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Sulla guerra in Ucraina

Internazionalismo proletario e disfattismo rivoluzionario nella tradizione marxista

 

 

Mentre scriviamo, la guerra in Ucraina si sta intensificando. Il famoso contrattacco ucraino, annunciato ad alta voce da mesi dalla propaganda occidentale (dopo aver affrontato con tanta sicurezza un attacco russo mai arrivato), si esaurisce in un combattimento mortale. I paesi della NATO, desiderosi di continuare la guerra fino all’ultimo ucraino, continuano ad aumentare le loro consegne di armi. Le ultime sono le «bombe a grappolo» fornite dagli Stati Uniti nonostante il trattato ONU le proibisca a causa della devastazione che causano ai civili anche anni dopo la fine del conflitto, come dimostra ancora oggi la Cambogia. È vero che né gli Stati Uniti, né la Russia, né l’Ucraina hanno firmato questo trattato; invece i paesi firmatari appartenenti alla NATO, lasciano fare: un’ulteriore dimostrazione che questi trattati sono solo pezzi di carta.

La guerra ha conseguenze disastrose per i proletari, sia al fronte dove vengono trasformati in carne da cannone, sia nelle retrovie dove rimangono carne da sfruttamento, ma in misura maggiore, o nell’emigrazione forzata. Ha conseguenze anche sul piano internazionale, aggravando i fattori di crisi che la borghesia fa sempre pagare al proletariato. Rispetto alla situazione dei proletari dei due fronti non contano episodi come la tragicommedia della «ribellione» della milizia Wagner e della sua pseudo-marcia su Mosca: non è dai dissensi interni alle classi dominanti e ai loro scagnozzi. che può venire la salvezza del proletariato, ma soltanto dalla ripresa delle sue tradizioni di lotta classista.

 

 

Ogni volta che la storia lancia gli Stati imperialisti gli uni contro gli altri in guerre forzatamente barbare, forzatamente sanguinose, forzatamente ingiuste, l’intera panoplia politica dell’opportunismo (1) va in subbuglio di fronte al disastro umano che esse rappresentano e si disperde in tutte le direzioni politiche, dagli appelli per la pace o la moderazione dei belligeranti, per sostenere la guerra dell’uno o dell’altro campo contrassegnato dal sigillo della virtù democratica che difende i diritti umani o della vittima innocente costretta alla guerra. Tutte queste variazioni politico-musicali sullo stesso tema, nella stessa ottava, sono collegate insieme e in coro nella difesa del campo della sua nazione, del suo Stato, del suo capitalismo. In tal modo l’opportunismo conferma di agire come rappresentante del dominio borghese sui proletari, come rappresentante dello sfruttamento dei proletari da parte del capitale. L’atteggiamento politico che consiste nel trasformare una guerra imperialista alla quale la borghesia partecipa per la difesa dei propri interessi – sia questa guerra diretta o per procura come nel caso dell’Ucraina – in una guerra «giusta», meritevole del sostegno della classe operaia per rafforzare le forze del bene democratico contro quelle del male autocratico, deve essere totalmente bandito dalla linea politica internazionalista del proletariato.

Lo stesso vale per l’ingannevole atteggiamento pacifista, che nasconde la natura profonda della guerra, che distorce le sue reali cause materiali, e quindi aliena la classe operaia dalle sue prospettive e da suoi doveri classisti e internazionalisti per sempre nella storia, radunando il campo dei guerrafondai, votando i crediti di guerra e onorando il coraggio dell’esercito nazionale.

In queste situazioni in cui i conflitti tra le potenze capitaliste lasciano il terreno della guerra economica per scivolare sul terreno del confronto militare, la borghesia ha più che mai bisogno dell’allineamento dei proletari ai suoi interessi nazionali, in particolare di spingerla ad accettare il controllo diretto e i sacrifici indiretti della guerra e di mettere da parte la lotta per la difesa delle condizioni di vita proprie della sua classe. Oggi, più la guerra peggiora, più trascina le potenze occidentali in un’escalation e in una spirale incontrollabili, e più questa richiesta di allineamento si amplifica; diventerà sempre più forte a meno che la classe operaia non esca da questa routine di collaborazione di classe, e quindi anche dall’indifferenza e dall’imbarazzo, finti o meno, di fronte alla guerra, o dalla sua empatia di fronte all’impegno bellico della sua borghesia giustificata con i massacri di civili, e rilanci una lotta classista indipendente dagli interessi nazionali.

I proletari del cosiddetto Occidente devono sempre ricordare che sono i loro fratelli di classe ucraini e russi le vittime della guerra imperialista in corso sul campo di battaglia dell’Ucraina e questo qualunque sia la percezione politica che ne abbiano e qualunque sia, da una parte o dall'altra, il resoconto morboso del numero delle vittime civili e militari o il paragone voyeuristico tra le atrocità dell’esercito russo e le «civiltà» dell’esercito ucraino.

