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Prises
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Qual è il futuro dei palestinesi di Gaza?
I palestinesi hanno davanti a sé il loro sistematico sterminio, voluto e organizzato da Israele col beneplacito e il sostegno di tutti gli imperialisti, a cominciare dai democraticissimi Stati Uniti d’America e Stati europei.
Dopo decenni di tentativi andati a vuoto di costituirsi in una nazione e in uno Stato indipendente, alla pari degli altri, e soprattutto di Israele, sembra che non vi siano vie d’uscite; ma una via d’uscita esiste, ed è la via storica della ripresa della lotta di classe del proletariato non solo nei paesi del Medio Oriente, ma soprattutto nei paesi capitalisti avanzati nella prospettiva della rivoluzione proletaria e comunista internazionale, in Europa, in America, in Russia, nell’Oriente estremo, in Cina e Giappone; una lotta di classe che non potrà non colpire, dall’esterno, anche paesi in cui la collaborazione di classe tra proletariato e borghesia si è così cementata nel corso di decenni da apparire inattaccabile, come Israele.
A molti questa prospettiva può sembrare fuori dalla realtà, immaginaria e irrealizzabile, alla stessa stregua di un «risveglio» delle classi lavoratrici dei paesi del Medio Oriente.
La classe dominante borghese, dopo aver superato in più di duecento anni una serie interminabile di crisi economiche, commerciali e finanziarie, di lotte sociali e di assalti al potere da parte proletaria, e addirittura una rivoluzione come quella bolscevica del 1917, con la sua temporanea influenza sull’Europa e sul mondo, dopo aver superato ben due guerre mondiali, una più devastante dell’altra, e le loro conseguenze negative, dopo aver continuato a sviluppare l’economia industriale e capitalistica sottomettendo alle sue leggi ogni angolo del mondo, anche il più lontano geograficamente dai grandi centri finanziari e imperialistici, e dopo aver legato ogni proletariato agli interessi nazionali della propria borghesia, soffocando rivolte e ribellioni ogni volta che esplodevano, e continuando a far scoppiare guerre in ogni parte del mondo fino a terremotare la pacifica Europa; dopo tutti questi fatti, ciò che appare impossibile non è la rivolta, la ribellione di strati popolari o di nazioni intere all’oppressione che subiscono costantemente dai grandi Stati imperialistici, dai grandi monopoli e trust mondiali, dalle grandi banche, ma che le rivolte e le ribellioni si trasformino in lotte di classe organizzate come avveniva nell’Ottocento e nel primo trentennio del Novecento.
Finora si è assistito a Stati democratici che, a seconda degli interessi immediati e futuri della propria borghesia, si alleano o si scontrano con altri Stati democratici o con Stati autoritari, totalitari, ma tutti egualmente borghesi e antiproletari; si assiste ormai da decenni a una sempre più forte militarizzazione dei confini di ogni nazione, non importa se questa militarizzazione sia opera della borghesia nazionale oppure di altre borghesie che si sono imposte vincendo le guerre. E’ sempre più evidente, soprattutto dalla fine della seconda guerra imperialistica mondiale, che la lotta di concorrenza tra i vari capitalismi nazionali ha messo in primo piano ciò che il Manifesto del partito comunista, Il Capitale, l’Imperialismo, in una parola il marxismo, aveva previsto centottanta, centosessanta e centodieci anni fa: gli Stati borghesi, tanto democratici, quanto monarchico-costituzionali o totalitari, sono, in ogni paese, strumenti del dominio capitalistico sulla società; succhiano sudore e sangue dal lavoro salariato delle masse proletarie, sudore e sangue dalle masse contadine povere, al solo scopo di rafforzare il potere del capitalismo su ogni territorio del pianeta, su ogni mare e in ogni cielo. Secondo la borghesia, alle leggi del capitale, e quindi della grande borghesia capitalistica, devono rispondere non solo le grandi e le piccole aziende, i grandi e i piccoli commerci, ogni piccola e grande proprietà, dunque ogni paese, e ogni singolo individuo fin dalla nascita e finché respira, ma tutte le generazioni che seguiranno. Se il futuro lo si immagina sulla base di quello che succede nel presente, non sarà quello del tanto propagandato benessere, della tanto invocata pace, delle rivendicate libertà, uguaglianza, fraternità: il futuro prospettato in ogni paese dalla borghesia dominante lo raccontano le bocche dei cannoni, le bombe che piovono dal cielo, i missili sparati da terra, dal mare, dal cielo. E quando non sono i cannoni a sparare, le bombe e i missili a fare stragi e a radere al suolo intere città, ci pensano la fame, la denutrizione, la sete, la carestia e la criminalità che approfitta sempre del caos generato dalle crisi sociali e di guerra. Borghesia e criminalità, pur combattendosi, si sostengono a vicenda, sono entrambe figlie del modo di produzione capitalistico e per entrambe il dio onnipotente è il denaro al quale sacrificare ogni cosa, popoli compresi.
