione tra le più ricche di risorse naturali del paese, il proletariato russo e quello ucraino sono stati mobilitati in una guerra fratricida. In una guerra in cui i proletari che, aldilà della nazionalità e del paese a cui appartengono sono in realtà fratelli di classe, si ammazzano a vicenda per far prevalere soltanto gli interessi della propria  borghesia su quella nemica. Sono carne da cannone perché nelle guerre borghesi le masse proletarie, armate per difendere il capitalismo nazionale, costituiscono la maggioranza delle truppe militari; e lo sono perché nelle guerre moderne si bombardanoe sistematicamente città, villaggi, fabbriche, per indebolire le truppe sui fronti di guerra e per impedire qualsiasi tipo di resistenza che può sorgere dalle popolazioni civili.

Le leggi della guerra borghese non sono che le leggi economiche e della concorrenza capitalistica portate alle estreme conseguenze. Leggi che rispondono alle stesse esigenze di sopravvivenza del capitalismo e del dominio politico borghese sulla società; il generale prussiano Von Clausewitz, nei primi dell’Ottocento, affermava apertamente che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, cioè con mezzi militari; perciò la guerra non è un semplice atto politico staccato da altri atti politici, ma la continuazione della politica. Questa affermazione è tanto vera che vale non solo per la guerra borghese, ma anche per la guerra di classe proletaria, per la rivoluzione proletaria.

Resta il fatto che alla guerra borghese prima o poi succede la pace borghese, alla guerra imperialista succede la pace imperialista; una pace che le borghesie belligeranti dichiarano sempre di volere, ma continuano a farsi la guerra per accumulare i possibili fattori di vantaggio nelle successive trattative di pace; la pace serve ad ogni borghesia per rimettere in moto la propria economia, per la ricostruzione postbellica, e come dichiarano falsament tutti i governi borghesi, per una «nuova prosperità». Ma come la pace imperialista non è che un intervallo fra due guerre, così la temporanea prosperità borghese non è che la preparazione di una successiva crisi, e di una successiva guerra. Basta dare un’occhiata ai decenni che ci separano dalla fine della seconda guerra imperialista mondiale per capire che la realtà borghese è esattamente questa.

Anche il primo Maggio di quest’anno cade in un periodo di guerra, questa volta ai confini orientali dell’Europa, dopo la guerra ventennale della Nato in Afghanistan, le guerre in Siria, in Libia, in Iraq, le guerre nel Caucaso e quelle jugoslave, anch’esse nei paesi dell’est Europa. Nel giro di poco più di vent’anni la guerra borghese, dalla Serbia, dalla Croazia, dalla Bosnia, dal Kossovo torna a tuonare nei cieli d’Europa. I proletari, non solo dei paesi direttamente coinvolti nei massacri di guerra, ma anche i proletari dei paesi imperialisti che scatenano la guerra e ne ingigantiscono gli effetti distruttivi, sono coivolti perché devono sostenere, «in patria», lo sforzo bellico della propria borghesia; e se gli effetti della guerra provocano crisi nei rifornimenti di alimenti o di risorse energetiche – come oggi a causa della guerra russo-ucraina – è un fatto che questi effetti colpiscono duramente e in modo generale soprattutto le masse proletarie nelle loro condizioni di esistenza e nelle loro condizioni di lavoro.

Ogni borghesia annuncia che la guerra è evitabile se si trovano i punti di equilibrio tra i diversi e contrastanti interessi rappresentati dagli Stati e dai trust economico-finanziari; e che la guerra. ormai scoppiata, può essere ad un certo punto fermata grazie alle pressioni che gli Stati più potenti possono esecitare attraverso vie diplomatiche o trattative segrete. Indubbiamente le vie diplomatiche e le trattative segrete ci sono sempre durante le guerre borghesi, ma i loro risultati dipendono sempre da quello che è il vero obiettivo della guerra: costringere gli avversari ad accettare le condizioni del più forte.

Succede lo stesso nei conflitti sociali, e questo dimostra che l’ideologia di un popolo in cui primeggerebbero i fattori di unità nazionale è totalmente falsa perché la realtà sociale è data dall’antagonismo di classe che oppone in ogni paese, senza mai un secondo di pausa, la classe borghese alla classe proletaria. La classe borghese, infatti, è in lotta costante sia contro le borghesie avversarie in una concorrenza che è da sempre internazionale, sia contro le masse proletarie, anche quando queste ultime non si ribellano usando la propria forza per difendere i propri interessi di classe.

