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Italia

Il 25 aprile e i partigiani della “riconciliazione nazionale”

 

 

Il 25 aprile di quest’anno non è la prima ricorrenza della “resistenza antifascista” che cade sotto un governo di destra. E’ già successo nel 1993, quando si installò a Palazzo Chigi il governo Berlusconi. Al pluridecennale inno alla democrazia come regime politico opposto al fascismo, e alle celebrazioni ispirate alla resistenza partigiana antifascista – e alla scrittura della nuova Costituzione repubblicana – si è contrapposto, dagli anni Novanta in poi, l’incessante tentativo di riconciliare le sedicenti “due Italie”, quella nata dalla “Resistenza” democratica e cristiano-liberal-comunista e quella – altrettanto democratica e cristiano-liberale – rappresentante di tutto ciò che di “buono” fece, a vantaggio della nazione, il regime fascista.

La contrapposizione tra i partiti politici che rappresentavano, e rappresentano, le sedicenti “due Italie”, superato il periodo della seconda guerra imperialista e i primi anni del suo dopoguerra, si è attuata democraticamente nelle aule del nuovo parlamento e sotto il controllo economico, politico e militare dei veri vincitori della guerra imperialista: gli anglo-americani. Il disegno dell’Italia post-fascista, ideato dai cantori dell’identità nazionale, della democrazia nata dalla “Resistenza”, dei valori della civiltà cristiana e occidentale, non poteva che emergere dagli accordi che le potenze imperialiste vincitrici della guerra stabilivano sul piano dei loro interessi imperialistici all’interno dei quali le diverse fazioni borghesi italiane cercavano un “posto al sole”. L’imperialismo anglo-americano, che rappresentava l’Occidente democratico europeo e atlantico, se la doveva vedere con l’imperialismo russo, che rappresentava l’Oriente europeo e asiatico e che lo stalinismo aveva falsamente etichettato come “comunista”. Lo scontro dei due blocchi imperialisti belligeranti – gli Alleati, che includevano anche la Russia, contro le potenze dell’Asse –, si concludeva con la vittoria degli Alleati, ma con tale vittoria non si erano aperte le porte alla pace universale, bensì ad un nuovo ordine mondiale in cui era inevitabile che risorgessero nuovamente i contrasti che caratterizzano il capitalismo imperialista per sua stessa natura. L’Europa fu divisa in due, e in due anche la Germania, mentre si stabiliva un vero e proprio condominio russo-americano con la spartizione del controllo dell’Europa occidentale da parte franco-anglo-americana e dell’Europa orientale da parte russa, naturalmente per “garantire la pace in Europa” (mentre nel resto del mondo i due blocchi si facevano la guerra). Ovviamente tale “pace” veniva “garantita” attraverso l’occupazione militare dei paesi che potevano dare più problemi a questo disegno: la Germania, innanzitutto, che, non per niente, venne divisa in due, e quindi sottoposta al controllo ferreo sia da parte americana che da parte russa; e l’Italia, in cui era attivo un forte partito comunista legato ideologicamente (e successivamente anche economicamente) a Mosca, sebbene, dopo l’8 settembre, si fosse messo agli ordini degli anglo-americani e avesse organizzato i propri gruppi partigiani sotto il loro comando per combattere contro i fascisti. Che gli obiettivi del Partito comunista italiano non fossero l’organizzazione del proletariato come classe rivoluzionaria, la sua lotta di classe e rivoluzionaria – perciò contro entrambi i fronti imperialisti bellici – e per la conquista del potere politico da parte del proletariato e, contro la dittatura borghese, l’instaurazione della sua dittatura di classe, era chiaro ai comunisti di sinistra italiani di allora, sopravvissuti alla repressione fascista, democratica e stalinista, come documentato dalla loro attività nell’esilio all’estero e in Italia durante la “guerra partigiana”. La politica del fronte unico politico del 1922 da parte dell’Internazionale Comunista nei confronti dei partiti socialisti e socialdemocratici, e poi dei fronti popolari nel 1936, aveva posto le basi nei partiti comunisti degenerati per la collaborazione di classe più ampia e reazionaria che successivamente si affermò nella seconda guerra imperialista mondiale e nel suo dopoguerra.  

