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Ucraina : un bottino che Mosca e Washington si stanno spartendo
Da quando le truppe russe hanno invaso l’Ucraina, il 24 febbraio 2022, sono passati 3 anni e 9 mesi. Questa guerra, che secondo Mosca doveva durare alcuni mesi, forse un anno, aveva l’obiettivo ufficiale di proteggere le popolazioni russofone di due regioni del Donbass, Luhansk e Donetsk, alle quali Kiev, di fatto, dopo l’indipendenza del 1991 in seguito al crollo dell’URSS, non aveva mai riconosciuto i loro elementari diritti di minoranza, diritti che, dopo un lungo periodo di conflitti sociali e armati, venivano ufficialmente promessi negli accordi di Minsk (del 2014 e 2015). In realtà, queste popolazioni, salvo in qualche periodo in cui alcuni governi, come quello di Janukovič, tentavano di stabilire una specie di equidistanza tra Nato-Unione Europea e Russia, venivano invece sottoposte a sistematica oppressione e repressione sia da parte del governo centrale di Kiev, sia da parte delle milizie neo-naziste al servizio di Kiev (come quelle del «battaglione Azov»). I separatisti filorussi, col pretesto che le loro rivendicazioni di autonomia non venivano mai state soddisfatte, approfittarono dell’operazione Crimea (sua annessione alla Russia nel 2014) per dichiarare la costituzione delle repubbliche di Donetsk e di Luhansk, appoggiandosi alla Russia e solo da questa prontamente riconosciute.
In realtà, il conflitto tra le fazioni ucraine pro-russe e le fazioni ucraine europeiste e pro-occidentali, è iniziato subito dopo la dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina da Mosca, incrementandosi alla fine degli anni Novanta del secolo scorso quando le pressioni occidentali e della Nato per spostare l’Ucraina nel proprio campo si sono fatte sempre più forti e persistenti, fino ad arrivare alle elezioni presidenziali dell’ottobre 2004 che elessero però Janukovič (antieuropeista e «pro-russo»), poi sospese dalla Corte suprema per sospetti brogli e rifatte nel dicembre dello stesso anno dando invece la vittoria al concorrente Juščenko (pro Unione Europea e pro Nato; i giornalisti hanno definito questo periodo come la «Rivoluzione arancione»), sostenuto con grande forza dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. Ma la crisi politica non si esaurì con la vittoria elettorale degli «arancioni»; alle elezioni per il rinnovo del parlamento ucraino (marzo 2006) la vittoria andò al partito di Janukovič, cosa non gradita a Juščenko e ai suoi sostenitori euroamericani. Così la turbolenza politica sfociò in ulteriori elezioni parlamentari anticipate, dopo che il presidente Juščenko aveva sciolto il parlamento; la maggioranza dei seggi andò alla coalizione arancione che portò, nel dicembre 2007, Julija Tymošenko a diventare primo ministro costituendo in questo modo un attrito continuo tra la presidenza Janukovič e il governo guidato dalla europeista Tymošenko. Nel 2008 la Nato dichiara di accettare in futuro la richiesta dell’Ucraina di entrare nell’alleanza militare. Nel 2010 le elezioni presidenziali ridiedero la vittoria nuovamente a Janukovič, sconfiggendo la Tymošenko che si era nel frattempo cadidata alla presidenza e che per malversazioni di fondi pubblici (rispetto ad una fornitura di gas naturale, siglata con la russa Gazprom, giudicata particolarmente onerosa per l’Ucraina) fu condannata a sette anni per abuso d’ufficio. Le forti proteste pro-europee contro il presidente Janukovič, istigate e foraggiate dagli euroamericani, alzarono la tensione nel paese quando il presidente ucraino, nel 2013, sospese l’accordo di associazione tra l’Ucraina e l’Unione Europea che avrebbe aperto un aumento degli scambi commerciali tra i due, ma avrebbe danneggiato l’import-export tra Russia e Unione Europea grazie alla concorrenza da parte delle merci ucraine, soprattutto agricole. Questioni di ordine economico, così, si intrecciavano con questioni di ordine politico e militare per le quali la Russia, a causa della pressione occidentale di catturare l’Ucraina nella Nato, avrebbe perso completamente la propria influenza su un paese di confine strategicamente vitale per Mosca.
A novembre 2013 le grandi manifestazioni del movimento «Euromaidan» a Kiev, si opposero al rifiuto di Janukovič di firmare l’accordo con lUnione Europea e protestarono molto duramente contro il governo filorusso accusandolo di corruzione. Manifestazioni e proteste, in cui le milizie paranaziste ebbero un ruolo non secondario, erano appoggiate e spinte alla ribellione dagli Usa e dagli europei, tanto da scatenare da parte del governo una dura repressione che provocò decine di morti e centinaia di feriti. Nel febbraio 2014 Janukovič, ormai isolato anche da parte dell’esercito, se ne scappò in Russia, e a capo del governo fu nominato un filoeuropeo, Yatsenyuk. La Russia denunciò che quella che stava passando per una «rivoluzione» era un colpo di Stato militare, e solo un mese dopo invase e occupò la Crimea, popolata per la stragrande maggioranza da russi o di etnia russa. Nello stesso periodo, col sostegno della Russia, anche le regioni dell’Est Donbass, di Luhansk e di Donetsk, cercarono di uscire dal controllo politico e territoriale di Kiev, suscitando da parte dello Stato ucraino una sistematica repressione nei loro confronti.
La tubolenza sociale e politica in Ucraina, nata qualche anno dopo la sua indipendenza da Mosca, alla fine sfocerà nello scontro armato tra i separatisti del Donbass e Kiev già nel 2014; perciò la guerra che ha opposto le borghesie ucraina e russa è iniziata ben prima dell’invasione russa del febbraio 2022.
CHE COSA INTENDEVA OTTENERE LA RUSSIA DALL’UCRAINA?
Sicuramente la sua neutralità rispetto alla Nato e, naturalmente, anche rispetto all’Unione Europea che, per tutte le ex repubbliche sovietiche, una volta resesi indipendenti da Mosca, ha voluto dire possedere una specie di passaporto per diventare membri della Nato. In secondo luogo, avere la possibilità di cogestire o di gestire direttamente la fiorente economia mineraria e agricola che, soprattutto nelle regioni del sud-est, l’Ucraina rappresenta da sempre. Inoltre, Mosca era certamente interessata all’ampliamento del controllo delle coste del Mar Nero dal Mar d’Azov a Odessa per il traffico marittimo (commerciale e militare) che, attraverso gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, collega il Mar Nero al Mediterraneo. Controllo e sfruttamento imperialistico dei territori del sud-ovest russo: questa è la questione.
CHE COSA VOLEVA L’UCRAINA, UNA VOLTA SCONFITTA LA FAZIONE PRO-RUSSA DA PARTE DELLA FAZIONE EUROPEISTA E FILOAMERICANA?
Agganciarsi all’Unione Europea per godere dei privilegi economici e commerciali in un mercato tra i più ricchi e importanti del mondo; incrementare, non solo il commercio, ma anche lo scambio tecnologico, militare e spaziale con le potenze imperialiste di primo piano come quelle d’Europa e d’America; e mettersi sotto l’ombrello della Nato per proteggersi dalla Russia considerata il nemico n. 1 alla quale non permettere il controllo del Mar Nero. Controllo e sfruttamento imperialistico dei territori ucraini a favore degli oligarchi ucraini e degli imperialisti euroamericani loro sostenitori: questa è la questione.
Ovviamente il raggiungimento di questi obiettivi da parte dei due fronti dipendeva dall’andamento della guerra che, dal febbraio 2022, ha preso un’accelerazione inevitabile vista l’invasione delle truppe russe in territorio ucraino.