Contro questo mondo, contro questo futuro non è la «buona volontà» degli uomini, non è la «democrazia» con i suoi falsi «valori di libertà e di eguaglianza» a rappresentare la soluzione. La classe borghese non è composta da uomini che hanno a cuore la società degli uomini, ma è composta da uomini che sono strumenti del capitale, sono la mano del dio-capitale, i cui interessi vanno contro la società umana: quando al posto degli interessi della vita sociale della specie umana vengono portati avanti gli interessi del capitale, del denaro, della merce, cioè di una economia che usa il lavoro umano esclusivamente per la valorizzazione del capitale, allora qualunque violenza è concessa: la violenza del capitale, della sua economia mercantile, si travasa direttamente nella violenza della classe che detiene il potere politico, economico, militare per piegare l’intera società agli interessi del capitalismo e a tale scopo questa classe non solo si appropria di tutta la ricchezza prodotta dal lavoro umano accentrandola, ma esercita ogni tipo di violenza per difendere il proprio potere e per allargarlo a più vasti territori.
La guerra – che la borghesia israeliana conduce da decenni contro tutti i popoli che abitano nei territori confinanti con quella che da sempre considerano la «Terra promessa» (...promessa dal Dio di Israele), a cominciare dalla popolazione palestinese, che da qualche millennio è presente in tutta l’area in quanto anch’essa è una popolazione semita come lo è quella ebraica – ha le sue radici non nel supposto anti-semitismo dei palestinesi, ma nell’interesse e nella necessità di entrambi i popoli a prevaricare l’altro per il domino sullo stesso territorio, soprattutto nelle aree fertili lungo il Giordano; i contrasti religiosi plurimillenari non sono che una giustificazione ideologica per entrambe le parti. Con lo sviluppo del capitalismo, e quindi delle classi borghesi per ciascuna popolazione dell’area, i contrasti hanno assunto inevitabilmente le caratteristiche di una guerra permanente in cui – dopo il crollo dell’impero ottomano che dominava da quattro secoli quei territori e la loro colonizzazione da parte delle potenze imperialistiche vincitrici della prima guerra mondiale, cioè Inghilterra e Francia – l’intera area del Vicino e Medio Oriente è stata completamente smembrata partendo dalle antiche istituzioni imperiali. Inghilterra e Francia vi istituirono, a fini di dominio imperialistico, nuove entità nazionali: Iraq, Palestina/Israele, Giordania, Libano, Siria, Kuwait, Arabia Saudita, senza tener conto delle tradizioni stanziali delle diverse etnie e popolazioni, ma solo dei propri interessi imperialistici.