La borghesia ha un’arma efficace nelle proprie mani, un’arma che è stata svelata dal marxismo ed è la concorrenza tra proletari. La concorrenza commerciale che istiga i capitalisti a produrre di più e a minor costo in modo da essere competitivi sui mercati, viene trasferita su quella particolare merce che è il lavoro salariato dal quale ogni capitalista vuole ottenere più produttività a costi più contenuti. La concorrenza tra proletari, per i borghesi, è equiparata alla concorrenza tra due merci che, in questo caso, si scontrano sul mercato del lavoro: quella più produttiva vince su quella meno produttiva che, per questo motivo, viene pagata meno, viene impiegata in modo stabile o viene semplicemente espulsa dai cicli produttivi. Aumentano così i lavori malpagati, i precari, i cottimi, il lavoro nero, la disoccupazione. Anche nei periodi di prosperità economica i capitalisti hanno interesse ad approfondire il fossato tra gli strati operai più produttivi e tutti gli altri; hanno interesse, nello stesso tempo, a mantenere col minimo costo indispensabile, la massa dei disoccupati perché essa esercita spontaneamente – per esigenze di sopravvivenza quotidiana – un forte pressione sulla massa operaia occupata, proponendosi o accettando di lavorare a costi molto inferiori di quelli considerati sufficienti ad una vita non in povertà assoluta. La concorrenza tra proletari non sparisce nei periodi di prosperità, e ha quella particolare qualità di acutizzarsi in tutti i periodi di crisi economica. Ma dato che la società capitalistica va incontro a periodi di crisi sempre più frequenti, proprio a causa della sua grande vitalità produttiva, ma dell’impossibilità dei mercati di assorbire la sempre più gigantesca quantità di merci prodotta – impossibilità causata dalla caduta tendenziale del saggio di profitto – la tendenza ad aumentare con progressione geometrica lo sfruttamento del lavoro salariato va a colpire sempre più le condizioni di esistenza e di lavoro del proletariato in ogni paese e a livello mondiale.

E’ lo stesso capitalismo che ha reso, e rende sempre di più, il proletariato una classe internazionale, non solo perché il suo sviluppo nel mondo significa sviluppare anche le masse proletarie da sfruttare, ma anche perché attraverso l’aumento della concorrenza tra capitalisti e tra Stati borghesi aumenta la ricerca nel mondo di masse proletarie da sfruttare a costi inferiori di quelli dei proletari dei paesi capitalisti avanzati.

Il primo passo di internazionalizzare il proletariato come classe salariata lo fa proprio il capitalismo, ma il suo scopo non è certo quello di unire i proletari del mondo in un unico esercito antagonista. Questo è il compito dei proletari stessi ed è in questa prospettiva che i comunisti rivoluzionari agiscono nella società capitalistica.

Le lotte proletarie in difesa delle proprie condizioni di esistenza e di lavoro non sono mai scomparse perché sono una reazione spontanea contro condizioni materiali intollerabili; semmai vengono deviate costantemente sul terreno della collaborazione interclassista, grazie all’adozione di ammortizzatori sociali di ogni sorta con cui le borghesie imperialiste, massime sfruttatrici dei proletari e dei popoli delle colonie e dei paesi più arretrati, trattano meglio i propri proletari nazionali. Lotte che potevano assopirsi in Inghilterra o in Germania o negli Stati Uniti, ma che scoppiavano nelle Russie, in Cina o in Giappone; si rigeneravano nei paesi capitalisti avanzati di fronte a gravi crisi economiche attraverso la mobilitazione di particolari categorie, come i  minatori, i ferrovieri, i metalmeccanici, i siderurgici, gli insegnanti, o prendevano la forma di vere e proprie rivolte sociali coinvolgendo tutti gli strati sociali più deboli, compresi i contadini e il proletariato femminile e minorile, come nei paesi dell’America Latina, del Medio Oriente, del Sud-Est asiatico. Sotto il capitalismo i contrasti sociali sono destinati ad aumentare e non tanto perché aumenta la «presa di coscienza» in generale dei proletari, quanto perché le loro condizioni materiali li spingono sempre più ai limiti della sopportazione, diventando appunto del tutto intollerabili. Sono i fatti materiali che spingono all’azione, la «coscienza» viene dopo; come afferma il marxismo, la coscienza di classe che anticipa lo svolgersi della lotta fra le classi fino allo sbocco storico della rivoluzione proletaria la possiede soltanto il partito di classe, l’organo che storicamente si è formato nell’arco di centosettantacinque anni di dominio capitalistico nel mondo sulla base, appunto, dello sviluppo della lotta fra le classi, delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni e che mantiene – al disopra dei flussi e riflussi della lotta proletaria per la propria emancipazione sociale, aldisopra delle tempeste sociali, delle crisi e delle sconfitte – la stessa rotta verso il suo sbocco rivoluzionario.    