La guerra in Ucraina, in realtà, era stata preparata – da parte della Nato, soprattutto – da almeno venticinque anni. Con il crollo dell’URSS non si è aperto un periodo di democratica stabilizzazione nell’Est europeo, ma un periodo di disordine mondiale (1) di cui gli Stati Uniti e le potenze storiche dell’imperialismo europeo, Gran Bretagna e Francia a cui si agganciò la Germania dopo la sua riunificazione, cercarono di approfittare per accaparrarsi un’influenza ulteriore su tutta l’Europa dell’Est da cui la Russia era stata costretta a ritirarsi (anche militarmente), e di dettare in questo modo le condizioni di un nuovo ordine mondiale in cui la Russia avrebbe giocato un ruolo di secondo piano. Ma questo nuovo ordine mondiale, oltre a dover fare i conti con una potenza atomica di prima grandezza che la Russia continuava a rappresentare nonostante la crisi economica e politica che ne aveva ridimensionato l’influenza mondiale, trovò un ulteriore ostacolo in parte imprevisto: l’emergere di altre due potenze imperialistiche in grado di condizionare fortemente il mercato mondiale, il Giappone – che con la Germania stava già modificando i rapporti mondiali di forza economica – e la Cina, che si stava profilando all’orizzonte come un più che probabile e pericoloso concorrente sia per gli Stati Uniti che per le potenze europee. Non si trattava più soltanto delle vecchie potenze imperialistiche, tra le quali primeggiavano sul piano militare Stati Uniti e Russia, ma di una potenza economica e finanziaria di grande levatura con cui la Cina si stava imponendo rapidamente su un mondo che per cent’anni era stato dominato dagli euro-americani.
Come abbiamo avuto modo di dire in articoli precedenti, l’Europa sta tornando a rappresentare il terreno di scontro non solo tra gli imperialismi di casa che se la devono vedere con l’imperialismo yankee e quello russo, ma anche con le interferenze delle potenze economiche e imperialiste emergenti nel mondo, tra le quali primeggia ormai la Cina, seguita, sebbene a distanza, da India, Indonesia, Brasile che stanno registrando nell’ultimo decennio una vorticosa crescita del PIL e che, insieme a Giappone, Germania, Regno Unito e Francia, nel 2024 formano i primi 10 più importanti paesi del mondo. La forza economica di un paese sostiene la sua forza politica e militare che, messa al servizio di un’espansione economica, commerciale e finanziaria a livello mondiale, produce inevitabilmente crescenti contrasti fino agli scontri armati.
Ebbene, l’Europa, dopo aver scatenato guerre di conquista e di rapina in tutto il mondo e di essere stata al centro delle due guerre imperialiste mondiali del Novecento, è tornata nell’ultimo trentacinquennio ad essere al centro di una spartizione delle aree di influenza imperialista gravide di fattori di crisi e di guerre. La dissoluzione dell’URSS, anticipata dalla «riunificazione tedesca» (senza spargimento di sangue), ha prodotto una destabilizzazione generale di tutto l’Est europeo, a cominciare dalla Jugoslavia – in un decennio, dal 1991 al 2001, tutte le repubbliche che costituivano la Repubblica «socialista» federale di Jugoslavia divennero Stati indipendenti, attraverso ferocissime guerre le cui conseguenze si trascinano ancor oggi, come dimostra la situazione del Kosovo – per proseguire poi, nel 1997-1999 in Cecenia, nel Caucaso, all’estremo Est europeo, e ancora nel Caucaso, in Georgia, dove, dopo molteplici scontri armati tra fazioni contrastanti di etnia russa e geogiana, nel 2008, nelle due regioni da queste fazioni contese (l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud) scoppia una guerra vera e propria tra Russia e Georgia in seguito alla quale quelle due regioni, occupate militarmente dalla Russia, si sono dichiarate indipendenti dalla Georgia. Arriva il 2014 e, come abbiamo ricordato, è la volta della politica delle armi in Ucraina.
UN NECESSARIO E UTILE SGUARDO AL 1989-1991
A suo tempo, con Gorbaciov, l’Occidente euro-americano aveva concordato solennemente – in cambio dell’accettazione da parte russa della riunificazione delle due Germanie senza muovere le proprie truppe, e degli accordi di «pace nucleare» che prevedevano il trasferimento del nucleare ucraino in Russia e la reciproca verifica con gli Stati Uniti dei rispettivi arsenali – di non espandere la Nato nei paesi est-europei ex satelliti di Mosca. Di fronte all’avanzare sempre più drammatico della crisi economica anche in Russia, Gorbaciov, eletto segretario del PCUS nel 1985, tentava di concordare con l’odiato-amato Occidente un riavvicinamento economico-finanziario-commerciale mettendo mano ad una nuova politica chiamata perestrojka (ossia una politica di «riforme di struttura» con cui il regime sovietico tentava di uscire dalla crisi economica e politica tentando di combattere l’estesa corruzione creatasi in decenni di potere assoluto del PCUS e agganciandosi apertamente al mercato occidentale e mondiale privatizzando molti settori economici statali aprendoli anche agli investimenti esteri, riducendo nel contempo il controllo politico e militare sui paesi dell’Est e trattando con gli USA il contenimento dei missili con testate nucleari). Ma quel periodo di crisi, non solo russa, ma internazionale, contribuirà in modo decisivo alla dissoluzione dell’URSS e del suo «impero». Tra l’aprile e il dicembre del 1991 tutte le ex Repubbliche sovietiche dichiararono la propria indipendenza. Sciolta l’URSS, nacque la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) su iniziativa di Russia, Bielorussia e Ucraina, a cui parteciparono anche altre 8 repubbliche asiatiche ex sovietiche (2).
La possibilità da parte degli Stati dell’Est-Europa, una volta resisi indipendenti dall’imperialista Mosca, di commerciare e trattare con i più potenti Stati d’Europa e d’America, spinse le ex repubbliche sovietiche nelle braccia dell’imperialismo euro-americano e, quindi, della Nato e dell’Unione Europea. La stessa Russia, d’altra parte, nonostante la crisi che ne aveva ridimensionato l’influenza imperialistica, ha goduto di una lunga stagione di affari, soprattutto con i paesi dell’occidente europeo, grazie alla loro fame di materie prime (petrolio, gas, grano, fertilizzanti ecc.) e alla grande disponibilità, e al grande interesse, della Russia ad allargare le proprie esportazioni in un mercato ricco e facilmente raggiungibile. Ma il nodo costituito dalla Nato e dalla sua progressiva espansione ad Est, giungerà ad un livello di alta criticità quando il progetto di catturare anche l’Ucraina nella sua rete diventerà una possibilità concreta.
Per dimostrare che gli accordi di carattere politico-militari che le potenze capitaliste e imperialiste prendono tra di loro hanno un valore relativo, e vengono violati tutte le volte che gli interessi di una o dell’altra parte si impongono con una forte pressione, basta rammentare quelli sull’allargamento della Nato nell’Est-Europa, allargamento che, come detto, non avrebbe dovuto verificarsi secondo gli accordi tra Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Russia (3), ma che iniziò a realizzarsi a partire dal 1999 con l’inclusione nella Nato di Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia, per proseguire nel 2004 con Bulgaria, Paesi Baltici, Romania e Slovacchia. Ucraina e Georgia si erano candidate per diventare membri dell’Unione Europea e della Nato. ma la guerra della Russia ha fermato questo processo.
