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La working class americana s’è risvegliata?

Dopo i dipendenti della Starbucks e dell’Ups, le infermiere del Massachusetts, gli insegnanti di Minneapolis e di Brookline e i proletari di altre decine di aziende, è la volta degli operai dell’industria automobilistica

 

 

 Non accadeva da 88 anni che tre grandi case automobilistiche americane (le Big Three), La General Motors, la Ford e la Stellantis (la multinazionale franco-italiana che ha riunito i marchi PSA e FCA) fossero colpite contemporaneamente da uno sciopero operaio. A mezzanotte del 14 settembre è scaduto il contratto di lavoro per il quale il sindacato UAW (United Automobile Workers) aveva da mesi chiesto ai vertici delle Big Three una trattativa su richieste considerate dallo stesso sindacato “ambiziose”: aumento salariale medio del 40% in quattro anni, turni di lavoro meno massacranti, riduzione delle ore settimanali di lavoro, eliminazione dei diversi livelli di contratto, miglioramenti delle pensioni e delle assicurazioni sanitarie.

Il sindacato UAW rappresenta una parte importante dei dipendenti delle Big Three (gli operai sindacalizzati sono, in tutto, 145.000), ma lo sciopero, inizialmente, ha riguardato circa 18 mila operai, quindi poco più del 10% dei loro iscritti. La UAW ha dato inizio a questo sciopero fermando un impianto per ciascuna delle Big Three. Per la GM si è trattato di una fabbrica a Wentzville in Missouri, che, con 3.600 lavoratori, sforna il Gmc Canyon e il Colorado. Nel caso di Stellantis nel mirino è finito il complesso di Toledo, in Ohio, che con 5.600 dipendenti produce la Jeep Gladiator e Wrangler. Per la Ford l'agitazione è iniziata a Wayne, in Michigan, cuore della produzione dei pickup Bronco e Ranger, con fermate, nello specifico, della linea di assemblaggio e di verniciatura che coinvolge 3.300 operai. I modelli qui ricordati sono i modelli di punta delle tre case auto (1). Inizialmente era stata annunciata la prospettiva di allargare lo sciopero ad altri impianti e ai centri di distribuzione e di ricambi qualora la trattativa con le Big Three si fosse prolungata senza risultati. E infatti, il 29 settembre la UAW, visto che la trattativa generale non faceva alcun passo avanti (le Big Three offrivano un aumento medio del 20% in quattro anni e mezzo), dopo aver già toccato 38 centri di distribuzione e di ricambi gestiti da GM e da Stellantis, ha annunciato l’estensione dello sciopero; quelli della Ford non sono stati ancora toccati perché con questa azienda, secondo il capo della UAW, Shawn Fain – insediatosi a marzo di quest’anno – “i negoziati si stanno muovendo” anche se “troppo lentamente”.

Questo sciopero, sebbene di un numero ridotto di operai, ha fatto comunque notizia, anche perché si inserisce in un biennio di agitazioni operaie di molti settori: la decisione con cui gli operai hanno spinto la UAW a indire lo sciopero e a minacciare di allargarlo a tutte le altre linee di produzione ha comunque messo in allarme le case automobilistiche, abituate negli anni a “dialogare” con la UAW in modo da evitare gli scioperi, e piegando sostanzialmente gli operai alle esigenze aziendali fondamentali. Dalla crisi del 2008-2009 gli operai delle case automobilistiche sono stati piegati dal sindacato a condizioni di lavoro più pesanti, all’immissione di nuova forza lavoro precaria, a salari bloccati e, col tempo, insufficienti a rincorrere l’aumento del costo della vita, affinché le fabbriche continuassero a rimanere aperte. Poi c’è stata la pandemia, altra crisi sociale con calo delle vendite delle auto e salari sempre fermi. Ma dalla fine del lockdown e della pandemia, le vendite sono schizzate in alto, le case automobilistiche hanno ripreso a macinare profitti a miliardi, però i salari sono rimasti praticamente fermi mentre l’inflazione continuava a eroderli sempre più.