Non un soldo, non un’arma per la guerra!, rifiuto dell’ordine, insubordinazione, ribellione e ammutinamento dei proletari mobilitati!, fraternizzazione dei combattenti dei due campi, propaganda del disfattismo rivoluzionario!, queste sono le parole d’ordine e gli obiettivi di lotta che risuonano nelle orecchie degli internazionalisti, che ricordano le grandi lotte insurrezionali del proletariato russo e tedesco alla fine della prima guerra mondiale e che riflettono il grande principio dell’internazionalismo applicato alla questione della guerra.

Questo grande principio da cui scaturisce tutta l’azione del proletariato è quello della trasformazione della guerra imperialista in guerra rivoluzionaria contro il dominio borghese, contro la società capitalista, contro la società classista, contro la cecità nazionalista e sciovinista che paralizza la classe operaia. Un principio che ha sempre guidato i comunisti. Dal Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx e Friedrich Engels, pubblicato nel 1848, che proclamava che «I proletari non hanno patria» e «Che le classi dominanti tremino all’idea di una rivoluzione comunista! I proletari non hanno nulla da perdere se non le loro catene. Hanno un mondo da guadagnare. Proletari di tutti i paesi, unitevi!», la posizione dei comunisti di allora nei confronti della guerra tra le nazioni borghesi formate e compiute, divenute ormai imperialiste, tra le patrie dell’una e dell’altra borghesia nazionale, è sempre stata chiara: il proletariato non partecipa in queste guerre qualunque siano le cause formali ed apparenti e qualunque siano i presunti colpevoli, né da una parte né dall’altra. La sua posizione in ogni caso non è attendista rispetto alla fine delle ostilità, né un ripiegamento su se stesso, è invece offensiva nei confronti della sua borghesia, del suo Stato e del suo esercito. Il proletariato dichiara la guerra di classe. Da una parte o dall’altra della trincea, i proletari devono auspicare la sconfitta del proprio campo, della propria borghesia nazionale e questo desiderio non deve rimanere platonico, ma deve trovare la sua risposta nella lotta di classe contro la guerra imperialista, per la rivoluzione internazionale contro questo ordine mondiale stabilito che trasforma i proletari da carne per il capitale in carne per i cannoni.

Naturalmente questa prospettiva, in una situazione di generale indebolimento sociale del proletariato, è un obiettivo che appare remoto, ma in qualsiasi azione immediata contro la guerra imperialista, fosse anche solo di propaganda, deviare anche solo per un soffio da questa linea provocherebbe inevitabilmente una scivolata verso posizioni pacifiste di compromesso con la borghesia. La storia ci insegna il rigore necessario su queste questioni. Allo stesso modo in cui torniamo al Manifesto per avvicinarci ai principi fondamentali del comunismo, dobbiamo ritornare alla guerra franco-prussiana del 1870-1871 per capire come questi principi furono applicati nella questione delle guerre borghesi di questo periodo e come si sono praticamente manifestati nella lotta politica.

La Germania, nel pieno dell’effervescenza democratica rivoluzionaria, è la culla del comunismo, i suoi più eminenti protagonisti, Wilhem Liebknecht e August Bebel, si sono confrontati con questa guerra che la «loro» borghesia riteneva così «giusta», poiché la Francia si opponeva all’unificazione della Germania con la Prussia, e dovettero difendere come deputati al Reichstag i principi dell’internazionalismo comunista contro la guerra di Bismarck. Entrambi appartenevano allora allo SDAP (Sozialdemokratische Arbeiterpartei, partito operaio socialdemocratico), da loro stessi fondato nel 1869 al Congresso di Eisenach, che era membro dell’AIT (Associazione Internazionale dei Lavoratori, detta Prima Internazionale) e difese programmaticamente il principio fondamentale dell’internazionalismo. Nel luglio 1870, secondo i loro principi, si asterranno dal votare i crediti di guerra al Reichstag e in novembre insorgeranno contro una nuova richiesta di crediti da parte dei signorotti della guerra e si opporranno all’annessione dell’Alsazia e della Lorena. Per questo reato politico verranno arrestati entrambi a dicembre e condannati a due anni di reclusione per alto tradimento. In nome dell’unità della classe operaia di tutti i paesi e senza mai entrare nel gioco delle argomentazioni borghesi tedesche o francesi sulla giustizia della guerra, essi difesero magistralmente questo principio scolpito nel marmo della storia operaia: l’internazionalismo. Ma il loro giusto rigore programmatico purtroppo non ha resistito alle pressioni del socialismo collaborazionista in Germania. In questo periodo storico il proletariato tedesco si assunse come partito i compiti dell’organizzazione politica della sua classe. C’erano due partiti che rivendicavano il socialismo: l'ADAV (Associazione Generale dei Lavoratori Tedeschi) sotto l'influenza del riformista, opportunista e aristocratico Lassalle, così come il partito di Liebknecht, Bebel e Bracke sopra menzionato, lo SDAP.