L’UCRAINA, DA UN’ILLUSORIA INDIPENDENZA A TERRA DI CONQUISTA
L’Ucraina è un boccone troppo importante sia per l’imperialismo americano che per gli imperialismi europei e soprattuto per l’imperialismo russo, dietro il quale, non lo si può escludere, fa capolino l’imperialismo cinese. Il fatto che l’Ucraina, guidata da governi filo-occidentali, stava per essere assorbita nella Nato, oltre che nell’Unione Europea, era uno scacco storico per la Russia che, ovviamente, ha fatto di tutto perché non avvenisse; prima giostrando politicamente ed economicamente sui movimenti politici filo-russi, poi minacciando economicamente l’Ucraina e infine passando alle vie di fatto militari con l’annessione della Crimea e il sostegno economico e militare ai separatisti russi del Donbass, infine con l’invasione militare del paese.
Questa guerra non poteva essere che la continuazione della politica estera sia della Russia che dell’Occidente euro-americano, politica che si è incentrata sull’Ucraina, ma con un orizzonte e scopi che vanno molto aldilà dei confini geografici dell’Ucraina. Ovvio che le democrazie euroamericane diano la responsabilità della guerra alla Russia; ovvio che la Russia dia la responsabilità di questa guerra alle democrazie euroamericane che non sono state ai patti sanciti nel lontano 1989 e a quelli – specificamente inerenti l’Ucraina – a Minsk del 2014/15, e alla borghesia ucraina che ha continuato a vessare le minoranza russofone di Crimea e del Donbass: ogni borghesia vede nella borghesia straniera l’avversaria, addossandole la responsabilità dell’aggressione e chiamando il proprio popolo, e soprattutto i propri proletari, all’unità nazionale. Tanto sono i proletari ad essere costretti ad andare al fronte e a versare il proprio sangue. Non è un caso, d’altra parte, che la rivendicazione territoriale da parte russa sulla Crimea e sulle regioni russofone del Donbass è utilizzata dalla Cina per giustificare la rivendicazione territoriale di Taiwan (ex Formosa), considerata, appunto, terra abitata da sempre da cinesi.
Col passare dei mesi e degli anni di guerra, è diventato sempre più chiaro che l’Ucraina ha svolto una guerra per procura in cui l’esercito e la popolazione ucraina sono stati sacrificati a favore delle potenze euroamericane; potenze che non avevano nessuna intenzione di scatenare in questi anni la guerra alla Russia, perché questo avrebbe voluto dire coinvolgere anche la Cina, il che poteva accelerare lo scatenamento di una guerra mondiale per la quale nessuna potenza imperialistica era ancora pronta dal punto di vista del necessario sforzo economico, finanzario, politico e militare. Tutte, dalla prima all’ultima, avevano però interesse di saggiare sul campo di battaglia le proprie capacità, e quelle degli avversari, di sostenere una guerra che si presenterà con caratteristiche molto diverse e, in parte, sconosciute rispetto a quelle della seconda guerra imperialistica mondiale che, rispetto alla prima, si era già grandemente differenziata in termini sia quantitativi (dalla mobilitazione di milioni di soldati e di mezzi trasportati anche a grandi distanze, assicurandone l’efficienza), che qualitativi (non solo dal punto di vista della qualità degli armamenti, sempre più efficaci e distruttivi, e della trasformazione dell’economia nazionale di ognuno in economia di guerra, ma anche dal punto di vista dei servizi di intelligence). Come dimostrano gli enormi investimenti nella tecnologia satellitare e spaziale, oltre a quelli inevitabili in termini tecnici negli armamenti convenzionali, la prossima guerra mondiale supererà in termini quantitativi e qualitativi le distruzioni e gli stermini che già nella seconda guerra imperialista mondiale avevano superato grandemente quelli della prima guerra mondiale. La prima guerra mondiale si giocò sulla guerra di trincea e sulla fisica occupazione militare, con centinaia di migliaia di di soldati, dei territori del nemico, che, in parte, richiamava le tecniche militari delle guerre coloniali. La seconda guerra mondiale si giocò sulle truppe di terra combinate strettamente con le marine e le aviazioni militari, puntando sempre più alla distruzione di intere città colpendo la popolazione civile dei nemici con le armi più distruttive, compresa l’atomica, per annientare la loro tenuta e il loro morale e per piegare i «nemici» alla condizione di vassalli. La terza guerra imperialistica mondiale combinerà le tecniche militari della prima e della seconda guerra mondiale, dunque sia la guerra di posizione e di trincea nei territori che si intendono conquistare e controllare, sia la guerra contro le popolazioni civili degli Stati nemici, aumentando con progressione geometrica i genocidi di intere popolazioni considerate un intralcio agli interessi economici e politici delle potenze imperialiste dominanti; si sono aggiunti, nel frattempo, l’uso di robot, di missili e di droni manovrabili da distanze molto ampie, accompagnati da una varietà infinita di strumentazioni elettroniche e, ultimamente, dall’Intelligenza Artificiale, come ha dimostrato la guerra di Israele contro i palestinesi di Gaza (4). Se la prima guerra mondiale ebbe come teatro principale e decisivo l’Europa continentale, la seconda guerra mondiale ebbe come teatri principali l’intera Europa, il Nord Africa, il Medio e l’Estremo Oriente, l’Atlantico e il Pacifico, la terza guerra mondiale avrà come teatro necessariamente l’intero globo terracqueo: nessuno Stato, nessun continente, nessun mare, nessun cielo saranno risparmiati dalle azioni di guerra, nemmeno gli Stati Uniti d’America che, finora, non hanno subito gli effetti distruttivi della guerra in casa propria, ma li hanno sempre provocati al di fuori dei propri confini.
È lo sviluppo del capitalismo nell’imperialismo che ha determinato e determina i teatri di guerra; la guerra è sempre la continuazione della politica estera degli Stati fatta con i mezzi militari, ed è una conseguenza inevitabile che alla politica imperialistica, sempre più vorace di territori economici da dominare e sfruttare, quindi, da sottrarre al controllo degli altri Stati, corrisponda un’oppressione e una repressione sempre più profonda e vasta dei paesi e delle popolazioni che non si piegano al dominio degli Stati imperialisti più forti. La ferocia con cui la guerra viene sviluppata tra i belligeranti, sia sui fronti di guerra veri e propri, sia nei confronti delle rispettive popolazioni civili, è direttamente proporzionale alla necessità, e alla capacità, da parte dei belligeranti di annientare il nemico. La diplomazia, dicono i borghesi, nel Novecento aveva, in parte, ancora un ruolo anticipatore dei mezzi di appianamento dei contrasti che portavano allo scontro bellico o che potevano limitare, in parte, la durata e l’ampiezza dello scontro bellico preparandone la conclusione; è diventata, in realtà, sempre più un’arma spuntata, un teatrino per ingannare le popolazioni e soprattutto i proletariati dei paesi, coinvolti e non, negli scontri bellici.