Naturalmente, gli interessi delle potenze imperialistiche prevedevano non solo la spartizione del Vicino e Medio Oriente ex-ottomano in zone di influenza (perciò Siria e Libano furono assegnate alla Francia, Giordania, Palestina/Israele, Iraq, Kuwait e Arabia Saudita, all’Inghilterra) in modo da controllare direttamente le vie di comunicazione, il monopolio del commercio e lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi, ma anche l’istigazione delle diverse minoranze (innanzitutto quella curda, e poi anche quella ebraica) contro le popolazioni arabe. Alla fine della prima guerra mondiale, col trattato di Sèvres (1920), si definivano i nuovi confini modificando radicalmente l’intera area mediorientale. Con la seconda guerra mondiale, la sconfitta delle potenze dell’Asse e delle entità statali arabe che le sostenevano, e lo sterminio degli ebrei, le democrazie imperialistiche vittoriose per la seconda volta sui totalitarismi imperialistici, non fecero che aggravare i conflitti tra le popolazioni dell’area mediorientale, in particolare per quel che riguarda l’istituzione di Israele che, da «focolare ebraico» diventerà nel 1948 un vero e proprio Stato in un territorio che le potenze imperialistiche mondiali riunite nell’ONU dal 1945 avrebbero voluto spartire in due Stati diversi, uno palestinese e uno ebraico, cosa che non avvenne mai. Che l’Inghilterra, gli Stati Uniti e la stessa Francia parteggiassero sostanzialmente per la popolazione ebraica e non per le popolazioni arabe fu evidente, aldilà delle ripetute dichiarazioni sui conflitti arabo-israeliani e sui «due popoli, due Stati», fin dalla costituzione violenta dello Stato di Israele che causò la prima grande catastrofe (in arabo, al-Nakba) per i palestinesi, costretti a fuggire in Libano e in Giordania; né l’Inghilterra, né tantomeno la Francia, intervennero per evitare l’esodo forzato di 700mila palestinesi dalla loro terra occupata militarmente dagli israeliani. Uno Stato ebraico faceva comodo a tutte le potenze imperialistiche perché avrebbe potuto svolgere per loro conto il ruolo di gendarme in un’area turbolenta e difficilmente gestibile dopo il suo totale smembramento; e tacitava la cattiva coscienza delle democrazie imperialistiche che, pur conoscendo il destino di milioni di ebrei nei campi di concentramento nazisti, non fecero assolutamente nulla per fermare quello sterminio annunciato.
Pertanto, finita la guerra, le democrazie vincititrici favorirono la migrazione di centinaia di migliaia di ebrei europei dalla Polonia, dalla Germania, dalla Russia (attuando in questo modo una gigantesca pulizia etnica nell’Europa centrale e dell’Est e dimostrando di essere, in realtà, esecutrici testamentarie della volontà nazista di porre fine alla “questione ebraica” in questa parte d’Europa), e anche dallo stesso Medio Oriente verso Israele, la loro nuova patria. Così l’imperialismo – sotto le vesti formalmente democratiche o meno – sperava di attenuare, se non pacificare, un Medio Oriente che si prospettava invece come un’area in cui i contrasti etnici, religiosi, politici ed economici dei popoli che lo abitavano da sempre, si sarebbero incrociati, aggravandoli, con i contrastanti interessi delle diverse potenze imperialistiche. Nel frattempo, nel corso dei decenni dal 1948 in poi, Israele è diventato un paese capitalisticamente molto avanzato e con rilevanti mire espansionistiche, mire che possono realizzarsi solo a patto di sottomettere l’intera popolazione palestinese cosicché non possa nuocere in nessun modo agli interessi di Tel Aviv di appropriarsi dell’intero territorio della Palestina, anche a costo di sterminare l’intera popolazione palestinese, come in effetti sta avvenendo a Gaza da oltre 600 giorni.