L’armistizio che il fascista Badoglio, in netta contrapposizione con Mussolini e i suoi fedelissimi, firmò l’8 settembre 1943 con gli anglo-americani dopo che le prospettive nazifasciste di “vittoria militare” contro le “plutocrazie” erano miseramente naufragate, non portò la pace; al contrario riaccese la guerra proprio sul territorio italiano, grazie all’invasione degli Alleati da sud e all’occupazione militare tedesca da nord. Se una parte della borghesia italiana, che aveva sostenuto Mussolini e il fascismo per vent’anni, per calcolo economico e di privilegio sociale voltò le spalle a Mussolini e si vendette agli anglo-americani, un’altra parte della borghesia italiana rimase a sostegno del nazifascismo, tanto da contribuire, in seguito alla caduta del regime fascista, alla costituzione di quell’aborto di repubblica che fu la Repubblica di Salò, ma che fu sufficiente per organizzare una sua milizia sulla vecchia esperienza delle squadre fasciste degli anni Venti e che per obiettivo si era data la difesa dell’onore nei confronti dell’alleato tedesco e dell’«identità nazionale». Una ridicola identità nazionale, in realtà, visto che la borghesia italiana ha storicamente l’attitudine a cambiare alleato in vista o in corso di guerra e ciò è stato dimostrato fin dalla prima guerra imperialista mondiale. Allora attese un anno per passare dall’alleanza con gli imperi austroungarico e tedesco al fronte avversario anglo-franco-americano, mentre nella seconda guerra imperialista mondiale ci mise poco più di due anni a voltare le spalle all’alleato tedesco per mettersi nelle mani dei nemici di ieri diventati, di colpo, amici e destinati a rimanere tali – vista l’uscita vittoriosa dalla guerra – fino a quando, in un successivo scontro di guerra, i nemici di oggi potrebbero diventare gli amici di domani. Cosa che, con la tipica ironia inglese, fece dire a Churchill: «Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti…» (1).   

In entrambi i casi, il comportamento da voltagabbana della borghesia italiana era determinato dal fatto che i fini della guerra sono materiali e non ideologici. Cosa, naturalmente, che si può dire di tutte le borghesie, ma che per quella italiana vale di più, considerando che la sua formazione storica, a differenza delle altre grandi borghesie europee – francese, tedesca, inglese – è giunta economicamente e politicamente tra le ultime ad una unificazione territoriale sotto uno stesso Stato centrale, e che per lungo tempo dovette subire il peso, l’attività e l’influenza della Chiesa di Roma che rappresentava una potenza non solo nazionale ma anche internazionale.  

D’altra parte il fascismo, con la sua «statolatria», rispose alla doppia esigenza della borghesia italiana: quella di unificare i suoi diversi comparti sotto la guida della più organizzata e forte borghesia industriale, e quella di contrastare in modo efficace l’avanzata della lotta proletaria sul terreno della rivoluzione sull’onda della vittoriosa rivoluzione d’Ottobre del 1917 in Russia. Tutto ciò, naturalmente, con tutta la violenza illegale e legale che tale prospettiva richiedeva, soprattutto nei confronti del proletariato che aveva dimostrato sia prima che durante e soprattutto dopo la guerra, negli anni 1919-1920, di essere spinto decisamente sul terreno della rivoluzione. Se dal punto di vista economico il fascismo italiano, una volta giunto al potere, ha rappresentato, in ritardo storico e per la prima volta nella storia della borghesia italiana, il livello più alto dell’unificazione nazionale, dal punto di vista politico è riuscito a istituzionalizzare una politica sociale che sarà maestra per tutte le borghesie dei paesi avanzati del mondo: la politica della collaborazione di classe. Ideologicamente il fascismo non aveva una sua propria identità, dato che era semplicemente figlio della democrazia liberale e di un compromesso, tipico della borghesia italiana, tra il cattolicesimo, il laicismo e il riformismo socialista, ma la sua originalità la trovò nella politica sociale rubando al riformismo socialista le rivendicazioni operaie immediate e attuandole.

