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Prises
de position - |
Rivolte in Marocco
Sul malcontento popolare cala la repressione del regime di Mohamed VI
Da diversi giorni migliaia di giovani marocchini scendono in piazza per protestare contro la pessima situazione economica e sociale in cui versa la maggior parte della popolazione. Chiedono miglioramenti nella sanità e nel sistema educativo, ma alla base c'è un grande malcontento sociale che si è accumulato negli anni e che ora esplode, mettendo i giovani alla guida di un movimento che deve affrontare la repressione dello Stato marocchino e il silenzio complice dei media occidentali.
Il Marocco è caratterizzato da uno Stato governato con pugno di ferro, con una borghesia unita attorno alla famiglia reale e con un nucleo centrale di quest'ultima, il cosiddetto Majzén, che si occupa di imporre il terrore come unico mezzo di governo. Per quanto riguarda la politica interna, il dominio di questa borghesia si erge su un regime di tipo militare che garantisce lo sfruttamento dei proletari delle campagne e delle città e la sottomissione di ampi strati delle masse miserabili che sopravvivono grazie allo sfruttamento di piccoli appezzamenti agricoli, alla pesca o alla coltivazione di marijuana e alla lavorazione e al contrabbando dei suoi derivati. Inoltre, questa classe borghese ottiene ingenti profitti dal saccheggio sistematico del Sahara occidentale, dove mantiene la popolazione saharawi in condizioni di vita terribili, costantemente perseguitata e minacciata dall'esercito, che permette così lo sfruttamento dei preziosi minerali presenti nel sottosuolo della regione.
Per
quanto riguarda la politica estera, il Marocco è stato, sin dalla
proclamazione dell'indipendenza (1956) sotto il mandato di Mohamed V, un
fedele alleato degli Stati Uniti, dell'Inghilterra e della Francia, che
vedevano nel regime conservatore e autoritario che si era imposto un
elemento di contenimento dei movimenti di liberazione nazionale che
scuotevano sia i paesi del Maghreb che quelli dell'Africa subsahariana.
Questo status di alleato privilegiato delle principali potenze imperialiste
euroamericane ha significato per il Marocco sia una garanzia di stabilità
interna sia la possibilità di ricevere sostegno al suo progetto
espansionistico, il cui primo traguardo è stato proprio la conquista del
Sahara occidentale quando, nel 1975, dopo la Marcia Verde, la Spagna
abbandonò la zona. Da allora, il Marocco ha ripagato ampiamente il sostegno
ricevuto.
In primo luogo, perché è sempre stato un garante di pace e stabilità nei confronti della Mauritania e dell'Algeria, paesi con un futuro molto più instabile agli occhi delle ex metropoli e, quindi, fonte di rischi per il controllo imperialista della regione. In secondo luogo, soprattutto negli ultimi anni, si è consolidato come Stato cuscinetto che blocca il passaggio dei grandi flussi migratori che partono dall'Africa subsahariana e cercano di raggiungere l'Europa attraverso la Spagna. L'esercito e la gendarmeria marocchini hanno dimostrato di poter contenere migliaia e migliaia di immigrati nel loro territorio, creando veri e propri centri di detenzione a cielo aperto, in cambio degli aiuti finanziari dei paesi dell'Unione Europea. Non è un caso che, quando questi aiuti cessano o quando il rapporto con i suoi partner dall'altra parte dello Stretto di Gibilterra vacilla, il Marocco faccia pressione consentendo il passaggio di centinaia di immigrati al confine di Ceuta e Melilla. Il Marocco è un sinistro garante della stabilità imperialista sia nel Maghreb che in Europa, mentre il suo ruolo in questo senso si è rafforzato anche nel resto del mondo. Basti pensare alla sua importanza strategica nel sostegno a Israele con la firma dei patti di Abramo, alla sua collaborazione militare con il paese ebraico, ecc.
Le rivolte in corso da tre giorni ricordano quelle che hanno sconvolto il Rif nel 2016 e nel 2017, quando migliaia e migliaia di rifani, organizzati dal Movimento Hirak, sono scesi in piazza chiedendo riforme economiche e sociali, anche se quelle rivolte avevano una forte componente etnica e una portata geografica minore. Infatti, mentre quelle rivolte sono scoppiate in un contesto che aveva visto un rapido impoverimento delle masse popolari rifene (generalmente dedite all'agricoltura di sussistenza) come una delle conseguenze della crisi capitalista mondiale del 2008-2014, quelle attuali si verificano in un momento in cui il regime di Mohamed VI proclama ai quattro venti la crescente prosperità del paese, frutto degli aiuti economici ricevuti dall'Europa e di una certa ripresa dell'industria manifatturiera e della trasformazione agricola. Una situazione che trova la sua vetrina visibile nella prossima celebrazione dei Mondiali di calcio, una pietra miliare per il regime che intende così suggellare il suo carattere “moderno” integrato tra le principali potenze mondiali.
Ma dietro questa situazione di apparente benessere si nasconde un forte malcontento sociale che ha spinto migliaia di giovani a scontrarsi con la polizia per chiedere cambiamenti. E si tratta di un malcontento che viene da lontano. Come nel resto dei paesi, l'uscita dalla crisi capitalista degli ultimi due decenni è stata realizzata attraverso un brutale aumento dello sfruttamento dei proletari e una maggiore pressione sulle masse popolari più povere. Il ritorno a un ritmo “normale” negli affari (normale e inevitabile fino alla prossima crisi, ovviamente) è stato ottenuto facendo ricadere il peso della “ripresa” principalmente sulle spalle dei lavoratori salariati, ma anche dei piccoli agricoltori, ecc., che hanno subito gli effetti di una concorrenza internazionale contro la quale non potevano fare nulla e che li ha gettati in una situazione drammatica. Sono i giovani, che giustamente vedono il loro futuro come un lungo percorso di sofferenza e miseria mentre il Paese si vanta dello sviluppo raggiunto, ad aver acceso la miccia della rivolta.