Le ribellioni, le rivolte, le guerre, di cui i palestinesi sono protagonisti da oltre sessant’anni, pur avendo costantemente perso e avendo dovuto battersi non solo contro l’esercito di Israele, ma anche contro i governi e gli eserciti dei paesi arabi che a parole si dichiaravano sostenitori e amici della «causa palestinese», non sono riuscite a “risolvere” la “questione palestinese”. Pur affidandosi all’influenza e alla direzione di gruppi politici e milizie che, dall’Olp in poi, fino all’ANP attuale e ad Hamas, hanno dimostrato, al contrario, di far prevalere i propri interessi di parte, i propri privilegi, sfruttando le masse proletarie e contadine palestinesi, mettendosi di volta in volta al servizio di una o dell’altra potenza regionale, dell’una o dell’altra potenza imperialistica; pur subendo le conseguenze più terribili in termini di oppressione, di umiliazione, di tortura, di morte, le masse palestinesi continuano a resistere e a sopravvivere in lembi di terra che si trasformano sempre più in cimiteri a cielo aperto.
Che tutte le potenze imperialistiche siano interessate a mantenere buoni rapporti economici, commerciali, finanziari e politici con Israele è evidente; hanno continuato a commerciare armi di ogni tipo, anche dopo l’8 ottobre 2023, e di questo commercio i grandi campioni sono gli Stati Uniti, la Germania, la Francia, la Gran Bretagna, l’Italia, e perfino la Spagna, che, nonostante il recente riconoscimento da parte di Pedro Sánchez dello «Stato palestinese», ha aumentato l’importazione di armi da Israele dopo il 7 ottobre 2023, compresi i nuovi missili Spike e i mortai Cardom «provati in combattimento» a Gaza (1). Queste potenze non hanno fatto nulla perché alle parole concilianti dei «due popoli, due Stati» (che sanno benissimo che non ci saranno mai) seguissero i fatti, e nulla per fermare le sistematiche violenze dell’esercito e dei coloni israeliani contro la popolazione civile palestinese.
La loro grande potenza, politica, economica, militare, a che è servita? A proteggere la popolazione civile palestinese? A impaurire lo Stato di Israele minacciandolo di pesanti ritorsioni se non ferma le sue sistematiche violenze contro la popolazione palestinese inerme? No di certo, visto che dopo 600 giorni di bombardamenti che stanno radendo al suolo la Striscia di Gaza, coi suoi oltre centomila morti tra quelli accertati e quelli sotto le macerie, con le sue centinaia di migliaia di feriti, moribondi, affamati e malati senza cure, molti governanti in giacca a cravatta si prendono il lusso di dire – a favore delle telecamere – che Israele «sta esagerando», che ha «oltrepassato il limite» (il limite di che cosa: quanti morti civili sono «accettabili» per lor signori in quasi due anni di bombardamenti, colpendo scuole, ospedali, abitazioni civili, campi dei rifugiati?), che è ora di «negoziare»... Negoziare con chi?, con Hamas, che è concausa della guerra sferrata da Israele, e che ha, invece, interesse che la popolazione di Gaza continui a subire ogni efferatezza di cui è capace l’esercito di Israele, per avere una ragione in più per riorganizzarsi e recuperare influenza almeno su una parte dei palestinesi e continuare a svolgere il suo ruolo di longa manus di alcune potenze regionali (e non solo l’Iran) a cui fa comodo tenere Israele occupata nell’area che un tempo era la Palestina?
