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Giulia, massacrata perché non voleva essere proprietà di un uomo

 

 

Giulia Cecchettin, 22 anni, è stata l'ennesima donna che ha pagato con la vita la fine di un rapporto sentimentale che aveva chiuso perché non voleva essere un oggetto in mano ad un padrone.

Quello che si è rivelato il suo assassino, anche lui ventiduenne, anche lui studente universitario di ingegneria biomedica a Padova come lei, aveva evidentemente sviluppato un'insana gelosia nei confronti di Giulia tanto da indurla a troncare la relazione, dopo neanche un anno, pur mostrando verso di lui un'amichevole preoccupazione per lo stato d'animo in cui era caduto. Come succede in moltissimi casi, la forte gelosia nei confronti di una donna nasconde un sentimento più profondo basato sul bisogno materiale di possedere in esclusiva la vita stessa della donna; un bisogno sviluppato nella società in cui il sentimento d'amore, in realtà, maschera una condizione sociale generale in cui l'oppressione della donna, nelle forme più svariate, si rivela come la norma. Nella società capitalistica tutto è stato ridotto a merce, tutto deve rispondere al rapporto di do ut des, io ti do affinché tu mi dia. La vita di ogni essere umano dipende, finché esiste il capitale, da rapporti sociali di produzione e di proprietà che la regolano, dai quali non si sfugge. Quando nasci fai già parte delle regole della proprietà privata, regole che la famiglia è tenuta a difendere e applicare in ogni fase della tua vita; regole che, se non vengono rispettate secondo le leggi e le comuni abitudini fondate appunto sulla proprietà privata, sono difese dal potere dello Stato che si presenta come un'entità superiore e regolatrice, consentendo o impedendo determinati comportamenti. Nella società fondata sulla violenza dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, in cui l'oppressione della donna da parte dei maschi è regola antica ereditata dalle società precedenti divise in classi, le relazioni tra individui vengono stabiliti e alimentati secondo quei rapporti oppressivi in cui la libertà individuale, tanto invocata dall'ideologia borghese, è esercitata nel quadro dell'oppressione generale che viene fatta passare come regola, come abitudine, come costume, come qualcosa a cui si può aspirare, ma non è a disposizione di tutti. Se sei un proletario, un senza-riserve, la tua vita dipende dal capitalista che sfrutta la tua forza lavoro e, in cambio dei questo sfruttamento, ti paga un salario col quale puoi andare al mercato a comprare quel che serve per sopravvivere; e puoi sopravvivere soltanto a queste condizioni. Se non lavori non mangi, a meno che tu sia un capitalista o un servo della classe dei capitalisti che, grazie alla proprietà privata dei mezzi di produzione e dei capitali, vivi sullo sfruttamento della maggioranza della popolazione ridotta dalla violenza sociale del capitalismo e della classe dominante borghese ad essere soltanto forza lavoro a disposizione del capitale.

Concetti di questo genere possono apparire a molti come una specie di alibi per coloro che diventano protagonisti di violenze private, personali, individuali. Ma è la violenza insita nei rapporti sociali di questa società che si esprime inevitabilmente anche nei rapporti personali. E se la società educa, abitua, rende normale e necessaria la violenza dei rapporti sociali di produzione e di riproduzione della vita, la violenza privata non è che una sua rappresentazione nei rapporti personali.

Il genere femminile subisce una violenza sociale fin dalle prime società schiaviste in cui si sono sviluppate le forze produttive. E da quella lontana società alla società odierna, pur modernizzandosi sul piano giuridico grazie a vaste e ripetute lotte sociali sia delle donne, ma soprattutto della forza lavoro operaia, come non è scomparsa la violenza dello sfruttamento degli operai da parte dei padroni – e dei i capitalisti il cui Stato è nato per difenderne gli interessi generali e particolari, non è scomparsa nemmeno l'oppressione dei popoli delle nazioni più deboli, e non è scomparsa l'oppressione della donna in quanto donna.