La scadenza contrattuale era un’occasione da non perdere per entrare in lotta contro le durissime condizioni di lavoro e a fronte di enormi diseguaglianze sociali. Tanto per avere un’idea della situazione, i profitti nel 2022 per la Ford ammontavano a 3,5 mld di dollari, per la GM a 4,7 mld di dollari e per Stellantis a 11 mld di euro, mentre nel solo primo semestre del 2023, per le Big Three insieme, sono stati di 23 miliardi di dollari (e negli ultimi 10 anni hanno toccato i 250 miliardi di dollari); l’incremento dei compensi degli amministratori delegati delle Big Three, a loro volta, sono aumentati, dal 2019 a oggi, mediamente del 40% (2). La notizia che gli amministratori delegati delle case auto, grazie ai considerevoli profitti incamerati dal 2019 in avanti, ricevono compensi stratosferici, ha determinato tra gli operai un vero e proprio risentimento. Gli amministratori delegati della GM e della Stellantis, ad esempio, intascano un compenso pari 350 volte il salario medio di un operaio. D’altra parte, non ci si può certo sorprendere che nella società capitalistica personaggi del genere siano strapagati per svolgere il loro compito, che consiste nel gestire le aziende puntando a massimizzare i profitti e, di conseguenza, a minimizzare i costi di produzione per fronteggiare e battere la concorrenza. Costi di produzione che significano, per i proletari, contenimento dei salari, aumento dei ritmi di lavoro, allungamento della giornata lavorativa, contenimento di ogni beneficio sociale come le assicurazioni sanitarie, le pensioni ecc. Ebbene, sono proprio questi gli aspetti che hanno fatto scendere in lotta gli operai: aumenti di salario, turni di lavoro meno massacranti, diminuzione delle ore lavorate nella settimana, miglioramenti nelle pensioni e nelle assicurazioni sanitarie e maggiore sicurezza nel lavoro. Nel manifesto dello sciopero si legge:Lavoriamo 60, 70, 80 ore a settimana solo per sbarcare il lunario. Questa non è vita. È ora di cambiare” (3). Sotto la pressione della base operaia, il sindacato UAW non poteva che fare la voce grossa, soprattutto da quando recentemente è cambiata la dirigenza. Tra le richieste avanzate quella che ha fatto più rumore, ovviamente, è l’aumento salariale del 40%, in quattro anni; rispetto a questa richiesta le case automobilistiche all’inizio hanno proposto il 10% in quattro anni e mezzo; poi Ford e GM hanno proposto il 20% e Stellantis il 17,5 %. Il sindacato, a sua volta, è sceso a chiedere un aumento del 36%. Ma anche le altre rivendicazioni sono ritenute dalle case automobilistiche troppo onerose per loro. Leggiamo sul Sole24ore citato che la UAW “vuole anzitutto l'eliminazione di due livelli contrattuali nati all'indomani della crisi del 2007, spartiacque di forti concessioni sindacali. Gli ormai tanti assunti da allora hanno compensi di partenza molto più bassi e un percorso verso le retribuzioni massime, 32,32 dollari l'ora, di otto anni. Le imprese hanno offerto ad oggi di accorciare il cammino verso la top pay a circa quattro anni”. La UAW vuole anche “il ritorno ai tradizionali piani previdenziali aziendali, con pensioni fisse, per i dipendenti post-2007. E una significativa formula di indicizzazione del salario all'inflazione oggi sospesa per tutti. Tra le domande c'è inoltre una settimana lavorativa di 32 ore, più periodi pagati per assenze familiari, miglioramenti sanitari, aumenti del profit-sharing, fine del ricorso al lavoro temporaneo e non garantito, medesima copertura contrattuale per impianti in joint venture di veicoli elettrici”. Questo elenco di rivendicazioni rivela fino a che punto gli operai sono stati portati, proprio dallo stesso sindacato, a rinunciare in questi ultimi quarant’anni – sono gli stessi esperti cosiddetti “liberal” a sostenerlo – cadendo a precipizio in condizioni di esistenza e di lavoro insostenibili.

Siamo in periodo di campagna elettorale per le presidenziali del 2024 e il presidente americano Joe Biden, in difficoltà sui consensi, non ci ha pensato due volte: si è recato a Wayne in Michigan a portare la propria “solidarietà” agli operai in sciopero. Quando un alto rappresentante della classe dominante borghese va a dare la sua “solidarietà” agli operai in sciopero – uno sciopero che, secondo il Sole24ore costa all’economia 5,6 miliardi di dollari ogni dieci giorni, tra l’altro nel cuore industriale del Paese con effetti a cascata sui fornitori e sui consumatori – non c’è nulla di buono da attendersi. A detta dei media Biden aveva già parlato con le Big Three chiedendo loro di andare incontro alle richieste del sindacato, visti anche gli straordinari profitti accumulati negli ultimi dieci anni; ma i suoi interventi non sono serviti praticamente a nulla, e così l’amministrazione attuale della Casa Bianca ha pensato bene di fare un colpo di teatro: Biden, martedì 26 settembre, si è presentato a Wayne in mezzo agli operai del picchetto allo stabilimento di distribuzione ricambi della GM e, col megafono in mano, si è rivolto loro dicendo: “Le compagnie fanno profitti enormi e devono dividere gli utili con i lavoratori. Meritate aumenti significativi” (4). Parole che sono senza dubbio di pura propaganda elettorale, ma lo stesso concetto vale, al contrario, nei periodi in cui le compagnie, invece di fare profitti enormi, accumulano enormi perdite, e che quindi giustificano che i proletari precipitassero anch’essi in condizioni peggiorate visto che la recessione aveva colpito tutta l’economia…