E non sono certo i cosiddetti «aiuti umanitari», sotto forma di camion pieni di cibo, di medicinali, di vestiario, di attrezzature che giungono al confine di Gaza e che dal 2 marzo scorso sono bloccati sotto il sole dall’esercito israeliano, impedendo qualsiasi soccorso alla popolazione bombardata sistematicamente e ridotta alla fame, a facilitare la sopravvivenza dei palestinesi di Gaza. Dopo c he Israele ha cacciato l’organizzazione umanitaria dell’Onu URNWA, accusata di terrorismo dal governo terrorista di Israele, e aver organizzato con gli Stati Uniti una nuova sedicente organizzazione umanitaria, la Alliance of Lawyers for Palestine (ASAP), al comando della cosiddetta Gaza Humanitarian Foundation (GHF), finanziata dal Mossad e dal Ministero della Difesa israeliano e costituita in realtà da mercenari americani ed ex agenti della Cia, Israele procede speditamente nel piano di radunare la maggior parte dei palestinesi della Striscia nel sud della territorio. Qui ha organizzato, vicino al confine con l’Egitto, sotto la supervisione degli Stati Uniti, 4 punti di raccolta per la distribuzione del cibo (contro i precedenti 400 punti di raccolta dell’URNWA in tutta la Striscia), costruendo dei lunghi e stretti corridoi di filo spinato e sottoponendo ad identificazione mediante i più avanzati sistemi tecnologici di biometria tutti coloro che si mettono in coda per il cibo. Dopo giorni e settimane di affamamento è ovvio che si crei la calca di palestinesi per assicurarsi una sia pur minima quantità di cibo. Come era preventivato, per disperdere la calca e obbligare i palestinesi a infilarsi ordinatamente nei corridoi allestiti appositamente e contro l’assalto al poco cibo messo a disposizione, i contractors americani e le milizie criminali organizzate da alcuni clan palestinesi d’accordo con il governo di Netanyhau (2) hanno sparato sulla folla, aggiungendo altri morti e feriti alle decine di migliaia già falciati dagli attacchi di Israele. Così i palestinesi vengono trattati peggio dei prigionieri in qualsiasi campo di concentramento: dietro gli «aiuti umanitari» – usati per attenuare la cattiva coscienza dei paesi imperialistici – brillano le canne dei mitra e i cannoni dei carri armati, che trasformano in tal modo i punti di raccolta per la distribuzione del cibo in trappole mortali.
E mentre nella Striscia di Gaza si sta perpetrando questa lunga e pesante carneficina, il principe Faisal bin Farhan, ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, domenica 1 giugno intendeva incontrare Abu Mazen a Ramallah, in Cisgiordania, per discutere di quello che dovrebbe diventare, un giorno, l’agognato «Stato palestinese». Da più di cinquant’anni un alto funzionario dell’Arabia Saudita non mette piede in Palestina; da più di cinquant’anni Riyadh tace sulla tragedia della popolazione palestinese. Alla guida di una delegazione araba composta da ministri degli Esteri di Egitto, Giordania e altri paesi della Lega Araba, il principe Faisal bin Farhan intendeva dare l’avvio a un’iniziativa grazie alla quale l’Arabia Saudita vorrebbe tornare a svolgere un ruolo fondamentale nella ricostruzione dei rapporti interstatali tra i paesi arabi della regione e Israele, giocando, come si conviene ai mercanti più esperti, su più tavoli. Innanzitutto normalizzando i rapporti con Israele sulla base dei famosi Accordi di Abramo, interrotti a causa dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e della violentissima risposta di Israele sulla Striscia di Gaza, ma che avevano appianato le relazioni tra Israele e il Bahrein, gli Emirati e il Marocco, e che potevano essere ripresi tra Tel Aviv e Riyadh. In secondo luogo con la ripresa, dopo averli abbandonati, dei rapporti con l’ANP, rimettendo al centro la «causa palestinese», in accordo con la Francia di Macron con cui Riyadh ha organizzato all’Onu una conferenza per il 17-20 giugno prossimi proprio per rilanciare il riconoscimento dello Stato palestinese. Si assiste così a un ennesimo teatrino in cui la «causa palestinese» viene usata, ora da una potenza ora dall’altra, come leva per imporre i propri interessi nella spartizione in un’area sottoposta sistematicamente a contrasti tendenzialmente irrisolvibili e nella quale le potenze regionali Arabia Saudita, Iran, Turchia e, naturalmente, Israele tentano da almeno sessant’anni di imporsi rispetto agli altri contendenti. Ma dietro di loro, o al loro fianco, agiscono le potenze imperialistiche storiche e un imperialismo più giovane, come ad esempio la Cina, interessati non tanto alla «causa palestinese», quanto al petrolio e alle vie commerciali che passano attraverso il Mar Rosso, il Canale di Suez e il Golfo Persico. In realtà questa visita a Ramallah è stata impedita da Israele ed è stata ovviamente... rimandata. A dimostrare che il grande piano israeliano prevede di ridurre la presenza dei palestinesi nella Striscia e in Cisgiordania al minimo storico, sono i continui insediamenti di coloni in Cisgiordania e, domani, una volta terminato lo sterminio a Gaza, anche nella Striscia. Non per caso la visita del saudita Faisal bin Farhan a Ramallah si stava concretizzando ventiquattro ore dopo che il governo Netanyahu aveva approvato altri 22 insediamenti nella Cisgiordania occupata, la più ampia operazione di insediamento nei territori occupati illusoriamente destinati a uno Stato palestinese...