Questo tipo di rivolta riflette il deterioramento irreparabile delle condizioni di vita della maggior parte della popolazione, in particolare del proletariato, il cui sfruttamento sostiene l'intera economia capitalista; è simile a quelle che abbiamo visto recentemente in Nepal, Ecuador, ecc. Si manifesta come un insieme indistinguibile che, nel suo complesso, richiede esclusivamente riforme democratiche, miglioramenti nel governo, nei servizi pubblici, ecc.
Il proletariato marocchino non ha una lunga esistenza come classe sociale differenziata e ha avuto solo una manciata di esperienze di lotta contro la classe borghese e il suo Stato. Si tratta senza dubbio di lotte lodevoli, ma scarse, soffocate dalla repressione e accompagnate da poche concessioni che la borghesia dominante concede a certi strati piccolo-borghesi.
Tuttavia, il corso dello sviluppo capitalistico nel Maghreb e nel resto dell'Africa ha creato un fattore oggettivo che può agire come acceleratore della delimitazione del terreno di classe proletario in questa regione del mondo: i lavoratori che sono emigrati nelle metropoli. Questi proletari, che condividono il posto di lavoro e le case con i proletari d'Europa, che fanno parte del settore più impoverito del proletariato spagnolo o francese, e che in Europa stessa sono la base di una classe proletaria che riunisce lavoratori di molte razze e provenienze che costituiscono un potenziale di classe di prim'ordine, possono diventare trasmettitori di una tradizione di lotta e di organizzazione più ampia di quella esistente in Marocco e, allo stesso tempo, contribuire a mostrare ai proletari europei la via di una lotta molto più disincarnata di quella esistente nei loro paesi.
È vero che questo proletariato europeo da decenni si mostra come un subordinato relativamente docile della borghesia, con piccole e limitate esplosioni sociali, ma in generale anche sottomesso alle esigenze della classe dominante. Per molti anni, le forze dell'opportunismo politico e sindacale e i resti degli ammortizzatori sociali che gli hanno permesso di non cadere nella miseria più assoluta, sono riusciti a tenerlo legato anche a una ferrea politica di collaborazione con la borghesia. Ma lentamente questi agenti che riescono a contenere la sua forza storica si consumeranno. L'immigrazione ne è un buon esempio: l'importazione di proletari da altri paesi, di cui la borghesia ha bisogno per cercare di abbassare le condizioni di vita e di lavoro dei proletari occidentali, tende oggettivamente a minare quel “benessere” che ha fatto da ammortizzatore sociale. Allo stesso modo in cui si può affermare con certezza che il futuro della società capitalista tornerà ad essere quello della lotta di classe proletaria, perché le concessioni che la classe borghese ha potuto utilizzare come garanti della pace sociale per decenni si stanno esaurendo a marcia forzata, si può capire che tale lotta di classe non avrà come scenario solo i paesi dell'Europa, dell'America o dell'Asia, ma che l'immenso esercito proletario africano che oggi vive in condizioni precarie in questi luoghi contribuirà a estendere la fiamma della rivolta ai proletari di Marrakech, Nador o Nuakchot.
Sarebbe assurdo, non materialista e direttamente fatale pretendere che il proletariato abbandoni queste lotte in attesa di una lotta proletaria «pura», così come sarebbe assurdo chiedergli di rinunciare alle lotte parziali o isolate con il pretesto che sarebbero inutili. In questa fase di depressione della lotta di classe, la ripresa proletaria passerà inevitabilmente attraverso queste lotte, che non rappresentano ancora una ripresa della lotta di classe proletaria, per arrivare un giorno alla lotta di classe indipendente. Ma affinché questo percorso che stanno percorrendo oggi sia fruttuoso, i proletari devono riconoscere con chiarezza ciò che accade sotto i loro occhi, identificare gli interessi materiali delle classi in lotta e quindi i propri, e comprendere che le lotte attuali non sono altro che episodi che, nel migliore dei casi, sono diretti contro gli effetti e non contro le cause, così come le condizioni stesse della loro emancipazione. Solo se trarrà insegnamento da queste lotte potrà rompere la ragnatela della politica di cooperazione tra le classi e potrà raggiungere la sua indipendenza di classe, unirsi e sviluppare tutti gli elementi necessari per la battaglia futura. Cesserà così di essere una classe subordinata al capitale, entrerà nel campo della propria lotta politica, sarà seguita da altri strati socialmente emarginati e, nel senso più elevato, sarà rivoluzionaria.
Per noi comunisti rivoluzionari, che lavoriamo per la ripresa della lotta di classe, sviluppando il lavoro marxista del partito, per quanto limitato possa sembrare oggi, si tratta di porre le condizioni in cui tale lotta di classe riapparirà. Non come risultato della nostra volontà, né tantomeno come conseguenza dell'elogio come “proletarie” o “rivoluzionarie” di qualsiasi convulsione del mondo borghese, ma come frutto dei fatti materiali che spingono e spingeranno sempre le diverse classi sociali a una guerra all'ultimo sangue tra di loro.
I proletari del Marocco che oggi lottano nelle strade, prima o poi entreranno a far parte del grande esercito di classe del proletariato mondiale e lo faranno lottando contro ogni mistificazione democratica e contro ogni residuo di solidarietà interclassista che ancora oggi li domina, li rincretinisce e li paralizza.
2 ottobre 2025
Partito Comunista Internazionale
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