Non sono passate nemmeno 24 ore ed ecco che spunta Trump, in uno stabilimento non sindacalizzato alla periferia di Detroit, a fare il suo comizio elettorale: “Sono qui per difendere la working class, combattere la classe politica corrotta, proteggere il lavoro made in Usa e l'american dream sul prodotto straniero”. Il grande nemico degli operai americani dell’auto, oggi, è la transizione all’auto elettrica, dominata dalla Cina. A loro Trump ha detto che non è importante se lo sciopero porterà a un accordo favorevole nei negoziati con Ford, General Motors e Stellantis, perché comunque “nel giro di due anni perderete il lavoro”. Naturalmente la ricetta di Trump è la stessa di sempre: "Produzione americana, fatta con mani sapienti americane e con le forniture americane" (5). E così Trump ha toccato un altro punto dolente della situazione; se Biden punta il dito contro i superprofitti delle case auto, Trump punta il dito contro la Cina e il suo attuale dominio sull’auto elettrica. Naturalmente nessuno dei due si è pronunciato sulla soluzione concreta dei problemi che assillano gli operai: uno dice che fanno bene a rivendicare aumenti salariali visto che i profitti delle case automobilistiche sono schizzati alle stelle, l’altro sostiene che la loro difesa sta nel proteggere tutto ciò che è prodotto americano, non importa di quale settore. Il guaio vero, per gli operai, è che credono ancora che la loro lotta possa avere uno sbocco positivo solo se sostenuta da un sindacato, che in realtà girerà loro le spalle ai primi accenni di recessione economica, o da politici – figuriamoci, addirittura il “presidente e l’ex presidente degli Stati Uniti” – che si sono mossi fisicamente per venire a portare… il loro comizio elettorale!

Ciò nonostante, il fatto che per la prima volta gli operai americani delle tre più grandi compagnie automobilistiche abbiano iniziato a scioperare insieme, per obiettivi comuni e in difesa anche degli operai precari assunti nell’ultimo decennio, è un fatto estremamente positivo. E’ un primissimo passo di una lotta che potenzialmente potrebbe effettivamente risvegliare l’intera classe operaia americana. Una lotta, d’altra parte, che è stata anticipata da altri settori economici nei quali i proletari hanno sofferto e soffrono sia per la mancanza di organizzazioni sindacali sia per la mancanza di tradizione di lotta, come nel caso di Amazon, della Kellog’s, della Starbucks, del settore degli hotel in California, delle infermiere della Kaiser Permanente, dei portuali della West Coast, degli insegnanti di Minneapolis e di Brookline e, addirittura, degli autori e degli sceneggiatori di Hollywood che sono in sciopero dal primo maggio di quest’anno.

La lotta operaia in America ha sempre avuto un vecchio handicap, credere che il braccio di ferro con i padroni serva soltanto per ottenere una “vittoria” oggi, mentre per il domani… si vedrà. Ma i fatti materiali legati ai rapporti di produzione e di proprietà borghesi, prima o poi metteranno di fronte anche alla classe operaia americana non solo le vistose diseguaglianze sociali – che in America ci sono da sempre e sono più profonde che in altri paesi industrializzati – ma la necessità permanente di andare oltre la lotta immediata, oltre la lotta aziendale, oltre i confini che la politica di collaborazione tra le classi ha fissato da un secolo e per la quale l’importante è il negoziato, la trattativa, la contrattualizzazione, come se al di fuori di questa società, della società del profitto capitalistico e del lavoro salariato, non ci fosse alcuna alternativa; come se la società non possa che essere un enorme mercato, in cui si vende e si compra, in cui “si fanno” o “si perdono” gli affari e in cui la stessa vita di ogni singolo essere umano è in gioco in una perenne roulette.

Strada lunga, aspra e difficile è la strada che porterà all’emancipazione dei proletari dalla condizione di lavoratori salariati, di carne da macellare nelle fabbriche con turni da 60 a 80 ore a settimana e con salari da fame, o da macellare nelle guerre che le classi dominanti borghesi di ogni paese si dichiarano, prima o poi, per continuare a dominare nel proprio paese o per sottoporre al proprio dominio altri paesi. Strada lunga, aspra e difficile, ma vitale perché lo sviluppo del capitalismo in America e nel mondo porta inevitabilmente alla guerra generale, di cui le guerre precedenti in Iraq, in Afghanistan, in Siria non sono state che una sua preparazione, come lo è la guerra in Ucraina per la quale sono stati stanziati fior di miliardi in armamenti, munizioni e finanziamenti senza inviare soldati americani, ma le cui conseguenze negative in termini di condizioni di lavoro e di esistenza colpiscono comunque i proletari a casa loro.

 

Dicevano che la lotta operaia era morta… Rinascerà più gagliarda che mai.

 


 

(1) “Il Sole 24 ore”, 15 settembre 2023.

(2) panorama.it, 18 settembre 2023, “Il malessere dietro gli scioperi del mondo auto negli Usa”.

(3)  https://www.wired.it/article/auto-sciopero-stati-uniti-stellantis-ford-general-motors (“Lo storico sciopero nell’industria dell’auto negli Stati Uniti”)

(4) “Il Sole 24 ore”, 26 settembre 2023.

(5) 28/09/2023 - https://www.rainews.it/articoli/2023/09/

 

29 settembre 2023

 

 

Partito Comunista Internazionale

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