La guerra nel terremotato Medio Oriente è stata, è e sarà la situazione normale, perché troppi sono i contrasti che si sono accumulati e concentrati nel corso di cent’anni e oltre e che continuano a generare ulteriori contrasti. Contro questa situazione di guerra permanente, soltanto l’esplosione della lotta di classe proletaria potrà portare con sé una risposta storica alle continue carneficine con cui le borghesie regionali e imperialistiche tentano di volta in volta di imporre i propri specifici interessi di parte. Una lotta di classe proletaria che può scoppiare in Egitto come in Siria o in Iran, come in Turchia o nella stessa Arabia Saudita, come in Libano o in Iraq o nella stessa Palestina, ma che potrebbe avere la caratteristica di trasmettere l’incendio rapidamente in tutta la regione.
Purtroppo, e non da oggi, una via d’uscita dall’oppressione, dalle stragi e dall’attuale sterminio dei palestinesi è ancora completamente negata. Sotto la bandiera del «diritto di Israele a difendersi», la sanguinaria borghesia ebraica, in nome del «popolo eletto da Dio», da un Dio che pretende totale obbedienza e al quale è dovuto anche il sacrificio più grande, quello della vita umana, giustifica il «diritto di Israele a difendersi» con ogni azione, anche le più violente e disumane, pensata, programmata e fatta contro ogni altro popolo pagano o considerato nemico. In virtù di questa antichissima convinzione religiosa, il «popolo eletto da Dio» ha costruito nel tempo, da una generazione all’altra, uno strettissimo legame solidale tra tutti i suoi componenti, tra tutte le comunità ebraiche, cacciate dai vari paesi fin dall’Impero romano, contribuendo a farle resistere nel tempo dedicandosi solo agli scambi commerciali e ai prestiti di denaro, facendone nel tempo usurai e banchieri, visto che, per sopravvivere, non potevano per legge possedere immobili e terre. In realtà, soprattutto nel Medioevo, il «popolo ebraico», solgeva in questo modo un’importante funzione sociale poiché, non facendo parte della comunità cristiana, poteva dedicarsi a compiti che quest’ultima disapprovava, ma di cui aveva bisogno, in particolare la pratica dell’usura. Lo sviluppo degli scambi commerciali e della circolazione monetaria, portò allo sviluppo dell’usura contribuendo così a radicare i primi germi del capitalismo e alla conseguente dissoluzione della società feudale. Tutto ciò non è stato sufficiente a proteggerle dai massacri e dai pogrom che dal Medioevo in poi hanno colpito le comunità ebraiche in Germania, in Inghilterra, in Francia e soprattutto in Russia. Un «popolo eletto da Dio» ma perseguitato da tanti altri popoli, cristiani soprattutto, che, nell’infinita ipocrisia del cattolicesimo, del protestantesimo e del cristianesimo ortodosso, dirigevano il malcontento delle classi inferiori verso le comunità ebraiche che, per le loro caratteristiche, erano facilmente identificabili e ghettizzabili. Un malcontento generato dalla competizione che gli ebrei misero in atto nei confronti dei non-ebrei quando, oltre all’usura, e in forza del denaro a disposizione, si rivolsero alle professioni piccoloborghesi classiche (il commercio, le professioni liberali ecc.). E’ così, l’antiebraismo (noto come antisemitismo) della tradizione feudale fu utilizzato dalla borghesia per farne dei comodi capri espiatori.