Le propagande democratica e stalinista, all’unisono, hanno teorizzato che il fascismo rappresentava un passo indietro della storia, soprattutto per il suo regime politico dittatoriale e per il suo dichiarato uso della violenza contro ogni dissidenza, organizzata o meno che fosse. Il  fascismo ha invece dimostrato – e ancor più il nazismo – di rappresentare molto più apertamente un passo avanti nella storia e cioè lo sviluppo storico del capitalismo nella sua fase imperialista, cioè nella sua fase di estrema centralizzazione politica e di concentrazione economica. Così alla democrazia post-fascista non rimaneva altro, contro la «statolatria» fascista, che «fare leva sull’Individuo, e sulla sacra ed inviolabile dignità della persona umana» (2): individuo, persona umana, sono i miti dell’ideologia borghese da sempre. L’inganno democratico si aggiungeva così all’inganno fascista. Col fascismo, una volta distrutte le organizzazioni sindacali proletarie e i partiti proletari, la borghesia capitalistica obbligava i proletari a considerare gli interessi borghesi e gli interessi proletari come interessi comuni, perciò da difendere anche con il sangue sui posti di lavoro e in guerra – interessi che nella realtà capitalistica sono da sempre antagonisti – e a questo fine aveva organizzato le corporazioni, obbligando sia i borghesi che i proletari a parteciparvi. Con la democrazia postfascista, una volta archiviata la parentesi fascista, la borghesia capitalista ha concesso ai proletari di organizzarsi «liberamente» sul piano della difesa economica con i sindacati e sul piano politico con i partiti, inneggiando ad una costituzione nella quale non vengono menzionati capitalisti e proletari, ma cittadini di una repubblica fondata sul lavoro, individui con «eguali diritti», con eguale aspirazione alla «dignità personale» e sottoposti alla legge pretesa «uguale per tutti». Questo aspetto non è marginale, perché parlare di «lavoro» nella società borghese significa, sostanzialmente, parlare di sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale, perché un altro tipo di lavoro il capitalismo lo esclude.

Il fascismo è stato battuto sul piano militare, ma sul piano sociale ha vinto. Infatti le democrazie postfasciste hanno ereditato l’intero impianto della collaborazione di classe per la quale i sindacati operai che sono stati organizzati e riconosciuti dalle leggi statali sono soltanto i sindacati che nei loro statuti e nei loro programmi confermano questa collaborazione sia sul piano della contrattazione economica e normativa, sia sul piano degli obiettivi della lotta operaia. Stessa cosa per i partiti politici, perfino per le organizzazioni politiche che si rifanno al fascismo (come il vecchio MSI, poi diventato Alleanza Nazionale, o come i più recenti Forza Nuova e Casa Pound), ma che nei loro programmi non prevedono l’abbattimento del parlamento e la dittatura politica esercitata da un partito unico, ma la competizione elettorale, l’attività parlamentare con le previste maggioranze e minoranze e l’attività di governo a seconda degli esiti delle «libere» votazioni politiche.

Noi, comunisti marxisti rivoluzionari, abbiamo sempre combattuto sia il fascismo sia la democrazia borghese, in quanto espressioni politiche e metodi di governo della stessa dittatura borghese. Ribadiamo quanto già Marx e Lenin sostenevano circa la democrazia borghese, come miglior metodo di governo della borghesia capitalistica perché la democrazia si è dimostrata l’ arma politica più adeguata per ingannare il proletariato e deviarlo dal terreno della sua lotta classista. Il frutto più insidioso che il fascismo poteva generare è stato l’antifascismo democratico, cioè la politica della collaborazione di classe vestita con i panni dell’inganno democratico. La realtà capitalistica, nonostante venga abbellita con i simboli della democrazia, rimane quel che è sempre stata: dominio politico della borghesia basato sul modo di produzione capitalistico. Né la sedicente «rivoluzione liberale» dei Gobetti, né la spaccona «rivoluzione fascista» dei Mussolini, né tantomeno il «nuovo risorgimento italiano» (la «resistenza antifascista») dei rinnegati alla Togliatti, si sono mai posti nella prospettiva di sradicare dalla società il modo di produzione capitalistico, semmai lo hanno difeso, rafforzando nei diversi periodi storici le ragioni del dominio borghese.