L’Unione Europea, la Gran Bretagna e dietro di esse gli Stati Uniti, si sono dati un gran daffare non solo per attirare anche l’Ucraina nel campo occidentale e della Nato, ma per togliere alla Russia ogni ambizione di tornare a riprendersi un territorio che un tempo era sotto il suo dominio. L’interesse delle potenze imperialistiche euro-americane nel conflitto russo-ucraino non è mai stato quello di salvare la democrazia. Gettare fumo negli occhi ai popoli è un’arte che le classi dominanti hanno sempre affinato per nascondere i veri obiettivi delle loro guerre. La Russia riuscì a mettere le mani sui paesi dell’Europa dell’Est, che fecero poi parte della sua cintura di satelliti occidentali, solo grazie alla vittoria americana nella seconda guerra imperialista mondiale e al successivo accordo di spartirsi il controllo dell’Europa tra USA e Russia, quindi tra le due alleanze militari, Nato e Patto di Varsavia. Gli oltre 20 milioni di soldati russi sacrificati in guerra dal capitalismo russo e l’avanzata russa fino a Berlino, ha consentito a Stalin di sedere, insieme a Roosevelt (e poi Truman) e Churchill (poi Attlee) al tavolo dei più grandi briganti imperialisti per dividersi il bottino; gli Stati Uniti, alla fine concorderanno con la Russia i nuovi confini della Polonia e la divisione in due della Germania e, comprendendo anche la Francia, la settorializzazione di Berlino in 4 zone. Per la guerra, a cui si erano preparate tutte le maggiori potenze imperialistiche (Giappone compreso), c’è sempre bisogno che uno Stato faccia la «prima mossa», spari «il primo colpo». Ma per i marxisti non ha senso andare a indicare il colpevole, giustificando così l’aggredito rispetto all’aggressore. La vera causa va cercata nel capitalismo, cioè nel sistema economico-sociale-politico che domina sulla società divisa in classi, sistema che genera costantemente i fattori di sviluppo e, nello stesso tempo, di crisi, fino alle crisi generali e di guerra; sul palcoscenico della storia gli attori non sono che i rappresentanti degli interessi contrastanti delle classi dominanti e delle classi in lotta tra di loro. I nomi di Hitler, Stalin, Mussolini, Roosevelt, Truman, Churchill, Attlee, Hirohito e compagnia cantante, non sono stati che i nomi dei capi politici che in quei frangenti rappresentavano gli interessi profondi e generali dei relativi capitalismi nazionali; capitalismi che, nella fase imperialista del loro sviluppo, spingono i loro rappresentanti politici di classe a prendere determinate direzioni, a concordare certe alleanze o a disconoscerle, oppure a rimanere «neutrali» rispetto al conflitto armato vero e proprio, ma per niente neutrali rispetto agli interessi del capitalismo nazionale che rappresentano e che li spinge a favorire l’uno o l’altro dei fronti belligeranti pur non prendendone parte diretta e, soprattutto, a fare affari con entrambi i belligeranti. La stessa cosa è successa e succede per gli Obama, i Biden, i Trump, le Merkel, le Von der Leyen, le Meloni, i Sarkosy o i Macron, gli Stammer, i Putin e gli Xi Jinping degli anni più recenti.
Quando mai uno Stato imperialista – cioè uno Stato che è al completo servizio del capitalismo nazionale – si è mosso verso un altro paese coi propri capitali e coi propri mezzi militari soltanto per renderlo più indipendente, più libero politicamente ed economicamente, più forte nei confronti dell’altro o degli altri paesi avversari? L’imperialismo non prevede regali, non prevede atti di generosità verso altri poli economici se non vi è un tornaconto in termini di vantaggi economici, commerciali, finanziari, politico-militari e territoriali. Non dobbiamo mai dimenticare, come ricorda Lenin, che la fase imperialista del capitalismo si caratterizza per la fame spasmodica di territori economici, ossia di tutto ciò che può dare risultati concreti al capitale finanziario investito, siano essi industrie, settori economici, terre, miniere, giacimenti, porti, aree geografiche o paesi interi e relative zone di mare.
Dopo la seconda guerra imperialista mondiale, gli Stati borghesi sedicenti democratici hanno perso completamente la verginità della democrazia classica, essendosi trasformati in organismi centralizzatori al servizio esclusivo degli interessi della grande industria e dei grandi monopoli, cosa che ha sviluppato enormemente la corruzione, aumentando il processo di putrefazione della società. Della democrazia di un tempo rimane soltanto il teatrino delle marionette appese a fili tenuti in mano da forze economico-finanziarie che scavalcano ogni confine; ma è un teatrino molto utile alle classi dominanti borghesi per ingannare e rincoglionire le grandi masse facendo loro credere di avere ancora una piccola arma in mano con cui difendere i propri interessi particolari: la scheda elettorale. Ma basta un accenno di crisi economica, un calo delle vendite, della competitività, della produttività per mandare a monte qualsiasi promessa elettorale, non importa fatta da chi. Il capitalismo è un sistema dittatatoriale secondo il quale la vita di ogni essere umano deve dipendere dal sistema economico basato sulla proprietà privata, sul capitale e sul lavoro salariato, imponendo in pace e in guerra la politica di difesa del suo stesso sistema e degli interessi della classe che domina sulla società. Un dominio che permette alla classe dominante di impiegare enormi risorse economiche, finanziarie e umane, per la propaganda dei “valori” con cui vengono rivestiti gli interessi bruti, cinici e disumani di un sistema economico e sociale che produce per distruggere, che distrugge per produrre nuovamente, in una spirale infinita in cui i bisogni dell’umanità vengono sacrificati agli interessi del capitale, del mercato e della classe che vive e prospera su questi sacrifici, su queste distruzioni, sui macelli che stanno ormai diventando la «normalità» quotidiana.
L’esperienza politica della borghesia, a livello internazionale, consiglia ad ogni borghesia nazionale di prepararsi alla guerra che un giorno si scatenerà perché il mercato, ad un certo punto, sarà talmente intasato di merci e di capitali da mandare in crisi l’economia, e quindi i governi, di tutti i paesi in modo più o meno acuto; prepararsi ad una guerra che ogni borghesia può immaginare quando si scatenerà, ma non può sapere quanto durerà e come finirà visto che i fattori soggettivi e oggettivi della guerra possono modificarsi nel corso della guerra stessa. Ma una cosa è certa ed è confermata dalla storia del capitalismo: la guerra imperialista non decreta mai la fine del sistema economico e sociale capitalistico che non riesce a contenere il suo stesso sviluppo che lo porterà alla rottura di tutti gli equilibri economici e sociali e a distruzioni sempre più vaste e profonde generando, nel contempo, i fattori oggettivi del suo superamento, i fattori che chiamiamo rivoluzionari perché coincidono con il movimento rivoluzionario delle classi lavoratrici che costituiscono l’anticorpo sociale dell’organismo capitalistico putrefatto.
E tra questi fattori gioca un ruolo decisivo il proletariato che, come dimostrato durante la prima guerra mondiale, nel 1917 russo, può essere in grado di sorprendere tutte le cancellerie del mondo col suo movimento rivoluzionario e la sua guerra di classe. Soltanto se la guerra di classe si sovrappone alla guerra tra Stati, allora è possibile che il movimento rivoluzionario, a livello internazionale, riesca a chiudere la lunga serie delle guerre imperialiste. Ma il ruolo del proletariato è decisivo, però, anche se non scende sul terreno della lotta di classe e rivoluzionaria, ma in senso totalmente negativo per i suoi interessi di classe, perché non opponendosi alla guerra borghese contribuisce oggettivamente col proprio sangue alla guerra che la propria borghesia nazionale ha scatenato contro le altre borghesie e, quindi, alla sopravvivenza del capitalismo che è la causa fondamentale delle sciagure.
Il capitalismo non ha cuore, non ha sentimenti, pretende dalle classi dominanti borghesi che lo difendono, e ne dipendono, di ottenere la propria sopravvivenza alle crisi generate dal suo stesso modo di produzione, colpendo, in modo sempre più profondo e vasto, i bisogni di sopravvivenza della popolazione umana; d’altra parte, il modo di produzione capitalistico ha reso la produzione di merci padrona dei produttori, e gli interessi del capitalismo – ossia la continua e sempre crescente valorizzazione del capitale attraverso l’iperproduzione di merci – come gli interessi sovrastanti quelli della specie umana costretta a fornire al capitale il lavoro produttivo, il lavoro vivo, nella forma anch’esso di merce, ossia di lavoro salariato, e, in tempo di crisi, fornire al dio capitale la carne da macello, cioè i proletari, i produttori dell’intera ricchezza sociale. Nessuno Stato borghese, nessuna borghesia al mondo sfugge alle leggi del capitalismo; e più si sviluppa il capitalismo monopolista e finanziario, più aumenta la cinica ferocia borghese nel distruggere vite umane, mezzi di produzione e ambiente. La sete insaziabile di profitto non ha altra soluzione che la distruzione, la carestia, il genocidio per superare le crisi sempre più acute e vaste del sistema produttivo capitalistico che, in generale, si leggono attraverso la legge storica scoperta dal marxismo: la caduta tendenziale del saggio medio di profitto contro cui la borgehsia non ha nessuna ricetta risanatrice.