La loro fusione al Congresso di Gotha del 1875, che ebbe il perfetto accordo di Marx, fu fatta però sulla base di un programma largamente ispirato al lassallismo che attirò l'ira di Marx ed Engels (vedi Critica del programma di Gotha di Marx). Fulmini che colpirono anche Liebknecht e Bebel, colpevoli di essersi lasciati imporre un programma che, dando il primo posto alle eresie di Lassalle, non aveva più nulla di rivoluzionario e di internazionalista e si era trasformato in un miscuglio di chimerici principi borghesi sulla nazione, riducendo l’internazionalismo a una vaga «fratellanza internazionale dei popoli» che non imponeva alcun dovere ai comunisti e alla classe operaia.

La critica di Marx ed Engels poggiava quindi tutto il suo peso sulla questione dell’internazionalismo operaio. Engels, in una lettera indirizzata a Bebel nel 1875 (2), sottolinea che il dovere del partito era «(...) agitarsi contro la minaccia o lo scoppio stesso di una guerra ordita dai governi, e comportarsi come si faceva così in maniera esemplare nel 1870 e nel 1871 [riferimento al rifiuto dei crediti di guerra, NdR.] (…)».

I due fari del socialismo tedesco avevano così spento la loro lanterna e avevano perduto a la loro strada così chiara in precedenza!

In questa stessa lettera, dopo aver posto come prima condizione per l’unificazione dei due partiti il ​​rifiuto del principio lassalliano degli «aiuti di Stato» per facilitare la formazione delle associazioni dei lavoratori, basi della società lassaliana di socialismo piccoloborghese, Engels passa alla seconda condizione: «In secondo luogo, il principio dell’internazionalismo del movimento operaio è praticamente rifiutato interamente per il momento, e ciò da gente che per cinque anni e nelle condizioni più difficili ha proclamato questo principio nella maniera più gloriosa. Se i lavoratori tedeschi sono alla testa del movimento europeo, lo devono essenzialmente al loro atteggiamento genuinamente internazionalista durante la guerra. Nessun altro proletariato avrebbe potuto comportarsi così bene. Ma oggi che ovunque all’estero gli operai reclamano questo principio con la stessa energia con cui i vari governi reprimono ogni tentativo di organizzarsi, è in questo momento che dovrebbero negarlo in Germania! Cosa resta in tutto questo progetto dell’internazionalismo del movimento operaio? Nemmeno una debole prospettiva di futura cooperazione da parte dei lavoratori d’Europa per la loro liberazione; tutt’al più una futura “fratellanza internazionale dei popoli” – gli “Stati Uniti d’Europa” dei borghesi della “Lega della Pace”» (3).

Per Engels, la forza e l’influenza politica del comunismo come dottrina e programma nella classe operaia si forgiano su questioni basilari e vitali come l’internazionalismo e la posizione contro la guerra, entrambi inflessibilmente legati. Fare un passo indietro su queste questioni, come hanno potuto fare Liebknecht e Bebel pochi anni dopo la loro magnifica lotta contro la guerra prussiana in Francia, significa abbandonare il terreno di classe, abbandonare ogni prospettiva rivoluzionaria, abbandonare i fondamenti del comunismo e appoggiarsi, in definitiva, sull’ideologia del pacifismo borghese volgare.

Questa lezione, che Lenin farà propria nella sua lotta per il disfattismo rivoluzionario e contro il pacifismo, il nazionalismo e lo sciovinismo che dividevano le file degli operai, è oggi più valida che mai, ma resta da ravvivare nelle file del proletariato.

 


 

(1) Con opportunismo designiamo in questo articolo tutte le scuole del riformismo borghese o assimilate. Per la Francia, dai socialdemocratici di sinistra dell’emiciclo, compresa la malinconica “extrasinistra”, ai riformulati parlamentari sopravvissuti allo stalinismo, alle organizzazioni tematiche ecologiste, ma anche a tutto l’arco dell’“extreme-gauche” le cui posizioni, spesso molto tortuose, nascondono in qualche modo la realtà di un pacifismo controrivoluzionario.

(2) Cfr. Lettera di Engels ad August Bebel, 18-28 marzo 1875. In La social démocratie allemande, éd. 18/10.

(3) Idem.

 

Agosto 2023

 

 

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