Nel passare dei decenni, dal 1945-46 in avanti, il pericolo fascista è stato più volte richiamato nel tentativo di rinnovare l’adesione del proletariato alla difesa della democrazia e dello Stato borghesi. Più volte il proletariato è stato chiamato a credere e a giurare sulla costituzione repubblicana nata «dalla Resistenza» come fosse il magico scudo contro ogni sopruso, contro ogni violenza, contro ogni guerra, contro ogni «ritorno del fascismo». La realtà economica e sociale racconta una verità diversa: ogni giorno trascorso finora è stato segnato incessantemente da soprusi, violenze e guerre: da uno sfruttamento del lavoro salariato sempre più bestiale che comporta continue stragi di lavoratori sui posti di lavoro, una miseria sempre più diffusa fra le masse colpite dalla disoccupazione e dal crescente costo della vita, una precarietà del lavoro sempre più ampia e una sempre più drammatica insicurezza di vita.

I governi succedutisi in questi ultimi 77 anni, giurando fedeltà alla repubblica borghese e alla sua costituzione non hanno fatto altro che ribadire il dominio incontrastato della borghesia sulla società, in difesa dei rapporti sociali che vedono la forza lavoro salariata sottoposta costantemente ad uno sfruttamento che per i proletari significa fatica, incertezza della vita e del futuro e per i borghesi privilegi, ricchezza, godimento.

Che  l’attuale governo di destra sia guidato dal partito di estrema destra, ex MSI, ex AN e ora Fratelli d’Italia (mantenendo nel suo simbolo la fiamma tricolore), non significa che si stiano aprendo le porte ad un futuro governo fascista. La situazione storica in cui siamo immersi non è caratterizzata dalla ripresa della lotta di classe e rivoluzionaria del proletariato, né in Italia, né in altri paesi industrializzati, perciò la borghesia non teme lo scoppio della rivoluzione proletaria guidata da un partito di classe che, oltretutto, non c’è ancora e che non ci può essere, mancando l’ossigeno della lotta di classe proletaria. Le crisi capitalistiche che si sono susseguite finora stanno portando la situazione internazionale verso una crisi di sovrapproduzione senza precedenti e, quindi, verso la terza guerra mondiale. Ciò di cui si preoccupa oggi la borghesia italiana, come ogni altra borghesia che ha bisogno di allearsi con un imperialismo più forte, è di come e con chi allearsi nei prossimi e futuri scontri di guerra. In tempo di pace, la borghesia ha interesse ad avere una classe operaia collaborativa per poterla sfruttare di più, controllando, mediante le forze opportuniste, le inevitabili tensioni sociali. Tanto più in tempi in cui si prevedono scontri di guerra a livello più generale, la borghesia ha bisogno di irreggimentare il proprio proletariato sul fronte della difesa nazionale per poter avere più forza nell’attaccare le borghesie avversarie. Non è un caso che in questi ultimi anni tutti i maggiori rappresentanti del dominio borghese, dal capo di Stato al Presidente del consiglio, allo stuolo dei ministri degli Esteri, della Difesa, dell’Economia intonino la stessa canzone della coesione nazionale, della difesa dei superiori interessi nazionali, dell’identità nazionale. Guarda caso, la canzone cantata sia dai democratici che dai fascisti.