In Italia la legge che giustificava il delitto d'onore è stata cancellata formalmente nel 1981, dopo 120 anni dalla sua costituzione in Stato indipendente. Nella realtà, il delitto d'onore è più presente che mai, e non c'è condanna, non c'è carcere, non c'è istituzione educativa o di protezione della donna che abbiano scalfito le continue violenze domestiche, le intimidazioni, gli stupri, gli assassinii. Nel 1970 viene varata la legge sul divorzio, e dopo la pressione della chiesa e dei referendum per abolirla, viene confermata nel 1974. Nel 1978 viene varata finalmente la legge sull'aborto, che subisce una continua e ancora più forte pressione da parte della chiesa e delle forze politiche che si ispirano ad essa, ma il referendum del 1980 non riesce ad abolirla. Di fatto però, prevedendo l'obiezione di coscienza da parte dei sanitari che dovrebbero garantire l'attuazione di questa legge, l'aborto in realtà è ancor oggi difficilmente realizzabile attraverso i normali canali della sanità pubblica, che è poi quella a cui si rivolge la maggioranza delle donne proletarie. E questo la dice lunga sulla civiltà di una società che resiste oltre ogni formalità legale a cambiare radicalmente abitudini e consuetudini oppressive generate, d'altra parte, dalle sue stesse basi economiche e sociali.

Lo sviluppo del capitalismo, non fa diminuire, né tanto meno fa sparire, le forme oppressive che caratterizzano questa società da quando è nata, ma le aumenta in diretta proporzione con l'aumento del disagio sociale, della povertà assoluta, della mancanza di lavoro, dell'emarginazione di una parte sempre più consistente di popolazione. Per sfuggire alla povertà e all'emarginazione, la piccola e media borghesia e la parte più alta e meglio pagata della classe proletaria tendono a stabilizzare i privilegi sociali raggiunti, e a indurre i propri figli a scalare i gradini sociali in cui la società ha suddiviso la popolazione. Come la tecnica, così la scienza e l'istruzione universitaria vengono considerate, anziché strumenti per migliorare la vita sociale in generale, diminuendo la fatica del lavoro e godendo della conoscenza sempre più ampia della vita sulla terra e nell'universo, come delle tappe obbligatorie di quella scalata sociale. Al di là delle predisposizioni personali a determinate ricerche e conoscenze, e alle più diverse attività umane, la società spinge ogni individuo a intraprendere un percorso di vita che lo faccia elevare rispetto alla massa, propagandando il fatto che grazie a quel percorso potrà avere dei privilegi rispetto alla massa, potrà assicurarsi una vita nel benessere e non nel disagio e nella povertà. Ma, se non c'è posto di lavoro per tutti, non ci sono nemmeno privilegi sociali per tutti. Do ut des: se ti pieghi alle regole del capitalismo, del mercantilismo, anche il privilegio sociale a cui ambisci può diventare una realtà, naturalmente a discapito di molti altri che non raggiungeranno mai quel livello sociale - e non per una "scelta" personale o per una incapacità individuale, ma a causa di una serie di disuguaglianze che sono alla base di questa società.

Ebbene, in una situazione di questo genere, le relazioni personali sono inevitabilmente condizionate da un ambiente sociale nel quale anche la famiglia diventa un luogo dove i genitori devono qualcosa ai figli e i figli devono qualcosa ai genitori. Questo dovere, che la società vorrebbe che fosse legato semplicemente alle regole del privilegio come traguardo al quale possono concorrere "tutti" ma che sarà raggiunto soltanto da "pochi", viene complicato nella realtà della vita sociale umana dai legami affettivi, dal bisogno di protezione amorevole e non a pagamento, dal bisogno di vivere in rapporti di fiducia reciproca e dai quali può nascere un legame d'amore in cui le pulsioni naturali di ogni essere umano possano esprimersi senza dover pagare un prezzo.

Contro questi bisogni naturali che spingono ogni essere umano a vivere, lavora questa società del profitto, del tornaconto personale, dell'imbroglio, che porta a mimetizzarsi sotto una determinata veste per essere apprezzati per quel che in realtà non si è. Ed è quel che è successo a Filippo Torretta, che voleva essere il solo e unico uomo nella vita di Giulia e che, quando Giulia non si è piegata al suo dominus, si è sentito tradito nel suo progetto di vita e nel suo onore. La reazione, come in tanti casi simili, poteva consistere  nell'allontanare Giulia con disprezzo, nel calunniarla descrivendola come una donna facile e inaffidabile, oppure nel riempirla di botte cercando di piegarla ad un rapporto che lei non intendeva più continuare, o farne oggetto di una violenta ossessione, fino ad ucciderla.