Tornando all’Ucraina, questo paese è diventato, tra i tanti, anch’esso terra di conquista e di contesa tra gli imperialismi più importanti al mondo. Quando la borghesia ucraina sostiene che le sorti del suo paese non riguardano soltanto l’Ucraina, ma riguardano l’Europa intera non ha tutti i torti. Non per niente quasi tutti gli Stati europei si sono sentiti coinvolti nella guerra russo-ucraina, tanto da sostenere la parte ucraina con iniezioni di capitali, di armamenti e di sostegno politico a suon di miliardi; nello stesso tempo, hanno colto l’occasione per rinnovare i propri arsenali militari, lanciare una vasta campagna di riarmo trasformando progressivamente le proprie economie – da tempo zoppicanti e incapaci di produrre gli attesi profitti – in economie di guerra. I borghesi nella guerra vedono sempre un affare: nel prepararla, nel sostenerla, nel parteciparvi, nel farla proseguire e nel terminarla. Come sottolineato più volte, la crisi capitalistica tende a distruggere le forze produttive che fino al suo scoppio venivano sollecitate e spinte a produrre quantità sempre più gigantesche di merci in una cieca corsa al profitto; la crisi capitalistica è sempre una crisi di sovraproduzione sia di merci che di capitali e questa sovraproduzione, intasando i mercati, deve essere eliminata per fare spazione alla nuova produzione di merci e di capitali. La guerra, con le sue distruzioni sempre più vaste, è il mezzo che la borghesia usa per superare la crisi di sovraproduzione, ma – come dice il Manifesto del 1848 – cercando nuovi mercati e implementando i vecchi mercati con ulteriori «bisogni» creati dal commercio e dai capitali in cerca di investimenti, non fa che produrre i futuri fattori di crisi, sempre più acuti e sempre più distruttivi.
Così, alla ricerca di nuovi mercati e nuove occasioni di profitto, in un mondo sempre più contrastato da potenze economiche che cercano di conquistare mercati a detrimento delle potenze concorrenti, le borghesie imperialiste sono costrette ad agire in tempi sempre più corti, tra una crisi economica e la successiva, e con mezzi sempre più potenti e distruttivi. L’Ucraina e Gaza sono due esempi di questo andamento. La distruzione generalizzata di città intere e di terreni coltivati e coltivabili, oltre a togliere la possibilità di vita alle masse che vi abitavano e vi lavoravano, macellandone una parte e costringendo le masse che non sono state uccise a sfollare da qualche parte, ha creato una situazione in cui il business immobiliare e tecnico-industriale può dare l’opportunità a capitali altrimenti votati alla morte di essere investiti con grande profitto; non solo, ha creato una situazione in cui le potenze imperialistiche più forti, nello scontro tra i loro interessi contrastanti, determinano la supremazia dell’uno o dell’altro fronte, di una o dell’altra alleanza, mettendo in questo modo le basi non solo per business reciproci ma anche per le guerre future e, soprattutto, per una terza guerra mondiale che si sta avvicinando sempre più.
Perché il business immobiliare e tecnico-industriale possa decollare rapidamente nelle aree distrutte dalla guerra e prendere il posto del business degli armamenti, c’è bisogno che la guerra guerreggiata finisca o si riduca notevolmente, magari spostandosi in altri teatri – che certamente non mancano, ad esempio in Africa, in America Latina, in Medio Oriente, in Estremo Oriente. Entra in campo, così, la politica della pace imperialista, la politica che cerca di trarre i più ampi vantaggi economici, finanziari e politici dalla guerra ancora in atto per avviare al più presto i business «della pace». Gli è che i business della pace, nel modo capitalistico, vanno di pari passo con i business della guerra, gli uni non possono fare a meno degli altri, mentre gli uni prendono il posto degli altri in una zona, in un’altra zona, in un’altra area si scambiano di posto: è così che dalla fine della seconda guerra imperialistica mondiale non c’è mai stato anno in cui non ci fosse la guerra da qualche parte del mondo (alla faccia della tanto propagandata pace che le democrazie si erano vantate di aver conquistate a beneficio del mondo sulle dittature nazifasciste) seguita da una pace, magari dopo decenni di guerra, più come tregua che come assenza di guerra guerreggiata. Il business, sia distruttivo che ricostruttivo, prima di tutto!
TUTTI PER LA GUERRA, PRIMA; TUTTI PER LA PACE, ORA?
L’Ucraina, trasformato in un campo di battaglia, con la presidenza Trump ha assunto un peso diverso per la fazione trumpiana della classe dominante americana. Trump vuole farne un esempio della sua «politica di pace», di cui si sta vantando da tempo – d’altra parte come per Gaza –, con la quale vuol dimostrare ai colossi imperialisti americani che ci si guadagna di più terminando una guerra cominciata da altri e trovando un terreno di buoni rapporti, ad esempio con la Russia, che non continuando una guerra che tutti i maggiori esperti militari danno per vinta dalla Russia. Trump ha continuato a dire che questa guerra non doveva nemmeno incominciare e che la colpa del suo scatenamento è dell’Ucraina di Zelensky, degli europei che lo hanno spinto a proseguirla e di Biden che l’ha sostenuta investendo un sacco di miliardi. A nostra conoscenza Trump non ha mai fatto riferimento ai negoziati precedenti ma stracciati per dar libera via alla escalation che nessuno vuole aimentare ma che tutti fanno in modo che aumenti. L’esempio più eclatante è proprio dato dalla situazione della guerra in Ucraina. Da quando Trump ha accelerato la spinta a trovare una via d’uscita da questa guerra che fosse vantaggiosa per gli americani, ma anche per i russi – visto che la guerra la stanno vincendo – e che non umiliasse oltre misura (nei rapporti diretti con Putin la UE è stata già messa in disparte) gli europei, gli imperialisti europei hanno fatto di tutto per sabotare quello che poi è diventato il «piano di pace in 28 punti» proposto dalla Casa Bianca ma concordato prima con i russi. L’Unione Europea ha continuato a sostenere la continuazione della guerra contro la Russia (naturalmente continuando a mandare al macello gli ucraini) sbandierando la possibilità di una controffensiva ucraina che avrebbe potuto, a diferenza della controffensiva precedente dell’autunno del 2023, grazie anche alla possibilità di colpire in territorio russo grazie ai missili di lunga gittata, far indietreggiare le truppe russe se non addirittura convincerle a ritirarsi... È sotto gli occhi di tutti che le controffensive ucraine non avevano, ieri, e non hanno, oggi, alcuna possibilità di successo perché ad un certo punto mancano le armi, le munizioni e soprattutto i soldati. È ben vero che la tenacia con cui l’esercito ucraino ha difeso il suo territorio non ha permesso ai russi di dilagare in tutta l’Ucraina, costringendoli a concentrarsi nel Donbass; ma è anche vero che, dal punto di vista delle forze messe in campo e del tempo a disposizione, i russi possono far durare questa guerra molto più a lungo di quanto non lo possano fare gli ucraini.