Il partito Fratelli d’Italia– che ha superato in termini di voti gli alleati della coalizione di governo, Lega e Forza Italia, e che ha espresso la presidente del Consiglio Meloni e la parte più numerosa dei ministri, partito che finora è quasi sempre stato all’opposizione (salvo la breve parentesi in uno dei governi Berlusconi– ha il problema non solo di prendersi l’ovvia responsabilità diretta delle decisioni governative, su cui mettere d’accordo gli alleati che tirano costantemente l’acqua al loro mulino, ma anche quello di farsi accettare da quella parte del popolo elettore che non l’ha eletto, e soprattutto dalla parte degli elettori «di sinistra». Per questo obiettivo, i neofascisti della fiamma tricolore possono contare sui passi che già negli anni Novanta, a qualche anno dal crollo dell’URSS, erano stati fatti da esponenti del PCI. Infatti, il picista Luciano Violante, nel 1996, in qualità di presidente della Camera, aveva perorato la causa della riconciliazione nazionale tra i partigiani della Resistenza e i partigiani della Repubblica di Salò (3). Proseguendo sulla stessa direzione, ci sono stati i diversi tentativi fatti successivamente dallo stesso Berlusconi per «superare» la divisione tra le due partigianerie, ad esempio proponendo che il 25 aprile non sia più la «festa della Resistenza», ma la «festa della Libertà» – visto che libertà è la parola che può andar bene per tutti i partiti e di cui tutti si riempiono la bocca – e il prossimo 25 aprile la Meloni accompagnerà il presidente della Repubblica Mattarella all’altare della patria per rendere omaggio, appunto, a tutti i combattenti per la… libertà della patria. Ovvio che, nella storia personale di tutti i neofascisti restano ben radicati i legami politici con ciò che ha rappresentato il ventennio mussoliniano. Nell’Italia ancora divisa tra le due partigianerie, l’una «debitrice» di quanto ha fatto il fascismo per la patria, l’altra «debitrice» di un retaggio pseudocomunista e libertario che ha egualmente combattuto per la patria,  oggi, chi li rappresenta, perché si richiama agli sconfitti nell’ultima guerra, deve mostrarsi conciliante verso la parte di elettorato che ancora crede nella libertà conquistata nella lotta antifascista. Perciò, come i camaleonti, mentre ieri erano assolutamente antiamericani, e antieuropeisti, oggi sono proni davanti a Washington tanto da mettersi al suo servizio non solo verso il sostegno in armi e miliardi all’Ucraina nella sua guerra contro la Russia, ma addirittura inviando le proprie navi militari nell’Indo-Pacifico per accompagnare le «esercitazioni militari» americane nella contesa cino-americana per Taiwan. Dunque, il quadro imperialistico in cui l’Italia si sta immergendo sempre più è il quadro disegnato per l’ennesima volta dagli Stati Uniti d’America e dai suoi scopi imperialistici; il Mediterraneo non è più il mare «nostrum», il mare «nostrum» è dove serve agli Stati Uniti, in questo caso nell’Oceano Pacifico o nel Mar Cinese, e domani chissà... D’altra parte già nelle operazioni militari contro la Serbia (sotto il governo D’Alema, con Mattarella come ministro della Difesa) l’Italia si è distinta per i bombardamenti di Belgrado, e nelle operazioni in Iraq e poi in Afghanistan dove naturalmente – come oggi in Ucraina – si trattava di difendere... i valori della civiltà occidentale, della libertà, della democrazia e, naturalmente, della cristianità.

La preparazione del proletariato alla guerra che lo coinvolgerà direttamente prevede una lunga educazione ideologica, e tale educazione non può attuarsi se non con un bombardamento propagandistico incessante proprio sull’unità nazionale. Chi meglio dei fascisti democratici può sbandierare il vessillo dell’identità nazionale? Ecco, quindi, che il governo Meloni, per farsi accettare dall’amato popolo italiano, destreggiandosi tra le varie fazioni col vecchio metodo del colpo al cerchio e il colpo alla botte, cerca di non snaturare le sue origini fascistoidi. Infatti parlando delle Fosse Ardeatine e dei 335 civili trucidati per rappresaglia all’attentato dei Gap di via Rasella, ha parlato di 335 italiani uccisi, e non di 335 antifascisti; e per dimostrare di essere a capo di un governo di tutti gli italiani, il 25 aprile andrà all’altare della patria a commemorare tutti gli italiani morti per la patria. Il tentativo di questi politicanti, come del resto di quelli che li hanno preceduti, di presentarsi con un’immagine democratica e conciliante, pronti a darsi da fare… per il bene di tutti, assomiglia molto ai tentativi che le organizzazioni criminali mettono in opera per il cosiddetto lavaggio del denaro sporco, usandolo per le attività legali. D’altra parte, non è da oggi che pecunia non olet...

 

Ma il proletariato, che cosa si può aspettare da un governo di destra come l’attuale?