Perché i proletari tornino a considerarsi non un accessorio della macchina produttiva del capitalismo, non un suo pezzo di ricambio, ma una forza sociale che ha un compito storico grandioso – quello di superare per sempre la società divisa in classi –, devono riconquistare il terreno della lotta classista mettendo al centro delle loro lotte le tradizionali rivendicazioni unificanti della lotta classista, perché interessano tutti i proletari, non importa a che categoria, sesso, età, nazionalità appartengano:

 

diminuzione drastica dell’orario giornaliero di lavoro

aumento del salario, più alto per le categorie peggio pagate

diminuzione consistente dei ritmi e delle mansioni di lavoro

introduzione e aumento sistematico delle misure di sicurezza sul lavoro

salario pieno ai cassaintegrati, ai licenziati, ai disoccupati

equiparazione salariale e normativa tra proletarie e proletari, tra autoctoni e immigrati

 

 Il quadro in cui queste rivendicazioni hanno un significato di classe è quello della lotta contro la concorrenza fra proletari che può essere portata avanti con successo soltanto con organizzazioni proletarie indipendenti dalla borghesia e dalle molteplici forme di collaborazionismo interclassista. Queste organizzazini possono rinascere soltanto dalla lotta classista, cioè dalla lotta che mira a difendere esclusivamente gli interessi di classe del proletariato sul terreno immediato come su quello politico generale contro la classe dominante e il suo Stato. La lotta di classe del proletariato che per obiettivo ha la conquista del potere politico e l’instaurazione, contro la dittatura del capitale, della dittatura del proletariato, poggia necessariamente sulle grandi masse proletarie organizzate sul terreno della difesa economica immediata che hanno accumulato nel tempo le esperienze fondamentali della lotta anticapitalistica.

La storia del movimento operaio ha insegnato che gli interessi di classe proletari sono incompatibili con quelli della classe dominante borghese. Quest’ultima usa tutte le armi che nella lotta contro il proletariato si è nel tempo costruita – dal ricatto economico alla pace sociale, dal coinvolgimento politico alimentato dalla democrazia nelle sue mille istituzioni alla repressione poliziesca e militare, dalla concorrenza tra categorie, settori, età, genere, nazionalità, fedi politiche o religiose ai miti della carriera e della sempre più alta professionalità – allo scopo di ottenere dallo sfruttamento della forza lavoro salariata il massimo di produttività e di competitività, quindi, il massimo di profitto nei mercati nazionali e internazionali. Abituare il proletariato a piegarsi alle esigenze del capitalismo in tempo di pace, significa per la borghesia abituare il proletariato a piegarsi alle esigenze del capitalismo in tempo di guerra.

La sempre più spietata concorrenza borghese non esclude, anzi, che la borghesia chiami le masse proletarie all’«unità nazionale»; questa «unità nazionale» è vitale per ogni borghesia perché, con essa, tende a superare artificialmente ogni contrasto sociale, ogni ribellione proletaria, ogni agitazione proletaria che intralci il grande disegno borghese: utilizzare il proprio proletariato nazionale non solo come forza produttiva a sostegno della propria economia in crisi, ma come massa d’urto negli scontri militari di guerra. E quando i mezzi dell’ideologia borghese, i mezzi legali e pacifici non bastano a convincere le masse proletarie a piegarsi alle esigenze del capitalismo, allora la borghesia passa alle misure di un sempre più stretto controllo sociale e sfodera i suoi classici mezzi repressivi contro i proletari che si ribellano a diventare carne da cannone dopo essere stati massacrati di fatica nei luoghi di lavoro.

La crisi in cui sta infilandosi nuovamente il capitalismo mondiale sta concentrando sempre più il suo epicentro in Europa, culla del capitalismo internazionale, culla della schiavitù salariale diffusasi in tutto il mondo, culla dell’imperialismo moderno, culla dei massacri di milioni di proletari nelle guerre borghesi. La guerra russo-ucraina è lì a dimostrare che il capitalismo non ha altri mezzi per combattere contro le proprie crisi che passare dalla guerra economica e commerciale alla guerra guerreggiata. E mentre i proletari ucraini e i proletari russi si massacrano gli uni contro gli altri, i borghesi, i capitalisti, i giocatori di borsa, gli oligarchi, i grandi miliardari di tutto il mondo continuano a gonfiarsi le tasche oggi sui profitti derivati dalla guerra, domani su quelli derivati dalla ricostruzione postbellica.

Contro l’unità nazionale della borghesia, anticamera di uno sfruttamento più intenso e cinico delle masse proletarie in tempo di pace, e anticamera della mobilitazione militare generale in tempo di guerra, il proletariato non ha se non un’alternativa: riconquistare il terreno dell’aperta lotta di classe innanzitutto contro la propria borghesia nazionale, sul quale terreno ricostruire la sua forza di classe internazionalista.

 

Contro ogni nazionalismo, contro ogni mobilitazione di guerra, Proletari di tutti i paesi unitevi!  

Contro la guerra borghese, contro la guerra imperialista, i proletari hanno una loro alternativa storica: la guerra di classe, la rivoluzione proletaria! Il Primo maggio torni ad essere la giornata internazionale della lotta del proletariato, in ogni paese, contro ogni borghesia dominante!

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

30 aprile2022

www.pcint.org

 

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