Dal punto di vista del sostegno finanziario e militare dell’Ucraina di Zelensky da parte europea e americana, tra il 2024 e il 2025, si è assistito ad un ridimensionamento, soprattutto da parte tedesca e americana. Aldilà delle dichiarazioni ufficiali, che servono normalmente a prendere per i fondelli l’opinione pubblica, dopo tre anni abbondanti di guerra russo-ucraina, gli arsenali europei si sono svuotati e, per come si sta profilando il prossimo avvenire – tempestoso dal punto di vista economico e politico – all’ordine del giorno di ogni cancelleria europea si è imposto il riarmo. Un riarmo non per regalare o vendere le armi all’Ucraina, ma per riattrezzare, e con tecnologie più avanzate, le forze armate di ogni Stato nazionale. Aldilà della corruzione che in Ucraina c’è da sempre e che con la guerra – come d’altra parte succede dappertutto, visto che le possibilità di controllo vengono concentrate solo nelle mani del governo che emana la legge marziale – è esplosa mettendo in mostra come tutti i personaggi legati al governo e al clan di Zelensky sono coinvolti, aumentando l’instabilità governativa di Kiev, gli imperialisti europei si trovano a dover prendere la difesa di un governo ucraino che si sta disfacendo. Si alzano le loro grida e si intensificano le dichiarazioni sul pericolo, già prospettato fin dall’inizio della guerra, che la Russia, con la vittoria nella guerra in Ucraina si predispone ad attaccare l’Europa, magari cominciando dai Paesi baltici e dalla Polonia...
I reali e attuali rapporti di forza tra le potenze imperialiste, e soprattutto tra Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Europea, Russia e Cina, dipendono da come queste potenze imperialiste si sono rafforzate o indebolite nel corso degli ultimi ottant’anni, ossia dalla fine della seconda guerra imperialistica. È indiscutibile che, aldilà della ripresa economica dei capitalismi europei dovuta soprattutto all’intervento dei capitali americani con i quali Washngton ha piegato le vecchie potenze imperialistiche europee a svolgere nel mondo un ruolo di secondo piano e, in ogni caso, secondo gli interessi prevalenti dell’imperialismo americano; che, aldilà della colonizzazione dell’Europa da parte del dollaro statunitense e del condominio americano-russo in Europa per ben 45 anni (dal 1945 al 1991), le economie dei paesi europei dipendono molto più dal mercato americano di quanto l’economia americana dipenda dai mercati rappresentati dai paesi europei. Tutta la vicenda legata ai dazi coi quali l’America di Trump ha dato uno scossone non indifferente agli «alleati» europei che, inoltre, hanno dovuto subire senza fiatare l’obbligo di aumentare considerevolmente i loro investimenti nella Nato (la percentuale sul PIL di ogni paese deve arrivare nel giro di pochi anni al 5%!), oltretutto in un periodo in cui l’economia capitalistica viaggia di più verso la stagnazione o la recessione che verso la crescita, indica che l’America – ieri di Obama e di Biden, oggi di Trump e domani di qualche altro guerrafondaio – sta tracciando il percorso che la porterà alla terza guerra mondiale saggiando su quali alleati potrà far conto con certezza e su quali no, e su quali politiche non contingenti adottare per affrontare un domani quello che si potrebbe presentarsi come il nemico n. 1, la Cina. Nemico nel Pacifico, nell’Oceano Indiano, in Africa e in America Latina e, attraverso la Russia, in Europa. Perciò la cosiddetta amicizia di Trump con Putin, scorgendo in Europa un potenziale nemico (oggi dal punto di vista commerciale, domani dal punto di vista militare), la Germania, va intesa come il tentativo americano di staccare la Russia dallo stretto rapporto con la Cina, in modo da isolare quanto possibile la Cina anche territorialmente. Come cercò di fare Roosevelt, all’epoca, quando la Russia di Stalin, alle porte della seconda guerra imperialista mondiale, si mise d’accordo con la Germania di Hitler non solo per spartirsi la Polonia, ma nella prospettiva di spartirsi l’Europa. La Germania di Hitler volle molto di più, conquistare l’Europa intera e per questo obiettivo doveva attaccare non solo la Francia e l’Inghilterra, ma anche la Russia, avendo il fronte estremo-orientale «coperto» dall’alleato Giappone; non calcolò che l’America sarebbe entrata in guerra a fianco di Francia e Inghilterra; l’attacco giapponese alla sua base navale delle Hawaii fu il pretesto per partecipare al grande business della guerra mondiale dal quale una potenza imperialistica straripante come quella americana non poteva certo starsene i fuori.
Nessuna base americana in Europa, nemmeno dell’Europa dell’est è stata attaccata dalla Russia, dunque nessun paese della Nato è stato attaccato dalla Russia; quest’ultima se ne guardava bene dal cadere in un gioco in cui sarebbe uscita con le ossa rotte. Ma la sua reazione al tentativo della Nato, dunque degli anglo-americani che la guidano, di prendersi l’Ucraina va visto anche come un’azione di difesa che l’imperialismo russo doveva fare per dimostrare a se stesso e all’alleata Cina di possedere la forza per impedire all’imperialismo occidentale di stravincere in Europa e di essere un alleato fidato, per la Cina, nel caso l’America, un domani, tenti di attaccare Pechino.
PAX RUSSO-AMERICANA NEL GROVIGLIO DI INTERESSI INTERIMPERIALISTICI CONTRASTANTI
Il «piano di pace» in 28 punti che Trump ha proposto ultimamente come base del negoziato di armistizio da avviare con la Russia e con gli europei al fine di terminare la guerra in Ucraina, come si sa, non è stato digerito dagli europei (cioè da Londra, Parigi e Berlino) e non solo perché sono stati esclusi da Washington, fin dall’inizio, a partecipare al negoziato con la Russia, ma perché quei punti avrebbero decretato l’irrilevanza degli interessi degli imperialisti europei. Infatti gli europei – soprattutto il cosiddetto gruppo dei «volenterosi» – si sono ribellati perché il loro contenuto favorisce quasi esclusivamente Stati Uniti e Russia. In pratica in questo «piano» si stabilirebbe un piano di non aggressione tra Russia, Ucraina e Europa, perciò la Russia non invaderà i paesi vicini e la Nato non si espanderà ulteriormente; Kiev potrà contare su garanzie di sicurezza sul modello dell’art. 5 della Nato, e cioè sull’impegno di intervento da parte dei firmatari euroamericani di questo «piano» nel caso finissse sotto attacco da parte di qualsiasi altro paese; si prevede anche che Kiev si doti di un esercito fino a 600mila uomini (prima dell’invasione russa l’esercito di Kiev contava su 200mila uomini) e che inserisca nella propria Costituzione la non adesione alla Nato, mentre la Nato includerà nel proprio statuto che l’Ucraina non sarà integrata nel futuro, e la Russia sancirà per legge la sua politica di «non aggressione». Semmai l’Ucraina invadesse il territorio russo o vi lanciasse missili prederebbe queste garanzie; se fosse la Russia ad invadere nuovamente l’Ucraina subirebbe una risposta militare coordinata e perderebbe tutti i vantaggi di questo «piano». Si prevede che non vi siano truppe dei paesi Nato in Ucraina, mentre i caccia europei della Nato saranno basati in Polonia. È accettata l’adesione dell’Ucraina alla UE e, quanto alla ricostruzione dell’Ucraina, vi sarà un pacchetto di misure tra cui un Fondo di sviluppo e uno speciale programma della Banca Mondiale, mentre gli USA pretendono di avere il 50% dei profitti ricavati dagli asset russi finora congelati (100 miliardi di dollari di valore) ma da investire nella ricostruzione. Inoltre Mosca verrebbe riabilitata a livello internazionale (decandenza di tutte le sanzioni economiche e sua ammissione nel G7, che ridiventa G8, con un accordo di cooperazione con gli USA), otterrebbe territori più ampi di quelli che ha finora effettivamente occupato (Crimea, le intere oblast di Luhansk e Donetsk, con congelamento della situazione attuale lungo la linea che unisce Zaporizhzhia e Kherson), ritirandosi dagli altri territori occupati in contemporanea al ritiro delle forze militari ucraine dai territori della regione di Donetsk finora ancora sotto il loro controllo); Mosca e Kiev otterrebbero amnistia totale per le loro azioni durante la guerra, Kiev riutilizzerà il fiume Dnepr per scopi commerciali e otterrà degli accordi di libero trasporto di cereali attraverso il Mar Nero. Quanto alla questione delle armi nucleari, USA e Russia concorderanno nuovi trattati di non proliferazione e controllo nucleare sulla base del Trattato New Start che scade il 5 febbraio 2026, mentre l’Ucraina accetta di non essere uno Stato dotato di armi nucleari. Zaporizhzhia è la sede della più grande centrale nucleare dell’Ucraina, centrale che verrebbe sottoposta alla supervisione del’Aiea e l’elettricità prodotta verrebbe divisa al 50% tra Ucraina e Russia. Gli altri punti si occupano di scambio di prigionieri e di salme da restituire reciprocamente, di programmi educativi reciproci. Questi sono in sintesi i 28 punti della pax russo-americana per l’Ucraina.