Berlusconi prometteva un milione di posti di lavoro in più e di non mettere le mani nelle tasche degli italiani. Invece arrivarono i licenziamenti, i lavori sempre più precari e l’aumento della disoccupazione. Oggi Giorgia Meloni è meno spaccona, non promette posti di lavoro in più; anzi, va all’attacco dei fannulloni, di quelli che anni fa chiamavano “bamboccioni”, di quelli che si adagiano sul Reddito di cittadinanza senza “darsi da fare”, e i disoccupati li chiama occupabili, salvo tendere le orecchie quando gli industriali lamentano che mancano gli operai specializzati. Allora salta fuori la grande idea del lavoro femminile (che naturalmente costa meno di quello maschile) e addirittura degli immigrati, che fino a qualche anno fa si sarebbero dovuti fermare, anche sparando, e che non vanno più considerati soltanto una categoria di clandestini, ma possono essere, almeno in parte, una categoria di lavoratori già specializzati ed utilizzabili nell’industria italiana con grande risparmio da parte degli industriali nostrani e dello Stato.

La famosa libertà conquistata con la vittoria militare sul fascismo e di cui il 25 aprile è stato eretto a simbolo, si dimostra essere la libertà dei capitalisti di sfruttare senza freni la forza lavoro salariata. Ai lavoratori cosa rimane? La soddisfazione di eleggere ad ogni tornata elettorale i politici che difenderanno non i loro interessi ma lo sfruttamento del lavoro salariato da parte dei capitalisti, rafforzandone la pressione e colpendo con la forza dello Stato tutti coloro che si ribellano, non a parole, ma con la lotta organizzata.

Il mito della lotta partigiana, già emerso nella guerra civile spagnola, nella realtà, è stato usato contro il proletariato, distogliendolo dalla sua lotta classista per irreggimentarlo nelle bande a sostegno di uno dei due blocchi imperialisti belligeranti, a tutto vantaggio del capitalismo. Quel che la lotta partigiana comportò, per il proletariato, fu di impedire che nella guerra imperialista sorgesse anche solo un tentativo di lotta autonoma delle forze proletarie, di lotta antibellicista rispetto ad entrambi i fronti di guerra. Di lotta autonoma che, nonostante la vittoria controrivoluzionaria e stalinista sulle forze comuniste, ebbe un esempio nella lotta operaia del ghetto di Varsavia durante la quale furono proprio i sovietici – che si vantavano di essere comunisti e rappresentanti del proletariato internazionale – a fermarsi a pochi chilometri dalla città in attesa che l’esercito tedesco riducesse il ghetto di Varsavia ad un cumulo di macerie.

Noi, comunisti rivoluzionari, saremo sempre contro il partigianismo perché siamo contro le forze borghesi sia nazionali sia straniere; siamo per la lotta indipendente di classe del proletariato, perciò contro qualsiasi “25 aprile” che si celebri nel mondo.

La ripresa della lotta di classe e della lotta rivoluzionaria non passerà mai per la lotta partigiana, essendo quest’ultima ad esclusivo vantaggio della borghesia guerrafondaia e controrivoluzionaria. 

 


 

(1) Cfr. https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/la-verve-di-churchill-in-3-attuali-battute-con-altrettante-repliche-e-un-v

(2) Cfr. Abbasso la repubblica borghese, abbasso la sua costituzione, pubblicato nell’allora rivista del partito, Prometeo, n. 6, marzo 1947.

(3) Cfr. Adnkronos, 10 maggio 1996, Violante, riflettere su resistenza e sui vinti di ieri. «Mi chiedo – ha detto Violante – se l'Italia di oggi non debba cominciare a riflettere sui vinti di ieri. Non perché avessero ragione, o perché bisogna sposare, per convenienze non ben decifrabili, una sorta di inaccettabile parificazione tra le due parti. Bisogna sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e della liberta. Questo sforzo, a distanza di mezzo secolo, aiuterebbe a cogliere la complessità del nostro Paese, a costruire la Liberazione come valore di tutti gli italiani, a determinare i confini di un sistema politico nel quale ci si riconosce per il semplice e fondamentale fatto di vivere in questo Paese, di battersi per il suo futuro, di amarlo, di volerlo più prospero e più sereno. Dopo, poi, all'interno di quel sistema, comunemente condiviso, ci potranno essere tutte le legittime distinzioni e contrapposizioni», come democrazia vuole.

 

22 aprile 2023

 

 

Partito Comunista Internazionale

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