Il "bravo ragazzo", come lo descrivevano i genitori - e qui la mimetizzazione del ragazzo abbandonato dal suo amore, turbato e sconsolato, ha avuto il suo effetto -, si è trasformato in un violento, sadico e cinico assassino. Ha approfittato dell'atteggiamento amichevole che Giulia ha dimostrato verso di lui sebbene avesse troncato il rapporto "d'amore", per cercarla ancora, per cercare da parte sua compassione e un conforto anche se momentaneo. Giocando la malefica carta di un innamorato che non può vivere senza di lei, le ha di fatto teso una trappola. Lei vuole tornarsene a casa, lui evidentemente non la vuole lasciar andare. Lei tenta di scappare dall'auto di Filippo, lui la ferma e la colpisce, la accoltella finché crolla a terra esanime. Quanta rabbia covata per mesi, e nessuno se ne è accorto. Genitori e amici hanno creduto nel suo sconforto a causa della relazione finita; lo compativano, cercavano di sollevargli il morale, magari spingendolo a riprendere gli studi e a dare gli esami che gli mancano per la laurea. Ma questa rabbia generata da una profonda gelosia e da un sentimento di vendetta che maturava nel tempo, ha lavorato contro ogni possibile ragione. Il "bravo ragazzo" è diventato uno spietato assassino in nome di una radicata convinzione che la donna che l'uomo ha scelto deve rimanere sua, deve diventare di sua proprietà.

Elena, la sorella di Giulia, ha denunciato la cultura patriarcale che continua a pesare sui rapporti tra uomini e donne. E' vero, ma quella cultura - checché ne dicano gli intellettuali, gli psicologi, gli esperti in femminicidi - poggia su un'oppressione materiale molto radicata nel tempo ed estesa a tutti i paesi democratici o totalitari, sviluppatissimi o arretrati.

Questo significa che non è attraverso una cultura diversa, una cultura del diritto e dell'uguaglianza che si potrà eliminare una forma di oppressione che è congenita con la società divisa in classi, con la società del capitale. La cultura è figlia del dominio di classe della borghesia, e finché non saranno sradicate le profonde basi materiali, economiche e sociali su cui è stata eretta la cultura borghese, non si supererà mai l'oppressione sociale che si declina in moltissimi modi, contro i neri, contro gli stranieri, contro le altre razze, contro i poveri, contro i rom, contro gli immigrati, contro le donne e contro tutti coloro che in un modo o nell'altro non rientrano nei canoni sociali ed economici su cui le diverse borghesie hanno eretto il loro potere.

Al di là delle vicende giudiziarie che riguardano Filippo e della descrizione dettagliata delle sue azioni violente e della sua fuga per mezza Europa, resta il fatto che, ad oggi, le donne uccise quest’anno solo in Italia dai loro partner o in famiglia o semplicemente perché donne sono 102... e l'anno non è ancora finito... E da anni - come per i morti sul lavoro - si continuano a registrare simili numeri. Non mancano mai le alte dichiarazioni di ammonimento: queste morti devono essere le ultime!, per poi constatare subito dopo che sono la norma!

E' questa società che va ribaltata e per farlo ci vuole la lotta della classe che subisce più di ogni altra l'oppressione più dura: la classe proletaria. Alla libertà di uccidere che si prendono gli assassini come Filippo, come i padroni che risparmiano sulle misure di sicurezza nei posti di lavoro, come i poliziotti contro i manifestanti nelle proteste antigovernative o contro emarginati o tossicodipendenti come Stefano Cucchi, deve rispondere la libertà di lottare contro questo sistema sociale che genera tutti questi mostri, questo sistema sociale che vive sulla morte, che schiaccia tutto ciò che si oppone alla proprietà privata. Un sistema in cui la democrazia promette libertà ed uguaglianza, ma che è fatta, come disse Lenin nel 1919, "di frasi pompose, di espressioni altisonanti, di promesse magniloquenti", di belle parole appunto sulla libertà e sull'uguaglianza ma che nella realtà "dissimula la mancanza di libertà e di uguaglianza per i lavoratori e gli sfruttati" (1). E' questo l'inganno specifico della democrazia borghese, delle sue istituzioni giuridiche, culturali, politiche ed economiche.   

 


 

(1)      Cfr. Lenin, Il potere sovietico e la situazione della donna, 6 novembre 1919, Opere, vol. 30.

 

21 novembre 2023

 

 

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