Che l’Ucraina venga decisamente umiliata è evidente; d’altra parte, dopo aver umiliato l’Unione Europea, Stati Uniti e Russia potevano non umiliare l’Ucraina?
L’Unione Europea, assieme alla Gran Bretagna, era di fatto entrata in guerra, per mezzo dell’Ucraina, contro la Russia e il suo obiettivo era quello di sconfiggere i russi; da questa sconfitta si attendeva una rivolta interna alla Russia contro Putin (dato per morto cento volte, e cento volte risorto). Ma i nodi vengono al pettine: la Russia sta vincendo la guerra, Putin è saldo sul proprio trono, Zelensky traballa oggi più che mai dopo l’estesa operazione anticorruzione che ha raggiunto i suoi più fidati amici – il suo braccio destro Yermak e il ministro della difesa Umerov – mentre nel paese sale il malcontento e la sfiducia sia per una guerra che si era presentata come la soluzione definitiva dei problemi sorti col vicino russo sia per un futuro di democrazia e di benessere che l’adesione all’Unione Europea prometteva di conquistare grazie ai... sacrifici di guerra... I leader europei, da Macron a Stammer, da Merz alla Meloni al polacco Tusk, dalla Von der Leyen alla Metsola alla Kallas e compagnia cantante, abbracciando le tesi guerrafondaie contro la Russia (vecchio «impero del Male», odierna dittatura putiniana assetata di sangue europeo), ma del tutto indifferenti della sorte di milioni di palestinesi, maciullati periodicamente da altrettanti guerrafondai come Netanyahu, sostenuto da quel superpacifista della domenica di Trump, tentano ovviamente di uscire dal ginepraio ucraino nel quale hanno gettato miliardi in armi e finanziamenti per una causa persa, e per il quale hanno messo la propria faccia. Come cercheranno di uscirne le borghesie dei paesi coinvolti? Dalla guerra «locale» alla preparazione di una guerra generale in cui le classi dominanti borghesi passeranno dai «piani di pace» ai «piani di guerra».
E così, visto che gli Stati Uniti non possono fare a meno di dare qualche piccola soddisfazione ai suoi alleati europei che, d’altra parte, sono membri della Nato, hanno dovuto per forza accettare di discutere il «piano di pace in 28 punti» dai quali gli europei hanno tolto tutti i punti che davano dei vantaggi alla Russia, e attendere la risposta della Russia che non potrà essere che la prosecuzione della guerra in Ucraina affossando ancor di più l’Ucraina in una disastro sociale. Quanto potranno ancora resistere i soldati ucraini in questa guerra, oltretutto in mancanza di soldati e di forniture di armi e munizioni in quantità e qualità adatte a fronteggiare l’avanzata lenta ma micidiale – come si è visto in questi giorni a Pokrovsk – delle truppe russe che nel solo mese di novembre hanno occupato nella zona meridionale di Zaporizhzhia 272 km quadrati e nella regione centro-orientale di Dnipropetrovsk quasi 200 km quadrati? Macron pensa davvero di poter inviare qualche migliaio di soldati francesi a fare carne da macello nell’inverno ucraino? Merz e Starmer pensano davvero che con qualche missile a lunga gittata in più, Zelenski possa rovesciare le sorti della guerra? Non ci credono nemmeno loro, ma sono talmente sbalestrati dall’idea che la Russia accetti di venire a negoziare la fine della guerra come se fosse lei la sconfitta da avanzare una proposta in cui l’Ucraina deve essere libera di aderire alla Nato, deve avere un esercito di 900.000 soldati armati fino ai denti grazie alla Nato, non deve riconoscere alla Russia alcun territorio ucraino occupato dai russi, mentre la ricostruzione dell’Ucraina deve essere a spese della sola Russia e stabilire poi, quando vorrà, nuove elezioni. Ogni persona con un minimo di cervello ancora funzionante sa che questa proposta è fatta al solo scopo di boicottare l’eventuale intesa tra Washington e Mosca e, soprattutto, per far continuare la guerra per molto tempo ancora a spese degli ucraini, mentre, nel frattempo, gli europei si riarmano... non certo per salvare l’Ucraina dagli artigli di Mosca, ma per prepararsi ad una guerra che sarà mondiale.
In sostanza, questa guerra durerà senza dubbio ancora un bel po’ di mesi, con ogni probabilità per tutto l’inverno fino a quando i soldati ucraini non vorranno più combattere e morire per la gloria di Zelensky e dei suoi protettori europei e le loro famiglie non vorranno più morire di fame e di freddo in un paese distrutto da una guerra che certamente la grandissima parte di loro non volevano. Il dramma nel dramma è che il proletariato russo, da una parte, e il proletariato ucraino, dall’altra, non hanno avuto la forza di opporsi con la propria lotta ad una guerra scatenata dalle rispettive borghesie per interessi inconciliabili con quelli immediati e storici della classe proletaria. Il sangue che scorre oggi, come quello che scorreva in tutte le guerre precedenti scatenate dalle borghesie imperialiste solo per accaparrarsi territori economici da sfruttare a beneficio del profitto capitalistico e per sacrificare al dio capitale milioni di vite umane solo per far prevalere interessi borghesi di parte, chiede vendetta, chiede di non essere stato versato inutilmente, ricordando ai proletari di tutto il mondo che al tragico presente solo la lotta di classe proletaria può dare una risposta, valida per tutta l’umanità, con cui farla finita con il sacrificio di milioni di esseri umani al dio capitale: la guerra di classe, dichiarata apertamente contro le borghesie di tutto il mondo, con l’obiettivo di chiudere definitivamente l’era in cui il sudore e il sangue umano servono soltanto per dissetare il capitale!
MA INTANTO L’EUROPA SI RIARMA...