L’essere stati per secoli perseguitati non ha impedito alla gran parte delle comunità ebraiche di arricchirsi grazie al commercio e all’usura, in un mondo in cui i rapporti, violenti e meno violenti, tra le diverse popolazioni si infittivano mettendo in evidenza sempre più la necessità dello scambio di prodotti e, in seguito, di merci a tal punto che, quando l’oro, l’argento e poi il denaro diventarono la misura degli scambi, la pratica mercantile e usuraria rafforzata e raffinata nei secoli dagli ebrei li mise nelle condizioni di maggior privilegio sociale, tanto da diventare esponenti di prim’ordine del capitalismo.
L’assenza della lotta di classe in Israele, in Europa, in America, nei paesi arabi del Medio Oriente, non permette al proletariato palestinese, e tanto meno alla popolazione palestinese in generale, di contare sull’unica solidarietà concreta che lo aiuterebbe a reagire allo sterminio, scrollandosi di dosso le sanguisughe nazionalborghesi di Hamas, dell’ANP e di tutti i vari clan e le varie formazioni politico-miliziane che negli ultimi decenni hanno rappresentato non una «soluzione nazionale e democratica» del conflitto israeliano-palestinese, ma lo sfruttamento della combattività e dell’indomabile resistenza dei proletari palestinesi per affermare i propri interessi di classe borghesi, i propri privilegi, ora con gli scontri armati contro Israele e contro questo o quello Stato arabo che si rivelava repressivo nei loro confronti quanto Israele, ora con i più vili e cinici compromessi con i poteri dominanti rappresentati da Israele o dai paesi arabi, dagli Stati Uniti o dagli Stati europei.
Alla più recente offensiva di Israele contro la popolazione di Gaza, dopo la finta tregua concordata con Washington, è stato dato il nome di carri di Gedeone. Ogni titolo che Israele ha dato alle sue guerre ha sempre avuto un forte valore simbolico. In questo caso, il riferimento è alla Bibbia, in particolare al Libro dei giudici e alle gesta del giudice Gedeone (XI-X sec. a.C.), «scelto da Dio» per riportare alla fede nel Dio di Israele gli israeliti, allontanatisi dai comandamenti di Dio e oppressi da popoli pagani come i Madianiti e gli Amaleciti. Le sue gesta si sintetizzano nell’operazione di sterminio che Gedeone organizzò con un attacco notturno a sorpresa nell’accampamento dei Madianiti; la sorpresa facilitò la vittoria di Gedeone e dei suoi 300 guerrieri; egli uccise personalmente i principi catturati e ordinò lo sterminio della popolazione di due villaggi, Succoth e Penuel, rei di non aver sostenuto i suoi soldati. Ripristinata così la legge del Dio di Israele e il controllo del territorio abitato dagli israeliti, il giudice Gedeone garantì, secondo quanto narra la Bibbia, la pace per quarant’anni. Fu elevato, nel Nuovo Testamento, a esempio di fede per tutti i cristiani, una fede che imponeva, di fatto, lo sterminio di tutti coloro che non si sottomettevano alla legge del Dio di Israele... e alla legge del Dio dei cristiani...
E che cos’è, se non di uno sterminio organizzato fin nei più piccoli dettagli, quel che avviene a Gaza dall’8 ottobre 2023, il giorno dopo l’attacco di Hamas ai kibbutz israeliani confinanti con Gaza? Uno sterminio consumato col beneplacito di tutti gli Stati cosiddetti civili, e di cui renderanno conto, un giorno, davanti all’avanzare del movimento rivoluzionario proletario che, spinto dalle sempre più acute e forti contraddizioni del capitalismo mondiale, inevitabilmente risorgerà dalle ceneri.
(1) Cfr. https://contropiano.org/altro/2025/06/05/benefici-inconfessabili-la-compravendita-darmi-tra-la-spagna-e-israele-dopo-il-7-ottobre-0183806
5 giugno 2025 (Aggiornamento 15 giugno 2025)
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