Il piano che gli imperialisti europei hanno chiamato Re-Arm Europe (subito dopo averlo coniato l’hanno rinominato Readiness 2030, cioè Prontezza 2030 che, come nome, pensavano facesse meno impressione...) prevede un aumento di 800 miliardi di euro nel periodo 2025-2030 nelle spese militari. Possono fare impressione 800 miliardi che l’UE mette a disposizione dei suoi membri per il riarmo, ma se pensiamo che la sola Germania ha parlato di un investimento di 1000 miliardi dal 2025 al 2030 solo per se stessa per trasformare la Bundeswehr nell’esecito più potente d’Europa, collocandola al terzo posto mondiale per spese militari dopo Stati Uniti e Cina, si dimostra che non è la sola Russia a spingere sul pedale delle spese militari. Indiscutibilmente, tra gli otto principali gruppi mondiali che producono armamenti, la parte del leone la fanno i gruppi industriali USA (Lockheed Martin, RTX, Northrop Grumman e General Dynamics), mentre i maggiori gruppi europei Bae System (Regno Unito), Thales (Francia), Leonardo (Italia) e Rheinmetall (Germania) seguono a ruota. Ovvio che anche sul versante del commercio di armi essi figurano ai primi posti, con i gruppi USA in cima alla classifica (nel 2023 hanno venduto per 152 miliardi di euro), e i gruppi europei, insieme, hanno fatturato per 53,6 miliardi di euro, cioè il 35% del fatturato americano (5). Non abbiamo sottomano i dati del commercio di armi della Cina e della Russia ma si sa che nella classifica globale le aziende statunitensi sono le prime, col 50% circa del mercato, le aziende cinesi si posizionano al secondo posto col 16%, seguite da quelle del Regno Unito, con 7,5% e subito sotto, a pari merito, i produttori di armi di Francia e Russia col 4%. È evidente che il riarmo riguarda tutte le grandi potenze mondiali e non solo l’Europa. Infatti anche il Giappone ha iniziato a riaprire gli investimenti nella produzione di armi, disponendo il 2% del proprio Pil (come attualmente i paesi della Nato) al proprio riarmo, sebbene attualmente non rappresenti un «concorrente» diretto non diciamo degli Stati Uniti, ma nemmeno della Corea del Sud. Si sa che per le economie avanzate, come quella giapponese, non ci vorranno molti anni a raggiungere un livello di produzione militare di tutto rispetto per poter attrezzare la propria «difesa» in un’area – l’Indo-Pacifico – in cui si stanno concentrando interessi particolarmente contrastanti tra Cina e Stati Uniti. E proprio per questo ultimo motivo, anche l’India, salita al quinto posto nella classifica mondiale del PIL, sta rapidamente attrezzandosi non solo per produrre nei propri confini armamenti sempre più avanzati (al momento sembra che sia il maggior esportatore al mondo di munizioni), ma anche per poter competere con i colossi dell’esportazione di armamenti.
Questa enorme spinta alla produzione di armi e al suo commercio da parte delle maggiori potenze imperialistiche mondiali è un chiaro segnale, soprattutto quando l’economia globale non viaggia con il vento dell’espansione a favore, che esse si preparano allo scontro di guerra, cioè alla situazione in cui la borghesia di ogni paese dovrà destinare risorse sempre più grandi al riarmo e mese risorse alla previdenza sociale e a tutte quelle misure inerenti agli ammortizzatori sociali con le quali per ottant’anni le potenze imperialistiche hanno imbrigliato i propri proletariati. Il controllo sociale della borghesia sulla propria popolazione e, in particolare, sul proprio proletariato è destinato ad aumentare e ad indurirsi non solo perché i tempi della concorrenza interimperialistica si accorciano, ma anche perché dal proletariato si aspetta, prima o poi, la rivolta a condizioni di vita e di lavoro sempre più intollerabili. La controrivoluzione che nel 1926 riuscì a vincere la rivoluzione non solo in Russia ma nel mondo, sia nella versione staliniana sia nella versione della reazione borghese vestita da fascismo o da democrazia, ha continuato per cent’anni a stritolare le grandi masse di proletari, di contadini e di diseredati del mondo nella morsa della fame, delle carestie, delle guerre, dei disastri cosiddetti ambientali in un vortice mai rallentato di ricerca spasmodica del profitto. Il terreno della controrivoluzione – disse Marx nel 1848 – è dialetticamente anche il terreno della rivoluzione; ma perché si trasformi in terreno della rivoluzione il proletariato deve riconquistare le sue tradizioni classiste e rivoluzionarie, deve rompere finalmente i lacci che lo legano al carro borghese, alla collaborazione di classe, all’interclassismo, agli interessi nazionali che ogni borghesia propaganda come interessi comuni tra sfruttati e sfruttatori. È per questa futura ripresa della lotta di classe e rivoluzionaria che i comunisti marxisti lavorano, affinché al primo risveglio di classe del proletariato, non importa in quale paese succederà, il proletariato ritrovi e riconosca il suo partito di classe!
(1) Vedi l’articolo Il nuovo disordine mondiale: dalla guerra fredda alla pace fredda, e in prospettiva la terza guerra mondiale, “il comunista”, nr. 43-44, ottobre 1994-gennaio 1995.
(2) La CSI si prefissava lo scopo di creare una zona di libero scambio tra i suoi membri, abolendo le tasse di importazione applicate al commercio tra i suoi membri e non aumentando in futuro le tasse all’esportazione in vigore. Dal dicembre 1991, oltre a Russia, Bielorussia e Ucraina, vi aderirono Armenia, Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia, Tagikistan, Uzbekistan e, come membro associato, Turkmenistan. La Georgia, che aveva aderito nel 1993, si tolse completamente nel 2009 in seguito alla guerra russa in Ossezia del Sud e alle trattative con la Nato, la Moldavia sospese la sua partecipazione nel 2022 dopo l’invasione russa dell’Ucraina, mentre l’Ucraina si era già ritirata ufficialmente nel 2018.
(3) A questo proposito, dopo anni in cui da parte occidentale e della Nato si è negato che ci fosse un accordo con il quale i paesi-guida della Nato – Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania Ovest – assicuravano la Russia di Gorbaciov che la Nato non sarebbe avanzata ad Est neppure di un centimetro. Nei British National Archives di Londra, un politologo americano, Hoshua Shifrinson, collaboratore del settimanale tedesco Der Spiegel, scovò i documenti – desecretati nel 2017 – che raccontano la vera storia degli accordi fra la Nato e la Russia di Gorbaciov tra il 1990 e il 1991, all’epoca della riunificazione delle due Germanie. Nel 1991, con il crollo dell’URSS, alcuni ex satelliti di Mosca, Polonia in testa, chiesero di entrare nella Nato. Nel negoziato del gruppo conosciuto come “4+2” (Usa, Gran Bretagna, Francia e Germania Ovest, più Russia e Germania Est) i rappresnetante della Germania Ovest disse: “Abbiamo chiarito durante il negoziato 2+4 che non intendiamo fare avanzare l’Alleanza atlantica oltre l’Oder. Pertanto non possiamo concedere alla Poloniao ad altre nazioni dell’Europa centrale e orientale di aderirvi”. Nella stessa riunione il rappresnetante degli Stati Uniti dichiarò: “Abbiamo promesso ufficialmente all’Unione sovietica nei colloqui 2+4, così come in altri contatti bilaterali tra Washington e Mosca, che non intendiamo sfruttare sul piano strategico il ritiro delle truppe sovietiche dall’Europa centro-orientalke e che la Nato non dovrà espandersi al di là dei confini della nuova Germania [riunificata] né formalmente né informalmente”. S’è visto che fine hanno fatto queste assicurazioni... Cfr. https://www.startmag.it/mondo/nato-est/, 26 febbraio 2022.
(4) Vedi l’articolo Gaza, parco giochi mortale dell’intelligenza artificiale, “il comunista”, nr. 180, dicembre 2023-febbraio 2024.
(5) Vedi https://sbilanciamoci.info/rearm-europe-tante-armi-poca-ricerca/
2 dicembre 2025
Partito Comunista Internazionale
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